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tipologia: Analitici; Id: 1545804


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Carlo Levi, La serpe in seno. Un saggio sul neofascismo
Responsabilità
Levi, Carlo+++
  • ente ; ente
  autore+++    inedito del 1952 
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
I mesi della primavera scorsa furono, per i fascisti italiani, i più piacevoli, entusiasmanti e gloriosi che essi avessero mai vissuto nella loro seconda incarnazione, dopo la caduta del fascismo. Aprile, maggio, date dolcissime al cuore della retorica nazionale. 21 aprile, Natale di Roma! Maggio, per definizione, diventata abitudine nel gergo degli studenti, dei giornalisti di provincia, e degli impiegati, “radioso”! E, in mezzo, la data per loro più funesta, ma ormai sacra alla autocompassione e alle messe in memoria dei morti, il 25 aprile, il giorno della morte del capo, e l’inizio di quella seconda astratta vita dei fascisti, di quel limbo di sentimenti senza corpo e di risentimenti senza ragione, di eroismo senza pericoli, di ripetizione meccanica di gesti e di intenzioni, che fanno del neofascismo un fenomeno strano, grottesco e psicologicamente preoccupante. Aprile, maggio 1952: sono passati sette anni, il sole brilla ancora allegro sulle piazze d’Italia, l’aria è profumata e lucente e, per la prima volta dopo sette anni, ci si può ritrovare su quelle piazze, alzare il braccio nel saluto romano e gridare, con la delizia di una cosa proibita e che tuttavia si sa non costituisce alcun pericolo: “Duce, duce!”. I vecchi gerarchi, grossi e piccoli e piccolissimi, le vecchie insegnanti di ginnastica dell’Accademia della Farnesina, i giovani e giovanissimi studenti del liceo e del ginnasio, i pigri e neghittosi impiegati dei ministeri, sognanti nelle ore di ozio ministeriale l’impero e le aquile, i disoccupati senza altra speranza che una indeterminata confusione, coloro che avevano avuto due anni di funesta e sanguinaria vitalità al tempo della repubblica sociale ed erano poi ripiombati nella noia della miseria della vita quotidiana, i galantuomini nostalgici di vecchi prestigi perduti, tutti costoro, sospinti dall’onda del destino nell’accogliente e impassibile città di Roma, furono finalmente, per qualche settimana, felici. Erano le settimane della campagna elettorale amministrativa, la legge Sceiba, che proibisce le manifestazioni fasciste, era soltanto minacciata ma non era ancora stata votata dal Parlamento. La vecchia legge, che proibiva ugualmente le manifestazioni fasciste, il solenne articolo della Costituzione che vieta la ricostituzione, sotto qualunque forma, di un partito fascista, e lo stesso articolo del trattato di pace con l’Italia che pone esplicitamente lo stesso divieto, tutte queste cose non erano mai state applicate ed erano ormai tacitamente ma esplicitamente cadute in disuso. Ora finalmente i fascisti si sentivano forti e sicuri, non c’era niente da temere dalla legge non applicata e da quella non ancora fatta e ci si sentiva forti dell’appoggio dell’Azione Cattolica e del Vaticano e dei tentennamenti e delle incertezze del Partito Democratico Cristiano. Così, verso la fine di aprile, si potè vedere il grande comizio elettorale fascista in Piazza del Popolo a Roma. La piazza è grandissima ed era piena di gente; chi dice ottanta, chi cento, chi centoventimila persone. E questa gente alzava il braccio, gridava in coro: ‘ ‘Duce!”, cantava vecchi inni fascisti, felice della anacronistica ripetizione, e si sentiva tornare indietro, ringiovanire, rivivere come in sogno i giorni felici nei quali tutti i problemi veri erano dimenticati e coperti dai sognanti nomi della grandezza, della romanità, dell’impero, della missione dell’Italia nel mondo. I romani guardavano stupiti questa accolta di spettri che, dopo il comizio, sfilavano per le vie; il vecchio cameriere del Caffè Aragno lasciò cadere, al loro passaggio, per l’ira e per il disgusto, un vassoio pieno di bicchieri che stava portando a un cliente e corse a telefonare alla polizia perché applicasse la legge e facesse finire quello sconcio. Ma i fascisti ormai se ne andavano felici alle loro case. C’erano voluti sette anni per arrivare a questo, per poter tornare, così allegramente e impunemente, alla luce del sole. Nei primi tempi, dopo la Liberazione, il freschissimo ricordo dei disastri, delle atrocità, degli assas-sinii, il peso della responsabilità fascista, nella diffìcile situazione dell’Italia del dopoguerra, consigliava ai fascisti di nascondersi e di accettare almeno apparentemente la nuova situazione, convertendosi a uno dei partiti democratici o, magari, anche ai partiti socialisti e comunisti. Per gli altri, per quelli che non si erano convertiti, e soprattutto per la folla indeterminata dei malcontenti e dei timorosi del nuovo stato di cose, c’era, provvidenziale, il movimento dell’Uomo Qualunque di Giannini che fu, per questa massa informe di trepidi fascisti, una specie di ancora di salvezza, ma che, nello stesso tempo, tolse a essi ogni possibile virulenza, raggruppandoli sotto le allegre parole d’ordine di un teatrale e inoffensivo anarchizzante e elementare liberalismo. Rimanevano, a sentirsi veramente fascisti, pochi giovani isolati, generalmente residui di qualche formazione armata della “Repubblica Sociale”, o giovanissimi che romanticamente cercavano in quell’ultimo e sanguinoso aspetto del fascismo, che essi non avevano conosciuto, e a cui essi non avevano partecipato, una assurda prova della propria esistenza, accompagnata dal delizioso gusto della cospirazione. Era stato il periodo della formazione di piccoli gruppi segreti, dei cosiddetti «Far», del tentativo della scoperta e del trafugamento della salma di Mussolini, del lancio, a scopo dimostrativo, di bombe carta, del tentativo di far saltare la nave Colombo (che doveva essere consegnata ai russi in base al trattato di pace) nel porto di Taranto, della partecipazione, semiclandestina, a delle messe in memoria di Mussolini, dell’innalzamento, sulle torri civiche o sui campanili, di gagliardetti fascisti. Queste azioni, semi terroristiche e semi infantili, furono accolte, sia dalle autorità dello Stato, sia da tutti i partiti, con estrema tolleranza; le leggi, come ho detto prima, non furono applicate o lo furono con estrema mitezza, e tutti i partiti, sia di destra che di sinistra, gareggiarono in tolleranza, sperando ciascuno di attrarre a sé i vecchi fascisti e i giovani sconsigliati, e, avendo votato una larghissima legge di amnistia per il passato, furono tutti, sotto la parola d’ordine della riconciliazione nazionale, estremamente indulgenti per il presente. Soltanto l’atteggiamento risoluto e unanime dell’opinione pubblica impediva allora ai fascisti di uscire da questa, del resto scarsissima, attività clandestina e illegale. Fu soltanto nel dicembre del ’46 che si cominciò a ritenere possibile un’azione politica legale. Si sciolsero i Far e si fondò il cosidetto Movimento Sociale Italiano (MSI), che ebbe al suo inizio un’impostazione confusamente rivoluzionaria, riferendosi, più che al fascismo del ventennio, alla sua ultima fase repubblicana e socializ-zatrice, alla fase cioè nazista del fascismo di Salò. I cosidetti «diciotto punti di Verona» (vale a dire il programma