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tipologia: Analitici; Id: 1465148


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Titolo Leone Pacini Savoj, Varietà e documenti. Boris Tomasevskij della poetica
Responsabilità
Pacini Savoj, Leone+++
  autore+++    
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Nome da authority file (CPF e personaggi)
Tomasevskij, Boris+++   Titolo:oggetto+++   
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Trascrizioni
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VARIETÀ E DOCUMENTI 455
Questi elementi, strappati con fatica agli archivi coloniali, non sono sufficienti per una ricostruzione dettagliata e completa, ma ci permettono di parlare chiaramente di genocidio: è vero che i morti furono presumibilmente soltanto cinquantamila su centoventimila seminomadi, all'incirca il 40% della popolazione coinvolta nella repressione (le perdite furono percentualmente piú elevate per le tribú del Gebel); ma i superstiti non poterono riprendere le loro occupazioni tradizionali, perché furono rinchiusi in « riserve indiane » e sfruttati come manodopera non qualificata (come meravigliarsi perciò del loro profondo odio verso la « civilizzazione » italiana che per loro rappresentava solo miseria, morte e spoliazione?). La repressione attuata da Badoglio e Graziani, in conclusione, si propose la distruzione di una società secolare, attraverso l'eliminazione fisica di buona parte dei seminomadi, lo sconvolgimento della loro vita tradizionale e la sottrazione dei loro mezzi di sussistenza (il bestiame). Nella storia della nostra civiltà abbiamo altri esempi di genocidio, anche su scala maggiore (basti pensare ai fasti del colonialismo inglese, francese o statunitense), se questo può consolare qualcuno. A noi spetta però denunciare le responsabilità del colonialismo e del fascismo italiano verso le genti del Gebel cirenaico, a infamia dei protagonisti e dei loro difensori
e ad ammonimento degli italiani di oggi.
GIORGIO ROCHAT
BORIS TOMASEVSKIJ, DELLA POETICA
Il potere stimolante che ancor oggi, a molti anni di distanza, continuano ad esercitare gli scritti dei formalisti russi, trova una delle sue giustificazioni nel fatto che, in essi, anche gli errori sono felicemente intaccati dall'intelligenza,
e che questa finisce col contagiare assai piú di quanto quelli non sopraffacciano.
E non intendiamo soltanto alludere alle loro esegesi dei testi letterari (i saggi del Vinogradov e del Tomasevskij sullo stile del Puskin, o dello Sklovskij sul Tolstoj, restano tuttora fondamentali; la Tecnica del comico in Gogol' dello Slonimskij ha dischiuso le vie ad un puntuale intendimento dell'arte gogoliana,
e permane una piattaforma dalla quale è impossibile prescindere; e potremmo continuare ampiamente a elencare opere e nomi di componenti o fiancheggiatori della scuola, dal Tynjanov allo 2irmunskij), ma riferirci anche, e soprattutto, ai loro tentativi di consegnarci una teoria della letteratura. O — come essi preferivano dire — una « poetica » del linguaggio dell'arte.
Un secondo, e piú riposto, motivo è nella libertà che derivava loro da una attitudine a contraddirsi (e che fu oggetto, fra i piú insistenti, d'accusa da parte dei loro censori), a bilanciarsi in aure di oscillante equilibrio fra speculazione
e prassi, e a tentar di sanare le intermittenze che insorgevano nella teoria allorché questa dilatava nelle zone della realtà testuale. Di qui la possibilità di spazi dischiusi al giuoco della perspicacia; e la validità di certe notazioni incidentali che venivano a incrinare le premesse.
Non altrimenti che sotto questa luce vanno intese le prese di posizione pru-
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denziali dello Eichenbaum, allorché affermava: « Per noi la teoria ha solo valore di ipotesi di lavoro ». « Stabiliamo principi concreti, e ci atteniamo ad essi nella misura in cui siano giustificati dal materiale [e, cioè, dai testi]. » « Scienze bell'e pronte non ve ne sono. » « Nell'àmbito di questa scienza [la formalistica] è possibile lo sviluppo dei piú svariati metodi » (Teoria del metodo formale, passim; corsivo mio). E, infine: « Eclettici ed epigoni trasformano il metodo formale in una specie di sistema fisso del `formalismo', di cui si servono per fabbricare termini, schemi e classificazioni. Questo sistema è assai comodo per la critica, ma non è nient'affatto tipico del metodo formale ». Citazioni da cui è possibile espungere i sintomi di una non certo lucida chiarezza nella contaminazione che vi si compie tra i significati di « scienza » e di « metodo », e nella incoerenza fra « metodo » e asserita possibilità di « sviluppo dei piú svariati metodi ».
