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tipologia: Analitici; Id: 1472514


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Tipologia Periodico
Titolo Pietro Citati, Ideologia e verità
Responsabilità
Citati, Pietro+++
  • ente ; ente
  autore+++    
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Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
IDEOLOGIA E VERI TA
« En cette grande ville où je suis, n'y ayant aucun homme, excepté moi, qui n'exerce la marchandise, chacun y est tellement attentif à son profit, que j'y pourrais demeurer toute ma vie sans être jamais vu de personne. Je vais me promener tous les jours parmi la confusion d'un grand peuple, avec autant de liberté et de repos que vous sauriez faire dans vos allées... Le bruit même de leur tracas n'interrompt pas plus mes rêveries que celui de quelque ruisseau... »
Descartes a Balzac, Amsterdam, 5 maggio 1631
O vous tous, oubliez une croyance sombre. Le splendide génie éternel n'a pas d'ombre. Moi, de votre désir soucieux, je veux voir,
Survivre pour l'honneur du tranquille désastre
Une agitation solemnelle par l'air
De paroles, pourpre ivre et grand calice clair...
MALLARMÉ, Toast funèbre
Ci sembra, ogni tanto, che il grande meccanismo della storia proceda a vuoto, con improvvisi e insensati sobbalzi. Invece di svolgersi secondo un ritmo sicuro e spontaneo, fedeli alla lenta progressione dei loro sviluppi, gli avvenimenti si susseguono senza ragione, come fossero improvvisamente impazziti. Ora vengono travolti da una nevrastenica eccitazione, che non permette né pazienza né soste; ora, invece, precipitano in una grigia e indifferente atonia che li eguaglia, li annulla, li spegne. Anche in chi li patisce, gli scatti dell'isterismo si alternano con gli abbandoni della noia. Il filo naturale e continuo dei fatti pare spezzato. La vita diviene ogni giorno piú confusa ed irriconoscibile, finché perdiamo persino la speranza di intendere e di renderci conto.
Ma, ad un tratto, il mondo é cambiato. Davanti ai nostri occhi si apre un nuovo capitolo di storia, nel quale ci muoviamo sicuri, con i piedi a terra, capaci di pensare e di agire, infine compresi in un quadro che svela in ogni parte la coerenza di una intenzione.
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E tutto quanto avevamo, sino allora, annotato senza capire, tutta la serie degli avvenimenti assurdi e casuali che ci sembrava di aver inutilmente vissuto, ci appare finalmente in una luce chiara e precisa. Comprendiamo a cose fatte, dopo che avevamo testarda- mente guardato, per anni, nella direzione sbagliata.
Ognuno, certamente, parla e scrive a suo nome. Ma non credo di essere stato il solo, fra gli italiani della mia generazione, ad aver vissuto come in un oscuro cunicolo gli anni apparentemente più grigi ed informi del dopoguerra: 1949, 1950, 1951 ...Trascorrevano nervosi ed eguali, smantellando a poco a poco le idee generali del tempo di guerra. Senza che nulla le sostituisse, crollavano religioni, miti, convinzioni politiche e letterarie. Ma la pura forza, la violenza egoistica ed istintiva, disponibile e vuota della vitalità, che di colpo essi lasciavano riaffiorare ed irrompere sulla scena del mondo, verso quali mete, verso quale avvenire si sarebbe diretta? Non capivo. Sembravano anni perduti, incolori; ed invece, in quegli anni che non amavamo e non riuscivamo ad intendere, in quei tempi indistinti e senza profilo, anche in Italia tramontava, per usare un'espressione comune, la civiltà borghese e si affermava quella di massa. L'Ottocento diventava, definitivamente, il Novecento.
Non voglio far concorrenza anzitempo ai manualisti futuri, stabilendo quando questo trapasso sarebbe avvenuto. Da un secolo a questa parte, gli ideologi, gli scrittori, gli uomini di cultura lo andavano immaginando, anche se di solito nella direzione sbagliata. La società intellettuale inglese ed americana inaugurò la nuova epoca con vent'anni di anticipo su di noi. E, in Italia, quelle che chiamiamo, con una mescolanza ormai convenzionale di nostalgia e di ironia, le generose illusioni del 1945, parevano annunciare, é vero, i tempi nuovi; ma non facevano invece che prolungare quelli antichi, esaltandone gli aspetti più generosamente utopistici. Il socialismo come ideale etico-politico, l'avanguardia come condizione permanente delle lettere: i miti che accomunarono i gruppetti di Politecnico sparsi in tutto il mondo, erano ancora i medesimi che avevano ispirato il diciannovesimo secolo.
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Successe, come ognuno sa, proprio il contrario di quello che i rivoluzionarii di allora avevano sperato. Con la morte di Stalin, quando il linguaggio popolano, cinico ed empirico di Kruscev sostituì quello sublime ed atroce dei Principii, anche il comunismo entrò visibilmente nell'epoca della prosa. L'utopia cedeva alla ordinaria amministrazione. Senza peccare in alcun modo di fantasia, Cesare Brandi proclamò, alcuni anni or sono, La fine dell'avanguardia. E, a conti fatti, chi potrebbe dargli torto? E quasi banale ripetere che anche le novità narrative pittoriche, teatrali, cinematografiche specialmente francesi annunciano questa morte, mentre sembrano mascherarla. Condotta alla perfezione liscia ed ambigua del prodotto artigianale, la grande avanguardia europea del nostro secolo trova, in questi tentativi, l'ultimo riassunto e riepilogo eclettico.
