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tipologia: Analitici; Id: 1543214


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Tipologia Relazione di Convegno
Titolo [Le relazioni] R. Cessi, Lo storicismo e i problemi della storia d'Italia nell'opera di Gramsci
Responsabilità
Cessi, Roberto+++
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  autore+++    
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Roberto Cessi

LO STORICISMO E I PROBLEMI DELLA STORIA D’ITALIA NELL’OPERA DI GRAMSCI

Chi sfogli la raccolta degli scritti su 11 Risorgimento (il titolo* non fu apposto dall’Autore) forse può essere preso da un senso di delusione nella presunzione di ritrovare qui, in una linea continua, lo sviluppo e lo svolgimento di un sistema, di seguire passo a passo, quasi, sia pure nelle prospettive generali ed essenziali, l’organica illustrazione' di uno degli aspetti più impegnativi della storia italiana attraverso i tempi e attraverso la sua maturazione.

La storia italiana di oggi, come risultato della storia di ieri e dell’altro ieri, anche se prolungata nei secoli, non soltanto ha dato il tono alla storia patria, ma ha avuto una influenza anche in tutta la storia, europea.

Ho parlato di « delusione » perché in questo libro vi trovo dei frammenti, perché vi trovo soltanto delle pietruzze — non dirò delle gemme, per non essere indiscreto — le quali ad un profano od anche a chi legge* superficialmente queste pagine, possono poco significare o troppo poco significare rispetto a quella che sarebbe la aspettativa od il desiderio^ del lettore. Ma se noi ricollochiamo queste pietruzze, che sono cosi brillanti, cesellate in tutte le loro parti, come sa cesellarle un aibile musivo, sopra quel tessuto, intorno al quale e sopra al quale sono state predisposte e preparate, anche se l’artefice non ha avuto il tempo, il modo, — non andiamo a ricercare la causa di questa omissione — di ricollocarle per ricostruire tutto il quadro nel suo complesso in modo che il mosaico risultasse cosi persuasivo come sarebbe stato desiderio del lettore, in470

Le relazioni

tenderemo il valore di osservazioni quasi estemporanee, sentiremo la potenza ed il valore della intuizione, il contenuto della realtà storica.

E noi dobbiamo proprio domandarci sopra quale tessuto le espressioni dialettiche, le critiche, le fugaci osservazioni, i giudizi sparsi qua e là e raccolti quasi in forma estemporanea, si vengono a collocare.

È presto detto : lo storicismo. Lo storicismo è la mentalità, direi quasi la personalità di Gramsci, la quale sommuove, informa, ispira tutta la sua attività e le finalità verso cui è rivolta tutta la sua azione.

Storicismo. Che cosa s’intende con questa parola? Qual è il valore di questo termine, quale il significato intimo di questa disposizione, di questo abito mentale, che serve di substrato e di strumento per poter giudicare effettivamente i fenomeni; e poi, come questo strumento è utilizzato?

Ricordava il Gramsci, che, se si vuole studiare la nascita di una concezione del mondo, che dal suo fondatore non è mai stata esposta sistematicamente, occorreva fare preliminarmente un lavoro filologico minuzioso e condotto con il massimo scrupolo di esattezza, di onestà scientifica, di lealtà intellettuale, di assenza di ogni preconcetto ed apriorismo o partito preso. Occorreva, a suo giusto avviso, ricostruire il processo di sviluppo intellettuale del pensatore valutando criticamente tutti gli elementi stabili e permanenti assunti come pensiero proprio e quelli contingenti desunti da precedenti esperienze in quanto erano altrettanti momenti essenziali del processo di sviluppo.

Nel postulare una questione di metodo, egli manifestava il travaglio spirituale, attraverso il quale era maturato e maturava in lui quel furore eroico, che non era mera curiosità esteriore, ma profondo interesse, capace di stabilire un equilibrio critico nella esposizione e nell’analisi di ogni nuova teoria.

Nel profilo del pensatore, piuttosto irruento, di carattere polemico ed assente di spirito di sistema, nella personalità, nella quale l’attività teorica e quella pratica sono, indubbiamente, interessate, nell’intelletto in continua creazione ed in perenne movimento, che sente rigorosamente l’autocritica nel modo più spietato e conseguente, non è difficile ravvisare la esperienza della sua mente assillata dall’impegno di elaborazione intellettuale in presenza di una crisi Che, forse, non era ancora superata.

L’orientamento crociano, cui era stato sospinto dalla suggestione dei primi studi, anche nel distacco prodotto successivamente dall’approfondiRoberto Cessi

All

mento spirituale ed intellettuale, aveva lasciato una naturale traccia, che inconsapevolmente affiora nell’intimo processo dialettico della polemica, nella quale si sforza di trovare giustificazione alla diversa posizione dottrinaria.

Vi è pure un elemento comune: lo storicismo, anche se diversa è l’interpretazione, e per suo tramite si insinua un inavvertito spirito crociano, che ad un attento lettore non sfugge e dal quale l’Autore abilmente si disimpegna, facendo appello alla potente vigoria di intuizione del suo intelletto.

Egli non dettò un sistema, forse perché non riconosceva validità nel sistema come tale, e più spesso egli ha proposto, in forma polemica, con abbondante ed attenta raccolta di materiale, con larga erudizione, con ampia informazione, quale gli era consentita dalle difficoltà, che si opponevano al suo metodico lavoro, i temi dei problemi, che apparivano alla sua mente non sufficientemente chiari, sollevando contestazioni, dubbi, riserve, piuttosto che azzardare soluzioni, rifacendosi tuttavia ad alcuni principi generali, nei quali trovavano giustificazione e fondamento le obiezioni e le censure, che egli opponeva a prospettive contrastanti.