La situazione, in realtà, non era certo dissimile — anche se si mostrava piú illuminata — da quella che va tuttora verificandosi ad ogni tentativo di organare in « scienza » l'esegesi dell'arte; la quale, per essere attività concreta, sfugge all'astratto. Ma la natura concreta dell'arte era ancora scarsamente intravista dai formalisti; e allo Eichenbaum, perciò, sfuggiva che la tendenza a fabbricare « termini, schemi e classificazioni » non era affatto da attribuire ad una miopia degli eclettici o degli epigoni, bensí da collegare con le riposte finalità dello stesso formalismo; il quale, ambendo ad assurgere a « scienza », ambiva a fornirsi degli istrumenti di cui ogni scienza necessita.
Ne è abbondante riprova l'opera di uno dei padri — e non certo degli « epigoni » — del formalismo russo: la Teoria della letteratura di Boris Tomasevskij (che Maria di Salvo ci ripropone, per i tipi di Feltrinelli, in un'ottima veste italiana, corredandola di una introduzione chiara e puntuale). E sarebbe sufficiente, da solo, a mostrarlo il capitolo su La costruzione dell'intreccio, dove la venerazione per la terminologia giunge al punto di adulterare la « teoria » in anatomia della letteratura; offrendoci, è vero, un materiale di grande suggestione, ma di nessuna, o assai scarsa, utilità per l'intendimento di un'opera d'arte.
Tuttavia, questi non sono che aspetti secondari sui quali non merita indugiare. Ci offrono esempi di distorsioni di ordine minore; anche se non da trascurare, perché, sia detto per incidenza, costituiscono una parte non insignificante di un materiale su cui dovrebbe operare chi, finalmente, meditasse di offrirci un ragguaglio puntuale e una altrettanto puntuale caratterizzazione del formalismo russo.
Ciò che reputiamo, invece, prezioso, nel Tomas"evskij, è il chiarimento, proposto fin dalle pagine iniziali, di un termine che egli impiega in valore neolo-gistico, e che costituisce la chiave della teoria formalistica, nonché le basi sulle quali essa poggia: « poetica ».
« La disciplina che studia la costruzione delle opere non artistiche si chiama retorica; quella che studia la costruzione delle opere d'arte è la poetica. Retorica e poetica compongono la teoria generale della letteratura » (p. 27 dell'edizione italiana).
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Ora, se ci ripromettiamo di intendere in modo chiaro il postulato, dobbiamo rifarci a una dissociazione che i formalisti — a cominciare dallo Jaku-binskij — avevano operato fra « linguaggio pratico » e « linguaggio dell'arte ».
Vanificando l'esperienza di Mr. Jourdain, essi avevano declassato il primo a semplice strumento, informale, di intesa, di comunicazione colloquiale: « Nella conversazione la nostra attenzione e il nostro interesse si rivolgono esclusivamente al contenuto della comunicazione, al `pensiero' », laddove, di fronte a un testo d'arte, « l'interesse per l'espressione, come tale, è molto piú intenso che nel linguaggio quotidiano ».
Nella realtà delle cose essi andavano, tuttavia, al di là del mero fatto dell'interesse. Consideravano il « linguaggio pratico » mezzo rudimentale, dalla forma instabile, non precisata — se non addirittura non precisabile — di trasmissione di un contenuto. Qualcosa come un alfabeto Morse. Prerogativa del linguaggio dell'arte era, invece, di possedere una forma, e ben definita. Detto questo, riuscirà piano comprendere il nuovo significato di cui veniva insignito il termine « poetica ». Se, comunemente, intendiamo per quest'ultima l'insieme delle qualità e delle caratteristiche dei procedimenti artistici di un determinato scrittore, credere che anche il linguaggio dell'arte possedesse qualità e caratteristiche singolari, insite nella sua stessa natura, conduceva ad affermare l'esistenza di una « poetica » di quel linguaggio, e la necessità di studiarla e codificarla.