***
Prima ancora di nascere, la nuova epoca ha cominciato a proclamare il suo atto di nascita. L'età borghese ha atteso dei secoli prima di riconoscersi in un'immagine, accontentandosi di condurre a lungo una vita sotterranea e nascosta. Ma la nostra epoca si è già data un nome: civiltà di massa. Stipendia ogni giorno convegni, giornalisti, intellettuali, filosofi, letterati, che la studiino, la analizzino, la rappresentino. Riflette su di sé, inventa le formule e i modi per descriversi e criticarsi, con un tale entusiasmo giovanile, con una compiacenza ed una baldanza così amabili e frivole, come se avesse bisogno di dimostrare, innanzi tutto a se stessa, di essere nata. Quando parla di sé, é insieme querula e provocatoria, troppo umile e troppo superba. Non si riesce mai a capire se si ami troppo o troppo poco. La sua massima astuzia é, probabilmente, quella di trovarsi francamente ripulsiva. O invece non le importa di suscitare consensi: accetta con animo egualmente grato gli amici e i nemici, i critici e gli apologeti, purché ammettano la sua esistenza, parlino continuamente di lei, la interpretino senza posa, e soprattutto le forniscano un'ideologia.
Parrebbe di vivere in un'età animata da uno straordinario fervore di idee, da una intelligenza inventiva e creativa, se le
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stesse cose aspirano alla luce della ragione. Ed é vero, invece, il contrario. Codesto lusso ideologico, codesta ricchezza interpretativa trionfano proprio in un tempo che ignora la vera novità ed intensità del pensiero. I sistemi e le ideologie di oggi riprendono
e riutilizzano, con una eleganza sovente pari soltanto alla loro debolezza speculativa, i relitti della cultura di quarant'anni or sono. L'epoca scorsa ha provveduto a pensare anche per noi.
Un tempo ogni pensatore affondava, con una tranquilla e matura persuasione, una ingenuità assoluta e a suo modo paradossale, entro immensi blocchi di realtà e li elaborava, ne dava perfetti equivalenti in sicuri ed autonomi edifici logici che non supponevano nulla fuori di sé. Oggi sembra, invece, che le tendenze del pensiero si siano profondamente spostate. La nostra attenzione é ormai tutta volta dalla parte degli strumenti, dei lucidi
e affilati utensili della nostra mente, che si fondono fra loro, si sdoppiano, si interpretano a vicenda, danno luogo a nuove combinazioni. La intelligenza lavora su se stessa, ed elabora eternamente i propri fili, continua a controllare i propri strumenti su quelli di tutti i pensatori possibili. E per definizione una intelligenza collettiva ed allusiva. Sembra che guardare profondamente
e liberamente il mondo non le interessi; e non possa più nemmeno supporre che esiste un momenta, nella vita interna della mente, nel quale si ignora e si fa tabula rasa di qualsiasi idea precedente, attenti solo al ritmo pacato del proprio pensiero. Invece che speculativa, essa é naturalmente combinatoria. Non ha piú bisogno di quelli che un tempo chiamavamo filosofi; ma soltanto di interpreti del tempo, di saggisti, di chiosatori.
Codesta condizione può raggiungere, come nel caso di Theodor W. Adorno, uno dei cervelli più intelligenti e tentatori del nostro tempo, un fascino ambiguo e inquietante. Gelido fumista dell'ideologia, pasticheur virtuosissimo, stridula e acuto cancer- tista di idee, Adorno impasta insieme senza fine Lukàcs e Freud, Nietzsche e Mann, Benn e La Rochefoucauld, Hegel e la sociologia. Dell'intelligenza non conosce né l'amore né la pazienza, ma soltanto la meravigliosa e penetrante forza dell'arbitrio. Tra le sue mani il morto eclettismo diventa stile; e la combinazione stri-
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dente e grottesco pastiche intellettuale. Quello che lo salva alla fine, e lo rende di tanto superiore agli ideologhi del nostro tempo, non é la ricchezza delle idee; ma proprio la sua natura di artista, la estrema e disperatamente gelata violenza del suo temperamento, che raccoglie insieme tutte le possibili suggestioni intellettuali.
Cosa manca dunque agli intelligenti, acuti e brillanti pensatori ed ideologi del nostro tempo ? La loro lettura non riesce mai a soddisfarci: ne usciamo eccitati e irritati, piuttosto che meditativi e persuasi. Manca loro, dicevamo, la fiducia in se stessi, neI valore assoluto e creativo del proprio pensiero: la ricchezza nutriente della semplificazione: il coraggio delle posizioni individuali; o, che è lo stesso, la forza immaginosa della fantasia, quella dote continua di invenzione che permette ad un'idea di arricchire di sé gli uomini con una suggestione che non ha fine. Nessuno sembra più capace di costruire il proprio pensiero come un edificio, che possieda la stessa autosufficienza e la stessa logica interna del mondo reale, la stessa perfezione di una creazione poetica. Sono conclusioni troppo crudeli ? Ma sono gli stessi ideologi a proporle, nel momento che trovano una spiegazione per le loro deficienze intellettuali. Nemmeno il pensiero può fare a meno di isterilirsi — essi affermano — quando tutta la vita sta diventando, come oggi, schematica, astratta, ideologica. Ci avviamo, lentamente, a morire.