pseudo-rivoluzionario, nazionalista e comunisteggiante del fascismo repubblicano) vennero sostanzialmente ripresi nel programma del MSI, di cui fu nominato segretario il capo della tendenza estremista Giorgio Almirante, ex capo di gabinetto del ministro della Cultura Popolare nel governo mussoliniano di Salò. Da questo momento della sua fondazione fino al 1951 il MSI ha continuato come un piccolo movimento estremista, con un fumoso programma sostanzialmente identico a quello della repubblica di Salò, dei sentimenti comuni ai suoi membri che costituivano il loro punto di contatto: ostilità per la democrazia, rimpianto del passato regime, nazionalismo esasperato a parole e in realtà non sentito, e soprattutto odio feroce e irrazionale per l’Inghilterra e per l’America. L’Inghilterra è, per questi fascisti, il diavolo, il diavolo principale, Satana incarnato, il luogo di tutte le brutture, le malvagità, le perfidie; e gli Stati Uniti d’America vengono subito dopo l’Inghilterra in questo scatenarsi di odio. Sono loro, gli americani e gli inglesi, con l’aiuto naturalmente dei traditori che parlavano da radio Londra, che hanno distrutto il fascismo, con i loro bombardieri che hanno rasato al suo- lo le città italiane, i loro soldati che hanno saccheggiato, violentato le donne e, insomma, hanno trasformato il paradiso fascista nell’inferno dell’Italia della pace. Giornali e giornaletti, fogli e foglietti dagli strani nomi: «Bran-caleone», «Asso di Bastoni», ecc. rigurgitano in quegli anni di questo odio verso gli americani e gli inglesi, effigiati continuamente, nelle vignette umoristiche, con il solito John Bull e il solito zio Sam in veste di torturatori della povera Italia, di Shylock che pesano la libbra di carne, di violenti e ipocriti nemici del nostro paese. I cinque deputati che essi riuscirono a eleggere nelle elezioni del 18 aprile 1948 votarono, naturalmente, in odio all'America e all’Inghilterra, contro il Patto Atlantico. In quel tempo il MSI era costituito, come abbiamo detto, quasi essenzialmente di ex membri della repubblica di Salò, oltre che di giovanissimi. Il MSI ebbe infatti, in tutta Italia, nelle elezioni del 18 aprile, 525 mila voti. Ora, secondo le affermazioni dei fascisti stessi, alla repubblica di Salò avevano aderito 500 mila persone circa; probabilmente questa cifra, come tutte le cifre dei fascisti, è di molto esagerata (essi infatti hanno continuato a dichiarare di aver avuto 300 mila morti nei giorni della Liberazione, ma il ministro degli Interni Sceiba dichiarò recentemente alla Camera che i morti erano stati soltanto 1732: forse essi furono più di 1732, ma certo, in nessun caso, non più di un ventesimo o di un trentesimo di 300 mila), comunque, essendo stati, i disperati di Salò, i soli a trovare difficoltà a inserirsi nei partiti democratici e a rimanere sentimentalmente attaccati al loro passato, è certo che quei 525 mila voti erano, in gran parte, i loro voti. In tutti gli anni fra il ’47 e il ’51 i fascisti parteciparono alle elezioni amministrative e politiche confermando le loro modeste posizioni numeriche e il loro atteggiamento estremista. Ma l’atmosfera generale del paese diventava, nei loro riguardi, sempre più accomodante e meno ostile, la magistratura assolveva sistematicamente i fascisti responsabili di assassinii e di stragi, il Consiglio di Stato accettava tutti i ricorsi dei burocrati fascisti che erano stati rimossi dai loro posti, i militi fascisti venivano considerati ex combattenti con diritto a pensione, e infine, i pochi loro capi che subirono processi, da Valerio Borghese, il feroce comandante della banda fascista della X MAS, che si era macchiata delle più inenarrabili atrocità e nefandezze, al generale Graziani, capo dell’esercito di Mussolini, vennero scarcerati. Nel 1951, dei fascisti, rimasti ignoti, fecero scoppiare delle bombe nelle sedi di Roma del Partito repubblicano e del Partito socialdemocratico, e il Governo si decise a sporgere una denuncia all’autorità giudiziaria. Rimanere nella posizione estremista poteva essere pericoloso, continuare nella tesi del socialnazionalismo di Almirante, con la nazionalizzazione delle imprese, significava inoltre restare isolati e non poter ricevere finanziamenti da parte degli industriali.
La direzione Almirante fu dunque rovesciata e sostituita con quella di De Marsanich, che rappresentava, anziché il fascismo del tempo di guerra, il vero fascismo del ventennio, con i suoi gerarchi, i suoi profittatori, i suoi parassiti. Questo cambiamento rappresentò un rafforzamento del MSI che cominciò allora a essere finanziato dall’Argentina e dal Brasile, luoghi di rifugio dei grossi gerarchi del fascismo di prima del 25 luglio, capitanati da Dino Grandi. Cominciarono allora anche i contatti con certi ambienti vaticani, che pensavano di trovare in questo movimento fascista allargato una nuova pedina per la loro politica, e con quegli industriali italiani che immaginavano di poter rifare lo stesso gioco che avevano già, con cosi funesto successo, svolto nei primi anni del fascismo. Anche l’aspetto fisico dei due successivi segretari del movimento corrisponde ai suoi due diversi aspetti. Almirante è il giovane piccolo impiegato di provincia pieno di complessi di inferiorità, con i baffetti sottili sul labbro, gli occhi spiritati, la cravatta sciolta, la barba lunga, i polsini della camicia sfilacciati, trasandato nel vestire, con l’aria mistica e ascetica: tipico rappresentante del fascismo di Salò. De Marsanich invece è un vecchio arnese secondario del vecchio fascismo di Mussolini. È un vecchietto piccolissimo, alto poco più di un metro e mezzo, con una piccola faccia legnosa, secca e inespressiva, dei lunghi capelli bianchi; e il suo fanatismo è un fanatismo burocratico. E zio di Alberto Moravia, lo scrittore, considerato per altro in famiglia come lo stupido di casa (se, come molti in Italia vanno mormorando, l’assurdo rifiuto del visto d’ingresso negli Stati Uniti a Moravia è dovuto al fatto della sua stretta parentela con il capo dei fascisti, posso onestamente dichiarare che l’amico Moravia non ne ha nessuna colpa). Augusto De Marsanich era, del resto, l’ultima ruota del carro di Mussolini: per fortuna i fascisti non hanno capi migliori. Egli fu, per molti anni, sottosegretario alle poste nel governo di Mussolini. Si racconta che avendo un giorno Mussolini fatto un rimaneggiamento, secondo la sua abitudine, nel suo ministero, che egli usava fare all’improvviso senza darne notizia agli interessati che apprendevano la loro nomina o la loro defenestrazione dai giornali (tutto ciò si chiamava “il cambio dèlia guardia”), De Marsanich lesse, con grande attenzione, il comunicato sul giornale: ma il suo nome non compariva né fra quello dei sottosegretari destituiti né tra quello dei conservati al loro posto, né dei nuovi nominati. Preoccupato della propria sorte, incerto della propria esistenza, egli telefonò dunque a Ciano, il ministro degli Esteri, genero del duce, ma anche Ciano non ne sapeva nulla e telefonò a sua volta a suo suocero. Mussolini si mise a ridere e, tanto era poca l’importanza del De Marsanich, rispose: «De Marsanich? già, me ne ero dimenticato; l’ho dimenticato fermo in posta; giacché c’è, ci rimanga». De Marsanich rimase sottosegretario alle poste, e gli fu per sempre fedele.