Le conseguenze a cui conduceva simile presupposto erano triplici. Innanzitutto si giungeva a una restrizione delle funzioni dell'artista; che — a stretto rigore di logica — da creatore recedeva a virtuoso manovriero di un materiale fornitogli già pronto dal linguaggio dell'arte. Egli diventava un sensibile tecnico (e la parola « tecnica » ricorre, infatti, assai frequentemente tra i formalisti) di cui si misuravano le capacità in base al modo ingegnoso ed utile col quale andava servendosi del materiale. (Nella esegesi di un'opera, « ogni procedimento viene studiato nella sua utilità artistica; si analizza, cioè, la ragione per la quale viene impiegato quel dato procedimento, e quale effetto artistico serva ad ottenere », p. 28; corsivo mio.) In secondo luogo — sempre a stretto rigore — si veniva ad attribuire un valore in sé ai procedimenti della poetica del linguaggio dell'arte e, conseguentemente, il potere di sollecitare un determinato effetto artistico. (È lungo questa via dell'astrazione che si approderà a un concetto dell'arte quale tecnica verbale, alla cui luce va inteso — ché altrimenti suonerebbe assurdo — quanto il Tomas"evskij afferma a p. 28: « La poetica normativa si propone di insegnare come si debbono scrivere le opere letterarie ».) Infine — e ciò acquista un rilievo ben piú notevole del negare al « linguaggio pratico » di essere una forma d'arte, sia pure rudimentale (qualcosa, cioè, come negare a Santippe di esser donna per non possedere la bellezza di Elena), del trascurare che anche in quel linguaggio trovano manifestazione anche intensa i sentimenti, e del non considerare che in certe opere d'arte (teatro) sia proprio il « linguaggio colloquiale » a costituire il mezzo espressivo — si instaurava una sorta di dicotomia nelle facoltà del destinatario: ora disattento, frettoloso e disinteressato verso tutto ciò che, nel colloquio, non è « contenuto », ora, all'opposto,
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sensibile e attento alla forma (che il Tomasevskij dà per « definita ») del testo d'arte.
Qui potrà essermi fatto carico di rendere alquanto anguste le tesi dei formalisti con l'immettere le loro premesse nell'alveo di una logica dall'apparenza spietata (il che è, tuttavia, indispensabile allorché si compie una analisi), e col condurle a conseguenze alle quali essi non giungevano mai apertamente; o che mitigavano in grazia di quella intelligenza alla quale abbiamo già tributato un doveroso elogio. Ma certe conseguenze non possono resultare che palesi e incontrovertibili. Si oltrepassavano, ad esempio, con disattenzione manifesta, i confini della poetica del linguaggio dell'arte con l'affiancare alla teoria del valore in sé dei procedimenti una teoria del valore in sé dei fonemi. Si esorbitava, cioè, dallo studio del linguaggio per invadere il campo della lingua (senza considerare che questa era anche lo strumento della comunicazione colloquiale).
Tutti sappiamo bene in cosa consista la musicalità di un testo letterario: essa spazia dalla parola — a seconda della sua collocazione sintattica nella frase — all'intera frase nel suo disegno ritmico; dalla allitterazione alla assonanza; e cosí discorrendo. Ma i formalisti russi, rinverdendo una antica, e mai interamente tramontata, credenza nel potere di una singolare sollecitazione propria di ogni singolo fonema, attribuivano ad esso una facoltà emotiva derivante, per cosí dire, dalla sua struttura fisica (mostrandosi, tuttavia, in questo — occorre riconoscerlo — piú accorti dei romantici che la individuavano nella semantica).
« È naturale », leggiamo nel capitolo in cui il Tomasevskij tratta della Eufonia, « che i suoni labiali sordi possano conferire al discorso una coloritura, in quanto segno emotivo di disprezzo; parole come prezirat' [disprezzare], pòdlyj [vile], plòcho [male], hanno già, nella loro composizione fonica, una determinata coloritura » (p. 102). E ancora: « un discorso ricco di suoni quali
c, `é, c, s, k, si considera poco eufonico » (p. 96) 1.
Si approdava, in tal modo, a una sorta di psicologia della lingua, se non addirittura a un classismo verbale. E si riduceva il gioco dell'arte entro l'àmbito di una scacchiera dove i procedimenti erano le figure e i fonemi i pedoni.