Le penose vicende della vita non gli consentirono né il tempo, né i mezzi, né l’opportunità di ricondurre, dopo una tenace meditazione, in un quadro organico i concetti progressivamente elaborati.

Nella posizione metodologica del Gramsci tale assenza, a causa della quale la grandiosa opera di introspezione si presenta con carattere di frammentarietà, non rappresenta né immaturità di pensiero, né incertezza di orientamento, anche se affermazioni casuali ed aforismi staccati, talora, lasciano scoprire sconcertanti oscillazioni.

La forte inquietudine polemica, che si rivela nella sua posizione critica, costituiva un abito mentale, che inconsapevolmente lo allontanava da una elaborazione sistematica, che potesse apparire dogmatica. La polemica era argomento strumentale, non soltanto formale e contingente, ma intrinseco del processo critico e del processo dialettico.

Nel proporre il programma di un compendio dell’economia politica, egli affermava : « La esposizione deve essere critica e polemica nel senso che deve rispondere sia pure implicitamente e per sottinteso alla impostazione, che dei problemi economici è data nel Paese, determinata dalla cultura economica più diffusa e dagli economisti ufficiali più in auge ».472

Le relazioni

Tuttavia, anche nell’eredità frammentaria e polemica, che egli ha lasciato, gli elementi stabili e permanenti, che costituiscono il ritmo del pensiero in sviluppo sono intimamente individuabili, ed altrettanto limpido ed organico è il modo di pensare e di concepire la vita.

L’adesione alla filosofia della prassi non era meccanica accettazione di una posizione, che egli stesso giudicava in continuo divenire. L’adozione di un termine « filosofia della prassi », che ricorre in tutti i suoi scritti, non è una preziosità, né un gergo imposto da necessità, come a torto si vuole giustificare, o dall’amore di novità, senza un profondo significato teorico e pratico. Nel quadro del marxismo e dei suoi sviluppi si collocava con una concezione originale della vita e del mondo.

Una concezione originale dedotta dalla interpretazione storica della sua espressione filosofica, che è: storia, politica ed economia, in quanto « come scienza della dialettica e della gnoseologia » — sono sue parole — riconduceva a unità i concetti generali di storia, di politica e di economia, i quali possono essere teorizzati, anche se i fatti non sono sempre individuabili e sono mutevoli nel flusso del movimento storico, per non cadere in una nuova forma di nominalismo.

Ma con ciò non si vuol ridurre la filosofia della prassi ad una sociologia — egli subito commentava —, che altro non è che ideologia, se non si vuole ridurre una concezione del mondo ad una formula meccanica pseudo storica. L’esperienza, su cui si fonda la filosofia della prassi,, non può essere schematizzata; essa è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità, il cui studio può dar luogo alla nascita della filosofia come metodo dell’erudizione nell’accertamento dei fatti particolari ed alla nascita della filosofia intesa come metodologia generale della storia.

In questa prospettiva lo storicismo marxista — secondo il pensiero del Gramsci — non poteva essere circoscritto nell’ambito di un rigido economismo del vecchio materialismo, del materialismo volgare, del materialismo empirico — egli soggiungeva — e confuso con lo storicismo etico-politico dell’idealismo speculativo e neppure con il dogmatismo storico-giuridico tedesco (al quale il Gramsci fa soltanto qualche fuggevole accenno) che ebbe tanta fortuna in Germania.

Critico del materialismo empirico e del positivismo come dell’ideali-smo speculativo, considerati forme deteriori della dialettica materialista e di quella hegeliana confluite nella filosofia della prassi, dalle quali eranoRoberto Cessi

Alò

derivati i valori negativi, negli aforismi e nei criteri piratici, dei quali si è rivestita la filosofia della prassi, ritrovava esemplificata tutta una concezione del mondo, una filosofia, nella quale l'immanentismo hegeliano era diventato storicismo, uno storicismo assoluto, un umanesimo assoluto.

Ma qui si potrebbe chiedere se lo stesso concetto di storicismo, cosi proposto, non scivoli in un dogmatismo pari a quello del teologismo metafisico o dell’astrattismo giuridico, nell’apparenza di immanentismo, e non postuli negli effetti un presupposto trascendente e non si trasformi in un’astrazione e diventi anch’esso una mitologia e si affondi nel mito delle categorie, quali ad esempio furono formulate dalla scienza giuridica tedesca sul concetto di « Stato » e dalla scienza politica inglese sul concetto di « Nazione ». E può nascere il dubbio che anche là concezione storicistica del mondo, in definitiva, non scaturisca anch’essa da un apriorismo caratteristico, sul quale si configuri come proprio modello.

Confesso che accolsi non senza perplessità la negazione della oggettività della realtà e del presupposto del soggettivismo della coscienza, come pure talune prospettive sulla validità della scienza. La politicizzazione della scienza, la considerazione cioè della scienza come politica, legittima nella funzione finalistica, diventa restrittiva, se si limita alla funzione di scoperta del trascendente, dell’ignoto, e creazione razionale utile agli uomini(^per allargare il loro concetto di vita.

È legittimo il timore che lo" schematismo teorico deU’analisi dei concetti nella presunzione di attingere a rapporti concreti si traduca poi in una riduzione dei rapporti stessi, nei quali si presume che il dato storico trovi la sua estrinseca manifestazione, in una interpretazione disforme del suo contenuto sostanziale.