Malgrado la nuova direzione più moderata, le nuove alleanze vaticane, i primi finanziamenti dei gerarchi e degli industriali, i primi modesti tentativi di camuffarsi, sia sul piano interno che su quello internazionale, i sentimenti comuni di questi fascisti rimanevano quelli che erano stati fin dal principio: odio per l’America e per l’Inghilterra, per la democrazia in generale, razzismo, nazionalismo, imperialismo, corporativismo, tutto il ciarpame pseudo ideologico del vecchio fascismo. L’unica distinzione era costituita dall’odio reciproco fra quelli di Salò e quelli di prima di Salò, fra gli estremisti, soprattutto milanesi, capitanati, oltreché da Almirante, da Pettinato, Pini, Servello, Caporilli, ecc. e i cosiddetti tiepidi; e soprattutto tra i veri fascisti del nord d’Italia e di Roma (dove, secondo gli elenchi stabiliti dagli stessi fascisti, vivono 23 mila ex gerarchi, ex ufficiali della milizia, spie dell’OVRA, dirigenti dei sindacati, federazioni e confederazioni, di Enti di assistenza, di enti statali e parastatali, ecc.) e i neofascisti del sud d’Italia, la cui origine e il cui significato politico attuale è, come vedremo, completamente diverso. Malgrado il nuovo atteggiamento più moderato e la situazione generale più favorevole, i fascisti continuavano a sentirsi in una situazione incerta, come dei tollerati senza sicurezza, e non osavano, per timore di reazioni popolari o di provvedimenti governativi, manifestare in modo troppo clamoroso la propria attività. A furia di ripetere, per ragioni di propaganda, che essi erano dei perseguitati, che migliaia e migliaia di loro languivano nelle prigioni dopo la tremenda carneficina dei trecentomi-la della primavera del 1945, a furia di ripetere che non era lasciata ad essi libertà di linguaggio o di riunione, che essi erano dei martiri e degli eroi, avevano finito per crederci e per usare una provvidenziale quanto inutile prudenza. Ci vollero le elezioni amministrative del ’52, e le manovre politiche che le precedettero per liberarli finalmente di questi complessi, per farli scendere in piazza a fare finalmente il saluto romano. I fascisti del MSI non sono, del resto, i soli fascisti italiani, per quanto essi possano a buon diritto considerarsi i più puri e completi suoi rappresentanti. Accanto al MSI è andato sviluppandosi, negli anni scorsi, il movimento dei monarchici, costituito anch’esso sostanzialmente, come il MSI, soprattutto nei suoi quadri direttivi, da vecchi fascisti, ma, a differenza del MSI, di quei fascisti, per cosi dire, dell’ala destra, socialmente reazionari, che scelsero il simbolo della monarchia come uno strumento di propaganda utile a favorire una politica di restaurazione di vecchi privilegi e di opposizione a qualunque volontà riformatrice soprattutto nel campo della riforma agraria. Il partito monarchico ebbe una storia simile a quella del MSI, che sarebbe inutile voler qui raccontare nei particolari. Si divise in parecchie parti, molti dei suoi primi aderenti, e soprattutto quelli per i quali l’amore per la monarchia era un sentimento sinceramente sentito, entrarono a far parte del partito democristiano o del partito liberale di cui costituirono l’ala destra. Gli altri finirono per dividersi in due differenti partiti, di cui uno, il minore, guidato dal principe Alliata, si alleò strettamente con la Democrazia cristiana, l’altro, di gran lunga il maggiore, capitanato dal comandante Achille Lauro, si alleò invece coi fascisti del MSI e si presentò alle elezioni strettamente unito o addirittura fuso con essi. Il partito monarchico di Lauro è, ripeto, in pratica, altrettanto fascista che il MSI. Si differenzia da quello per l’accento monarchico (i fascisti repubblicani di Salò che rimangono parte essenziale del MSI non perdonano ancora alla monarchia quello che essi chiamano il tradimento del 25 luglio), e per una assoluta mancanza di un’ideologia di qualunque genere se non quella di un reazionarismo borbonico che gli consente un forte seguito nelle masse più ignoranti e più povere del Sud. Sostanzialmente, entrambi questi partiti sfruttano gli stessi malcontenti, le stesse disperazioni dei poveri, ponendo a essi come oggetto di compenso psicologico questa o quella immagine idolatrica: l’uno il Re fascista, l’altro il fascista Mussolini. Parlando dunque del neofascismo italiano potremo legittimamente intendere entrambi questi movimenti. L’aver ottenuto di allearsi con i monarchici fu una delle principali ragioni dell’euforia dei fascisti del MSI alla vigilia delle elezioni. I monarchici hanno un’aria più rispettabile, sentono meno l’interdetto dell’opinione pubblica, si rivolgono, oltreché al popolo più basso, al ceto degli aristocratici, dei generali e dell’alta curia. Alleati con loro i fascisti del MSI uscivano dal senso dell’isolamento, ma quello che maggiormente esaltava i loro cuori e dava a essi in quel periodo la presunzione di un imminente trionfo era un’altra cosa che non dipendeva né da loro, né dai partiti, né dall’opinione pubblica italiana, era cioè la politica vaticana. Nell’imminenza delle elezioni l’A-zione Cattolica, presieduta da Gedda, aveva proposto l’alleanza della Democrazia cristiana con i fascisti: MSI e Monarchici. Si dovette all’abilità del presidente De Gasperi se'questa manovra non ebbe successo, ma il fatto stesso che essa fosse stata tentata, l’impressione generale che la manovra derivasse dalle più alte sfere vaticane, forse dal Papa stesso, bastò a rinforzare enormemente la posizione dei fascisti (e indebolire gravemente quella dei democratici cristiani) e a dare, ai fascisti, il senso di contare assai più di quanto essi stessi non avessero supposto e di poter osare impunemente qualunque cosa. Come brillavano i loro occhi in quei giorni! Con quale proterva sicurezza essi si vedevano già ritornare vincitori sui “colli fatali” della Roma imperiale! E con quale ingenua speranza essi già pensavano a piccoli posti, a piccoli vantaggi, a piccoli privilegi che ne sarebbero derivati. Una mia amica che cercava, per alloggiare, una camera mobiliata a Roma, andò, seguendo l’indicazione di un avviso economico su un giornale, nel pomeriggio del giorno stesso del grande comizio fascista di Piazza del Popolo, in una casa borghese del rione di Prati. Lì si affittava uno studio. La padrona ricevette la mia amica nel suo elegante appartamento attiguo allo studio. Era una vecchia signora vestita rispettabilmente di nero, con la croce d’oro al collo e le maniere educate di chi appartiene a una famiglia benestante. Aveva dei modi vivaci e schietti che le venivano evidentemente dalla sua natura ma che parevano essere aumentati da una qualche recente ragione di piacere o di soddisfazione. Guardò la sua visitatrice con