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tipologia: Analitici; Id: 1472531


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Tipologia Periodico
Titolo Natalia Ginzburg, Le piccole virtù
Responsabilità
Ginzburg, Natalia+++
  • ente ; ente
  autore+++    
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Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
NUOVI ARGOMENTI
N. 46 Settembre - Ottobre 1960
LE PICCOLE VIRTU'
Per quanto riguarda l'educazione dei figli, penso che si debbano insegnar loro non le piccole virtù, ma le grandi. Non il risparmio, ma la generosità e l'indifferenza al denaro; non la prudenza, ma il coraggio e lo sprezzo del pericolo; non l'astuzia, ma la schiettezza e l'amore alla verità; non la diplomazia, ma l'amore al prossimo e l'abnegazione; non il desiderio del successo, ma il desiderio di essere e di sapere.
Di solito invece facciamo il contrario: ci affrettiamo a insegnare il rispetto per le piccole virtù, fondando su di esse tutto il nostro sistema educativo. Scegliamo, in questo modo, la via più comoda: perché le piccole virtù non racchiudono alcun pericolo materiale, e anzi tengono al riparo dai colpi della fortuna. Trascuriamo d'insegnare le grandi virtù, e tuttavia le amiamo, e vorremmo che i nostri figli le avessero: ma nutriamo fiducia che scaturiscano spontaneamente nel loro animo, un giorno avvenire, ritenendole di natura istintiva, mentre le altre, le piccole, ci sembrano il frutto d'una riflessione e di un calcolo e perciò noi pensiamo che debbano assolutamente essere insegnate.
In realtà la differenza é solo apparente. Anche le piccole virtù provengono dal profondo del nostro istinto, da un istinto di difesa: ma in esse la ragione parla, sentenzia, disserta, brillante avvocato dell'incolumità personale. Le grandi virtù sgorgano da un istinto in cui la ragione non parla, un istinto a cui mi sarebbe difficile dare un nome. E il meglio di noi é in quel muto istinto: e non nel nostro istinto di difesa, che argomenta, sentenzia, disserta con la voce della ragione.
L'educazione non è che un certo rapporto che stabiliamo fra noi e i nostri figli, un certo clima in cui fioriscono i sentimenti, gli istinti, i pensieri. Ora io credo che un clima tutto ispirato al rispetto per le piccole virtù, maturi insensibilmente al cinismo, o alla paura
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di vivere. Le piccole virtù, in se stesse, non hanno nulla da fare col cinismo, o con la paura di vivere: ma tutte insieme, e senza le grandi, generano un'atmosfera che porta a quelle conseguenze. Non che le piccole virtù, in se stesse, siano spregevoli: ma il loro valore é di ordine complementare e non sostanziale; esse non possono stare da sole senza le altre, e sono, da sole senza le altre, per la natura umana un povero cibo. Il modo di esercitare le piccole virtù, in misura temperata e quando sia del tutto indispensabile, l'uomo può trovarlo intorno a sé e berlo nell'aria: perché le piccole virtù sono di un ordine assai comune e diffuso tra gli uomini. Ma le grandi virtù, quelle non si respirano nell'aria: e debbono essere la prima sostanza del nostro rapporto coi nostri figli, il primo fondamento dell'educazione. Inoltre, il grande può anche contenere il piccolo: ma il piccolo, per legge di natura, non può in alcun modo contenere il grande.
Non giova che cerchiamo di rammentare e imitare, nei rapporti coi nostri figli, i modi tenuti dai nostri genitori con noi. Quello della nostra giovinezza e infanzia non era un tempo di piccole virtù: era un tempo di forti e sonore parole, che però a poco a poco perdevano la loro sostanza. Ora é un tempo di parole sommesse e frigide, di sotto alle quali forse riaffiora il desiderio d'una riconquista. Ma é un desiderio timido, e pieno di paura del ridicolo. Così ci rivestiamo di prudenza e d'astuzia. I nostri genitori non conoscevano né prudenza, né astuzia; non conoscevano la paura del ridicolo; erano inconseguenti e incoerenti, ma non se ne accorgevano mai; si contraddicevano di continuo, ma non ammettevano mai d'essersi contraddetti. Usavano con noi un'autorità, che noi saremmo del tutto incapaci di usare. Forti dei loro prìncipi, che credevano indistruttibili, regnavano con potere assoluto su di noi. Ci assordavano di parole tuonanti; un dialogo non era possibile, perché appena sospettavano d'aver torto ci ordinavano di tacere; battevano il pugno sulla tavola, facendo tremare la stanza. Noi ricordiamo quel gesto, ma non sapremmo imitarlo. Possiamo infuriarci, urlare come lupi; ma in fondo alle nostre urla di lupo c'é un singhiozzo isterico, un rauco belato d'agnello.
Noi dunque non abbiamo autorità: non abbiamo armi. L'au-
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torità, in noi, sarebbe un'ipocrisia e una finzione. Siamo troppo consapevoli della nostra debolezza, troppo malinconici e malsicuri, troppo consci delle nostre inconseguenze e incoerenze, troppo consci dei nostri difetti: abbiamo guardato troppo in fondo dentro di noi e abbiamo visto in noi troppe cose. E poiché non abbiamo autorità, dobbiamo inventare un altro rapporto.
Oggi che il dialogo é diventato possibile fra genitori e figli — possibile benché sempre difficile, sempre carico di prevenzioni reciproche, di reciproche timidezze e inibizioni — é necessario che noi ci riveliamo, in questo dialogo, quali siamo: imperfetti; fiduciosi che loro, i nostri figli, non ci rassomiglino, che siano piú forti e migliori di noi.
Poiché siamo tutti assillati, in un modo o nell'altro, dal problema del danaro, la prima piccola virtù che ci viene in testa di insegnare ai nostri figli è il risparmio. Regaliamo loro un salvadanaio, spiegando com'è bello conservare il denaro invece di spenderlo, in modo che, dopo mesi, ce ne sia molto, un bel gruzzolo di denaro; e come sia bello resistere alla voglia di spendere, per poter comprare, alla fine, qualche oggetto di pregio. Ricordiamo d'aver ricevuto in regalo, nella nostra infanzia, un salvadanaio eguale; ma dimentichiamo che il denaro, e il gusto di conservarlo, era al tempo della nostra infanzia meno orribile e sudicio di oggi: perché il denaro, più passa il tempo, e più è sudicio. Il salvadanaio, dunque, è il nostro primo errore: abbiamo installato, nel nostro sistema educativo, una piccola virtù.
Quel salvadanaio di coccio dall'aspetto innocuo, a forma di pera o di mela, abita per mesi e mesi nella stanza dei nostri figli ed essi si abituano alla sua presenza; s'abituano al piacere di introdurre, giorno per giorno, il denaro nella fessura; s'abituano al denaro custodito là dentro, che là, nel segreto e nel buio, cresce come un seme nel grembo della terra; s'affezionano al denaro, dapprima con innocenza, come ci s'affeziona a tutte le cose che crescono grazie al nostro zelo, pianticelle o bestiole; e sempre vagheggiando quel costoso oggetto visto in una vetrina, e che sarà possibile comperare, come noi gli abbiamo detto, col denaro così risparmiato. Quando infine il salvadanaio viene infranto e il danaro speso, i ra-
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gazzi si sentono soli e delusi: non c'è più il denaro nella stanza, custodito nel ventre della mela, e non c'è più nemmeno la rossa mela: c'è invece un oggetto a lungo vagheggiato in vetrina, e di cui noi gli abbiamo vantato l'importanza e il pregio: ma che ora, nella stanza, sembra grigio e disadorno, appassito dopo tanta attesa e dopo tanto denaro. Di questa delusione i ragazzi non incolperanno il denaro, ma l'oggetto stesso: perché il denaro perduto conserva, nella memoria, tutte le sue lusinghiere promesse. I ragazzi chiederanno un nuovo salvadanaio e nuovo denaro da custodire; e rivolgeranno al denaro dei pensieri e un'attenzione che è male gli siano rivolti. Preferiamo il denaro alle cose. Non è male che abbiano sofferto una delusione; è male che si sentano soli senza la compagnia del denaro.
Non dovremmo insegnare a risparmiare: dovremmo abituare a spendere. Dovremo dare spesso ai ragazzi un po' di denaro, piccole somme senza importanza, sollecitandoli a spenderle subito e come gli piace, seguendo un momentaneo capriccio: i ragazzi compreranno qualche minutaglia, che dimenticheranno subito, come dimenticheranno subito il denaro speso così in fretta e senza riflettere, e al quale non si sono affezionati. Trovandosi fra le mani quelle minutaglie, che saranno subito rotte, i ragazzi rimarranno un po' delusi, ma dimenticheranno rapidamente sia quella delusione e le minutaglie, sia il denaro; anzi associeranno il denaro a qualcosa di momentaneo e di stupido; e penseranno che il denaro è stupido, come è giusto nell'infanzia pensare.
E giusto che i ragazzi vivano, nei primi anni della loro vita, ignorando che cos'è il denaro. A volte questo è impossibile, se siamo troppo poveri; e a volte è difficile, perché siamo troppo ricchi. Tuttavia quando siamo molto poveri, quando il denaro è strettamente legato a un fatto di sopravvivenza quotidiana, a una questione di vita o di morte, allora esso si traduce così immediatamente agli occhi d'un bambino in cibo, carbone o panni, che non ha il modo di guastargli lo spirito. Ma se siamo così così, né ricchi né poveri, non è difficile lasciare che un ragazzo viva, nell'infanzia, senza saper bene che cos'è il denaro e senza curarsene affatto. E tuttavia è necessario, non troppo presto e non troppo tardi, spez-
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zare questa ignoranza: e se abbiamo delle difficoltà economiche, è necessario che i nostri figli, non troppo presto e non troppo tardi, ne siano messi al corrente; così come è giusto che a un certo punto dividano con noi le nostre preoccupazioni, e le nostre ragioni di contentezza, e i nostri progetti, e tutto quanto concerne la vita famigliare. E abituandoli a considerare il denaro famigliare come una cosa che appartiene a noi e a loro in egual misura, e non a noi piuttosto che a loro, o al contrario, potremo anche invitarli ad essere sobri, a stare attenti al denaro che spendono: e in questo modo l'invito al risparmio non è piú rispetto per una piccola virtù, non è astratto invito a portare rispetto ad una cosa che non merita rispetto in se stessa, come il denaro; ma è un rièordare ai ragazzi che non è molto il denaro di casa, è un invito a sentirsi adulti e responsabili di fronte a una cosa che. appartiene a noi come a loro, una cosa non specialmente bella né amabile, ma seria, perché legata alle nostre necessità quotidiane. Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell'educazione sta nell'indovinare i tempi.
Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro. E non c'è dubbio che, nelle famiglie dove il denaro viene guadagnato e prontamente speso, dove scorre come limpida acqua di fonte, e, praticamente, non esiste come denaro, è mena difficile educare un ragazzo ad un simile equilibrio, a una simile libertà. Le cose diventano complicate là dove il denaro esiste ed esiste pesantemente, acqua plumbea e stagnante che esala fermenti e odori. Presto i ragazzi avvertono la presenza in famiglia di questo denaro, potenza nascosta, di cui non si parla mai in termini chiari ma alla quale i genitori alludono, discorrendo fra loro, con nomi complicati e misteriosi, con una plumbea fissità negli occhi, con una piega amara sulle labbra; denaro che non è semplicemente riposto nel cassetto dello scrittoio, ma grandeggia chissà dove, e potrebbe da un momento all'altro essere risucchiato dalla terra, sparire senza rimedio per sempre. inghiottendo la famiglia e la casa. In simili famiglie, i ragazzi vengono di continuo ammoniti a spendere con parsimonia, ogni giorno la madre li invita all'attenzione e al risparmio, nel consegnargli pochi spiccioli per il tram; e c'è nello sguar-
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do della madre quella plumbea preoccupazione, sulla sua fronte quella ruga profonda, che sempre vi appare quando entra in argomento il denaro; c'è l'oscuro spavento che tutto il denaro si dissolva nel nulla, e che anche quei pochi spiccioli possano significare le prime polveri d'un crollo subitaneo e mortale. I ragazzi di simili famiglie non di rado vanno a scuola con abiti consumati e scarpe logore e debbono sospirare a lungo, a volte invano, per una bicicletta o per una macchina fotografica, oggetti che alcuni loro compagni certo piú poveri posseggono da tempo. E quando poi gli viene regalata la bicicletta che desiderano, il regalo é però accompagnato dalla severa raccomandazione di non sciupare, di non prestare a nessuno un oggetto così di lusso, e che é costato tanto denaro. I richiami all'economia, in casa, sono perenni e insistenti: c'è l'ordine di comprare i libri di scuola usati, i quaderni allo Standard. Questo avviene in parte perché i ricchi spesso sono avari, e perché si credono poveri; ma soprattutto perché le madri, nelle famiglie ricche, piú o meno inconsapevolmente, hanno timore delle conseguenze del denaro e cercano di proteggerne i figli foggiandogli attorno una finzione di abitudini semplici, perfino avvezzandoli a piccole privazioni. Ma non c'é sbaglio peggiore che far vivere un ragazzo in una simile contraddizione: il denaro parla ovunque, nella casa, il suo linguaggio inconfondibile: é presente nelle porcellane, nelle mobilia, nella pesante argenteria, é presente nei comodi viaggi, nelle sfarzose villeggiature, nei saluti del portinaio, nelle cerimonie dei servi; è presente nei discorsi dei genitori, è la ruga sulla fronte del padre, la plumbea perplessità dello sguardo materno; il denaro ç ovunque, intoccabile perché forse spaventosamente fragile, è qualcosa su cui non é consentito scherzare, un funebre dio a cui non ci si può rivolgere che con un sussurro; e per onorare questo dio, per non molestare la sua luttuosa immobilità, bisogna portare il cappotto dell'anno prima diventato stretto, studiar la lezione su libri sfasciati e cenciosi, divertirsi con la bicicletta del contadino.
Se vogliamo educare i nostri figli, essendo ricchi, ad abitudini semplici, dev'essere però ben chiaro che tutto il denaro risparmiato usando simili abitudini viene speso senza parsimonia per altra
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gente. Simili abitudini hanno un senso soltanto se non sono avarizia o timore, ma libera scelta, in mezzo alla ricchezza, della semplicità. Un ragazzo di famiglia ricca non impara la sobrietà perché gli si fanno portare dei vestiti vecchi, o perché gli si fanno mangiare a merenda delle mele verdi, o perché lo si priva d'una bicicletta che desidera da lungo tempo: quella sobrietà in mezzo alla ricchezza é una pura finzione, e le finzioni sono sempre diseducative. In questo modo imparerà soltanto l'avarizia e la paura del denaro. Privandolo d'una bicicletta che desidera e che potremmo comprargli, non faremo che frustrarlo d'una cosa legittima per un ragazzo, non faremo che render meno lieta la sua infanzia in nome d'un principio astratto, senza giustificazione nella realtà. E tacitamente verremo ad affermare di fronte a lui che il denaro é migliore d'una bicicletta: e invece è necessario che lui sappia che una bicicletta é sempre meglio del denaro.
La vera difesa dalla ricchezza non é la paura della ricchezza, della sua fragilità e delle viziose conseguenze che può portare: la vera difesa dalla ricchezza é l'indifferenza al denaro. Per educare un ragazzo a questa indifferenza, non c'é altro modo che dargli del denaro da spendere, quando esiste denaro: perché impari a separarsene senza cruccio e senza rimpianto. Mi si osserverà che così un ragazzo s'abitua ad avere denaro da spendere, e non potrà più farne senza; se domani non sarà più ricco, come farà? Ma é più facile non aver denaro quando abbiamo imparato a spenderlo, quando abbiamo imparato come vola via in fretta fra le mani; é più facile fare a meno del denaro quando l'abbiamo ben conosciuto, che non quando gli abbiamo tributato, nell'infanzia, reverenza e paura, abbiamo sentito la sua presenza all'intorno e non ci é stato permesso di alzare gli occhi a guardarlo in viso.
Appena i nostri figli cominciano ad andare a scuola, noi subito gli promettiamo denaro in premio, se studieranno bene. E un errore. Noi così mescoliamo il denaro, che é una cosa senza nobiltà, ad una cosa meritevole e degna, quale é lo studio e il piacere della conoscenza. Il denaro che diamo ai nostri figli, dovrebbe esser dato senza motivo; dovrebbe esser dato con indifferenza, perché imparino a riceverlo con indifferenza; e dev'esser dato non
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perché imparino ad amarlo, ma perché imparino a non amarlo, a intenderne il vero carattere, e la sua impotenza ad appagare i desideri più veri, che sono quelli dello spirito. Elevando il denaro alla funzione di premio, di punto d'arrivo, di obbiettivo da raggiungere, noi gli diamo un posto, un'importanza, una nobiltà, che non deve avere agli occhi dei nostri figli. Affermiamo implicitamente il principio — falso — che il denaro è il coronamento d'una fatica e il suo termine ultimo. Invece il denaro dovrebbe essere concepito come il salario d'una fatica: non il suo termine ultimo, ma il suo salario, cioè il suo legittimo credito: ed è evidente che le fatiche scolastiche dei ragazzi non possono avere un salario. E un errore minore — ma è un errore — offrire denaro ai figli in cambio di piccoli servizi domestici, di piccole prestazioni. È un errore perché noi non siamo, per i nostri figli, dei datori di lavoro: il denaro familiare è altrettanto loro quanta nostro: quei piccoli servizi, quelle piccole prestazioni dovrebbero essere senza compenso, volontaria collaborazione alla vita familiare. E in genere, credo si debba andare molto cauti nel promettere e somministrare premi e punizioni. Perché la vita raramente avrà premi e punizioni: di solito i sacrifici non hanno alcun premio, e sovente le cattive azioni non sono punite, ma anzi a volte lautamente retribuite in successo e denaro. Perciò è meglio che i nostri figli sappiano fin dall'infanzia, che il bene non riceve ricompensa, e il male non riceve castigo: e a questo non è possibile dare nessuna logica spiegazione.
Al rendimento scolastico dei nostri figli siamo soliti dare una importanza che è_ del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la barriera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta una offesa. Allora i nostri figli, tediati, s'allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle
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loro proteste contra i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d'un'ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la prima battaglia da affrontare da solo, senza di noi; fin dal principio dovrebbe esser chiaro che quello é un suo campo di battaglia, dove noi non possiamo dargli che un soccorso del tutto occasionale e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, é necessario lasciargli intendere che non c'è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d'essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d'ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. E' falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d'esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi é puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi nell'orgoglio, frustrati d'una soddisfazione. Se il meglio del loro ingegno non hanno l'aria di volerlo spendere per ora in nulla, e passano le giornate al tavolino masticando una penna, neppure in tal caso abbiamo il diritto di sgridarli molto: chissà, forse quello che a noi sembra ozio é in realtà fantasticheria e riflessione, che, domani, daranno frutti. Se il meglio delle loro energie e del loro ingegno sembra che lo sprechino, buttati in fondo a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati su un prato a giocare a foot-ball, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell'energia e dell'ingegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell'insuc-
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cesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidirne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo là per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse é possibile sceglierne uno di cui giovarsi domani.
Quello che deve starci a cuore, nell'educazione, è che nei nostri figli non venga mai meno l'amore alla vita. Esso può prendere diverse forme, e a volte un ragazzo svogliato, solitario e schivo non é senza amore per la vita, né oppresso dalla paura di vivere, ma semplicemente in stato di attesa, intento a preparare se stesso alla propria vocazione. E che cos'è la vocazione d'un essere umano, se non la più alta espressione del suo amore per la vita? Noi dobbiamo allora aspettare, accanto a lui, che la sua vocazione si svegli, e prenda corpo. Il suo atteggiamento può assomigliare a quello della talpa o della lucertola, che se ne sta immobile, fingendosi morta: ma in realtà fiuta e spia la traccia dell'insetto, sul quale si getterà con un balzo. Accanto a lui, ma in silenzio e un poco in disparte, noi dobbiamo aspettare lo scatto del suo spirito. Non dobbiamo pretendere nulla: non dobbiamo chiedere o sperare che sia un genio, un artista, un eroe o un santo; eppure dobbiamo essere disposti a tutto; la nostra attesa e la nostra pazienza deve contenere la possibilità del più alto e del più modesto destino.