Tali obiezioni sono doverose per prevenire facili deviazioni, proprio per eliminare l’errore di una logica formale, sostanzialmente identico al presunto errore, che si presume rilevare nella storia, che altro non è che errore di postuma interpretazione.

Nella storia non esistono errori, ma atti suscettibili di diversa interpretazione e valutazione, ih paragone di determinati, opposti e contrari interessi, siano essi materiali, contemporanei all’azione, od intellettuali di successivo apprezzamento.474

Le relazioni

Storia e storiografia

Ma qui conviene distinguere fra accertamento degli elementi componenti ed applicazione comparativa, la quale può essere soggetta all’errore di interpretazione.

Che cosa significa il termine « storia » ? Troppo spesso si scambiano indifferentemente i due termini storia e storiografia, quasi fossero sinonimi ed esprimessero identiche prospettive, e perciò concezione storiografica equivalesse ed equivalga a creazione storica. In realtà occorre ben differenziare i due concetti, in quanto rappresentano due processi diversi, i cui valori sono diversi anche se interdipendenti.

Storia — tecco ili concetto fondamentale di Gramsci — si identifica nella vita del mondo, nella quale attore non è la natura, ma l’uomo, non però ridotto ad una semplice espressione ideologica, né ad una espressione economica, Ybomo oeconomicus, e neppure a tipo astratto, ma l’uomo considerato come soggetto di rapporti.

La vita è il complesso di rapporti delle energie operanti nel mondo nel passato, nel presente e nel futuro, sicché la storia è accertamento del passato, attuazione del presente e previsione del futuro, e si attua non secondo una legge di regolarità conforme alla legge dei fatti naturali, ma seguendo un processo di tesi e di antitesi, di eterne contraddizioni, delle quali tutte le filosofie sono state manifestazione e che ciascuno suppone di ridurre ad un substrato sopra uno scheletro costituito di fattori fondamentali — strutture, — e di fattori derivati — sovrastrutture, — di elementi dominanti — egemonie, — e di elementi sottostanti — subalterni, — soggetti a costante evoluzione per un processo di perenne divenire.

In questo concetto della storia vi è un continuo processo di liberazione, dalla necessità alla libertà, e di auto-coscienza, ed ogni stadio, come storia, è destinato ad essere superato come passato, ma concorre positivamente o negativamente all’attuazione del presente ed a preludere al futuro.

Questo processo segna necessariamente due movimenti e presuppone due condizioni, che stanno alla base della dinamica storica:

1) per la nascita e l'adempimento dei compiti, che la umanità si propone di risolvere, si presuppone la esistenza attuale e naturaleRoberto Cessi

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nel processo del divenire delle condizioni materiali atte alla loro soluzione;

2) ima formazione sociale non perisce prima di avere esaurito le forze produttive di cui è capace e prima che non siano subentrati nnovi e più attivi rapporti di produzione maturati nel seno stesso della vecchia società. "'n

Attraverso questa dinamica si sviluppano le funzioni positive e ricostruttive e quelle negative e distruttive del processo storico, e la storia si attua in una serie intermittente di rapporti, che producono il ritmo del rinnovamento sociale.

Come la vita è un costante divenire, cosi le espressioni nelle quali

• i

si concretizza sono in perenne movimento, operanti in una unità organica costituente il blocco storico: l’unità della natura e dello spirito.

E però, se la filosofia nella suprema sua sintesi come scienza della dialettica o gnoseologia riporta ad unità organica i concetti generali di storia, di politica e di economia, dalla storia non possono staccarsi la politica e la economia, donde scaturisce la teoria della storia, nella quale si identifica la filosofia della prassi. Ma si avverta che essa non può essere schematizzata in una formulazione astratta, non può essere ridotta ad una sociologia consistente nel collocare una concezione del mondo in un formalismo meccanico apparentemente animato, non ad una filologia che al più può apprezzarsi come filiazione metodologica della storia, non ad una statistica subordinata alla legge dei grandi numeri, della quale non occorre rilevare l’errore politico per il rigido metodo, che la informa, non ad una filosofia intesa come metodologia generale della storia, e che entra piuttosto nell’ambito della storiografia.

La filosofia della prassi concepita nella sua funzione unificatrice è la storia stessa nella sua infinita varietà e molteplicità suscettibile di rappresentazioni attraverso le applicazioni storiografiche essenzialmente metodologiche.

La filosofia della prassi non è un metodo, come non lo è la storia. I valori metodologici, che spesso si riducono a dogmatica casistica, non possono sostituire quelli dialettici di quella. Metodo sono la sociologia, la statistica, passibili di errore per la insufficienza di conoscenza, che limita il significato della scienza. E se presupposto scientifico della metodologia storica è solo la capacità astratta di prevedere l’avvenire della società, la storiografia, in questo sforzo, trova motivi di insuperabile476

Le relazioni

limitazione, perché anche senza considerare che la previsione non è atto scientifico di conoscenza, in quanto ciò che sarà, è non esistente ed inconoscibile, la previsione stessa, però, può limitarsi a prevedere la esistenza della lotta, ma non i momenti concreti di essa, risultanti da forze contrastanti in continuo movimento, non riducibili a quantità fisse: e ia quantità diventa qualità.

Con ciò però non credo si possa arrivare ad una negazione drastica di leggi anche neH’ambito del mondo morale; analogamente, ma con diverso comportamento, a quanto si verifica nel mondo fisico, regolano i rapporti umani, che non sono generati da arbitrio.