Il valore in sé del fonema infirmava l'asserita distinzione fra linguaggio dell'arte e linguaggio pratico. E il Tomasevskij, non rendendosi conto di aggravare, in tale maniera, la dicotomia nelle facoltà ricettive del destinatario, correva ai ripari col sostenere che, contrariamente a quanto accade allorché ci troviamo dinanzi ad un'opera d'arte, « nel linguaggio pratico i suoni non intrattengono mai la nostra attenzione » (p. 89).
È, a questo punto, inevitabile doversi chiedere perché un « suono » — e il determinato potere emotivo che esso racchiude in sé — ora agisca su noi, ora
1 Si veda ancora, in questo capitolo, quanto detto sulla onomatopea, sulle sonanti — la cui « facilità articolatoria le associa con la rappresentazione di qualcosa di facile e carezzevole » — sul suono « s », etc. È difficile comprendere, in base a tale teoria, il perché dovrebbe considerarsi intensamente cacofonico, ad. es., il famoso verso di una lirica del Merezkovskij (Leda) che trae la sua eufonia, e il vigore dell'espressione, esattamente dall'impiego di parole nella cui struttura abbondano consonanti del tipo ora incriminato: « I y tisi, kamysì selestjàt, .relestjat ».
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non intrattenga la nostra attenzione. E giungeremmo a una conclusione: che un testo — di qualunque natura esso sia — non viene recepito attraverso la nostra sensibilità (e che non è, perciò, in conseguenza degli effetti che produce sul nostro animo che si accende o non accende in noi un « interesse »), ma in base a non si sa quale facoltà discernitiva, sotto il cui potere la sensibilità ora si ottunde (al contatto coi testi colloquiali, di prosa pratica), ora è viva e vitale (al contatto coi testi d'arte).
Ma anche il contatto con un testo d'arte non si presenta del tutto piano. Anche colui che legge un romanzo o un racconto — sostiene il Tomasevskij —« riconoscendo con gli occhi le parole [...], non si sofferma sul loro suono, e passa subito al loro significato ». (Ricade, allora, forse nella medesima, e medesimamente inspiegabile, insensibilità di cui era vittima durante la comunicazione colloquiale?) « Soltanto nelle opere appartenenti alla cosiddetta `prosa ornamentale' [...] il lettore, già mentre percepisce visivamente il testo stampato, ricostruisce, ma solo nel pensiero, il suono di ciò che è scritto; `recita' il testo » (p. 111).
E anche qui occorrerà porsi un problema: se la comprensione di un testo sia fatto razionale. E cercare la risposta a un altro quesito: se il « suono » non agisce sul destinatario nella comunicazione colloquiale (non « intrattiene mai la nostra attenzione »), e non agisce neppure nel testo d'arte (non ci « soffermiamo » su di esso), cosa ci informerà che la prosa d'arte alla quale ci accostiamo è « ornamentale »2 e ci indurrà a « recitarla »?
Dobbiamo, tuttavia, riconoscere che anche in questa occasione l'errore trovava il suo spunto di verità, e un innegabile merito, nell'avanzare il problema del « suono », e nell'esortarne allo studio. Si impostavano i presupposti di un piú corretto intendimento di esso quale risorsa dell'espressione: allorché, cioè, esso opera come rafforzamento del mezzo semantico a creare una particolare atmosfera entro cui l'artista tende ad immergere l'animo del lettore, ad ingenerarvi una tensione; allorché, voglio dire, non si limita a costruire un giuoco incidentale, « eufonico », a offrirci l'esibizione di un virtuosismo che si esercita nell'àmbito di componimenti da definire — in tal caso a ragione — « ornamentali ».
Potremmo soffermarci ancora su molti aspetti della Teoria — anche se il discuterne si è fatta, oggi, cosa sin troppo facile. Ma preferiamo limitarci ad un ultimo problema che vi ha una sua singolare e impegnativa enunciazione nel capitolo dedicato ai Generi drammatici e che, nonostante lo si consideri ormai come scontato, presenta qualche aspetto di improbabilità.
« La letteratura drammatica deve prestarsi alla interpretazione scenica: la sua caratteristica fondamentale è la destinazione allo spettacolo teatrale. Ne deriva la chiara impossibilità di uno studio dell'opera drammatica prescindendo da quello delle condizioni della sua realizzazione teatrale; di qui anche la co-
2 Cioè, ritmica; ché qui, per comprendere cosa specificamente intenda il T., occorre riferirci — come senza alcun dubbio si riferisce il T. — alla prosa del Bèlyj. L'estensione del « suono » al ritmo non è, tuttavia, chiarita dal T.