Una vocazione, una passione ardente ed esclusiva per qualcosa che non abbia nulla da vedere col denaro, la consapevolezza di poter fare una cosa meglio degli altri, e amare questa cosa al di sopra di tutto, é la sola e unica possibilità, per un ragazzo ricco, di non essere per nulla condizionato dal denaro, di essere libero di fronte al denaro: di non sentire, fra gli altri, né l'orgoglio della ricchezza né la sua vergogna. Egli non s'accorgerà neppure degli abiti che porta, dei costumi che lo circondano, e domani sarà capace di qualunque privazione, perché l'unica fame e l'unica sete
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sarà in lui la sua passione stessa, che avrà divorato tutto quanto é futile e provvisorio, l'avrà spogliato di ogni abitudine o atteggiamento contratto nell'infanzia, e regnerà sola sul suo spirito. Una vocazione é l'unica vera salute e ricchezza dell'uomo.
Quali possibilità abbiamo noi di svegliare e stimolare, nei nostri figli, la nascita e lo sviluppo d'una vocazione ? Non ne abbiamo molte: e tuttavia ne abbiamo forse qualcuna. La nascita e lo sviluppo d'una vocazione richiede spazio: spazio e silenzio: il libero silenzio dello spazio. Il rapporto che intercorre fra noi e i nostri figli, dev'essere uno scambio vivo di pensieri e di sentimenti e tuttavia deve comprendere anche profonde zone di silenzio; dev'essere un rapporto intimo, e tuttavia non mescolarsi violentemente alla loro intimità; dev'essere un giusto equilibria fra silenzio e parole. Noi dobbiamo essere importanti, per i nostri figli, e tuttavia non troppo importanti: dobbiamo piacergli un poco, e tuttavia non piacergli troppo: perché non gli salti in testa di diventare identici a noi, di copiarci nel mestiere che facciamo, di cercare, nei compagni che si scelgono per la vita, la nostra immagine. Noi dobbiamo essere, con loro, in un rapporto d'amicizia: eppure non dobbiamo essere troppo i loro amici, perché non gli diventi difficile avere dei veri amici, a cui possano dire cose che tacciono con noi. La loro ricerca d'amici, la loro vita amorosa, la loro vita religiosa, la loro ricerca d'una vocazione, é necessario che siano cinte di silenzio e d'ombra, che si svolgano in disparte da noi. Mi si dirà che allora la nostra intimità coi nostri figli si riduce a ben poca cosa. Ma nei nostri rapporti con loro, dev'essere contenuto tutto questo per sommi capi, e la vita religiosa, e la vita dell'intelligenza, e la vita affettiva, e il giudizio sugli esseri umani; noi dobbiamo essere, per loro, un semplice punto di partenza, offrirgli il trampolino da cui spiccheranno il salto. E dobbiamo essere là per soccorso, se un soccorso sia necessario; essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere come sappiamo ad ogni interrogazione possibile, ad ogni richiesta.
E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l'abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a ser-
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villa con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell'amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l'abbiamo, o se l'abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si é installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco d'albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi é mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell'ombra e dello spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio d'un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l'amore alla vita genera amore alla vita.
NATALIA GINZBURG
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO
Non è che stessi male in casa mia con mia madre, fino a quattro mesi fa, quando ho dovuto andarmene. Spesso, nel piccolo appartamento di via Lanciani dove adesso vivo solo, la nostalgia mi prende; e insieme a mia madre e alla casa mi torna in mente anche mio padre, che pure é morto tanti anni fa. E l'immagine di lui che mi ritorna é sempre la stessa, e mi porta di tanto indietro nel.tempo: é mio padre che stappa champagne e brinda con gli occhi pieni di lacrime quando io ho appena vinto il concorso per la polizia. (Lui é seduto accanto a me sul divano del salotto, ha riempito le coppe, piange e mi stringe un poco il collo; mia madre è seduta in un angolo, taciturna, e mi guarda; Giuseppina, che si è tolta il grembiule e la crestina, è in piedi, é. commossa e non riesce a bere).
Tutto procedeva tranquillamente in casa con mia madre, fra i piatti succulenti che lei mi preparava e i romanzi gialli inglesi che mi compravo, le telefonate ai parenti del povero papà che avrebbero voluto abbracciarmi più spesso, e le serate che passavo nei cinema eleganti, gratis per i biglietti che mi mandavano.
Anche al commissariato dove lavoravo, che è lo stesso nel quale lavoro presentemente, mi trovavo bene; né mi mancavano le lodi dei superiori, i quali avevano capito che mi applicavo con diligenza e che non pensavo a granché d'altro. Qualche volta i sottufficiali zotici mi facevano arrabbiare, ma mi bastava fargli il viso duro per impaurirli: era brava gente.
Avrei potuto essere un uomo contento, se mia madre non avesse cominciato, ad un certo momento, a volermi forzare al matrimonio. E stata questa sua ostinazione a farmi uscire di casa.
Più generalmente, debbo dire che la mia situazione presente viene da questo: che mia madre, forse a ragione, non mi riteneva maturo per la vita. Appena mio padre era morto, nonostante io avessi trent'anni, ne aveva subito preso il posto; ma sostituendo alla fermezza ragionevole di lui una sorta di acredine perenne. Io la comprendevo. Sapevo che mi voleva molto bene, e pensavo che quella bruschezza fosse per lei stessa fastidiosa, ma le fosse indispensabile per rivalersi del suo sesso: al fine di condurre bene la famiglia e di sostenere con assiduità me, che aveva
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capito diverso dai miei coetanei, nervoso, bisognoso di cure. Inoltre, mi pareva che la indiscutibile devozione per lei non potesse andare disgiunta
dall'obbedienza integrale, dall'acquiescenza. Così, non ritenevo disdicevo-
le per la mia età comunicarle ogni mio movimento, gli orari del mio ritorno a casa, lo svolgimento del mio lavoro in ufficio; né, se uscivo dopo
cena, mi era gravosa l'immancabile istruttoria : « dove vai... con chi vai... ma se sei uscito ieri sera... chi svolge il tuo lavoro non può fare vita di mondo ».
Così per dieci anni. Quando poi ebbi toccato i quaranta, mia madre decise per me il matrimonio. Cominciò ad accennarvi vagamente; poi prese a portarmi esempi di amici cari che adesso godevano di figli,
di affetti. Finalmente, adottò una specie martellante di lamento: le restavano pochi anni di vita, ripeteva a non finire, e non sarebbe morta contenta a sapermi « solo come un cane ». Inoltre, si rifaceva in continuazione a parenti o conoscenti « finiti in mano alla serva », o a casi di scapoli in un modo o nell'altro caduti e svergognati; ricordandomi i miei anni, e rinfacciandomi il mio temperamento portato ai comodi, ai sentimenti domestici.
Io, su questo punto, anche se dolendomene, ero assolutamente deciso a non obbedirle. Non volevo cambiare bruscamente la mia vita e mettermi a vivere con una donna; né volevo rinunziare alle mie abitudini, belle o brutte che fossero. Per esempio io chiamavo sempre Giuseppina per farmi fare il caffè (non bevo e fumo raramente, il caffè é l'unica mia passione); e questo con la moglie, anche ad avere una cameriera efficiente quanto Giuseppina, non mi sarebbe stato possibile: mi sarei vergognato di farlo tanto spesso. E le stesse cure affettuose che mi venivano da mia madre, come le avrei sostituite? Non avrei potuto pretendere dalla moglie che la mattina mi riscaldasse il cerchio di legno della tazza. (Non é che fosse per me importante trovare il cerchio caldo anziché freddo, ma quell'azione di mia madre faceva parte della mia prima mattina). E poi portare- d'inverno le mutande lunghe di lana, con un freddo clemente come quello di Roma, è una cosa che a quarantadue anni, quando si é sani e robusti come me, non si può fare: qualsiasi ragazza avrebbe riso. Invece a casa mia questo era pacifico: una mattina dei primi di novembre Giuseppina diceva «fa freddo », ed io in camera trovavo la biancheria dell'inverno.
Così, vivevo nell'agitazione: sempre ansiosamente combattuto fra la propensione ad obbedire comunque a mia madre e il proposito fermissimo di salvare la mia vita. Tuttavia, quando mia madre intraprendeva i
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discorsi matrimoniali, riuscivo a districarmi senza contraddirla: col farli cadere con garbo, o col fingere un appuntamento imminente, o una telefonata irrimandabile.
Ma questa diplomazia non mi giovò: mia madre cominciò ad invitare a casa una ragazza ogni settimana.
- Si trattava di figlie di amici di famiglia, solitamente di origine meridionale. Erano quasi sempre brutte e senza vita, giacché mia madre aveva tagliato fuori tutte quelle che secondo lei s'erano buttate via. Alcune erano casalinghe protette con ostinazione, alcune altre studiavano all'università; ma la maggior parte era all'inizio di professioni liberali. Queste, si assomigliavano tutte. Se ne incontra sempre qualcuna, negli uffici statali e parastatali. Sono ragazze che appena toccano i vent'anni si mettono su un piede d'ambizione, forti della posizione del padre, che per solito é un alto funzionario o un magistrato. Sono costanti nell'attività e a loro modo battagliere, con cappotti colorati salgono scale di enti, nelle sale d'aspetto si agitano, si spingono nei corridoi in cerca di amici del padre. Hanno impulsi vitali scarsi, e un sesso debole ed evanescente, cui sempre antepongono il lavoro. Vi vedevo di comune con me l'amore della carriera, e ogni tanto vi scoprivo nel fondo la stessa rabbia, piccola ed isterica, che mi sale fino alla bocca quando in ufficio i sottufficiali mi fanno arrabbiare e vorrei spezzare.