Latto di volontà umana non è arbitrio, ma risultato di un processo sociale, di cui ignoriamo o non riusciamo a scoprire gli elementi componenti — aspetto statico —, e le funzionalità — aspetto dinamico —, ma non per questo è abbandonato al caso, all’accidente, al contingente, senza norma e regola; non è quello rispondente alla interpretazione empirica del senso comune, che è fattore secondario, o quello pseudo scientifico di una logica formale. Anche essa, forma secondaria, è derivata dal processo storico.

Anche il principio di causalità mantiene il proprio valore, anche se è difetto di conoscenza. Ecco dove riposa e dove mi si presenta il dubbio, che io avevo sollevato all’inizio, sopra il carattere subiettivo, che il Gramsci attribuiva alla conoscenza. Questo carattere subiettivo, che è determinato non dall’assenza assoluta di qualche elemento esterno, ma dal fatto che la conoscenza stessa è limitata per effetto della limitazione individuale e subiettiva, non consente la ricerca e la sicura individuazione di tutti i rapporti e del loro svolgimento.

Oggettività e soggettività

E qui si pone, come dicevo, il problema della soggettività e della oggettività della realtà.

La concezione deH’oggettività della realtà, nata da una credenza religiosa e dalla esperienza del senso comune, è stata superata dalla filosofia moderna con la concezione della soggettività del reale, secondo la quale la realtà del mondo è una creazione dello spirito umano. Il mateRoberto Cessi

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rialismo storico rettifica questa concezione affermando che le ideologie sono espressione delle strutture e si modificano con il modificarsi di esse; isi ha quindi una interpretazione storicistica delle sovrastrutture.

Oggettivismo, in questo caso, non assume il significato proprio del materialismo metafisico, di una oggettività, che esista anche fuori dell’uomo, e di una realtà, che esiste anche se non esistesse l’uomo (concezione metafisica o mistica), ma nel senso che noi conosciamo la realtà solo in rapporto all’uomo, eysiccome l’uomo è divenire storico, anche la conoscenza e la realtà sono un continuo divenire, ed anche l’oggettività è un divenire. L’attività sperimentale dello scienziato è lo strumento di mediazione dialettica fra l’uomo e la natura, quello si pone in rapporto con questa, penetra in essa, la conosce, la domina e scopre l’unità del mondo.

Ma poiché la concezione filosofica dello storicismo si identifica nella storia, ed apprezzando la sua stessa validità storicamente, cioè fase transitoria del pensiero filosofico, non come qualche cosa di eterno e di immutabile, ma espressione, come ogni altro sistema filosofico, delle contraddizioni proprie della società in un determinato momento della sua attività, destinata ad essere superata nel mutare dello sviluppo storico, il sospetto che in altre forme rispecchi un apriorismo trascendente e semplicemente speculativo, non sembra possa infirmare i valori di una rappresentazione del mondo che si identifica con la storia stessa del mondo.

L’uomo nella storia del mondo

Secondo la concezione della filosofia della prassi non esiste una astratta natura umana fisica ed immutabile, ma la natura umana è l’insieme dei rapporti storicamente determinati e rilevabili secondo un procedimento critico.

L’uomò, che sta nel centro di questi rapporti, non è un uomo, ma è « l’uomo », non è Yhomo oeconomicus astratto della vecchia concezione economica, ma l’uomo concreto, operante, non considerato come soggetto individuale, ma quale agente della collettività, non uomo ideologico, agente eterno, immutato, ma risultante da un complesso continuo di rapporti ritmicamente mutevoli nell’ambito delle strutture e delle sopra-strutture tendente a passare da uno stato di necessità a quello di libertà.Quali sono questi -rapporti, e come si possono individuare o più precisamente distinguere nella composizione delle strutture, che non sono un « Dio ascoso », secondo la definizione del Croce, o delle sopra-strutture, che non sono apparenti se non nel senso di caducità di un sistema ideologico?

Una osservazione elementare mette in evidenza che nella presunta generale omogeneità umana, sia pure come fatto storico, esiste una divisione di gruppi sociali, divisione che si approfondisce anche in seno agli stessi gruppi generando le contraddizioni, che lacerano la vita sociale.

Di qui nasce la espressione politica di « divisione fra governati e governanti», che pone il problema della perennità della loro esistenza o della necessità della loro sparizione, del rapporto fra gli uni e gli altri, del processo della loro formazione per tramite di partiti e risultante dalla continuità espressa nel cosiddetto spirito statale, di cui si giudicano attori operanti.

Nel rapporto di forze, poi, bisogna distinguere i diversi momenti e gradi :

— un rapporto di forze indipendenti dalla volontà dell’uomo e prodotto dallo sviluppo delle forze materiali di produzione, che è quello che è e costituisce le premesse di ogni trasformazione ed attuabilità delle ideologie;

— un rapporto di forze politiche, omogeneità, auto-coscienza ed organizzazione dei gruppi sociali, che si attua gradualmente dal solidarismo economico corporativo professionale (non del gruppo sociale) al solidarismo economico di interesse del gruppo sociale, alla fase politica, nella quale l’ideologia diventa partito, e che universalmente nel gruppo determina l’unicità dei fini economici e politici e l’unità morale ed intellettuale, che portano alla egemonia del gruppo dominante.

■Ma che cosa è il partito? Ecco il problema che Gramsci si pone subito.

Ogni partito è espressione di un gruppo sociale, di un solo gruppo, e con funzioni di equilibrio fra gli interessi del proprio gruppo e quelli degli altri gruppi; ma né la funzione politica in senso stretto, né la coesione molecolare sono condizioni necessarie per formare un partito.