Queste conclusioni sono ormai divenute banali, tanto siamo abituati a vedercele presentare ogni giorno, con la più sicura convinzione e la più terribile tranquillità. Se fossero vere, non vedo per quale ragione dovremmo ancora sforzarci di vivere. Potremmo lasciare per sempre questa infernale e noiosa scena del mondo ad una umanità meno indifesa e nevrotica della nostra, che compaia sulla terra già protetta da qualsiasi ferita possibile, catafratta nella propria disumana efficienza, abituata a vivere e a prosperare nella morte come se fosse vita. Ma é possibile, io credo, avanzare una ipotesi meno spaventosa.
Nessuno poteva immaginare, cinquant'anni or sono, che nella civiltà di massa il pensiero avrebbe dimostrato di possedere una forza di penetrazione e di attuazione fino allora sconosciute. In-
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vece di perdersi davanti alla violenza meccanica dei fatti, come prevedevano gli spiriti idillici ed utopisti, ora li domina, invece, li attrae a sé, o si adatta, si piega, ma per trasformarli e modificarli continuamente. Fragile, un tempo, lento a trasmettersi e ad agire, oggi si risolve e si incarna nelle cose con una straordinaria ed eccessiva facilità, sino a costituire la crosta apparente del nostro tempo. Lui che si nascondeva nel profondo, ora risplende e luccica in superficie: agisce senza posa, sotto gli occhi insensibili di tutti. Intanto la realtà sembra avere perduto la testarda e cocciuta forza di resistenza che la distingueva: é divenuta infinitamente recettiva e plasmabile, cede e si trasforma docilmente sotto gli impulsi continui della mente organizzata.
Con la medesima facilità con cui le idee si incarnano nelle cose, i fatti non hanno nemmeno avuto il tempo di manifestarsi che già trovano la loro esatta trascrizione ideologica. Mai un'epoca é stata capace di rappresentarsi con una simile perfezione. Qualsiasi cosa accada: qualsiasi fenomeno appaia all'orizzonte — lo sport o la televisione, la letteratura commerciale o l'avanguardia — e sembri modificare la nostra vita associata, ecco che subito schiere di interpreti sono pronti a descriverli, a qualificarli, a storicizzarli. E di rado queste interpretazioni riescono arbitrarie, e mancano il segno. Sono, se mai, troppo vere, come se la stessa realtà quotidiana si offrisse spontaneamente in esame, e venisse fedelmente registrata e ricalcata nei grandi quaderni dell'ideologia. Questi neutri e fedeli negativi di idee, queste perfette e sbiadite decalcomanie non hanno mai, intorno, la ricca distanza, la generosa libertà e lo spazio inventivo che sono stati sempre necessarii alla vita del vero pensiero. Potrebbero pensarsi e svilupparsi da sé, senza conoscere autori. Non siamo ancora giunti a questa ultima perfezione: l'ideologia automatica, spontaneo e trasparente cellophane delle cose. Ma gli infiniti ideologi, dovunque diffusi, all'opera sui giornali, sulle riviste tecniche, negli uffici studio, che dedicano le loro fatiche a studiare i fenomeni del nostro tempo, sono già degli interpreti autorizzati e qualificati dalla stessa civiltà di massa. Non parlano mai a proprio
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nome. Sono la voce delle cose: le prime, superficiali lacrimati rerum.
Troppo plasmabili, troppo plastici, capaci come mai di adattarsi e di combinarsi a vicenda, la realtà ed il pensiero sembrano sul punto di incorrere nella sclerosi. Proprio questo mutamento ininterrotto, l'eccesso di storicità, la prontezza a diventare diversi, la continua successione di incarnazioni, la facilità apparente di capire e di ricevere, proprio questo vorticoso movimento si rapprende e si raggela, alla fine, nell'immutabile ripetizione. Continuamente sottoposte ad un bagno di ideologia, le case sono ricoperte di un lieve ma fermo sfrata trasparente di gela intellettuale. Intanto il pensiero si isterilisce, perde fantasia, naturalezza, rilievo. Tuttavia la sclerosi non è nella natura profonda della realtà quotidiana; ma, invece, nello sguardo che vede e non sa capire, nella proliferazione, nella sovrastruttura mostruosa di idee e di interpretazioni che si depositano sulla realtà. E, in una parola, nell'ideologia.
***
La fine dell'ideologia l'ha decretata la civiltà di massa, che sembrerebbe invece favorirla. Nel momenta che ne produce una quantità straordinaria, quasi fosse un oggetto di consumo, e se ne serve come armatura del suo evanescente ed irreale edificio, ecco che la distrugge come strumento di verità. A che scopo gli scrittori e gli intellettuali dovrebbero fornire altre dosi di cultura ideologica al nostro tempo, quando essa nasconde ed ottenebra, invece di illuminare? Si dice che, abbandonato a se stesso, senza questo continuo .controllo intellettuale e morale, il nostro tempo perderebbe ogni freno, precipitando nella più completa brutalità meccanica. Sa badare così bene, invece, alla propria coscienza. Conosce i pericoli e le crisi che lo minacciano. Si confessa continuamente, mosso a suo modo da un sincero amore di bene. E pronto, con la massima buona volontà, a correre ai ripari, a cercar garanzie, a trovar compensi ed equilibrii. Non c'è davvero — lo dico senza alcuna ironia — da preoccuparsi per la sua salute.