attenzione e dovette riceverne un’impressione favorevole; e subito le disse, con entusiasmo: «Che bella giornata quest’oggi! Che bella giornata!». La mia amica pensò che parlasse del tempo e, difatti, era una delle più sfolgoranti giornate della primavera romana. Ma la vecchia aveva altro per la testa che il sole e i fiori e i passeri e le bianche nuvole vaganti nel cielo azzurro. «E la più bella giornata — continuò - da tanti anni, la prima bella giornata: finalmente, oggi, per la prima volta, abbiamo potuto sentire per le strade di Roma il nome del nostro caro Duce» e, con aria di simpatia e di complicità, soggiunse: «Lei, signora, è certamente dei nostri, è vero?». La mia amica, che non si occupa di politica ma che è sempre stata nemica del fascismo, le rispose schiettamente di no, e, per spirito di contraddizione e per gioco, soggiunse che aveva molta simpatia per i partiti di sinistra. «Che mi dice mai, signora, rispose la vecchia — con quella sua faccia intelligente, con i suoi modi, i partiti di sinistra? Anche lei sarà dei nostri, vedrà, ne sono sicura, vedrà, vedrà, lo saranno tutti, lei è di buona famiglia, anche l’onorevole N., che abita qui, in questo palazzo — e fece il nome di uno dei più noti deputati comunisti — anche lui cambierà, anche lui è di buona famiglia, conosco sua madre, ora è comunista, cose di gioventù, ma la famiglia è benpensante ed egli tornerà ad essere dei nostri. Vedrà, vedrà, ne sono sicura. Tra poco torneranno i bei tempi. Vede, mio marito è l’ammiraglio P.» (e fece il nome di uno dei pochissimi ammiragli fascisti che l’Italia abbia avuto. La marina si conservò, infatti, sempre piuttosto ostile al regime fascista). «Il fratello di mio marito era generale: adesso sono tutti e due in pensione, purtroppo! Mio figlio è anche lui nella marina, ha voluto seguire la gloriosa carriera paterna, ma oramai non abbiamo più il mare nostrum, non può più solcare i mari imperiali, deve restare fermo alla base e la carriera è difficile e si guadagna poco. Io affitto questo studio un po’ caro, è vero, 50.000 lire al mese, ma lo faccio per pagare le spese dell’automobile di mio figlio: poverino, non ha più, come suo padre, il mare nostrum. Viviamo in tristi tempi, ma oramai siamo alla fine, tutto sta per cambiare. Lo sa che cosa ha detto il nuovo ambasciatore degli Stati Uniti? E appena arrivato dall'Argentina e ha detto che fra tre anni il nostro caro Graziani sarà presidente della Repubblica e Gedda presidente del Consiglio. Non è come Dunn, questo qui, non mi parli di quel Dunn, come era antipatico, come ci odiava! Già, tutti gli americani ci odiano, sono i nostri nemici mortali, non proprio come gli inglesi, ma quasi. Questo nuovo ambasciatore deve aver imparato qualche cosa dal caro Perón, dalla nostra povera Evita — ha sentito come è ammalata? — ma guarirà, vedrà, guarirà. Avrà capito che con noi non si potrà sempre scherzare. Torneranno a rispettarci e ad aver paura di noi, quegli americani». Intanto, così parlando, continuava a far vedere lo studio. Uno studio molto scomodo ma di apparenza lussuosa. La mia amica, che è povera, disse che lo trovava caro. «Lo so, signora — disse la vecchia — è un po’ caniccio, ma è proprio quello che ci vuole per l’automobile di mio figlio; ma se lei verrà con noi, se sarà dei nostri, non avrà più bisogno di cercarsi uno studio, una stanza, si farà tanti begli appartamenti. Io ne ho molti a Roma, ce li siamo fatti tutti durante quei bei tempi. Un po’ abbiamo guadagnato anche con l’An-no Santo: abbiamo messo su un albergo per pellegrini, ci ha reso, eh sì, ci ha reso, non c’è male. Anzi se vuole ancora qualche mobile me lo dica pure, andiamo a prenderlo li. Ma lei di dov’è, signora? Di Trieste? Oh cara, la nostra cara sorella infelice! Ma le sue sofferenze avranno termine, adesso, vedrà, la sua cara città tornerà nel grembo della patria, e non soltanto Trieste, ma anche Fiume, Zara, la Dalmazia e Briga e Tenda che ci hanno preso quei francesi, ma dovranno restituircele e ci daranno anche la Corsica e Tunisi e, soprattutto, le nostre colonie che ce le hanno rubate gli anglo-americani. Tripoli e Massaua e Addis Abeba, vedrà, vedrà. Veramente Trieste — e qui la sua voce entusiasta si mutò e prese il tono di un materno rimprovero — veramente Trieste, cosi cara al nostro cuore, non fu mai tra le più benemerite al regime, non è mai stata come la cara Milano. Ma adesso si rifarà». La mia amica la guardava esterrefatta e non sapeva che cosa rispondere, tanto era rimasta stupita da questo quasi incredibile rigurgito di nostalgie, di ambizioni, di inguaribili speranze, da questo ingenuo miscuglio di fede nelle parole, nel mare nostrum, nell’impero, e di attenzione ai guadagni di regime, ai piccoli affari, da quella psicologia da museo Grévin degli ex fascisti dell’età d’oro. Pochi giorni dopo io viaggiavo in Sardegna, che è una delle regioni più povere d’Italia. A Cagliari c’è una montagna di roccia biancastra e brulla, bucata, traforata di grotte e di anfratti dove vivono, come gli eremiti della Tebaide, o meglio, come delle bestie selvatiche, delle famiglie di disoccupati cronici, ridotti al grado più estremo della più estrema miseria. Altre numerose famiglie vivono nei buchi, nei cunicoli sotterranei, nelle rovine del teatro romano, che anch’esse sembrano, a chi le guarda, una desolata montagna di pietre. In confronto a queste spelonche senza aria dove ci si deve talvolta arrampicate sulle rocce per trovare l’ingresso e dove vivono alla rinfusa e nella più atroce sporcizia bambini, vecchi, malati, pazzi e moribondi, le famose grotte dei Sassi di Matera sembrano dei confortevoli e pulitissimi alberghi moderni. Camminavo tra le pietre e gettavo uno sguardo alle caverne, attraverso le buie aperture, e vidi che molte di esse avevano sull’uscio e nell’interno, a guisa di decorazione, dei simboli politici o dei manifesti elettorali. Mi aspettavo di trovarci dei manifesti comunisti ma, con mio stupore, non ce n’era alcuno. Tutti quei manifesti e quei simboli erano o del partito monarchico o del MSI. Mi fermai davanti a una porta su cui era attaccato, con delle puntine, un foglio con la fiamma tricolore del MSI. Avevo una macchina fotografica a tracolla, dalla spelonca usci un uomo seminudo, in mutande, con il corpo completamente tatuato, che mi investì violentemente, gridando che me ne andassi subito se non volevo passare un guaio. Era un fascista frenetico e capii da quanto mi disse poi che mi aveva scambiato per un comunista a causa della mia macchina fotografica, perché, mi disse, «i comunisti vengono a fotografarci per pubblicarci sui loro giornali». Dalle altre spelonche vicine uscirono altri morti di fame e mi mostrarono la loro tessera fascista o monarchica che