La funzione del partito può essere esercitata fuori dalla organizzazione. Nellambito di questa si verificano frazionamenti e fratture anche là dove esiste un partito unico sotto governi totalitari, perché esistono sempre tendenze legalmente incoercibili.Roberto Cessi

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D’altronde vi sono partiti marginali, che non hanno funzione politica* ma educativa, quali il movimento libertario e partiti di élites con obiettivi culturali, od anche di massa, quali semplici strumenti di ma-novra di mitiche realizzazioni irrealizzabili.

Ma il partito politico, se formalmente è aggregato di una massa obbediente a determinati rapporti, sostanzialmente è l’aspirazione di determinati gruppi sociali, è una normalizzazione di classe ed è parte integrante del complesso quadro di tutto l’insieme sociale. Sicché la storia di un partito politico coinvolge la storia di un intero paese e della sua capacità efficiente, positiva o negativa, sebbene espressione della classe, o frazione, che essa interpreta. Partito e classe diventano entrambi variamente operanti in relazione all’interesse, che rappresentano — gruppo sociale —, alla espansione organizzativa che sviluppano — massa di partito —, alla elasticità di organizzazione — organi dirigenti e burocrazia.

Il partito, opponendosi all’ordine consuetudinario e muovendo da posizioni subalterne, tende ad assumere una posizione determinante, oppure si muove nell’ambito stesso del gruppo dominante, sia pure come elemento subalterno, non per fondare ed organizzare una nuova società politica, od un nuovo tipo di società civile, ma per attuare una rotazione di frazioni con mutamento di dirigenti.

Tale è la funzione dell’economismo liberale, e del sindacalismo teorico, ovvero dei partiti dei grandi industriali e degli agrari, che si configurano almeno in una organizzazione permanente o in una serie di organizzazioni diverse, ma convogliate verso il medesimo fine.

La critica storica di Gramsci

Orbene, è su questi elementi fondamentali che il Gramsci impostava (egli non ha mai preteso di scoprire la storia) la sua indagine, la sua ricerca storiografica e gli apprezzamenti, che egli veniva mano a mano progressivamente registrando, annotando, in presenza di letture, direi quasi, estemporanee; è dal vaglio di questi elementi che egli veniva a stabilire i valori, che erano intrinseci ai fatti storici, dall’antichità all’età moderna: gli atti storici contingenti e gli atti storici permanenti^480

Le relazioni

Egli aveva cura di richiamare, spesso, i suoi interlocutori (i libri che egli leggeva, che egli annotava e che criticava) sulla soverchia facilità, con la quale si potevano scambiare e si scambiavano quelle che erano le cause accidentali, contingenti, secondarie, con le cause principali e fondamentali.

Richiamava l’attenzione sul fatto, che bisognava ben differenziare quali fossero l’obiettivo e la funzione delle cause contingenti che, tuttavia, non potevano e non dovevano essere trascurate, ma dovevano essere considerate nel loro giusto valore per l’equilibrio dei processo storico in svolgimento ed in isviluppo, distinte da quelle che erano principali ed in parte anche permanenti.

E qui si poneva una domanda, la domanda, forse, più grave nella sua ricostruzione storica: che cosa era, che cosa è la rivoluzione?

Egli aveva ben distinto, e distingueva molto profondamente, due concetti: sommossa o rivolta da rivoluzione.

La rivoluzione — come del resto stamattina ha detto ottimamente il Garin — non è un atto taumaturgico, è un processo dialettico di sviluppo storico. La creazione dello Stato proletario — soggiungeva il Gramsci — non è un atto di arbitrio, è anch’esso fase di un processo di sviluppo, e per questo è un atto eminentemente rivoluzionario. E distingueva la rivoluzione dalla sommossa.

La sommossa — egli diceva — è presente nel dissolvimento di una forma dell’organismo sociale. La rivoluzione comincia quando l’organismo sociale si avvia ad acquistare una forma nuova. Il momento, che è puramente negativo, della sommossa avrà una durata tanto più lunga quanto maggiore sarà la difficoltà che i gruppi di avanguardia dovranno superare per dare forma organica alle masse, che il moto di rivolta ha reso informi.

Su questa distinzione — distinzione che del resto egli ripete direi quasi ad ogni pie’ sospinto — cito un’altra sua osservazione: « Il

processo rivoluzionario si identifica, quindi, solamente con uno spontaneo movimento delle masse lavoratrici determinato dal cozzo delle contraddizioni inerenti alla convivenza umana in regime di proprietà capitalistica ».

Come si vede chiaramente, il principio fondamentale della rivoluzione è un processo, di continuo divenire, e si riallaccia ad uno dei concetti tanto dibattuti e tanto contrastati, fondamentalmente espressivo,Roberto Cessi

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quando naturalmente non sia interpretato unilateralmente o superficialmente: al concetto di rivoluzione permanente.

Si può dire che proprio la umanità, — il mondo, — avanzi in una continua rivoluzione, perché essa stessa per il suo divenire è un costante rinnovarsi, un rimutarsi non soltanto nelle grandi masse, ma anche nell’intimo d^lle masse stesse ed anche dei piccoli raggruppamenti sociali.