La ragazza entrava verso le quattro, entrava subito in salotto e si metteva a parlare a bassa voce con mia madre. Io restavo nello studio, e mi pareva sempre di sentire, nelle parole che dal chiacchiericcio affannato mi arrivavano, una somiglianza fonetica col mio nome, o col mio titolo di « dottore », o con la mia qualifica di « commissario ». Appena Giuseppina aveva portato il té, mia madre mi chiamava e mi faceva sedere accanto alla ragazza. Poi finiva svelta la sua tazza e con un pretesto se ne andava.
Io cercavo argomenti; ma finivo sempre, balbettando un po', col parlare di cinematografo. La ragazza trinciava qualche giudizio su questa o quella attrice; poi passava a parlare del suo lavoro, o a farmi domande sul mio, eventualmente sugli omicidi che avessi risolto. Io dicevo che il mio é un mestieraccio, che dovevo sempre sporcarmi con la gentaccia, e che per di più guadagnavo poco. Poi, se mia madre non tornava presto in salotto, con un pretesto mi rifugiavo nella mia stanza; e in questo caso rivedevo la ragazza un attimo nell'ingresso, per salutarla quando se ne andava. Se invece mia madre tornava prima del tempo minimo che dovevo rispettare, mi toccava ballare. Perché mia madre mi diceva « met-
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ti un disco », e poi ordinava « suvvia, ballate ». Io ero impacciato, e spesso il mio corpo pesante sbagliava il ritmo; ma la ragazza m'incoraggiava. Qualche volta poggiava la sua guancia alla mia e mi si addossava. Mamma fingeva di non vedere.
La sera, poi, mi domandava le mie impressioni. Io tacevo, o rispondevo con rade parole, ad abbandonare l'argomento. Giuseppina origliava, nascosta dietro la porta.
In due anni saranno sfilate in casa mia trenta ragazze: alcune una sola volta, altre — quelle che mia madre riteneva le più idonee — più volte. Ma ad un certo punto la ribellione s'è fatta strada in me, e non sono riuscito a reprimerla: sicché vivevo nel timore continuo che la stizza crescente mi facesse esplodere contro mia madre. Il sangue, infatti, adesso mi affluiva copioso alla faccia ogni volta che lei al mattino entrava nella mia stanza, si sedeva sul mio letto e diceva: «Oggi viene a trovarci una ragazza simpaticissima, la figlia di... », e nominava un amico di mio padre. Io dicevo di non ricordarlo, e lei incalzava : « Ma se ti ha tenuto tante volte sulle ginocchia »; oppure: « Ma se ti ha fatto da padrino alla cresima ». Riuscivo a dire « non so... non mi ricordo », mi passavo le mani sulla faccia per calmarmi, poi la pregavo di andare di là e di lasciarmi alzare.
In un pomeriggio nel quale doveva esserci una di queste visite, sono uscito a bella posta un quarto d'ora prima dell'ora stabilita. Mia madre ha mandato Giuseppina a rincorrermi per le scale. Io al pianterreno, dov'ero frattanto arrivato, ho aperto il cancello dell'ascensore e ho infilato di forza Giuseppina nella cabina, senza dire una parola.
Poi un giorno mia madre me ne ha fatto una grossa. Forse vedendo in pericolo la sua autorità, o imminente la mia rivolta, ha fatto venire a Roma zio Alfonso.
Zio Alfonso, fratello di mio padre, vive a Napoli, é scapolo e lavora in un'industria farmaceutica. Passa come la persona più autorevole della famiglia, certo per l'aspetto serio, ma soprattutto perché la sua passione é l'araldica (ha fatto tante ricerche sulla nostra famiglia e ne parla sempre). E affabile e misurato, ma confida troppo spesso ai parenti il suo pentimento di non essersi sposato.
E entrato nella mia stanza con un sorriso commosso e mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che era venuto a Roma per alcune ricerche araldiche da compiere in Vaticano: si trattava di giustificare un «attacco» che ad un suo amico stava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parlandomi del suo lavoro in fabbrica,
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poi mi ha detto che avrei fatto bene ad interessarmi un po' di più del mio nome. « Tu che hai tempo » ha sussurrato, « faresti bene ad insistere nel distinguerti partendo proprio dall'araldica ».
Io ho tenuto a precisargli che la mia libertà è una favola. Mi è venuto naturale di alzare la voce. « Siccome dopo la laurea sono stato quattro anni senza lavorare » gli ho detto sulla faccia, «tutti mi credono un perdigiorno, un dilettante che si diverte a fare lo spauracchio dei ladri. Invece passo almeno dieci ore del giorno in ufficio ».
« Statti queto, Nicò » ha detto lo zio. « Chi la mette in dubbio, la tua diligenza? ». Ha arrotondato le labbra, e mi ha guardato a lungo con una smorfia affettuosa.
Mi sono alzato e sono andato ad affacciarmi alla finestra. S'è alzato anche lui, e ha mosso qualche passo nella stanza. Quando mi sono voltato, m'è venuto incontro rapido, e mi ha messo le mani sulle spalle. « Ad ogni modo l'argomento che mi sta a cuore non è l'araldica » mi ha sorriso.
« Non capisco, spiegati ».
« Se non hai ancora trovato te stesso, ti posso aiutare ».
« Non capisco » ho ripetuto.
« Ti devi sposare » ha asserito.
«
E stata mamma che ti ha fatto venire a Roma » ho detto secco. Lui si è schermito, ma malamente.
« Sappi una volta per sempre » ho strillato andando verso la porta, « che non ho nessuna intenzione di sposarmi ».
« Aspetta un momento » ha detto lo zio scandendo le sillabe. « Te l'ho suggerito per il tuo bene... Io l'ho fatto lo sbaglio, e adesso lo pago... La serva mi ruba... I parenti mi danno fastidi... La sera torno a casa, e chi trovo? Nessuno... E che vuoi riparare, a sessantacinque anni? ».
« Ti ringrazio ma il matrimonio non fa per me, e so pensare da solo alla mia vita » l'ho interrotto.
« La fregatura tua è stata quella di essere figlio unico » ha ribattuto. « Questo è il fatto ».
Ci siamo messi a strillare tutti e due. Non ho un ricordo preciso perché ero in preda all'agitazione, ma devo essere stato violento e forse anche volgare, perché ad un certo momento lo zio ha detto « quand'è così... », ed è andato in cucina da mia madre. Io mi sono messo a leggere un romanzo giallo, ma una nebbia davanti agli occhi mi ha impedito di capire.
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Poco dopo zio Alfonso è tornato da me. « Ti saluto » ha detto. « Ti dico una cosa soltanto: non dimenticare il tuo nome ».
L'ho accompagnato alla porta. Nel corridoio ha battuto l'ombrello in terra ad ogni passo. Per salutarmi mi ha abbracciato, e mi ha baciato sulle guance. Poi quando è stato sul pianerottolo si è voltato, mi ha puntato l'ombrello sul petto, a farmi male un poco, e m'ha detto « addio, degenere ». Mi ha sorriso a lungo. È andato per le scale lentamente, scarno, asciutto, col soprabito nero a un petto e l'ombrello che teneva a met). dell'asta.
L'ho guardato con affetto. Richiudendo la porta mi sono tornati tanti pomeriggi di festa lontani: mi portavano in giro per le case dei parenti, zio Alfonso era quello che m'incuteva la soggezione maggiore, fumava sempre ed aveva tutte le dita marroni per la nicotina.
Ho respinto ricordo e dolcezza e sono andato in cucina per redarguire mia madre. L'ho trovata che preparava un dolce con Giuseppina.
« Così non può andare, mamma » ho detto. « Adesso non ti bastano più le ragazze, adesso mi cacci in casa anche i parenti».
Mia madre non mi ha risposto; ha tratto dalla tasca un fazzoletto e si è messa a piangere. Giuseppina è andata via.
Io sono uscito e sono andato in ufficio, e quella sera ho conosciuto Wanda.
La stava interrogando il maresciallo Porzio, intorno ad una rissa assai violenta che era scoppiata la mattina su un tram. Io ero entrato da lui perché mi pareva di aver dimenticato un'agenda sul suo tavolo, e il grande corpo di Wanda mi aveva subito impressionato. Lei aveva volto di scatto il capo verso di me, e mi aveva guardato con diffidenza.
Stava deponendo a favore del fidanzato. Nel tram un uomo l'aveva toccata, il fidanzato se n'era accorto e aveva reagito, altri erano intervenuti. Sono rimasto ad assistere all'interrogatorio.
Mentre rispondeva, Wanda si toccava le labbra, e ogni tanto si stirava la gonna sulle cosce. Quando Porzio nelle domande si è fatto incalzante, ha strillato: ha detto che quell'uomo l'aveva toccata e pizzicata, e che chiunque al posto del fidanzato avrebbe reagito, anche il maresciallo. Porzio non ha risposto. Lei si è calmata, ha cavato dalla borsa uno specchio, si è guardata e mi ha sorriso. Dopo di avere firmato, ha cavato di nuovo dalla borsa lo specchio, e anche un pettine.
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Porzio ha avuto un momento d'imbarazzo: non sapeva se poteva permetterle di rassettarsi in mia presenza. Mentre si pettinava, Wanda mi ha sorriso più largamente che prima, e mi ha mandato uno sguardo lungo con gli occhi neri bellissimi. Poi si é alzata e ha detto « la prima volta che capita in un commissariato ». In piedi era goffa, e parlava impacciata. Pareva vergognarsi delle forme abbondanti.
L'ho accompagnata alla porta. Salutandola le ho tenuto la mano a lungo, lei me l'ha stretta forte.
Dopo un minuto é tornata, più goffa. « Scusi » ha chiesto a me, « questo fatto lo saprà il principale? ».
« No » ho risposto. « Perché dovrebbe saperlo ? ».
« Sa » ha spiegato, « sono preoccupata... Oggi non è facile trovare lavoro ».
« Dove lavora ? » le ho chiesto.