essi tenevano come immagini sacre, e i ritratti di Umberto e di Mussolini. Tutti odiavano ferocemente il comunismo, di un odio difficile a capirsi in quella miseria. Uno mi raccontò che era venuto via da Teulada, doveva aveva una casa, perché lì ci sono i comunisti, la malagente, ed era finito in quella spelonca. Non trovai più fascisti nel mio viaggio in Sardegna, né tra i pastori, né tra i contadini, né tra i minatori. Anche in quella terra, realmente preistorica, la gente che lavora pensa ai propri problemi in un modo concreto e se si occupa di politica si dichiara, per quanto in un modo approssimativo, e con un significato diverso da quello che si dà a questi termini nelle grandi città del continente, socialista o cattolico o comunista o liberale o democratico e così via. Potei constatare, in un ambiente estremamente elementare e perciò estremamente significativo, come, a parte i vecchi fascisti, l’adesione al nuovo movimento fascista avvenga essenzialmente da parte dei disoccupati, di coloro che sono privi di ogni mezzo di sussistenza e anche di ogni speranza di trovarne mai, di quegli strati infimi della popolazione per i quali la vita normale non esiste e per i quali i termini di una vita politica democratica sono completamente privi di senso, di quegli strati inferiori della plebe che non sono ancora saliti neppure al più basso livello della cultura né della vita economica, di quelli cioè che usiamo chiamare il sottoproletariato o, se vogliamo usare il termine tedesco, il Lumpenproletariat, il proletariato degli stracci. Un fenomeno analogo si può constatare in Calabria, in Sicilia, nelle Puglie, e soprattutto a Napoli. Anche qui vi sono masse di sottoproletari, di plebe destituita di ogni proprietà, di ogni lavoro regolare, di ogni cultura e di ogni speranza. E questo spiega come sia proprio nelle città povere del Mezzogiorno (che tuttavia non erano mai state fasciste al tempo di Mussolini) che i fascisti e i monarchici abbiano trovato i loro maggiori successi elettorali. C’è anche, naturalmente, l’elemento della corruzione, l’acquisto dei voti e cosi via. A Napoli Lauro (questo coloratissimo personaggio che sembra una reincarnazione, in grande del popolare Navarra, il Re di Poggioreale, re dei poveri, dei ladri, dei borsari neri, della Napoli del tempo di guerra) ha profuso somme enormi per vincere le elezioni: si parla di una cifra che sta tra uno e due miliardi di lire (va notato, tra l’altro, che l’enorme ricchezza di Lauro, di cui il giornale «L’Europeo» valutava recentemente gli incassi quotidiani in 120 milioni di lire, è costituita essenzialmente dalla flotta di Liberty Ships americani che gli furono regalati, nel dopoguerra, col pretesto di indennizzarlo della sua precedente flotta che egli aveva costituito con il monopolio dei trasporti delle truppe e del materiale per la guerra di Abissi-nia). A tutti i poveri di Napoli venne distribuito un chilogrammo di pasta e una scatola di conserva di pomodoro prima delle votazioni, altri due chilogrammi a votazione avvenuta. Tutte le polizze del Monte di Pietà, inferiori a diecimila lire, vennero riscattate da Lauro. Per chi sa come tutta la vita dei poveri di Napoli è fondata sul pegno delle lenzuola dei letti o delle più misere suppellettili, il gesto di Lauro, che non gli costò, pare, più di trentacinque milioni, appare come un colpo di genio di propaganda elettorale. Tutti i poveri di Napoli dormirono, almeno per una settimana, nelle loro lenzuola. Ma l’abilità di Lauro non è soltanto di corruzione ma è di esaltazione di speranze fantastiche: è cioè un esempio riuscito del metodo di governo fascista. Lauro è il padrone della popolare squadra di football di Napoli. Nell’intervallo delle partite fa il giro del campo tra gli applausi approfittando dell’esaltazione sportiva che è una delle forme moderne di evasione dei poveri. Per esaltare questo sentimento e insieme dare il senso della propria potenza egli ha recentemente comprato un giocatore, il centroattacco svedese Jeppson pagandolo l’enorme somma di 105 milioni di lire. Queste cose colpiscono la fantasia dei poveri senza eccitare la loro invidia. Sono cose che appartengono a un altro mondo, a un mondo inesistente e esemplare per coloro che, totalmente sfiduciati di se stessi, del mondo in cui vivono e di qualunque ragionevole e umana possibilità di miglioramento, amano compensarsi con i sogni, con gli idoli, col culto dei morti, con le speranze nella cabala, nel gioco del lotto, nel totocalcio, nei santi, con l’immagine miracolosa del re che, poverino, vive in esilio, o del duce che, poverino, è stato tradito e ucciso. In un mondo le cui sole realtà sono i miracoli sperati, nessun partito politico può fare presa se non quelli, come il monarchico o il fascista, che si pascono solo di parole, di false speranze, di falsi miracoli. La mitologia comunista è troppo razionale, troppo possibile, troppo concreta, troppo legata all'immagine di un mondo regolato e ordinato, troppo legata al concetto del lavoro per fare presa sulle menti di questi disperati che non conoscono il lavoro regolare, rifuggono dall’ordine, considerano ogni ordine stabilito come loro nemico e, non potendo avere speranze concrete per il futuro, sono spinti a vagheggiare soltanto nel passato un’impossibile età dell’oro: sono cioè le plebi reazionarie del cardinale Ruffo che trucidavano ferocemente e allegramente i liberali del 1799 in nome del passato, del re e della madonna. Oltre alle masse sotto-proletarie, rifiuti della classe popolare, il neofascismo italiano trova i suoi aderenti nelle masse di sottoborghesi, rifiuti della classe borghese, per un processo psicologico analogo a quello che ho descritto per il Lumpenproletariat, anche se si svolge su un diverso piano di cultura e di condizioni economiche. Si tratta qui degli spostati, degli intellettuali disoccupati, dei professionisti incapaci, degli impiegati con stipendi insufficienti ai bisogni familiari, degli ambiziosi a cui la vita non offre il modo di soddisfare le proprie ambizioni. Di tutti coloro che, incapaci per insufficienza reale di cultura, di denaro o di vitalità, di inserirsi attivamente nella vita del paese, e consapevoli dell’impossibilità di affermarsi se non per un miracoloso mutamento di valori, trovano soltanto nelle irrazionali mitologie del fascismo lo sfogo dei loro rancori, il compenso alle loro insufficienze, l’evasione dal senso umiliante della propria impotenza, il sogno di un capovolgimento irrazionale nel quale essi possano, per miracolo, diventare i primi, i capi, o i fedeli seguaci di capi onnipotenti. Se questa è la comune condizione psicologica dei fascisti, vi è tuttavia una profonda differenza tra quelli dell’Italia del nord e quelli dell’Italia