Gramsci ed il Risorgimento

Ed allora il Gramsci ad un certo momento delle sue indagini si domandava: il Risorgimento è stato una rivoluzione? A questa domanda, che il Gramsci non ha posto direttamente, ma che ad un attento lettore non sfugge, e che si può sorprendere qua e là nelle sue pagine, implicitamente rispondeva sollevando il dubbio e l’eccezione, che effettivamente nella vita del Risorgimento italiano operasse uno spirito rivoluzionario, e negando, ad esempio, la presenza di quello spirito giacobino che aveva costituito una delle espressioni più manifeste ed essenziali della Rivoluzione francese, qualunque fosse il suo contenuto e le finalità alle quali si ispirava. Gli pseudo-giacobini italiani obbedivano ad impulsi di conservazione non di rivoluzione. In questa posizione era difficile ravvisare l’espressione di un movimento e di una forza rivoluzionaria e nella comparazione che il Gramsci istituiva fra gli elementi e le forme di sviluppo del movimento risorgimentale nell’Inghilterra e nella Germania e nella Francia rispetto all’Italia, quasi quasi egli è indotto a negare la capacità del movimento italiano di poter creare veramente un sostanziale rinnovamento. Egli giustamente afferma che lo Statuto Albertino, in fondo, non era altro che il convalidamento della conservazione e che ribadiva e riproponeva la categoria di principi — in sostanza — eredi della vecchia struttura, appena ammodernata nella forma e rivestita di nuove vesti di una società immobile 'nella sua tradizione. In queste prospettive era difficile ravvisare un valore rivoluzionario della vita italiana, che non fosse puramente esteriore e apparente.

Ora, se questa proposizione e questa critica fossero limitate da un presupposto politico — permettetemi che io stesso formuli a me stesso un dubbio, sia pure per rispondere negativamente, ma dubbio che può nascere dalla lettura stessa delle pagine del Gramsci — se si interpre482

Le relazioni

tasserò nel senso, come qualcuno potrebbe presumere, che il giudizio negativo risultasse dalla mancanza di uno spirito rivoluzionario proletario, potremmo anche convenire.

In questo caso la visione del Gramsci perfettamente collimava con la realtà, e questa, che in lui fu una intuizione più che una dimostrazione, noi la possiamo oggi controllare non solo, ma ampiamente illustrare.

Non è certo fare offesa ai grandi sacrifìci della vita del Risorgimento riconoscere e costatare quella che fu la realtà degli avvenimenti.

Non fu una rivoluzione proletaria. Si dirà: ma non vi hanno partecipato dei contadini, dei lavoratori, dei ceti bassi? Si, hanno partecipato, ma il loro valore politico è quello che fin dal 1848 ben individuava Giuseppe Mazzini. Questi uomini hanno partecipato, questi uomini hanno dato la loro vita e il loro sangue, « tutto di sé hanno dato, senza nulla richiedere per sé, ma l’hanno dato come uomini, come individui e come cittadini, non come elementi di classe ». Cosi melanconicamente constatava Mazzini, che, rimproverando alla borghesia la mancata soddisfazione del suo impegno d’onore, di ricompensare le classi che « avevano dato tutto di sé e nulla avevano richiesto », concludeva invitando le classi lavoratrici, che avevano pugnato e combattuto per il bene degli altri, a levare il braccio e combattere per la causa propria.

Il Gramsci si trova, a questo proposito, sul medesimo terreno. Egli deve riconoscere e riconosce che una rivoluzione e un movimento proletario nel periodo del Risorgimento non vi fu, ed egli stesso deve riconoscere, o meglio denuncia come motivo di questa mancata rivoluzione il fatto che non si è avuto sostanziale ed organica concatenazione con la massa contadina.

Ma se invece consideriamo — qui appunto possiamo riprendere il discorso con lo stesso Gramsci — che il movimento ottocentesco era legato alle esigenze ed ai fini di un’altra classe, la classe dei proprietari, classe che fino allora viveva fuori della vita pubblica e che tendeva a rivendicarne il controllo ed occupare il suo posto in funzione ed in rapporto della evoluzione economica compiuta, sotto l’impulso naturale delle esigenze della vita, se pensiamo che la rivoluzione italiana era obiettivo, spirito, ispirazione, finalità della classe dei proprietari, non possiamo negare un contenuto rivoluzionario che lo stesso Gramsci avvertiva, considerando che non tutte le manifestazioni rivoluzionarieRoberto Cessi

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presentano i medesimi caratteri. « Ce un carattere comune — egli diceva — nelle rivoluzioni: quello di sommuovere le condizioni attuali e statiche di una determinata condizione della società, per distruggerne gli organi, per mutarne le funzioni (processo negativo) per crearne altrettante di nuove, per imprimere una fisionomia ed un comportamento nuovo alla struttura politica e sociale ».

Ed in questa prospettiva, analogamente a tutte le grandi rivoluzioni, faceva rientrare il rinnovamento del cristianesimo, perché effettivamente aveva modificato sostanzialmente le situazioni e le condizioni della società del tempo, creando istituti nuovi, raggruppamenti nuovi, ideologie nuove, rapporti economici, etici, sociali ed intellettuali nuovi, creando, insomma, una nuova società, secondo il concetto moderno, almeno nei fini se non nei mezzi.

Anche nel Risorgimento si ebbe la tendenza a costruire una società nuova: la società dei proprietari, preludio di quella società che troverà poi perfezionamento tecnologico, ulteriore sviluppo ed affinamento delle sue capacità produttive, creando lateralmente proprio quel fermento proletario dì cui prevedeva e paventava l’inevitabile nascita, per il momento contenuto con pressione paternalistica. Se si percorrono le discussioni parlamentari del 1848 e del primo parlamento subalpino, si possono rilevare lo stato d’animo, la condizione politica, morale intellettuale e le finalità economiche di questa classe.