« Al bar Corallo, in via Po... Faccio la cassiera ».
« Stia tranquilla, signorina » le ha sorriso il maresciallo.
Se n'é andata lanciandomi un altro sguardo lungo. Io sono andato a guardare il verbale e ho letto l'età : ventisei anni. Porzio mi ha detto : « Vedesse che tipo, il fidanzato... ».
La sera sono andato al bar Corallo. Appena mi ha visto Wanda mi ha sorriso con sicurezza, come se si aspettasse la mia visita. Subito ha chiamato il proprietario e me lo ha presentato, dicendogli con affettazione la mia professione. Il proprietario s'é inchinato, poi ci ha lasciato soli.
Wanda mi -ha chiesto se il fidanzato era in carcere. Le ho detto che credevo di si, a disposizione dell'autorità giudiziaria; ma che presto sarebbe stato rimesso in libertà. « Con questo freddo... » ha detto lei ridendo. Ha sbagliato due volte nel dare il resto agli avventori, e quando quelli le hanno fatto notare l'errare mi ha sorriso.
Sono tornato a trovarla per quattro cinque sere. Ridacchiava bisbigliandomi frasi che in qualche modo implicavano l'amore; oppure mi raccontava delle ore che a quella cassa non le passavano mai; o dei soldi dello stipendio che le finivano subito; o delle manovre dei tanti. uomini maturi che le ronzavano intorno, e l'aspettavano per la strada quando per il turno finiva a mezzanotte. Io annuivo, sorridevo, qualche volta replicavo; era contento che fosse lei a parlare.
Finalmente una sera mi ha detto : « Ancora non mi ha invitato a fare una passeggiata »._
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« Possiamo farla stasera » ho risposto. « A che ora finisce qui? ». « Alle nove ».
« Allora l'aspetto di fuori ».
Ho telefonato a mia madre e le ho detto che avrei cenato fuori con un collega di Bari. « Come si chiama?» ha detto mia madre. Io ho finto di aver capito se avevo le chiavi, e ho detto « sì, le ho in tasca, sta' tranquilla ». Poi ho interrotto la comunicazione.
Mi sono messo a passeggiare per via Po e ho sentito molto freddo. Alle nove Wanda è uscita. Siamo subito saliti in macchina e mi sono diretto verso Ponte Milvio. Passato il ponte ho imboccato la Cassia, poi ho preso una strada che mena alla Flaminia e mi sono fermato in un anfratto. Durante il tragitto siamo stati in silenzio.
Appena ho spento il motore Wanda mi ha abbracciato stretto e mi ha baciato. Io mi sono sentito avvampare in faccia, e ho cercato di ordinare le idee; ma Wanda mi ha costretto contro l'angolo dello schienale e mi ha baciato più forte, addossandomisi tutta e comprimendo con la sua faccia la mia nuca contro il finestrino. Allora l'ho respinta fino a ricollocarla al suo posto, l'ho baciata anch'io con forza e l'ho toccata un po' dappertutto.
Poco dopo siamo andati in una trattoria della Cassia. Mangiando di lena i ravioli grassi, o giocando con le posate, Wanda mi ha detto che si sentiva tanto sola: il padre era morto, la madre s'era messa a vivere con un rigattiere, e lei viveva in una stanza ammobiliata. Adesso poi aveva perso anche il fidanzato, per la rissa. Costui, che si chiamava Lucio, sosteneva che lei s'era accorta di quei toccamenti e aveva lasciato correre. « Ho capito che donna sei » le aveva detto appena erano scesi dal tram, poco prima che lo arrestassero; le aveva dato due schiaffi e le aveva strillato « non ti voglio più vedere ». « Io invece non me n'ero accorta » ha continuato Wanda; «credevo che quello non lo facesse apposta, il tram era pieno e stavamo stretti ». Lei gli voleva bene ma era stanca. Lui faceva una brutta vita e non dava affidamento: una condanna a tre mesi per un'altra rissa, una condanna a sei mesi per atti osceni in un giardino pubblico, un'assoluzione per insufficienza di prove in un processo per truffa. Faceva il commesso in un negozio di pezzi di ricambio per automobili.
L'ho interrotta per chiederle perché non avesse detto la veritá al maresciallo.
« Non riesco a volergli male dopo quattro anni, non me la sono sentita di andargli contro » ha risposto. Ha bevuto un po' di vino,
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e poi « ci credi che mi ha sverginata lui? » mi ha detto con malizia. Io ho notato che mi aveva dato del tu, mi sono tolto gli occhiali e le ho preso una mano. Non ho risposto alla domanda e ho chiamato il cameriere per pagare.
Siamo usciti e siamo saliti nella macchina. « Ti accompagno a casa » le ho detto.
Abitava in un brutto palazzo di via Famagosta. È scesa appena io mi sono fermato e senza salutarmi s'è avviata verso il portone. Dopo qualche passo è tornata indietro, mi ha dato la mano di sfuggita e se n'è andata senza parlare.
Nei giorni successivi sono andato a prenderla tutte le sere. Andavamo in strade solitarie, e restavamo nella macchina. Generalmente parlavamo poco. Mentre eravamo fermi una luce temperata passava per i finestrini, la pelle del viso di Wanda si faceva piú scura, mi prendevano desideri pazzi che ora non so dire, ma anche pensavo che mi sarebbe piaciuto proteggerla.
Una sera che il temporale batteva sul tetto della macchina, e Wanda era più che mai abbandonata per tutto il sedile, obliqua e distorta, il suo corpo da statua mi ha emozionato. Aveva la bocca piú rossa del solito, la lingua smagliante spesso si affacciava tra le labbra per inumidirle, i tratti del viso le si erano induriti. Le ho detto: « Scendiamo, allontaniamoci un po' ».
« Tu sei matto » ha ribattuto lei, fra incredula e canzonatoria. « Con questo tempo! ».
Siamo andati qualche volta a mangiare nelle trattorie fuori mano, una volta siamo andati a Rieti. Non siamo potuti andare nella sua stanza perché a Wanda non era permesso portarci uomini: mi aveva già detto, i primi giorni, che la padrona su quel punto era irremovibile. Io mi sforzavo di trovare soluzioni, ma le possibilità che mi passavano per la testa urtavano contro la necessità di salvaguardare la mia posizione: negli alberghi avrei dovuto esibire un documento, delle stanze che affittano clandestinamente diffidavo.
Sicché, un pomeriggio che mia madre doveva andare con Giuseppina a trovare una cugina ammalata, ho fatto venire Wanda a casa mia. Siamo andati subito nella mia stanza. Wanda diceva «ho freddo »; poi nel buttarmisi contro mi ha rotto una lente degli occhiali. Mi ha spaventato per la sua perizia. Ogni tanto sorrideva ironica, e s'era profumata male.
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Quando l'ho accompagnata alla porta le ho detto « ti voglio bene ». Lei mi ha dato un bacio lascivo, e ha detto « non. ci credo ».
Nei giorni che sono seguiti l'ho vista con regolarità, e negli stessi giorni ho ricevuto una delle solite visite. La ragazza era leggermente zoppa e assai loquace. (Mia madre la mattina mi aveva detto: « Ha avuto la paralisi infantile ed ha un piccolo difetto, ma è carina »).
Siccome cominciavo a sentire Wanda anche affettuosa, una mattina, facendo colazione, ho deciso di invitarla a casa, questa volta per offrirle una tazza di té in salotto con tutte le regole. Ho subito chiamato mia madre, e l'ho avvertita. Lei ha capito che si trattava di una donna che non mi sarebbe stato leggero presentarle, e anche che ne ero preso; mi ha detto: « Non disperderti, guarda che i cinquant'anni sono alle porte ».
Quando Wanda ha suonato_ Giuseppina é andata ad aprire, e l'ha fatta aspettare nell'ingresso. Io avevo il respiro affannato e tremavo, già da mezz'ora. Mia madre é andata subito, e mi ha gridato: « Nicola, c'è la tua camiciaia, o qualcosa del genere ». Wanda é scappata via. Io sono andato per le scale a chiamarla, ma lei non mi ha risposto. Allora per la prima volta nella mia vita ho ingiuriato mia madre. Le vene del collo mi si sono gonfiate, le parole grosse mi sono fluite in gran numero, anche una parola oscena mi é uscita. Mia madre ha pianto, e mi é sembrata pentita. Ma ad un tratto é corsa al telefono, e ha chiesto un'« urgentissima » con Napoli per parlare con zio Alfonso. Io le ho strappato di mano il microfono, e l'ho sbattuto in terra proprio mentre lo zio rispondeva; dal pavimento lo-sentivo che. strillava « pronto ». Poi ho pestato con rabbia il microfono che s'è frantumato, e la voce dello zio ha taciuto. Mia madre s'è messa a piangere più forte. Giuseppina é arrivata con la valeriana e s'è messa a piangere anche lei. Le ho strillato « vattene, serva scema », e lei è corsa di là. Poi mi sono messo a passeggiare per il corridoio. Frattanto s'era fatta notte, nessuno aveva acceso le luci, e il duplice pianto risuonava per tutta la casa. Ho pensato che la cosa migliore era uscire, prendere aria. Ma quando sono arrivato al portone ho capito che non avrei potuto continuare a vivere in quel modo. Sono tornato a casa. Mia madre era distesa su un divano. Le ho detto subito di far preparare da Giuseppina la mia roba, e che la sera stessa me ne sarei andato via. Mia madre non mi ha risposto, io sono uscito. Sapevo che quella sera Wanda cominciava a lavorare alle sei, e alle sei meno dieci ero davanti al bar.
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Poco dopo l'ho vista arrivare, col passo stanco e un vestito più corto. Non aveva l'aria di disappunto che mi aspettavo. Mi ha detto che era rimasta male, ma sorridendo, come se parlasse di un'altra. Le ho fatto le mie scuse. « Tu non c'entri » ha detto lei, « tua madre vuole che tu frequenti le signore... e poi deve avermi giudicata male -». Io le ho detto che mia madre era nevrotica, lei forse non ha capito la parola e mi ha detto « non parliamone più ». Poi é entrata nel bar.