del sud. Nell’Italia del nord, paese industriale e commerciale, ordinato e moderno, ricco di possibilità e di occasioni per chiunque abbia una pur minima capacità, i fascisti sono soprattutto degli spostati o degli incapaci, quando non sono semplicemente dei giovani ignoranti illusi dalla propaganda. Nell’Italia del sud, invece, dove le condizioni economiche e sociali rendono spesso effettivamente difficile l’affermazione individuale, dove vige tutt’ora, malgrado il movimento contadino e i primi tentativi di riforma, una struttura, in molti luoghi, feudale, e un profondo complesso di inferiorità, molti dei giovani seguaci del fascismo si trovano ad appartenere alla sottoborghesia o al sottoproletariato non per mancanza di qualità individuali ma soltanto e prevalentemente per le dure leggi delle circostanze; anzi spesso individualmente sono degli uomini dotati e vivi che soltanto la disperazione o l’ignoranza spinge sulla dubbia strada del fascismo. Questo è particolarmente vero nei piccoli isolati paesi della Calabria o dell’interno della Sicilia, dove l’appartenenza al MSI non significa propriamente fascismo, come nell’Italia del nord o nelle grandi città del sud, ma piuttosto uno dei molti modi dell’eterna protesta di quelle popolazioni abbandonate. Per questi aderenti al MSI dei villaggi o delle piccole città abbandonate, il MSI prende l’aspetto di un rifiuto sia del comuniSmo che del clericalismo, una specie di “terza forza” eversiva, anarchica e anticlericale. Queste posizioni possono essere capite da chi conosce la situazione di quei paesi e non sono prive di giustificazioni. Ma il vero fascismo non è questo, è quello delle grandi città: di Roma, di Napoli o di Milano. Non è soltanto quello che si presenta come un anacronistico relitto del passato sotto le bandiere del MSI e dei monarchici, ma anche quello, più nascosto, degli antichi gerarchi e responsabili fascisti che hanno saputo per tempo infiltrarsi in posti direttivi della burocrazia, degli enti statali e parastatali, delle amministrazioni, della stampa, della magistratura. Costoro in genere non sono iscritti ai partiti fascisti ma costituiscono per loro un potente appoggio riuscendo a influenzare l’opinione pubblica, a impedire l’applicazione delle leggi contro il fascismo, a trovare i finanziamenti, a raccogliere quelle masse indeterminate di simpatizzanti che danno un carattere al costume e stabiliscono il tono di larghi strati dell’opinione pubblica. I partiti fascisti hanno avuto, nelle ultime elezioni amministrative, un discreto successo, che è apparso più grande di quanto non fosse per il fatto che le elezioni si svolgevano soltanto nell’Italia meridionale e a Roma, nelle zone cioè dove essi erano più forti e dove le loro vittorie di Napoli e di Bari e i 145 mila voti di Roma risultavano perciò in particolare rilievo. Tuttavia in tutta l’Italia del nord e del sud essi non ebbero, complessivamente, più di un milione e mezzo di voti, che è una scarsa percentuale; per di più mancano di capi e l’opinione pubblica generale dell’Italia è tale da non consentire ad essi una maggiore affermazione. Un pericolo fascista diretto non esiste in Italia: con le sue sole forze il movimento fascista non avrebbe nessuna possibilità di una affermazione maggiore di quanto non abbia già avuto e sarebbe probabilmente destinato a scomparire rapidamente come era avvenuto, negli anni scorsi, al movimento dell’Uomo Qualunque. Lasciato a sé il movimento fascista si esaurirebbe; la sola sua parte vitale, che è la protesta antigovernativa e anticlericale dei villaggi del sud, troverebbe altre forme e più ragionevoli sbocchi, mentre i superstiti del vecchio fascismo cadrebbero sempre più nell’isolamento. Il pericolo non è dunque in un vero fascismo o in un puro fascismo, ma è invece in quelle altre forze che cercano di galvanizzare il fascismo per farsene un istrumento e per spostare, in senso reazionario, tutta la politica italiana. Queste forze sono il Vaticano (o almeno certi suoi esponenti) e l’Azione Cattolica da un lato e dall’altro gli strati più retrivi dei ceti industriali e agrari. Il Vaticano e l’Azione Cattolica, essendo consapevoli della naturale diminuzione di forza della Democrazia cristiana in confronto al 18 aprile 1948 (la Democrazia cristiana rimane tuttavia il più forte partito italiano), sono mossi dal timore che, nelle prossime elezioni, la Democrazia cristiana non ottenga più la maggioranza assoluta che attualmente detiene ma che, per ottenere la maggioranza assoluta in Parlamento, essa debba sommare i suoi voti con quelli dei partiti laici: liberale, socialdemocratico e repubblicano. Questo fatto, assai probabile, consentirebbe a questi partiti di opporsi eventualmente alle misure di totale clericalizzazione dello Stato che costituiscono il programma vaticano e che finora potevano essere attuate poiché la Democrazia cristiana non aveva bisogno di alleati avendo la maggioranza assoluta in Parlamento. Soprattutto il Vaticano intende impedire ogni possibilità di interruzione del processo di clericalizzazione della scuola che è in atto, di allargamento della legislazione riguardante l’ordinamento familiare e matrimoniale, ogni possibilità di estensione della riforma agraria in modo che tocchi i beni ecclesiastici che ne sono esenti, ogni possibilità di controllo sull’organizzazione finanziaria dipendente dal Vaticano, ogni tentativo, insomma, per quanto moderato, di sganciamento dello Stato dal controllo dell’organizzazione cattolica. Il Vaticano ritiene perciò utile sostenere e rinforzare il movimento fascista per avere un possibile alleato di ricambio da sostituire ai piccoli partiti laici. L’ideale di questi ambienti vaticani, indifferenti alla struttura democratica dello Stato italiano, sempre soggetta al pericolo di mutamenti tipico della democrazia, sarebbe un regime alla Salazar, ed essi ritengono che il movimento fascista, per quanto informe e, in qualcuno dei suoi elementi di base, confusamente anticlericale, possa essere agevolmente manovrato e utilizzato a questo scopo. Questa è la ragione della manovra preelettorale di Gedda, di cui ho parlato, e che, per quanto fallita, diede ai fascisti qualche settimana di felicità e di euforia. Il Governo cercò di correre ai ripari, fece votare rapidamente la nuova legge, la cosiddetta “legge Sceiba” che, secondo la Costituzione, vieta la ricostituzione dei partiti fascisti e le manifestazioni fasciste. I fascisti si sentirono di nuovo costretti a camuffarsi da democratici, e se, agli occhi dei dirigenti politici, la cosa poteva anche parere vantaggiosa, essa diminuiva il tono e l’entusiasmo di tutti gli anonimi seguaci. Forse la vecchia ammiragliessa affittacamere, che non vede più fare saluti