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stante dipendenza delle sue forme da quelle della messinscena, costituita dalla recitazione degli attori e dagli arredi (scenario) che li circondano » (p. 211; corsivo mio). « Le circostanze della lettura e quelle dello spettacolo sono completamente diverse » (p. 214).
Come vediamo, il Toma"sevskij prende l'avvio dall'ormai trito luogo comune che l'opera drammatica è inscindibile dalla sua attuazione scenica, poiché è in essa, e solo attraverso ad essa, che consegue la propria completezza. Ma spinge il luogo comune ad una estrema conseguenza: la « impossibilità » di condurre uno studio dell'opera al di fuori di quella attuazione. Ogni attuazione è, però, cosa di per sé mutevole, dipendendo dal tramite umano dell'attore (e dal concetto che si è avuto, nei tempi, della recitazione: oggi una Malibran ci aduggerebbe per la patetica enfasi della sua dizione, cosí come un Leaving Theatre avrebbe atterrito una platea ottocentesca), dello scenografo (e dal concetto che si è avuto della scenografia dai tempi dei cartelli shakespeariani, indicanti « Reggia », « Foresta », etc. — che lasciavano spazio dovizioso alla fantasia degli spettatori, fino ai giorni nostri nei quali lo scenario è trasposizione in termini fantastici, o simbolico-fantastici, dei luoghi dell'azione) e del regista (e del concetto che si è avuto della regia: si pensi all'ancor recente periodo in cui la direzione della messinscena era del « capocomico » che la accentrava sul carattere dell'agonista, contornandosi a tale scopo di attori la cui levatura modesta gli consentiva di concertarli in un coro su cui campeggiava la sua voce di solista). « L'arte registica — ci conforterà a tale proposito il Tomasevskij — progredisce, rivoluziona il sistema della messinscena » (p. 216).
La tesi della inscindibilità dell'opera drammatica dalla sua attuazione conduce ad una seconda conseguenza: che il testo — per cosí dire, nella sua « purezza » — non sarebbe dotato di autonoma esistenza. Il che non è pianamente accettabile; e pertanto, se vorremo discutere utilmente, occorrerà partire da un principio opposto al dettato tomascevskiano: che « le circostanze della lettura e quelle dello spettacolo sono completamente » identiche. E che lo sono per dare, e nell'un caso e nell'altro, origine ad una interpretazione del testo con esiti di speciosa diversità, ma di sostanziale eguaglianza.
Anche colui che legge, avanzando nell'opera drammatica la rappresenta nella sua immaginazione, e ne realizza ogni effetto. Il suo potere di visualizzazione dà un volto ai personaggi, e una musica singolare alla loro voce. Egli si raffigura la scena su cui si producono i fatti, e fa scorrere il tempo. Nei limiti concessigli dalla sensibilità, dalla fantasia, dalla sua umana esperienza, giungerà a resultati che potranno muoversi nell'àmbito del mediocre, cosí come spaziare nei piú vasti domini di una ragionevole perfezione.
E nel compiere ciò godrà di una libertà che è incondizionata. Non sarà tenuto a accordare alla propria, come il regista, le interpretazioni che i vari attori danno di ciascun personaggio, o lo scenografo dei luoghi dell'azione; né sottostare, come gli attori o lo scenografo, alla interpretazione epicentrica di un regista; poiché egli è, al contempo, e attore e scenografo e regista della sua visione del testo.
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A rigore, egli potrebbe esimersi dall'assistere ad una messinscena teatrale di quell'opera. Perfino reputarla superflua. Ma se ciò non accade è perché il suo rapporto con essa trova validità e giustificazione in due motivi. 1) Lo spettacolo, inframettendosi fra lui (se è lettore di scarsa o comune perspicacia) ed il testo, corrobora la sua mediocrità di intendere e raffigurare. Regista, attori e scenografo gli prestano il proprio intelletto, e le doti del loro sentire, per dilatare la scarna visione che egli ha tratto dell'opera. Gli attori gli mediano il testo sentimentalmente e — col porlo di fronte a personaggi che non sono piú figure evocate dalla sua fantasia, ma esseri vivi e reali — danno un assalto diretto alle sue emozioni, esercitando su di esse una intensa violenza. 2) Lo spettacolo è pietra di paragone sulla quale (se il lettore è di levatura piú scaltrita) si saggia e confronta la giustezza di ciò che in quell'opera si è inteso e sentito. Avverrà che si possa far carico, ad uno o piú degli interpreti, di inadeguata comprensione; o merito di penetrazione piú acuta della nostra. E là dove concordiamo, traiamo anche noi godimento a rivivere — in una realtà che, seppur fittizia, ha gli accenti e gli aspetti del vero — ciò che, leggendo, avevamo vissuto nell'immaginazione.