Dall'ufficio ho telefonato ad un albergo secondario del centro ed ho prenotato una stanza. Poi ho mandato un agente a casa a prendere la mia roba. Gli ho ordinato di portarmi le valigie ad un bar prossimo all'ufficio, per evitare che mia madre potesse strappargli il mio indirizzo. Alle nove sono andato in albergo. Quella sera non ho avuto voglia di vedere Wanda, e sono andato al cinema.
Nei giorni successivi ho continuato a vederla, ma non ho potuto portarla in albergo: anche a voler vincere la prevenzione, avevo già mostrato la mia tessera di funzionario quando c'ero andato, giacché non avevo altri documenti addosso.
Wanda è venuta spesso a prendermi in ufficio, in quei giorni. Una volta l'ho trovata che chiacchierava con Porzio, nell'anticamera. Lei era addossata al muro, Porzio le stava assai vicino e le parlava in una maniera ad un tempo ammiccante e languida, da corridoio di treno. Appena mi ha visto si é fatto serio e si é scostato.
Quelle visite mi seccavano, perché non mi pareva conveniente che in un commissariato venissero donne come Wanda a prendere i funzionari. Sicché un giorno l'ho pregata di non venire più; lei mi ha sorriso e mi ha detto « va bene ». Allora ha cominciato ad aspettarmi in un bar vicino, e presto ha fatto amicizia con la cassiera. Quando io arrivavo mi pareva che parlassero di me, con una certa complicità. Una sera ho spiegato a Wanda la necessità di una riservatezza assoluta, in un rapporto come il nostro. « Non parlare mai dei fatti nostri » le ho detto.
Abbiamo continuato a girare con la macchina, a fermarci in posti solitari, ad amarci come potevamo. Intanto, l'albergo mi disturbava sempre di più. Mi pareva di vivere in uno stabilimento industriale, per l'andirivieni continuo, il personale numeroso davanti al quale dovevo passare, il rumore delle macchine che la mattina pulivano i pavimenti. In più, dovevo scegliere fra lo stare nella sala in mezzo agli altri, e il ridurmi nella mia camera, dove non potevo fare nient'altro che non fosse il dormire. Sicché una sera, lungo l'Appia Antica, ho detto a Wanda: « Adesso cerchiamo un appartamento e andiamo a vivere insieme, se ti va ». Wanda
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mi ha guardato incredula, ma vedendo che non scherzavo, si é prodotta in una pantomima gioiosa: ha battuto le mani, ha saltellato coi fianchi sul sedile, mi ha baciato con foga. Poi mi ha voluto aggiustare il nodo della cravatta.
Abbiamo visto insieme diversi appartamenti ammobiliati, ma presto ho capito che era impossibile fare quelle ricerche con Wanda. Per la verità alcuni di questi appartamenti ci erano mostrati da vecchie oscene, altri da gente svergognata; ma i modi di Wanda m'irritavano. Faceva gesti da strada contro i portieri non solleciti nell'aprirci l'ascensore, difendeva il mio denaro strillando, trattando i proprietari con acredine, come se fossero stati senz'altro dei ladri. Già entrando atteggiava la faccia a sopportazione, a disgusto.
Così ho deciso di girare da solo; e finalmente ho trovato questo appartamentino di via Lanciani, tranquillo e ridente, che è composto da una camera da letto matrimoniale e da una stanza per il soggiorno. Wanda ha disdetto subito la stanza di via Famagosta; e quando ha portato la sua roba nell'appartamento ha pianto. Ha spiegato che quella per lei era una gioia nuova. Quando poi le ho detto che avrebbe fatto la donna di casa, e che poteva lasciare il lavoro, il pianto le si è fatto dirotto. Mi ha abbracciato a lungo appoggiandomisi, mi ha bagnato tutta la faccia e mi ha appannato gli occhiali.
Mi sentivo adesso più libero e pieno, più affondato nella vita; mi pareva di esistere come una persona nuova. Quando la mattina mi alzavo Wanda dormiva ancora, Giuseppina era lontana ed io dovevo badarmi da me. Mi alzavo in una maniera svelta, quasi sportiva. Durante la toilette non pensavo; i particolari impiccianti del corso della vita non mi pungevano piú. Anche le parole che dicevo erano diverse, come se avessi buttato via tutto il vecchio repertorio. In ufficio ero allegro, e tutto dell'ambiente mi pareva accettabile: i mobili vecchi e scalfiti, la luce blanda e triste che filtrava attraverso i vetri opachi delle finestre, l'odore delle pratiche e dell'inchiostro per timbri. Analizzavo poco le cose, mettevo meno veleno nel comando, comprendevo di piú.
Ogni giorno, adesso, telefonavo a mia madre. Lei si limitava a chiedermi notizie sulla salute, e a domandarmi se il riscaldamento, dove mi trovavo, era sufficiente; al massimo accennava a qualche novità, che per solito riguardava i parenti: sua cugina s'era aggravata, zio Alfonso era stato fatto commendatore. Per la sicurezza che le traspariva dalla vo-
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ce, e per l'astensione da qualsiasi tentativo di carpirmi l'indirizzo, mi pareva che stesse ordendo fiduciosa una qualche insidia per riavermi. Ma non me ne curavo.
La sera, adesso, dall'ufficio uscivo un po' prima. A casa trovavo Wanda che mi aspettava ascoltando canzonette alla radio, tenuta a pieno volume. Mi cambiavo, poi uscivo con lei. Andavamo al cinema, o a passeggio per il centro, o a comprare biancheria. Al cinema. Wanda mi spingeva sempre verso il fondo della sala. Mi abbracciava, ma nei momenti salienti del film ritornava composta. Mentre camminavamo per le strade del centro mi tratteneva davanti alle vetrine dei negozi, era allegra e m'indicava ad alta voce gli oggetti esposti. Molti la notavano, e spesso mi arrivavano parole salaci.
Un giorno mi ha chiesto di portarla a ballare. Io le ho detto di no, ma lei mi ha pregato. Allora ho mandato un agente a casa a prendere un vestito scuro che avevano dimenticato di mettermi nelle valigie; e ho aspettato il primo giovedì, perché in questo giorno si ballava in un locale prossimo alla Stazione del quale conosco il proprietario, e — inoltre — perché non volevo andare nei locali la notte. Siamo entrati nel dancing presto, insieme a quelli dell'orchestra. Siccome Wanda ballava con movenze insistite, mi sono limitato ad un tango.
Com'era diversa dalle ragazze che mía madre mi cacciava in casa! Si dondolava sulle sedie, si grattava dappertutto senza pudore, al telefono strillava. Mangiando sbatteva le labbra; un giorno le ho detto « fa' piano, mi sembri un cane », e lei ha riso.
Una volta mi ha detto che era nata alla Garbatella. Quando aveva dodici anni lavava le teste da un parrucchiere del Corso, e aveva imparato a fatica le strade del centro, in ispecie i vicoli la confondevano. Mi ha detto anche che allora c'erano gli Americani, e il Corso sembrava un campo di battaglia. Una sera un negro le aveva tirato le trecce con forza, aveva aspettato che piangesse ed era scappato. Il padre e la madre in quel periodo non si curavano affatto di lei. Il padre era disoccupato, e vendeva pane e sigarette al mercato nero di Tor di Nona; la madre procurava ragazze ai soldati stranieri, e trafficava nelle cucine dei campi militari. Sicché lei la sera si comprava qualche cosa e mangiava sola. Poi cadeva sul letto, abbattuta dalla stanchezza. La mattina, quando si alzava, il padre e la madre erano usciti; qualche volta non li vedeva per una settimana.
Spesso ci aiutavamo a farci la doccia, e lei mi vezzeggiava. Dopo di avermi asciugato mi cospargeva tutto il corpo di talco; « come ai bam-
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bini » diceva. Quando non uscivamo, la sera mi sdraiavo sul divano del soggiorno, lei attendeva alla cucina o rassettava la stanza da letto (era molto meticolosa nel pulire e lucidare). Ogni tanto veniva a sedermi accanto, e qualche volta mi parlava di Lucio, il fidanzato (che era ormai a piede libero), del bene che gli aveva voluto. Aveva saputo dal garzone del bar Corallo che lui la cercava per tutta la città. « E un mascalzone » diceva, « ma mi fa pena ». Io le facevo domande: dove andavano a fare l'amore, con che frequenza lo facevano, se andavano spesso al cinema, e a ballare. Lei qualche volta mi rispondeva, per esempio che l'amore lo facevano in campagna la sera, se non faceva troppo freddo, oppure che ai films e al ballo Lucio preferiva le pizze; ma talaltra volta mi guardava storto, chiaramente indignata per quella curiosità. Che non era, malsana, giacché quelle domande erano mosse da un sentimento di affetto, ed erano dirette ad inquadrarla, a capirla meglio.
Una volta prese lei l'iniziativa: come per scolpare Lucio, mi disse che non era stato lui a cominciarla all'amore; la scusassi, la sera della nostra prima uscita mi aveva detto una bugia. Era stato invece un capitano francese, quando lei aveva tredici anni e Roma era ancora occupata. L'aveva fatta salire nella sua stanza del « Plaza », adducendo che la moglie aveva bisogno di uno shampoing. Ma la moglie non c'era, forse non esisteva, e lui le aveva strappato una gonna proprio bella, comprata il giorno prima.
La maniera tranquilla nella quale Wanda ricordava il suo passato, che mi si offriva esatto e senza veli, mi aiutava a svincolarmi dal passato mio. Ne risultava una grande libertà: sempre di più si dileguava la paura di vivere. Non avevo più il gusto affannato di scandagliare le miserie delle donne, come quando dovevo accontentarmi di conoscerle nell'intuizione, in virtù degl'interrogatorî fatti a quelle che incappavano nel mio mestiere; non era più necessario che io fantasticassi sulla rovina di donne e di uomini, e me ne alimentassi per rabbonirmi. Adesso i racconti sereni che Wanda mi faceva, di stenti e di brutture, mi cancellavano ogni residuo di una giovinezza solitaria, e mi rendevano l'ansia passata accettabile come una cronaca.