romani per le vie, ha perduto un poco della sua certezza in un rapido trionfo. Il congresso del MSI, tenuto all’Aquila, si svolse tutto sotto il terrore di qualche intemperanza o di qualche troppo chiaro discorso degli estremisti del partito. I capi estremisti vennero espulsi, in modo che non vi partecipassero; la base, ancora tutta fascista repubblicana, sperava in Almirante, ma l’antico capo degli estremisti aveva anch’egli compreso il gioco e si limitò a difendere l’unità del partito e una posizione di compromesso. Fu riconfermato Borghese come presidente onorario (egli passa per essere il più moderato di tutti i fascisti): il vecchio massacratore di par tigiani e incendiario di villaggi, quello che Mussolini stesso chiamava con disprezzo “la bajadera con il basco” è diventato, per i fascisti, il simbolo dell’alleanza con il Vaticano e con l’aristocrazia. Il congresso visse letteralmente con il terrore che comparisse il generale Graziani che, per contraddizione a Borghese, è diventato invece il capo degli estremisti. Qualcuno telefonò annunciando il suo arrivo; De Marsanich e i suoi, che tenevano in pugno il congresso, impallidirono di terrore all’idea di veder comparire il vecchio generale rimbambito, con il suo profilo di finta aquila così simile a quello del generale Mac Arthur. Egli avrebbe rotto le uova nel paniere, così ben preparate, con qualche pericolosa e irresponsabile affermazione di fascismo integrale: ma il generale non venne, e De Marsanich potè proclamarsi persino favorevole al Patto Atlantico, purché naturalménte fosse modificato e fondato sull’Italia, la Germania, la Spagna e il Portogallo, con eserciti nazionali e patti bilaterali. In politica interna furono abbandonate le affermazioni socializzanti per sostituirle con quelle corporative e autarchiche; invece che di riforma agraria si parlò di bonifica integrale, vale a dire si sostituì tutto il vecchio programma del fascismo classico e conservato-re a quello sovversivo del fascismo di Salò. Questo nuovo indirizzo del MSI, sotto la veste democratica e moderata è dunque ancora più profondamente fascista del precedente, ma certo ha maggiori probabilità di essere accettato e appoggiato dal Vaticano, dagli industriali desiderosi di tornare ai comodi letti caldi dell’economia corporativa, e dai grandi proprietari terrieri timorosi della riforma agraria. Nel suo primo sorgere, il movimento fascista era povero, un piccolo gruppo di disperati, che accattavano poco denaro da privati simpatizzanti. Ora esso, e il gemello partito monarchico, sono in grado di affrontare le immense spese di una propaganda senza risparmio; anche la stampa fascista e fìancheggiatrice e gli organismi di varia natura che possono influenzare l’opinione pubblica e l’amministrazione dello Stato dispongono di mezzi imponenti. Di dove vengono questi mezzi? Chi fornisce ai fascisti il denaro necessario? È estremamente difficile dirlo con sicurezza e documentarlo; poiché è ovvio che questi finanziamenti avvengono in segreto, in modi spesso indiretti, e mascherati, e tali da poter essere smentiti quando qualcosa ne trapeli pubblicamente. È questa del resto, del finanziamento segreto dei partiti, di tutti i partiti e non solo di quello fascista, una questione oscura, e che andrebbe coraggiosamente risolta se si vuole consolidare l’organizzazione democratica del paese. Non esiste in Italia, come in altre nazioni, una legge che imponga la pubblicità dei bilanci dei partiti; perciò quello che se ne può dire non può uscire dal campo incerto delle voci, delle opinioni, delle informazioni anonime, delle presunzioni e delle supposizioni, sempre indimostrabili, anche quando esse siano fondatissime e praticamente sicure.
Per quanto riguarda il fascismo, si può tuttavia affermare che i suoi primi finanziatori importanti furono, dopo la svolta del 1951, i fascisti italiani dell’America del Sud, alcuni dei quali vi possiedono immense ricchezze. Questa è probabilmente, a quanto si dice, insieme a denaro spagnolo, ancora oggi una delle principali basi finanziarie dei movimenti fascisti. Ma oltre ai denari dell’Argentina, del Brasile e della Spagna, i fascisti dispongono di altri e più vicini finanziatori. L’Azione Cattolica ha appoggiato ostensibilmente il fascismo nei mesi scorsi e, sia pure con maggior ritegno, continua ad appoggiarlo da un punto di vista politico: ciò si risolve naturalmente anche in un indiretto aiuto finanziario. Per quanto si parli anche di aiuti diretti, la cosa non può essere affermata con certezza: ma pare certo invece che sia in buona parte attraverso l’Azione Cattolica che pervengono ai fascisti i finanziamenti da parte della Confindustria. Si dice infatti che la Confindustria usasse sovvenzionare direttamente parecchi partiti, fra i quali presumibilmente non ultimo il fascista, fino alla primavera scorsa; ma che da allora, anziché versare direttamente i denari nelle case dei partiti, li consegni invece all’Azione Cattolica, che li distribuisce a sua volta, secondo i suoi criteri, ai differenti partiti che ritenga utile appoggiare. Si parla anche (e anche qui, ripeto, non si possono portare prove) di appoggi al fascismo da parte dei Gesuiti, e particolarmente dei gruppi di cui è esponente padre Riccardo Lombardi. Quanto alla Confindustria, oltre ai probabili contributi diretti e indiretti, per il tramite dell’Azione Cattolica, essa svolge un’azione pubblica di appoggio e di influenza sull’opinione, favorevole ai fascisti, e certamente più efficace delle sovvenzioni in denaro. Per esempio, essa ha comprato il giornale «Il Globo», e ha chiamato a dirigerlo Italo Zingarelli, uno dei giornalisti del periodo fascista di Salò. Giornalisti fascisti dirigono, del resto, molti giornali cosiddetti indipendenti, soprattutto a Napoli, a Roma e nel Mezzogiorno, per imposizione dei padroni e dei finanziatori dei giornali, che talvolta si trovano ad essere delle grandi Banche statali. Ciò non desterà meraviglia, quando si pensi che a capo dei grandi complessi monopolistici sono rimasti, in gran parte, i vecchi dirigenti fascisti, solo apparentemente camuffati e travestiti da democratici. Ma la maggior parte dei fondi messi a disposizione delle varie organizzazioni neofasciste si può ritenere derivino dai contributi di singoli industriali ed agrari. Si tratta, in genere, di persone che hanno largamente beneficiato degli aiuti americani per costruire o aumentare la propria fortuna, e che trovano utile adoperarne una parte per appoggiare questo movimento che, malgrado le recenti opportunistiche dichiarazioni, rimane per sua natura quello che era, animato dall’odio antidemocratico e antioccidentale, cullato dal sogno assurdo di una definitiva rivincita contro l’Inghilterra e l’America.