Potesse almeno servire a qualcuno questa nobile e continua
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azione di polizia pedagogica. Ma dopo mezzo secolo che gli intellettuali puntano gli occhi vigili ed acuti sulla realtà meccanica che avanza, e le disputano qualsiasi angolo o frammento di terreno, nemmeno un'anima, io credo, è stata strappata alle noiose tentazioni del mostro. E, come si poteva immaginare, é accaduto esattamente il contrario. Il mostro ha assorbito i suoi critici. Ossessionati, logorati, limitati dalla lotta che stavano conducendo, codesti scrittori ed intellettuali sono divenuti prigionieri del loro amato nemico, presi in quei perfetti ingranaggi, dominati e svuotati da quell'unico assillo che li ha tenuti in piedi tutta la vita. Vedono soltanto, ormai, il volto morto e sterile delle cose, e le formule con cui le hanno definite. Se la civiltà di massa, obbedendo alla sua natura fantomatica ed irreale, dovesse scomparire di colpo dalla scena del mondo, si troverebbero disoccupati, incapaci di pensare e di scrivere. Secondo una vecchia ma sempre vera osservazione, la critica alla civiltà di massa é la forma più velenosa che la civiltà di massa possa mai assumere, giacché il peccatore riesce, in questo modo, a peccare e insieme a soddisfare immediatamente gli assilli della coscienza.
C'é chi, invece, non si propane fini pedagogici; e non vuol salvare l'anima di nessuno, ma soltanto difendere la propria. Intenta all'uomo-massa, come Elémire Zolla nell'Eclissi dell'intellettuale, un processo meticoloso e feroce, condanna, disprezza, non concede requie, vive in un'aria continua da apocalissi. E chi vuol negare che « bisogna saper disprezzare per poter amare, rifiutare per potersi aprire, condannare per poter assolvere? ». Ma a colui che voglia comporre la vita in opere d'arte, la spada lucente dell'angelo della condanna e dell'estremo giudizio non potrà mai bastare. Non perché debba, necessariamente, amare. Ma perché il suo disprezzo ha bisogno di volti, di sentimenti, di gesti concreti: di realtà; non può nutrirsi di schemi o di verità generali, sotto pena di nutrirsi soltanto di sé, e di scivolare, a poco a poco, nell'atonia, nella nobile e tragica assenza di vita.
Per un vero scrittore gli uomini-massa non esistono (o, se mai, sono una sua invenzione poetica) il nostro tempo non c'é; la «civiltà di massa » é appena una etichetta superficiale; e dietro
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le formule elegantemente inventate dagli ideologi continuano a vivere degli uomini come sempre. Egli non pretende ingenuamente che il cuore umano non muti; ma sa che l'arte non muta, e si comporta come se nemmeno i sentimenti fossero cambiati. Pile) aver letto tutti i libri ed i saggi che siano mai stati scritti sul nostro tempo; ma nel momento che posa il suo occhio lento, meravigliosamente miope, tardo a capire le brillanti astrazioni degli ideologi, sui volti e i gesti degli uomini che lo circondano, trasforma quei miserabili tics, quei ritmi biascicati di canzonette, quel gergo, quelle espressioni, quelle convenzioni passivamente ereditate, in un fatto assolutamente individuale ed originale, senza confronti. Quello che l'ideologo trascrive come un documento, per ricavarne delle risultanze generali, resta, per lui, un frammento di vita carico di orribile verità. Si rifiuta di generalizzare, di paragonare, di immergere quelle frasi e quei gesti nel loro naturale contesto storico-sociale. Non ignora certo che l'uomo-massa sa di essere un uomo-massa, ha letto i saggi che lo riguardano, e fa il possibile per conformarsi alla immagine che gli ideologi hanno di lui. Ma un vero scrittore non prende mai in parola i suoi personaggi: soltanto lui conosce, sino in fondo, tutta la verità. Sotto il suo sguardo miope, tra le sue mani altrimenti pazienti, calme e profonde, anche quelle persone che sembravano più convenzionali ritornano piene di novità e di mistero.
Non ci vuole nessuna fatica a ritrovare sul volto del portiere, del vicino di casa, della persona che incontriamo in tram, del noto critico letterario, dell'illustre chirurgo, del brillante ministro, i tratti ebeti e meccanici dell'uomo-massa. E un esercizio troppo facile: che qualsiasi uomo-massa sa fare. E molto più difficile riuscire a comprendere, invece, che di uomini-massa non ne esiste nemmeno uno. Solamente un grande scrittore racchiude in sé tanto coraggio, una tale fantasia e ricchezza vitale. una così enorme comprensione, un disprezzo e un dominio di sé così assoluti, da poter ricominciare ogni mattina quest'esercizio di ironica ed ascetica finzione. Il grande scrittore é capace di sospendere, per un momento, il lavoro della propria intelligenza: si rifiuta di coordinare ed illuminare i rapporti che corrono fra le cose; per
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capire, rinuncia a capire. Si costringe a non guardare più lontano del proprio naso, tuffa i propri occhi da talpa nell'indifferente groviglio umano, rifiutando di andar oltre, di trarre conclusioni, di affermare verità. Seconda lo spirito di identificazione che lo spinge ad esplorare profondamente la realtà, non esistono mai due cose, al mondo, assolutamente simili fra di loro.
« Cosa è l'immaginazione — scriveva Berenson — se non il senso vivo e spontaneo di tutto se stesso al posto di un altro ? L'immaginazione non é altro che la facoltà di sentire in se stessi quello che l'oggetto rappresentato si suppone che debba sentire, non solo coscientemente, ma anche incoscientemente; fisicamente sentire come quello respira, come poggia sul terreno quando è in piedi, come pesa quando é seduto, come le sue braccia, le sue mani, i suoi piedi si rilassano. Tutto rientra nel mettiti tu al suo posto in ogni circostanza, in ogni incontro, in ogni esperienza ». Ma a forza di mettersi al posto degli altri: di pazientemente, oscuramente capire; di raccogliere minute verità particolari, le relazioni si stabiliscono, e una idea delle cose investe questi spessi e meticolosi sguardi da miope. Le conclusioni, le somme non saranno certo edificanti: anzi forse più tragiche e disperate; ma non convenzionali, ma non sclerotiche, ma non mortuarie, sempre invece concrete, aperte, drammatiche, contradditorie.