Anche fra le maggiori diversità di pensiero, dagli estremi di destra agli estremi di sinistra, da un Revel, da un Cavour a un Rattazzi, a un BrofFerio, a un Valerio, nei quali la democrazia non subisce che una differenziazione di carattere meramente esteriore e politico, si muovono tutti su un medesimo terreno, sono tutti esponenti della classe dei proprietari. Non si conosce ancora la dottrina del marxismo, la propaganda, pur tiepida, del socialismo empirico solleva quasi un grido di terrore; la paura che questa veramente porti ad un capovolgimento della situazione creata dalla classe dei proprietari, genera inquietudine ed orgasmo.

Da questo punto di vista la posizione del Gramsci nettamente corrisponde alla esatta interpretazione che egli ha dato sopra il concetto della rivoluzione, che dipende da due elementi: 'la necessità e la libertà.484

Le relazioni

Necessità e libertà

La necessità è un fatto determinante che sta al di là e al di sopra della volontà deiruomo. La libertà, che è connaturata un po’ alla volontà dell’uomo, però deve obbedire alle esigenze fondamentali della classe.

Libertà. Delle libertà ve ne sono di tante specie e in Gramsci ricorre spesso la parola libertà.

Libertà dal passato. Ne parlavano anche nel periodo del trapasso dall’età pagana all’età cristiana, contrapponendo i due termini: libertas et servitus. Libertà serviva, allora, ad indicare il riscatto di una classe, che forzava per essere dimessa neH’interesse stesso dei proprietari: la classe degli schiavi.

Per libertà s’intendeva precisamente ridare all’uomo quella fisionomia, quella figura giuridica, quella personalità, che lo schiavo non aveva; era una cosa.

Libertà nel periodo comunale, a secoli di distanza, rappresenta la liberazione di un altro strato economico: la libertà dei servi, il loro riscatto, che si compie precisamente nell’ambito della formazione del Comune e dell’attività mercantile.

Anche nel periodo della Rivoluzione francese, la libertà giacobina — l’impulso giacobino — è essa pure il riscatto di una classe, il riscatto dei ceti rurali i quali non sono più elementi e strumenti economici validi per la valorizzazione della proprietà la quale avanza nella conquista del potere. Questo è il fine supremo del movimento rivoluzionario.

Ed oggi — dice Gramsci — che cosa si intende per libertà? Questa libertà, che noi abbiamo ereditato ormai come conseguenza di tutto un processo storico, perché anche il nostro movimento attuale non è la creazione soltanto dell’arbitrio di pochi individui, di pochi gruppi, ma è la risultante del processo storico, di cui si sono ereditate le conseguenze e le influenze, a quali finalità si dirige?

Libertà è — spiega il Gramsci — liberazione dalle contraddizioni,, «nelle quali vive la società attuale. Ed ecco il concetto di previsione, che egli attribuisce anche alla storia, ed è funzione della storia stessa. Come si attuerà la nuova forma di libertà? Si attuerà precisamente nel distruggere le cause, che determinano le contraddizioni, e le cause sono determinate dalla contrapposizione delle classi. La distruzione delle classiRoberto Cessi

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porterà con sé la eliminazione delle cause, che hanno determinato e che determinano le contraddizioni, in virtù delle quali manca la piena ed assoluta, completa libertà nell’individuo.

Rinascimento ed Età moderna

Ma questo processo su quale terreno si viene sviluppando, si viene producendo attraverso il tempo?

Il Gramsci stabilisce, direi quasi, due formule, valide luna per il Rinascimento e l’altra per la età moderna.

Per il Rinascimento egli vede nella formula municipale e corporativa il motivo e la ragione della mancanza della possibilità di una rivoluzione nazionale. Nel mondo moderno egli ravvisa, invece, nell’altra, formula, nella mancanza cioè di collaborazione fra gli elementi rivoluzionari e la massa contadina, la impossibilità di una rivoluzione proletaria.

Che cosa significano in parole povere queste due formule? Esse non rappresentano altro che la ricerca e lo sforzo di scoprire le cause prime,, che determinano i movimenti rivoluzionari, e i movimenti di profonda, trasformazione.

Il movimento di profonda trasformazione nasce sempre — e lo dice esplicitamente e chiaramente il Gramsci — da un interesse agrario fra le masse contadine, fra le masse agrarie, nella struttura della società agraria,, dove si trovano i primi germi che preparano e predispongono lo sviluppo successivo dell’azione rivoluzionaria.

Quando egli ammoniva i movimenti moderni, prevalentemente di carattere operaio, ed avvertiva gli stessi sindacalisti operai, che non si poteva operare una trasformazione della società senza congiungersi e collegarsi intimamente con il movimento contadino, egli indicava una delle fonti principali dello spirito rivoluzionario. E se noi ripercorriamo il ciclo della storia, ritroviamo nei suoi diversi momenti al fondo della crisi la scintilla animatrice di questo fecondo processo. Il Gramsci, pur senza essere disceso allanalisi dei grandi processi storici attuati traverso il tempo, ne intuì le origini e ne individuò le cause.

Egli non ha avuto la possibilità di approfondire l’esame di testimonianze e di controllare e meditare là letteratura storiografica. Le vicende486

Le relazioni

fortunose della vita limitavano le sue conoscenze alle letture, quasi estem-poranee di studi, spesso contrastanti alla sua mentalità, e su essi fù costretto a condurre la propria critica. Tuttavia sulla base anche di elementi incompleti ed eterogenei ha avuto felice intuizione dei momenti storici.

Il movimento cristiano fu un movimento nelle sue origini — com’egli prospettò — di elementi agricoli. Nelle campagne si trova il primo fermento, e quello principale e più attivo dell’elemento cristiano.