In ambedue i casi, i « conflitti » rientrano nella comune prassi dei confronti (e, per qualità, non si diversificheranno da quelli che, per il medesimo testo, può provocare nel « lettore » l'interpretazione di un critico letterario). Ma si dà che possa prodursi anche un conflitto di natura diversa: un disaccordo di carattere singolare che merita singolare rilievo, poiché viene a svelarci un limite a cui soggiace l'interpretazione dell'attore.
Se noi dissentiamo, ad esempio, dal modo con cui egli pronuncia una battuta quale — per restar nel piú trito — « Mamma, dammi il sole » o « Essere o non essere », perché esso giunge al nostro orecchio diverso da quello nel quale lo avevamo udito durante la lettura, la qualità del nostro dissenso è del genere di cui parlavamo piú sopra. Ma allorché vediamo apparire sulla scena una Giulietta che incrina l'immagine esteriore di lei che era affiorata, ed aveva preso forma, durante la lettura, ai nostri occhi interiori, noi soggiaceremo a un trauma che, a volte, neppure l'arte di una attrice eccellente riuscirà a sanare, e in conseguenza del quale l'intero dramma rischierà di subire un'eclisse.
La cosa può, a tutta prima, apparire sofisticata; ma non lo è se riflettiamo agli eguali influssi che su di noi esercita un'arte, ancor poco studiata al riguardo: la illustrazione.
L'illustratore di un testo — o come si diceva un tempo, con parola piú suggestiva, « l'illuminatore » — è un artista che, di quel testo, ci consegna una interpretazione esclusivamente basata sulle parvenze. Egli ci sottopone ritratti di protagonisti, raffigurazioni di scene naturali negli aspetti che gli sono andati sorgendo nella fantasia, leggendo il testo.
A diversità dell'attore, gli è dato di modellare il fisico di ciò che rappresenta, ma non di modularne le voci, ché egli ci trasmette mondi che sono muti. È in quel silenzio — che noi colmiamo di suoni — che andremo raffrontando le nostre alle sue illuminazioni; trovandoci, anche in questa circostanza, o consenzienti o fortemente traumatizzati.
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Avverrà, tuttavia, che possa verificarsi anche un terzo caso: che illuminatore o attore ci condizionino. Il che accade abbastanza spesso allorché ci troviamo in stato, per cosi dire, di ingenuità; se, cioè, noi entriamo in contatto con un testo — ancor prima della lettura — attraverso la loro mediazione.
Ne sia riprova l'influsso che hanno esercitato, ad esempio, su di noi gli illu-minatori nel suggerire alla nostra fantasia, in una età ancor sprovveduta quale l'infanzia, le fattezze di un eroe o i suggestivi aspetti di un paesaggio entro cui si va attuando la sua storia. Un influsso a tal segno determinante che il ritratto, diciamo, di un Robinson si è cosí immedesimato in noi, divenendo il nostro Robinson, da renderci poi addirittura inaccettabili le traduzioni fisiche di esso che ci andavano proponendo altri artisti; magari piú valenti — e alla cui valentia tributavamo omaggio, ma non consenso.
Una messinscena è, dunque, anche per gli eventuali conflitti che può ingenerare, un condizionamento a cui soggiace l'interpretazione del « lettore »; una interpretazione che si pone a fianco, con mutevoli esiti, ad un'altra, e che di questa ha eguale validità.