So bene quali obiezioni potranno rivolgermi i moralisti e gli ideologhi. Dietro questa rinuncia alla critica culturale, dietro questa progressione dal tempo all'eterno, dallo schema all'individuo, tornerebbe a nascondersi — essi pensano — la presunzione ottimistica che il mondo gode ottima salute, e che una nuova età dell'oro ci attende. Non credo di farmi eccessive illusioni sulla natura dell'uomo. Ma l'unico pessimismo serio é quello che non uccide mai la speranza, si conserva lo sguardo libero, rifiuta i paraventi utipici o catastrofici, e continua a dar credito, qualsiasi cosa accada, agli uomini e ai fatti. Ignoro quale volto stia per assumere il nostro futuro. Tuttavia, se il mondo futuro si é per la prima volta incarnato nelle nuove città americane o svedesi,. con le periferie disseminate di discrete e convenzionali villette col piccolo giardino erboso, gremite di elettrodomestici e di utilitarie,
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lo scrittore moderno potrà, io credo, accoglierlo con la medesima naturalezza che spingeva i contemporanei di Elisabetta o di Luigi XIV ad accettare i loro tempi. Purché la civiltà moderna resti un fatto: una pura realtà. Purché i giardini erbosi, gli elettrodomestici e le utilitarie non pretendano di possedere un significato, e si limitino ad essere quello che sono: frammenti, strumenti destituiti di valore. Gli scrittori potranno allora continuare ad aggirarsi, fra l'enorme frastuono delle nostre città, la dispersione, la confusione, la perdita di tempo e di calma, con la stessa libertà e la stessa quiete che accompagnavano il giovane Cartesio fra i grandi traffici e le strade popolose di Amsterdam secentesca.
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Soccorsa dalle sue agili, brillanti ed acute antenne interpretative, l'ideologia pretende di raccontarci la storia dei progressivi mutamenti, delle lente o violente alterazioni, che hanno trasformato l'uomo moderno in una creatura senza paragone possibile con quelle che lo precedettero sulla terra. Proviamoci per un momenta a darle ascolto. Proviamo ad accettarne le conclusioni, anche se ci troveremo naturalmente fra le mani un fantoccio simbolico, uno schema umano, invece che una figura viva, vera e reale.
La forza violenta e tumultuosa della vitalità ha abbandonato, secondo l'ideologia, l'uomo moderno. O, per meglio dire, non é più sua, non é più privata: si é trasferita, impersonalmente e astrattamente, nei grandi schemi collettivi, fra le folle delle officine, fra le masse organizzate dai partiti, nei riti sportivi, nelle manipolazioni della tecnica pubblicitaria. Il fatto individuale del vivere ha finito per perdere il suo contenuto quotidiano ed oggettivo: significa, ormai, essere, od esistere. Pensiamo invece al personaggio di un narratore dell'Ottocento, che viveva cosí oggettivamente e concretamente, da possedere la propria vita. Era, senza riserve, quello che faceva. Possedeva il proprio corpo, i propri sentimenti, i propri gesti, il cibo di cui si nutriva, i paesaggi o i quadri che ammirava, le parole che scriveva o stava pronunciando. Per i propri beni nutriva l'attaccamento incondizionato ed esclusivo che si prova
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per una realtà assolutamente personale. La casa, la terra, i marenghi d'oro non sono, per Goriot o il vecchio Karamazov, delle cose, ma dei brandelli dolorosi e sanguinanti di carne. In quegli oggetti essi hanno furiosamente trasferito, scaricato e consolidato la loro vitalità, trasformandoli in vivi prolungamenti di energia fisica. Essi diventano quello che possiedono. Ad ogni marengo che Goriot mette da parte, o che Karamazov dilapida, la loro figura psicologica cresce di volume, acquista statura e rilievo. Oggi, invece, tra il proprietario e la proprietà regna l'indifferenza, l'assoluta mancanza di rapporti. Le cose restano cose: pure funzioni, che a poco a poco si sono svuotate di ogni energia e di ogni significato personale. Libero da qualsiasi definizione o vincolo oggettivo, l'uomo moderno é finalmente diventato colui che non possiede.
Quando si trovavano di fronte a sentimenti ed istinti che i tc classici » mantenevano separati — i nervi, il sesso, la bile, la cupidigia, l'amore, l'orgoglio, l'isterica esibizione di sé —, Balzac o Dostojevskij spezzavano qualsiasi barriera divisoria, aggrovigliando ed impastando in un unico ed enorme intrico tutte le emozioni, affondando sino al collo in una materia così stupendamente infetta. Lo scrittore e il lettore di oggi, come l'uomo che ogni giorno incontriamo per la strada, sono stati tutti — anche senza saperlo — educati a questa scuola. Ma siamo così abituati, ormai, a vivere in un mondo mescolato, confuso ed impuro: siamo talmente allenati a considerare insieme fisiologia e psicologia, che codesto mostruoso groviglio di pensieri, sensazioni e sentimenti, dal quale i nostri padri erano ancora così cupamente affascinati, ha perso per noi gran parte del suo incanto. Sicuro ed imparte-cipe, il nostro sguardo analizza le zone di confine e distingue ogni volta in quale misura il corpo e lo spirito oscillino e si confondano nelle nostre emozioni.