Cosi nel periodo, che prelude il Rinascimento, il contrasto fra città e campagna determina la spinta al movimento municipale. Nella campagna sorge il primo stimolo, nella campagna si forma la prima organizzazione del Comune stesso, alla campagna poi l’elemento cittadino deve chiedere il contributo fondamentale per il proprio sviluppo e per la propria forza.

Nelle rivoluzioni iniziate nel secolo XVIiII, sia quella francese, sia quella inglese, questa più calma, più tranquilla, ed anche più pacifica, ma altrettanto profonda e forse più ancora di quella francese, dal movimento agrario nasce la prima spinta.

Questa interpretazione del Gramsci trova piena conferma in studi recenti.

I lavori del Labrousse hanno messo in luce i fermenti e le energie operanti, che hanno alimentato la grande Rivoluzione francese, iniziata nella sua organica preparazione prima che nelle città, nelle campagne, tra quella proprietà agraria, la quale si trovava in uno stato di espansione, non di miseria.

Giustamente lo storico francese concludeva che la Rivoluzione in terra di Francia non era la rivoluzione della miseria, ma dell’agiatezza, del benessere; era la classe che già aveva creato questo nuovo stato, la quale si avvicinava alla conquista del potere e che erigeva il governo facendo leva sulle migliorate condizioni delle masse rurali.

Orbene, proprio il Gramsci ha intuito nettamente quale sia stato il valore dello spirito giacobino che, se fece appello all’intervento di masse di pezzenti le quali spianano la via al trionfo del ceto fondiario, in questo trovò la sua tipica espressione ed efficienza.

II giacobino è un cittadino, non un proletario, e come cittadino legato all’interesse agrario per il successo della causa dell’economia rurale. Il proletario, che scende in piazza, è 1 ausiliario di una causa altrui, comeRoberto Cessi

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si ricava dallo studio del Lefèvre, senza alcun interesse personale se non riflesso. Il governo del Direttorio non altro fu che la consacrazione dei diritti della classe agraria, che aveva conquistato il potere.

Altrettanto si può ripetere della rivoluzione italiana, in tono minore, s’intende, perché le condizioni economiche e le condizioni strutturali della vita italiana erano profondamente diverse. Mentre nelle altre nazioni l’impulso rivoluzionario aveva potuto condurre anticipatamente alla formazione di una unità territoriale e politica reale e sostanziale, in Italia la unificazione si attuò tardivamente e con caratteri formali.

Il Gramsci, di questi risultati e di questo stato — dirò anomalo —■ rispetto alle grandi potenze vicine, ha dato una interpretazione che a mio avviso credo risponda a verità. Egli ragiona: in sostanza l'Italia è stata fatta intorno a un piccolo statarello, al Piemonte, per una serie di aggregazioni operate traverso un processo dii sovrapposizione di una parte alle altre membra. Donde dalla esteriore unificazione è effettivamente risultata la dicotomia fra l’Italia superiore accentratrice e l’Italia meridionale, aggregata.

Un noto conservatore del tempo non andava molto lontano da questo apprezzamento e, in un momento di grande sincerità per difendere se stesso e la sua politica estera, nel 1877 — mi riferisco al Visconti Venosta già ministro degli esteri — alla censura rivoltagli alla Camera di mancata tutela nel concerto internazionale degli interessi dello Stato italiano rispondeva in sua difesa: «Ma non sapete come è stata fatta l’Italia? L’Italia è stata fatta soltanto con l’aggregazione di pezzi diversi per la compiacenza di Europa e per la volontà soltanto di un piccolo gruppo».

Gramsci, però, a questa spiegazione di carattere politico piuttosto esteriore dà un fondamento non illegittimo. Egli rilevava che nell’Italia superiore aveva trovato propizio terreno un’attività industriale, che era mancata o mancava nell’Italia meridionale. Da questo maturare di strutture economico-sociali scaturivano lo sdoppiamento politico e la sostanziale antitesi fra l’Italia settentrionale e l’Italia meridionale, cioè fra una società che è costretta a vivere di una economia agraria piuttosto povera, e una ricca e potente organizzazione industriale dell’Italia settentrionale.

In questo antagonismo, in questo contrasto, in questo difetto il Gramsci giustamente intravvedeva il riflesso della mancata unità sostan
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Le relazioni

ziale in dipendenza di una mancata rivoluzione rinnovatrice, suffragata dal concorso di grandi masse, soprattutto contadine, arenate invece in una rivoluzione conservatrice.

Gramsci da queste considerazioni cerca di trarre anche una previsione e si domanda se sia possibile in Italia una rivoluzione in applicazione di quella dottrina che insegna che la storia non è soltanto accertamento del passato e attuazione del presente, ma anche previsione del futuro. È possibile una rivoluzione in Italia? — egli si domanda e risponde in una forma affermativa a condizione che essa trovi il collegamento del processo operaio con la « liberazione dell’elemento contadino ».

Egli era fermamente convinto che la città potesse essere un buon focolaio di attività rivoluzionaria, che la città potesse anche fornire l’avvio ad un movimento di riscossa, ma questo non potesse solidificarsi mai,, né avere solida base, né raggiungere un adeguato grado di stabilità nella vita se non trovasse valido appoggio nella collaborazione organica dell’elemento sostanziale costituito dall’elemento contadino e dal proletario della campagna, base fondamentale di una nuova società.

Il proletario della campagna nutre ed alimenta non soltanto materialmente, ma anche spiritualmente, gli stimoli della vita politica e morale della citeà. È vecchia storia, amche se misconosciuta e ignorata, die la campagna nutre la città.
 


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  • Primo convegno Internazionale di Studi Gramsciani tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958
 
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