Inoltre, se è vero che a sentirmi senza mia madre, così solo con Wanda di fronte alla vita, provavo qualche brivido di disperazione, tuttavia la voce di Wanda, o il suo lavarsi veloce, o il suo farsi scattare addosso le giarrettiere, o il suo girare discinta nello stesso spazio dove an-
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ch'io vivevo, se appena vi badavo, mi ridavano subito la fede nella giornata, nella gente.
Ho continuato a giovarmi di questa vita; ed anche Wanda. Due mesi dopo l'inizio della convivenza, lei mi pareva parecchio mutata : aveva migliorato nell'educazione, nell'abbigliamento, s'era raffinata nel corpo, nel passo. Mi si sottometteva volentieri, e non c'erano screzi fra noi.
Ma abbiamo litigato una sera che Porzio è venuto a casa (avevo dovuto comunicare in ufficio il mio nuovo indirizzo). Era il giorno del mio compleanno, i miei dipendenti avevano fatto una colletta e mi avevano comprato un frullatore di frutta. Porzio era stato incaricato di consegnarmelo.
Quando ha bussato, sono andato io ad aprire la porta. Wanda era nell'ingresso. Porzio, che aveva in mano la grossa scatola che conteneva il frullatore, l'ha guardata fisso, e un grande stupore gli ha alterato la faccia. L'ho fatto entrare nel soggiorno, e sedere.
Mi ha detto subito che quelli del commissariato, in occasione del mio compleanno, s'erano permessi di offrirmi un modesto segno di stima; eccetera. Ha fatto per aprire lo scatolone; ma è venuta Wanda, ha salutato Porzio, che si è alzato e si è inchinato, e ha voluto aprirlo lei. « E proprio bello » ha detto appena ha estratto il frullatore dall'involucro. « Vado a vedere come sta in cucina ».
Porzio mi ha ripetuto che quel regalo era una schiocchezza, ma che partiva dal cuore, ed io dovevo badare al pensiero.
Wanda è tornata e si è seduta. Porzio ha preso a parlarmi di certi lavori murari che in ufficio ormai urgevano, ma io non l'ho seguito perché Wanda aveva intanto accavallato le gambe e le stava muovendo, in maniera che la veste le salisse. Mi sono messo gli occhiali per seguire bene la moina, e ho guardato Wanda malamente. Porzio, continuando a parlare con la voce fattaglisi adesso fessa, ha fatto una faccia tragica: cercava di non guardare le cosce di Wanda ma non ci riusciva. Io ho portato il discorso ad una conclusione, e l'ho congedato.
Subito dopo avergli chiuso dietro la porta, ho schiaffeggiato Wanda con violenza. Lei s'è riparata la faccia, e ha negato di aver voluto mostrare alcunché. « Troia » le ho detto. « Sarai sempre una troia ». Lei si è messa a piangere. Ho guardato le lacrime che le percorrevano la faccia, ho alzato di più la voce e l'ho ingiuriata ancora. Poi un pensiero preciso mi ha attraversato il cervello: « Col maresciallo... » ho detto, e le ho tirato un altro schiaffo. Lei ha minacciato di lasciarmi; ma poi s'è messa
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a piangere più forte, e mi ha chiesto perdono. Io ho taciuto. Lei mi è venuta vicino e mi ha voluto in fretta, sul divano.
Dopo l'amore mi ha supplicato di portarla fuori. « Andiamo al luna park, fammi questo favore... Ci sono tutti quei biglietti » ha piagnucolato. (Aveva visto il giorno prima dei buoni che mi avevano mandato in omaggio, per giostre ed autopiste).
Al luna park, ha voluto innanzi tutto sparare al tiro a segno. Poi sia- mo andati sulle montagne russe. Quando il vagoncino pareva che preci pitasse, rideva in una maniera brutale. Ha anche strillato, e le é uscita un po' di bava.
Qualche giorno dopo, entrando una sera nella stanza di Porzio, l'ho trovato che parlava al telefono a bassa voce, confidenziale e compreso. Appena ha visto che ero io ad essere entrato ha detto « adesso la lascio, scusi... ». Chi parlava con lui deve aver insistito per trattenerlo, perché Porzio ha detto .« abbia pazienza, signora, la devo proprio salutare ». Detto « signora » mi ha guardato con timore evidente, forse simultaneo al pentimento di aver pronunziato la parola superflua; poi rapido ha collocato il microfono al suo posto. Io dovevo parlargli dei lavori murari da farsi, ma il sospetto mi ha assalito, e gli ho detto « vieni da me più tardi ».
Sono tornato nella mia stanza. L'atteggiamento di Porzio mi faceva certo che chi parlava al telefono con lui era mia madre, o era Wanda. Ho fatto spazio sul tavolo perché le carte non mi distraessero.
Una tresca di Porzio con Wanda era nell'ordine del possibile, ma mi sembrava poco probabile: Porzio, se scoperto, si sarebbe rovinato; Wanda avrebbe perso cose preziose, difficili per lei a raggiungersi al di fuori di me. Era più probabile che ci fosse mia madre, all'altro capo del filo. Forse si era messa in contatto con Porzio, e da lui si aspettava notizie sul mio conto, suggerimenti sul da farsi. (Porzio conosceva bene il mondo, e tutti se ne avvedevano; tanto che talvolta mi pareva che il ruolo reciproco che svolgevamo nel nostro rapporto fosse casuale e non logico: in ispecie quando dalle sue parole traspariva una sorta di scienza sofferta ed incisiva, o quando con garbo mi moderava nell'intransigenza, e mi pareva assai più adulto di me, nonostante i soli cinque anni che fra noi passavano). Si, era più probabile che la donna fosse mia madre; per quanto, se c'erano contatti fra lei e Porzio, era strano che lui il giorno prima si fosse tanto meravigliato di vedere Wanda vivere con me: giacché mia madre sapeva ormai di questa convivenza. Certo, Wan-
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da aveva mostrato le cosce a Porzio con intenzione, quel giorno, e una telefonata non sarebbe stata poi tanto strana; ma era da stabilire, in questo caso, quale convenienza Wanda potesse trovare nella tresca: Porzio, sposato e con tre figli, non poteva offrirle niente; quindi bisognava ammettere che Wanda rischiasse tutto quanto per un capriccio. Ora, per quanto Porzio fosse prestante, aveva pur sempre quarantasette anni, e l'ipotesi si reggeva male. Perciò, forse era stata mia madre a parlare al telefono con lui. In quel caso Porzio restava una persona d'onore, ed io non avrei ecceduto da una sfuriata. Però — mi sono riscosso — al telefono poteva anche essere un'amica di Porzio, alla quale lui aveva dato del lei a causa del mio ingresso nella stanza; o addirittura una donna qualsiasi che gli avesse telefonato per motivi d'ufficio: una parente di un « fermato » per avere notizie, un'affittacamere o una negoziante per pratiche relative alla licenza. Ma in questo caso perché Porzio avrebbe salutato la donna tosi affrettatamente? Poteva chiudere la telefonata in un modo limpido! E se fosse stata proprio Wanda? Se si fosse camuffata bene agli occhi miei, mostrandomisi come una ragazza semplice, bisognosa d'affetto, e fosse invece una donnaccia sempre disponibile, pronta a rischiare tutto per un'ora d'amore con questo o con quello, con Porzio, per esempio, che in fondo avevo sorpreso una volta nel corridoio dell'ufficio che la avvinceva con le parole?
Non m'importava niente, a quel punto, che mia madre mi controllasse e tramasse con Porzio. Ma invece, ridisponendo le carte in mezzo al tavolo, volevo essere certo che fra Wanda e lui non corresse alcun rapporto; e che non si fossero mai parlati al telefono. Intanto, non avrei saputo bene quale condotta tenere il giorno che la tresca fosse stata certa; e poi, volevo disperatamente che tutto fosse liscio e che il mio dubbio fosse folle.
Mi sono detto « basta » nel momento stesso in cui mi sono accorto di non essere guarito. La vita con Wanda mi aveva ravvivato, ma era vernice debole, facile a scrostarsi: nel fondo ero rimasto com'ero quando vivevo con mia madre.
Era tardi, mi sono alzato e mi sono diretto verso la stanza di Por-zio. Nel corridoio badavo a non pestare le righe scure che dividevano le mattonelle. Ero nello scompiglio, ma nello stesso tempo legato ai fili come una marionetta; mi pareva che il baratro mi richiamasse. Non ho distinto due che incontrandomi si sono disgiunti per cedermi il passo, e mi hanno detto « ossequi, dottore ». Dalle stanze con la pörta aperta, insieme al rumore di macchine che battevano verbali, mi veniva un si-
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lenzio insostenibile. Se quella era la vita, quando sarei riuscito a starci dentro? Quando sarei stato anch'io come Porzio? A cinquant'anni? O, non piuttosto, mai?
Porzio mi ha informato con garbo e competenza, assai concreto nella definizione dei lavori, del tutto scevro dal timore di poco prima. Ed io sono riuscito a parlargli serenamente, reprimendo bene il fondo tempestoso; gli ho offerto una sigaretta, e forse ho ecceduto nella cordialità : come il maestro che a scuola interroga il ragazzo che giudica malvagio, e si sforza di essere imparziale, e magari gli alza il voto perché non si sospetti prevenzione.
In uno dei giorni successivi ho ricevuto in ufficio una lettera di mia madre. Riconoscendo sulla busta la sua calligrafia, ho pensato ad una possibile conferma dell'ipotesi del suo complotto con Porzio. Ma il tenore della lettera non era cos' liberatorio. Su un foglio abbondantemente bordato di nero (giacché frattanto sua cugina era morta) era scritto: «Quanti anni credi che possa vivere ancora tua madre? Lo sai come vivi? Pensa a tuo padre che é morto, e torna ». Non c'era firma.