Educato da Freud, abituato a sottomettere allo spettroscopio qualsiasi emozione, l'uomo moderno ha subito una curiosa esperienza. Dopo un secolo di psicologia « totale », gli capita ormai di seguire il comportamento del proprio corpo quasi con la medesima astratta sicurezza con la quale può tracciare linee o cerchi sulla lavagna. Il suo corpo non gli appartiene: é di nuovo fuori
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di lui. Come un tempo, la psicologia può tornare a liberarsi dalla fisiologia, che affida alle cure dello scienziato o del tecnico. E l'ambizione, l'orgoglio, la coscienza di sé, quei sentimenti attorno ai quali la moralistica classica edificò la sua nozione dell'anima? Basterebbe ritrascrivere i Caratteri di La Bruyère nel linguaggio del ventesimo secolo, per comprendere quanti sentimenti stiano perdendo la loro antica forza propulsiva. Possiamo dunque anticipare le ovvie conclusioni della nostra ipotetica inchiesta. La figura umana ha ristretto e concentrato i propri confini, perdendo molti dei suoi contenuti tradizionali. Ha, soprattutto, perduto in realtà.
Supponiamo per un momento che il nostro fantoccio umano sia davvero il rappresentante simbolico dei tempi moderni. E una ipotesi come un'altra. Immaginiamolo a confronto con i personaggi e le figure storiche che può incontrare nei romanzi di Balzac, di Dostojevskij, di Dickens, di Flaubert, o nelle memorie di Retz e di Saint-Simon. Ne avrà senza dubbio un'impressione di vitalità quasi intollerabile, come se quella gente avesse badato in primo luogo ad una auto-esibizione istrionica e cafonesca. Quei volti pletorici, sanguigni, quelle ambizioni sfrenate, cupe ed abbiette, quei sentimenti falsamente sublimi lo immergeranno in una atmosfera di incubo. Sarà certo la sua diminuita e impoverita umanità a non tollerare quelle eroiche dismisure. Ma sul nostro immaginario uomo moderno non vorrei incrudelire. Come non accorgersi, alla fine, quanto poetici possano essere anche i nostri civili e poco vitali contemporanei. Sensibili, modestamente infelici, grigi, intelligenti, delicati, ansiosi, essi hanno innanzitutto bisogno, per essere intesi, di una psicologia che sappia cogliere il valore delle nuances.
***
Con quali strumenti psicologici, con quali disposizioni analitiche ci avvicineremo al mitico abitante delle villette? La psicologia moderna ha asató l'inosabile, ha accolto tutti i contenuti, ha tentato .tutte le tecniche, e sembrerebbe che nessunsentimento debba mai riuscirle difficile o alieno. Quanto alle nuances, poi,
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è nata con loro; e ha talmente sacrificato al loro valore conoscitivo, da dissolversi nell'indistinto. Dopo due secoli di analisi infinitesimali, di furibonda investigazione attorno alle gradazioni e ai passaggi impercettibili, di scavi in zone fino allora proibite, il narratore moderno si trova immerso in una immensa ricchezza di reazioni psicologiche pure, in un infinito conglomerato di sfumature. Chi vorrebbe negarlo? Ma dimentichiamo di aggiungere che i creatori della psicologia moderna lavoravano d'après nature, descrivevano acutamente le sfumature, abbondavano nelle mezzetinte e nei mezzi-toni, nelle evanescenze e nell'indefinibile, soltanto, come avrebbe detto Van Gogh, per dipingere des fleurs trop grandes.
Alla psicologia gli inventori della psicologia moderna, gli autori di quelle farse dilatate e sublimi che si chiamano la Comédie Humaine e la Recherche, I Fratelli Karamazov e l'Ulysses e Der Mann ohne Eigenschaften, non ebbero mai alcuna intenzione di fermarsi. La consideravano appena un ingrediente di una tela che mirava ad abbracciare tutto l'universo, deformandolo e travolgendolo nelle più aggrovigliate contraddizioni grottesche. Mescolavano insieme Dio e l'inferno, l'eccelso e l'informe, impastando le più diverse note linguistiche usufruivano ad ogni passo dei salti di tono; si abbandonavano al lirismo per ricorrere subito dopo alle note più stridule dell'ironia e del falsetto; violavano tutte le leggi allora conosciute della forma. Ma al fondo della grottesca e romantica contraddizione essi scorgevano, in primo luogo, il sublime. Il loro genio mirava naturalmente all'eccesso, alla dismisura, si nutriva di enfasi, aspirava all'enorme. Ampliavano al massimo il loro quadro temporale, affrescando intere so-cietá: uscivano fuori dal tempo; inserivano nelle loro grandiose strutture brani stupendi di riflessione intelletuale; e gremivano le loro opere di sé, enfatizzando la propria presenza, sollecitandola continuamente con un istrionismo regale. In questa temperie anche i personaggi crescono a dismisura, assumendo delle proporzioni mai viste. Lentamente, assiduamente depositata, diffusa a tutti i livelli, sinuosa, capace di penetrare per tutti i pori, l'attenzione microscopica dá finalmente luogo ad una crescita macro-
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scopica delle figure. Nemmeno Don Chisciotte od Ulisse potrebbero contrastare con le enormi misure fisiche di Vautrin, di Di-mitrij Karamazov, di Charlus e del signor Bloom.