Che questi industriali esistano è comune nozione in Italia, e i loro nomi corrono sulle bocche di tutti. Ma, come ho detto, sarebbe impossibile darne, anche a solo titolo di indicazione, un elenco documentato. Per alcuni, che capeggiano direttamente i movimenti politici, la cosa è pubblica: questo è il caso dell’armatore Achille Lauro, con la sua flotta di Liberty Ships. Per gli altri, che stanno nascosti, non si possono che raccogliere le voci che hanno maggior aspetto di verità. Se si interrogano, su questo argomento, uomini politici, deputati, membri del Governo, giornalisti o osservatori bene informati, si avranno sempre le stesse risposte, gli stessi nomi. Il primo che viene generalmente citato da tutti (non so, ripeto, con quanto fondamento) è il Marinotti, capo del grande complesso industriale della SNIA (che fabbrica le fibre tessili artificiali). Certo è che egli è attorniato da un vero stato maggiore fascista, di cui fanno parte Dino Alfieri, Bastianini padre e figlio, e Dino Grandi, che tutela i suoi interessi nell’America del Sud (e mi si dice che per questa ragione la Law Firm dell’avvocato Dulles di New York abbia recentemente declinato l’incarico di patrocinare negli Stati Uniti gli affari del Marinotti). Ma si tratta di un uomo abile, esperto nel giocare su molti settori, che probabilmente finanzia, contemporaneamente ai fascisti, organizzazioni e movimenti di sinistra, come già durante la guerra seppe render servigi sia ai fascisti che agli alleati, sia ai tedeschi che ai partigiani. Altri nomi che vengono fatti con insistenza sono quelli del conte Armenise, padrone delle fabbriche di penicillina protetta, di Carlo Pesenti, padrone della Italcementi; ed alcuni parlano anche di Marzotto, che si dice abbia in passato finanziato «Il Becco Giallo» e l’Uomo Qualunque e attualmente corre voce finanzi il quotidiano fascista «Il Secolo». È probabile, in quest’ultimo caso, che i finanziamenti, se esistono, vadano anche, oltreché ai fascisti, a altri partiti e movimenti di tutt’altro colore: ma quanto si conosce pubblicamente sull’attività politica del Marzotto (di cui non si negano né la modernità di vedute industriali né le benemerenze sociali) basta a indicarne le simpatie. Egli ha istituito i più grandi premi letterari e scientifici italiani, per un importo annuo di venticinque milioni di lire; e ha preposto ad essi una giuria fascistizzante. Quest’anno, ad esempio, i premi per la letteratura e per la storiografia sono stati attribuiti da Marzotto a Giovanni Papini e a Gioacchino Volpe, entrambi vecchi e screditatissimi rifiuti della cultura fascista. L’opera della fondazione Marzotto per resuscitare questi morti e per influenzare e corrompere la cultùra italiana in senso fascista è un importante contributo alla rinascita del fascismo, maggiore di qualunque possibile diretto finanziamento. Probabilmente maggiori di quelli degli industriali sono gli aiuti finanziari che i fascisti ricevono dai proprietari terrieri, sia individualmente, in tutti i luoghi dove il timore del movimento contadino o della riforma agraria spinge i proprietari a finanziare i gruppi fascisti e monarchici nella speranza di averne difesa e sostegno contro i contadini e contro il Governo, sia sul piano nazionale, attraverso le organizzazioni degli agrari, la Confida; o le organizzazioni parastatali di carattere agrario, come l’Ente Nazionale Canapa (che si dice sia proprietario del giornale «Il Popolo di Roma»), e soprattutto la potentissima organizzazione della Federazione Consorzi Agrari. Questa organizzazione, che ha un bilancio annuo di circa 850 miliardi, e che arrivò al suo attuale enorme sviluppo per gli incarichi che le vennero affidati dagli Americani fin dal tempo dello sbarco in Sicilia, è presieduta dall’on. Bonomi, un democratico cristiano che dispone alla Camera, e soprattutto nella sua Commissione Agricola, di un notevole potere personale. Egli è circondato da uno stato maggiore composto di tutti i vecchi tecnici agrari, gerarchi e organizzatori sindacali fascisti, alcuni dei quali di notevole efficienza tecnica. Il suo capo di gabinetto è il signor Contu, già sottosegretario nel ministero fascista di Salò. Date le radicate tendenze di questo gruppo direttivo, e gli enormi capitali di cui dispone, praticamente senza controllo, è voce generale e plausibile che basti una percentuale, sia pur minima, di questi capitali per alimentare ampiamente le casse dei movimenti fascisti. Non occorre aggiungere che anche in questo caso si tratta di supposizioni e di opinioni diffuse, di cui non è possibile portare le prove. Un elenco documentato dei finanziatori del fascismo non è praticamente eseguibile; ma è certo che essi esistono, e che appartengono ai gruppi e alle categorie di cui abbiamo parlato. E una specie di ‘lobby’ numerosa e piena di diramazioni e di collegamenti in tutti i campi dell’economia e dell’amministrazione. Di per sé il neofascismo italiano non costituirebbe né un problema grave, né un pericolo. Il popolo italiano è stato vaccinato per sempre contro questa malattia, e ha saputo, con le sue forze; liberarsene, a costo di molti dolori e tragedie e sofferenze. Movimenti neofascisti o neonazisti esistono, del resto, nelle altre nazioni europee, in Francia e soprattutto in Germania, e vi sono forse più pericolosi che da noi, anche se meno clamorosi e meno ostentati. Soltanto per opera dell’appoggio vaticano, industriale e agrario, il fascismo italiano può costituire ancora un pericolo, non nella sua forma originaria, ma sotto quella, apparentemente più moderata ma in realtà più pericolosa, di clericofascismo. Un pericolo diretto in quanto esso possa spingere in questo senso la direzione della politica italiana e un pericolo indiretto, per il governo democratico e per le forze di centro democratico su cui si appoggia, in quanto il risultato di questo tentativo politico è, in modo immediato e automatico, un notevole rafforzarsi delle posizioni comuniste. Di fronte a una possibilità anche lontana di affermazione fascista o clerico-fascista tutta la larghissima massa di media opinione, tutte le forze di centrosinistra italiane, memori delle troppo recenti esperienze del fascismo e delle rovine morali e materiali che ne furono la necessaria conseguenza, sarebbero senz’altro spinte a far fronte comune coi comunisti per opporsi a una vittoria del fascismo. La miope politica delle sfere vaticane e degli industriali si risolve perciò in un indiretto appoggio al successo del partito comunista. Tollerare sotto qualsiasi forma una rinascita del fascismo, aiutarlo finanziariamente, o in qualunque modo favorirlo, significherebbe un voler far rinascere i morti e far tornare l’Italia, questo paese così profondamente e altamente civile, a essere un focolare di turbamento e di pericolo; è comunque un gioco rischioso nel quale non c’è che da perdere; ed è probabile che i veri vincitori, presto o tardi, sarebbero proprio coloro contro i quali si cerca di risuscitare dalla sua tomba il fascismo. Coloro che in America considerano il fascismo non pericoloso e Sono disposti a tollerarlo ed eventualmente ad incoraggiarlo, certamente non lo conoscono. Il mese scorso vennero a trovarmi e a intervistarmi per la radio americana, il signor M. e sua moglie, una simpatica e intelligente coppia americana. Durante il loro soggiorno in Italia dovevano fare parecchie interviste a personalità di ogni genere: nella loro lista c’era anche il principe Borghese. Per informarsi dove trovarlo, erano saliti alla sede centrale della direzione del MSI, e lì avevano, per la prima volta, visto le facce degli autentici fascisti con le loro inespressive teste di morto. Ne erano stati, mi dissero, terrorizzati. «Mio dio, che facce! Che mostri!» mi disse la signora «sono proprio tali e quali come noi in America ci immaginiamo i comunisti!». Queste facce, noi le conosciamo, e quegli ottusi complessi d’inferiorità. È bene che quelli che non le conoscono, come i cari e onesti signori M., o che le hanno dimenticate, le riguardino e riflettano. Tutto è possibile al mondo, tutto è legato insieme, e non conviene, per nessuna ragione, anche la più legittima, fare patti cól diavolo (neanche con l’intenzione di non mantenerli). C’è, come nel poetico e cabalistico capolavoro di Chàrlie Chaplin, II Dittatore, un mondo alla rovescia, dove si vola con la testa in giù e i valori si invertono. Chi, mosso da vecchi interessi, o ossessionato da nuove paure, indulga al fascismo e pensi di servirsene, avrà evocato, per far vincere i propri nemici e il proprio terrore, degli inutili morti.
*La serpe in seno, con questo titolo pubblichiamo un saggio inedito di Carlo Levi sul neofascismo, del 1952. Sandro Gerbi ne racconta più oltre la storia.
 


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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1996 Mese: 1 Giorno: 31
Numero 1
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1996 - 1 - 31 - numero 1


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