Mi sono messo a pensare. Certo, regalando un po' di soldi a Wanda e tornando da mia madre, potevo liberarmi dall'impiccio che mi aveva fatto passare un'intera serata ad analizzare le mosse possibili di Porzio. Del resto, avevo ormai capito che quella specie di gioia continuata era stata da me decisa, piú che raggiunta. Era infatti bastata quella telefonata per farmi ricadere nel pozzo. Ma il ritorno avrebbe dovuto essere di specie morale: voglio dire che in questo caso avrei dovuto lasciar decidere a mia madre tutta la mia vita. Avrei dovuto scegliere una moglie fra le scimmie sue amiche, imbarcarmi in un viaggio di nozze. disporre un apparato domestico acconcio alla nuova condizione, sostenere lugubri visite domenicali, rispettare obblighi e doveri. Tanto valeva, allora, continuare a far perno sulla vita con Wanda, restare al cimento del concu-binaggio, per tentare ancora una qualche riscossa.
La sera, ho mostrato a Wanda la lettera. Lei, che stava lavando le mie camicie, s'é subito asciugata le mani e l'ha letta con molta attenzione. « Decidi tu » ha sorriso dopo. Io ho ostentato serenità, e ho ribattuto che non avevo niente da decidere: ero andato via di casa, e basta. Casomai avrei visto — ho aggiunto — di rimettermi con mia madre in rapporti normali. K Fai bene » ha detto lei, e mi ha restituito la lettera. Poi, fat-
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tasi improvvisamente seria : « Ma senti un po' » ha soggiunto, « perché me l'hai fatta leggere? ».
In una mattina molto limpida, della primavera che ormai era in fiore, non avevo voglia di lavorare, e soffrivo di dover stare in ufficio. M'ero affacciato alla finestra, e guardavo alcuni gatti che giocavano e rischiavano continuamente di essere investiti dalle automobili. Alle undici ha squillato il telefono. Era mia madre.
« Nicola, vai subito a casa tua » ha detto senza convenevoli.
« Perché? » ho risposto assai stupito.
« Vai a casa tua, subito... Avrai una sorpresa ».
« Che ne sai tu, di casa mia ? » ho strillato.
« Devi andare a casa tua, subito » ha ripetuto.
« Ma perché, si può sapere? ».
« Resta col dubbio, se vuoi » ha detto mia madre, ed ha interrotto la comunicazione.
Ho cercato di Porzio per dirgli che mi allontanavo, ma non l'ho trovato. Sono sceso precipitosamente, e sono salito su una camionetta. Ho detto all'agente di correre. Al portone di casa mia l'ho mandato via, e sono corso sù.
Ho aperto la porta di colpo, e ho sentito delle voci sommesse che venivano dal soggiorno. Vi sono entrato, e ho trovato Wanda ed un uomo seduti sul divano, che si abbracciavano. Lei era in sottoveste, lui in camicia. Con lo stesso colpo d'occhio ho visto sul divano anche il vestito di Wanda, a lato dell'uomo.
Wanda ha allibito, lui è balzato in piedi. lo ho cominciato a tremare anche alle labbra; non potevo spiccicare parola, ma sono riuscito a prendere l'uomo per la camicia, e l'ho scosso ripetutamente. Wanda s' alzata ed è scoppiata in pianto. Ho sbattuto l'uomo contro il muro, lo sopravanzavo di tutta la testa, lui aveva gli occhi languidi e non reagiva. II tonfo della sua testa che batteva contro la parete ha fatto disperato il pianto di Wanda. « È Lucio » è riuscita a dire. Poi s'è tirata i capelli. Ho lasciato la presa dell'uomo, ho tolto da una sedia la sua giacca e gliel'ho cacciata nelle mani. « Esci subito » ho balbettato. L'ho sospinto verso la porta e gli ho sferrato un calcio. Lui s'è voltato e m'ha guardato sott'occhi, per vedere se stessi per fargli più male. Aveva un profilo viscido, bruno. Sul pianerottolo gli ho dato un altro calcio, e una
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spinta. È stato per cadere a faccia avanti sugli scalini, ma ha ripreso equilibrio ed è scappato.
Sono tornato in casa avendo già deciso, nell'attimo in cui Lucio si riprendeva per fuggire, di spezzare a Wanda tutt'e due le braccia. Nel soggiorno una nebbia fitta mi ha offuscato la vista: vedevo Wanda come una lunga macchia scura. L'ho raggiunta. Si era rimessa il vestito e non piangeva piú. L'ho afferrata ai polsi. Lei s'è divincolata, s'è voltata e rapida ha aperto la finestra. Con uno strattone l'ho allontanata, e sono riuscito a chiudere la finestra prima che lei strillasse. Poi mi sono lasciato andare su una sedia. Wanda è corsa nel bagno, e vi si è chiusa. Con la voce roca per la gola secca le ho strillato: « Ti dò un quarto d'ora di tempo per farti la valigia e andartene ». Poi sono uscito.
Con un tassi ho raggiunto l'ufficio. Ne ho guardato le finestre, ma nessuno vi era affacciato. Ho preso la mia macchina e sono andato poco lontano, in una strada solitaria. Mi sono fermato all'ombra di un albero. Il cervello era come coperto dall'ovatta: la grande tensione partiva dal corpo, a lunghe linee, e si propagava per tutta la strada. La concatenazione possibile dei fatti mi pareva di averla nello stomaco. Mia madre aveva fatto sorvegliare Wanda e la casa, era chiaro. Era sapiente, lei. S'era informata su Wanda e aveva dedotto che non avrebbe potuto non tradirmi, e proprio in casa mia. E l'esecutore era stato certamente Porzio. Porzio conosceva Lucio, ed era bravo. Così, tutti mi avevano giocato poche settimane dopo la mia ribellione. La ribellione non mi era congeniale. Non aveva senso dire « mi sono mosso tardi ». Per le mie mosse doveva essere così: o troppo tardi o troppo presto, sempre. Ho sputato nella strada. Poi sono sceso dalla macchina, e ho raggiunto il bar più vicino. Ho bevuto un aperitivo, e subito dopo un cognac. Ho telefonato a casa mia, ma non mi ha risposto nessuno. Wanda aveva sloggiato, oppure preferiva non rispondere. Sono tornato alla macchina, e ho fatto un paio di giri in quei pressi. Se quelli della questura centrale fossero venuti a conoscenza del fatto, lo avrebbero deformato, ingigantito.
Sono andato in un restaurant di via Frattina. Alla frutta il cameriere, che mi conosceva, mi ha chiesto se potevo interessarmi presso la prefettura per il ricovero di un bambino suo nipote. Gli ho detto di si, e lui mi ha dato un foglio con gli estremi. Poi sono uscito, e sono andato in ufficio.
Non ho trovato nessuno. Mi sono addormentato al mio tavolo, con la testa fra le braccia.
Mi sono svegliato che erano le quattro e mezzo. Mi sono lavato, e
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mi sono sentito meglio. Ho vinto il fastidio di dovermi rimettere sulla scena della vicenda, e ho chiamato Porzio.
« Sei stato tu a sorvegliare la signorina » gli ho detto.
Vede, dottore.. ».
Ah, ci hai mandato un agente » ho strillato. « Mi hai sputtanato con tutto l'ufficio ».
« Per carità, dottore, ci sono stato io... Ho pensato che le ore buone per la signorina non erano tante: dalle dieci alle undici, a mezzogiorno al massimo.. È stato un gioco da ragazzi... Due volte ho aspettato a vuoto, e stamattina... ».
« E stamattina hai avvertito mia madre... Quando hai visto salire quel giovanotto, le hai telefonato ».
« Sissignore, secondo gli accordi ». S'è inchinato e ha fatto per andarsene.
« Aspetta un momento » l'ho fermato. « Lo sai com'è finita la cosa? ».
« Lo immagino... Ho visto prima uscire quel giovinastro, conciato male... Poi lei, e poi la signorina, che è salita su un tassi con la valigia ».
« E ti rendi conto di quello che hai fatto?... Quel giovanotto può andare a dire... ».
« Non si preoccupi... Quello lo schiaccio come un verme quando voglio... Dottore, mi prendo io tutta la responsabilità... Non volevo, ho resistito per tanti giorni... Poi sa com'è quando le vecchie piangono... Oh, scusi, volevo dire le signore anziane... Sua madre ha insistito, ha parlato con mia moglie... Ci ha invitati anche a pranzo, una volta... C'era un suo parente di Napoli.. ».
«Zio Alfonso » l'ho interrotto.
« Il nome non lo so... Era un signore distinto, magro; un fratello di suo padre, mi pare... Il piano l'ha fatto lui ».
« Quindi mia madre ti telefonava spesso, qui ».
« Sissignore ».
« E la signorina, non ti ha telefonato mai? ».
«No... Ma scusi, perché mi avrebbe dovuto telefonare? ».
È un mese che vivo solo. Non ne ho motivi fondati, giacché sono certo che se tornassi a casa mia madre verrebbe ormai a patti: la persuaderei a non ostinarsi a volermi vedere sposato. In più, questa condizione di scapolo solitario mi pare ingiustificata, per qualche verso eccessiva.
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Qualche volta mi prende un'ansia carezzevole di tornare da mia madre (che non mi ha più cercato), di ricomparire di sorpresa davanti a Giuseppina. Ma poi succede che debbo correre in ufficio, o che ho sonno, o che debbo lamentarmi con la serva perché le camicie sono stirate male.
Adesso, mi trattengo in ufficio più del solito e cerco di allargare i miei interessi, perché se ne giovi la carriera. Pare che nessuno sia venuto a conoscenza dei miei casi, e questo è assai importante. Con Porzio, corrono i rapporti di sempre; sebbene, una tal quale maggiore rigidità, da parte mia, stia agevolando lo svolgimento del lavoro.
La sera, vado spesso al cinema. Se non esco, mi faccio cocktails di frutta col frullatore, e leggo romanzi gialli. Ho anche comprato un fonografo, e alcuni dischi di canzoni. Ogni tanto li ascolto, mi prende uno struggimento breve e penso a Wanda, che fa all'amore chissà con chi.
RAFFAELE CRIVARO
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32298+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1960 Mese: 9 Giorno: 1
Numero 46
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 9 - 1 - numero 46


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