Non riesco ad immaginare uno scrittore di questa famiglia alle prese con le discrete ed eguali villette delle periferie moderne. La nostra vita susciterebbe, in lui, solamente gli astratti incantesimi della noia. La troverebbe artificiosamente limitata e potata agli estremi, senza contrasti, come se la natura avesse provato ad esercitare su se stessa una perfetta operazione classicistica. Incapace di trovar suggestioni nel suo ambiente naturale, si sentirebbe mancare il terreno sotto i piedi. È vero che, nel caso di quest'arte perennemente deformatrice, sarebbe ingenuo far questione di contenuti. La violenza trasfiguratrice della visione riesce, come si suole dire, ad investire e a far proprio qualsiasi contenuto od occasione incontri per la sua strada. Ma la realtà fuori di noi esiste, e influisce su ogni scrittore. L'ultimo grande erede di questa tradizione, Carlo Emilio Gadda, può scrivere il Pasticciaccio soltanto perché, figlio di una borghesia e di un Politecnico che non esistono più, di un ordine amato e temuto, si trova d'altra parte a disporre di un materiale umano arcaico, colorito e violento come quello del Palazzo dei Pescicani o degli Ori, a via Merulana. E Pasolini continua a cercare i suoi contenuti ai margini condannati dalla storia, rovesciando le lenti ossessive e meticolose del proprio cannocchiale sugli opposti idillii peccaminosi del Friuli e delle informi borgate romane.
La civilta del ventesimo secolo é tuttavia così livellata ed uniforme come pretende l'ideologia ? È proprio questa ipotesi che uno scrittore di temperamento grottesco od espressionistico non vorrà mai accettare. L'uomo delle villette, l'irreale e sensibile, grazioso e delicato possessore di elettrodomestici non é per lui che una ipotesi inesistente e soprattutto noiosa; o nasconde invece le più folli possibilità di ironiche contraddizioni. L'idea della realtà moderna alla quale egli obbedisce è, difatti, completamente diversa. Mai come oggi il mondo avrebbe esaltato l'antitesi, sottolineato gli estremi, enfatizzato i contrasti, proprio perché avvicina e confonde insieme costumi e gusti affatto dissimili, imponendo a tutti
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le medesime vesti. Che i ragazzacci di Pietralata indossino gli stessi blue-jeans degli amabili ragazzetti americani: che le stesse canzonette e i medesimi films trionfino a Londra e a Bagdad, mentre i cuori e le menti rimangono ancora talmente diversi — questa assurda e paradossale compresenza dovrà per forza suscitare le tensioni più violente, stridenti e grottesche. Viviamo in un mosaico, in un coacervo di sentimenti e di culture, nella mescolanza continua dei più estremi contrasti. Il barocco sembra la vocazione spontanea del nostro secolo. A codesta ipotesi affascinante e ricchissima andrebbero, se mi è lecito confessarlo, tutte le mie simpatie naturali.
Non so se queste contraddizioni rappresentino tuttavia qualcosa di più di un fiorito e spettacoloso caleidoscopio. La verità essenziale, il fuoco umano e doloroso non starà forse di là da queste apparenze, le quali intanto cadranno via via, mentre insieme ai blue-jeans anche i cuori e le menti diventano simili in tutto il mondo? E codesta ricchezza di contrasti superficiali non costituisce propriamente il regno prediletto dell'ideologia? È presumibile, difatti, che col passare degli anni la parte del falsetto, l'amore ironico ed acre per la contraddizione verrà sovente riservato, come già sta accadendo, agli scrittori più legati al costume e, in una pa- rola, alla letteratura di consumo.
Certo Vladimir Nabokov, e il suo romanzo Lolita, sembrerebbero star li a dimostrare proprio il contrario, che invece la civiltà delle villette a due piani, dei motels e dei campeggi, della psicanalisi e della letteratura cosmopolita, continua a provocare, in scrittori fumisti e poliglotti, egualmente devoti a Fiodor Do-stojevskij, a Marcel Proust e a James Joyce, le furie della deformazione grottesca. Ma è proprio vero? O invece il caso, sia pure straordinario, di Lolita svela con quale difficoltà uno scrittore grottesco utilizza ormai una materia che si va ogni giorno di più riducendo ed assimilando? Come tutti gli artisti della sua famiglia, anche Nabokov aveva bisogno di fleurs trop grandes; ma i suoi fiori enormi e viziosi dovette ricorrere, per trapiantarli e farli crescere, a un grosso trucco narrativo, inventando dal nulla un artificiale caso patologico. Studioso di letteratura francese, cinico e
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ironico, ma fisiologicamente normalissimo, il cittadino europeo Humbert Humbert fu costretto a diventare un maniaco sessuale; e una giovanissima, adorabilmente sfacciata e corrotta, volgare e scimmiesca donna americana si trasformò in una « ninfetta » dodicenne. Senza questa finta ossessione patologica, Nabokov non avrebbe potuto far ribollire ed esplodere senza fine la sua fantasia cupamente buffonesca. La sua stupenda storia d'amore sarebbe altrimenti rimasta senza spunto. Ma le droghe non sono permesse in letteratura. Nonostante tutto, Lolita é piuttosto un grande avvenimento letterario che un capolavoro. Provocato artificialmente, il grottesco rischia di rimanere ad ogni passo sospeso nel vuoto, senza materia, meravigliosamente trascritto e lavorato di seconda mano.