Cos'è, allora che, se non sostanzialmente, esternamente le diversifica? Cominciamo, intanto, col fissare un punto: che, mentre la lettura è interpretazione univoca, la messinscena è interpretazione corale. E, cioè, somma di interpretazioni composta da quelle dei singoli attori, dello scenografo, degli operatori minori, e dalla interpretazione epicentrica del regista. Questi (ove permanga nei confini di una sua redazione del testo che non se ne discosti dallo spirito e dalla lettera) è il direttore di un coro che egli non riuscirà mai interamente a piegare al suo volere. Gli sarà concesso di contenere, ma solo entro certi limiti, la personalità di un attore (e, pertanto, ne conseguirà che, dirigendo l'esecuzione della medesima opera drammatica con interpreti diversi, giunga ad esiti parzialmente diversi) e, solo entro certi limiti, di farla consonare con quella degli altri attori che costituiscono l'assieme delle dramatis personae. Gli sarà concesso, infine, di chiedere modifiche, ma solo di dettaglio, allo scenografo; ma il resultato del suo concerto sarà sempre una somma su cui, con ora meno ora piú brillante successo, egli sarà intervenuto ad arabescare e colorare le cifre.
Un secondo punto potrà evidenziarsi attraverso un parallelo. Vi sono stati tempi nei quali la « lettura » — per essere l'analfabetismo condizione generica — era privilegio di pochi iniziati. Al pari della recitazione del racconto, del romanzo e della poesia (il cui « studio » avrebbe potuto, e non a torto, ritenersi iscindi-bile dalla musica), la recitazione teatrale era indispensabile per la conoscenza di un testo. E non si poteva prescindere da essa. Lo spettatore entrava in rapporto con l'Antigone che calcava la scena: l'interprete non si intrometteva fra lui e il testo: diventava il testo. Si verificava, cioè, quello che avviene tutt'oggi con la musica; la lettura dei cui pentagrammi è privilegio di un numero di iniziati esiguo rispetto alla maggioranza; ed altrettanto esiguo, fra questi, il numero di coloro che si trovano in grado di leggere la partitura di una sinfonia nella sua « purezza ».
Stante una simile, quasi generica, condizione di analfabetismo musicale, non
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è dato, di conseguenza, alla massa di accedere al testo di una sinfonia se non attraverso la sua realizzazione orchestrale.
Ma per la musica non è sorto alcun problema di inscindibilità fra testo ed esecuzione (ancorché gli elementi che operano a quest'ultima potrebbero, con un buon pizzico di immaginazione, essere accostati agli altri che operano a concertare la messinscena teatrale: si potrebbe considerare, ad esempio, la funzione del direttore d'orchestra simile a quella del regista; e considerare gli orchestrali alla stregua di attori, cosí come i « virtuosi » — nei concerti per istru-mento e orchestra — a quella di attori primari). Ma ciò non è avvenuto per l'ovvia ragione che l'esecuzione orchestrale non ha alcuno dei caratteri che distinguono lo spettacolo. Non solo manca di ciò che potremmo, genericamente, chiamare « decoro » (o elementi del visivo quali gli scenari, il gioco dei colori, delle luci, etc.), ma altresí, in effetti, manca perfino degli attori. All'orchestrale non è affidata una parte da interpretare: egli non ci trasmette il mondo di un personaggio alla luce della sua singolare sensibilità, della sua umana esperienza. Poiché, quali dramatis personae di una sinfonia potremmo tutt'al piú considerare i singoli complessi degli istrumenti. Le loro voci ci giungono dagli insiemi dei violoncelli o dei violini, dei clarinetti o dei corni, delle arpe o dei flauti. Insiemi all'interno di ciascuno dei quali ogni orchestrale non è che una tessera musiva. Le possibilità di estrinsecazione, di interferenza della sua personalità restano pertanto cancellate nell'àmbito di un « concento ». E di un concento su cui, incontrastata, domina la volontà del direttore-regista. Non si verifica, quindi, quell'apporto corale di personalità che è tratto tipico e distintivo dello spettacolo.
Lo spettacolo ha inoltre un carattere ben definito. Ove pretendessimo avanzarne una definizione, dovremmo dire che esso è una traduzione, in termini di equivalenza con la realtà, di un'opera drammatica. I personaggi vi si incarnano e concretizzano in persone; le parole in suoni; i luoghi dove si producono i fatti in simulacri della natura. Forme, colori, luci completano l'illusione di una realtà che, seppur surrettizia, assume le parvenze del vero. Esso è l'epifania (una delle possibili epifanie) di un testo.
Ad attuarla cooperano piú personalità interpretanti, concertate da un regista. Ricorrendo a una immagine, diremo che lo spettacolo è la pianta generata dal seme di un'opera drammatica; la quale, in esso, non costituirà che la parte di un costrutto complesso, uno degli elementi — anche se il piú ragguardevole — che lo compongono.
Una interdipendenza fra spettacolo e testo, che condizioni lo studio di quest'ultimo, è quindi insostenibile. È da sostenere, all'inverso, la necessità di uno studio di ogni singolo spettacolo come operazione artistica a sé stante (e, come tale, suscettibile di paralleli e confronti con operazioni diverse, compiute da operatori diversi, sul medesimo testo). E l'analisi verterà sulle qualità interpretative e dell'apparato, sull'equilibrio e l'armonia entro i quali, corroborandosi, e questa e quello si compenetrano; o sul prevalere di una componente sull'altra.
Ora, prima di chiudere il discorso, occorrerà che si tengano presenti tre
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aspetti che lo spettacolo, quale messinscena di un'opera drammatica, può assumere:
1) Esegetico. Esso è fedelmente e intimamente legato al testo. Il regista usa di quest'ultimo e per interpretarlo e per arricchirlo, ai margini, delle sue chiose. Esercita sull'opera drammatica una amorosa violenza per suscitarne le piú riposte bellezze, e metterne in luce aspetti di cui l'autore stesso poteva, forse, non possedere chiara consapevolezza. Nel conseguire i suoi fini egli non dispone, certo, dei poteri assoluti del direttore d'orchestra. Non può, come lui (allorché dirige un concerto per orchestra e istrumento) concedere libero spazio ad un virtuoso come ad un ospite di riguardo che sieda alla sua tavola — se egli non ha in quello spazio la sua propria dimora. La sua « orchestra » è interamente composta di virtuosi, e ha pertanto da essere l'anfitrione di un affollato banchetto. Ciò richiede doti ed abilità che esulano dal patrimonio comune.
2) Puro. In esso l'attuazione travalica il testo per incentrarsi ed esercitarsi sull'« apparato ». Il regista dello spettacolo puro muove dal testo letterario, attingendovi solo pretesti per le sue fantasiose creazioni e i suoi giochi. Spettacoli puri, o tendenti al puro, si sono avuti fino dai tempi della Rinascenza, quando ornamento e macchina erano proposti, e posti, al centro dell'interesse.
3) Ibrido. Ha avuto i suoi esordi negli anni in cui il Tomasevskij attendeva alla sua Teoria: il regista apporta « numerose modifiche al testo letterario a profitto dello spettacolo » (p. 214). È ibrido in quanto le « modifiche » corrono sull'orlo periglioso di una sopraffazione dell'originale che, non tendendo a re-sultati di « spettacolo puro », si bilanciano fra questo e una presunta esegesi del testo. Presunta, in quanto il regista opera a travestire quest'ultimo dei propri panni, se non addirittura ad assoggettarlo ad un sostanziale rifacimento (oggi gli esempi piú comuni vengono offerti dalle « attualizzazioni », dalle « socializzazioni » di componimenti del repertorio classico) che ne snatura e lo spirito e la lettera. Ove si intenda per messinscena il corpo di cui si rivesta l'anima di un'opera drammatica, diremo che — pur lasciando a questa, nominalmente, e collocazione cardinale e immeritato titolo di autenticità — il regista sostituisce la propria all'anima dell'opera.
Lo spettacolo ibrido è l'esito di un sopravvalere della regia, che vi consegue il suo stadio barocco. La personalità del regista va sempre piú assumendo in esso un potere che non si distanzia ormai molto da quello del direttore d'orchestra, e lo sopravanza per non rispettare piú il compito di un'esegesi. Coautore, o autore parassita, il suo compito è estremamente facilitato, e può anche non esigere doti e qualità che esulino dal comune. Egli sottrae alla interpretazione individuale degli attori (in parte, spesso, gravata anche dal peso di una tradizione) i personaggi del testo col sostituirli con i suoi personaggi, attraverso i quali gli originari tralucono appena come larve. Non ha piú, in tal modo, da concertare dei virtuosi, ma degli esecutori ai quali illuminerà la nuova partitura. E, sostituito all'antico il proprio messaggio, interprete, esegeta di se stesso, scanserà le censure di un suo piú o meno ortodosso rapporto con l'originale.
LEONE PACINI SAVOJ
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31352+++
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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 7 Giorno: 31
Numero 4
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - luglio - 31 - numero 4


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