***
Continuiamo ad assumere per buono il figurino simbolico dell'uomo di oggi, che l'ideologia ha così brillantemente ritagliato e descritto. La gamma dei suoi sentimenti e delle sue emozioni é dunque divenuta più povera e più ristretta: intere zone del suo animo stanno cedendo ad una esperienza che si raccoglie, via via, attorno al proprio nucleo. Sembra che la stessa vita si sia assunta il compito a cui un tempo adempivano gli scrittori: lascia cadere tutti i sentimenti secondari, abolisce il corpo, le circostanze, i tempi, esige l'essenziale, illumina soltanto il nascosto centro del cuore. Ma la psicologia non ha bisogno, per svilupparsi e fiorire, di un campo vastissimo e contraddittorio di esperienze. Prima che Balzac affondasse la propria sonda a tutti i livelli della persona, e Dostojevskij raffigurasse gli sconvolgimenti dell'isterismo e della dispersione nervosa, i grandi poeti ed interpreti dell'animo umano sapevano concentrare il fuoco della propria attenzione su di un solo punto, trascurando ogni possibile e curiosa deviazione, ma illuminando di una luce spietata quell'unico centro sentimentale.
L'uomo moderno probabilmente richiede, per essere rappresentato, una attitudine psicologica infinitamente più antica di quella che ci ha suggerito il secolo scorso. Invece di sottolineare gli estremi, invece di tendere all'enorme o al violentemente realistico,
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l'artista moderno dovrà piuttosto disporre di quella magica intuizione, di quel tocco fuso e vellutato, di quella scienza sicura e spontanea delle sfumature alla quale i classici davano il nome di natura. I nostri paesaggi urbani e suburbani potranno sembrare, a qualcuno, senza cime e senza sorprese. Ma chi muova su quelle superfici uno sguardo acuto ed attento, robusto e discreto, scostando a poco a poco le apparenze, utilizzando volta a volta la loupe grandissante e la tenue ombreggiatura, alternando senza parere la pazienza inflessibile della esagerazione e la umana violenza della misura, tornerà a scoprire in quei paesaggi che crediamo monotoni la linea drammatica delle montagne, l'ombra profonda degli avvallamenti e delle depressioni, la traccia nascosta dei sentieri.
Con la stessa orribile e intricata profondità, le passioni di Fedra e di Berenice continuano a vivere, ancora oggi, persino nei cuori che sembrerebbero più grigi ed avviliti fra i detriti della realtà quotidiana. Forse l'abitante delle moderne villette di periferia : il fantoccio simbolico che abbiamo sin troppo evocato e dal quale finalmente ci congediamo, colui che non possiede né cose né corpo, ma soltanto il proprio cuore, sarebbe veramente dispiaciuto assai meno a Virgilio e a Racine, che a Balzac e a Dostojevskij.
Non vorrei indulgere a dei dubbii giochi di prestigio, tirando fuori di nascosto, sotto il logoro e banale mantello dell'« uomo moderno », i nobili fantasmi di Virgilio e di Racine. E tantomeno vorrei ripetere una nuova e noiosa professione di classicismo. Sarebbe del resto una inutile resurrezione, perché il classicismo moderno — se questa parola ha ancora un significato — esiste già ed è ben vivo, sotto le insegne di Flaubert e di Cechov. Non é davvero il caso di riscoprire la « attualità » della Education sentimentale o de Il duello. O di ricordare che non esiste, nella narrativa moderna, una tradizione più completa e conseguente di questa, che si svolge con la fedeltà e la perfezione di un teorema, quasi dovesse assumere una funzione di simbolo, pressapoco come la pittura filava imperterrita la sua parte, necessaria fino allo spavento, da Cézanne a Mondrian.
In quel simbolo concentrato del mondo moderno che é la Francia dopo il 1848, quale é riflessa nella Education sentimentale, la.
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forza vitale sta decrescendo: la « vera vita » é quella privata, media, le vicende sono le vicende qualsiasi di un qualunque Frédéric Moreau; e gli individui dimenticano di possedere un carattere, si riducono ad una pura possibilità esistenziale, fino a subire finemente e teneramente la vita. Il sentimento è un indefinito, un infini de passions, al quale pochi oggetti quotidiani, alcune azioni insignificanti alludono, senza poterlo mai precisare. In Italia come in Francia, questa tradizione flaubertiana continua ancor oggi la sua nobile e proba esistenza. In Italia abbiamo avuto Bilenchi e Cassola. Sono certo scrittori degni e ben vivi. Ma codesta linea narrativa, quando rimanga del tutto fedele a se stessa, assolutamente e fanaticamente pura, rappresenta il filone di minor resistenza della narrativa moderna. Vive ormai alle proprie spalle, di abbandoni successivi, esaurendosi e consumandosi a poco a poco, senza tentare nuove verità psicologiche. Si parlava di nuances; ma qui tutta la vita rischia di diventare una sola ombra, un indefinibile alone, prima ancora di venir approfondita ed analizzata. Il canone della verità sembra stabilito per sempre. Si rinuncia a qualsiasi sperimentazione psicologica. Non so come questa impoverita, pura e monotona linea musicale possa riuscire ad esprimere qualcuno, come l'uomo moderno, di cui in fondo ignoriamo quasi ogni cosa.
Un filo sottile continua a legare, malgrado tutto, la prosa astratta e ragionieresca dell'ingegnere agronomo Alain Robbe-Grillet a quella, ancora poetica e segretamente sontuosa, di Gustave Flaubert. Ma il regno degli oggetti si è trasformato, in un secolo, in quello dell'assenza. I sentimenti, che Flaubert nascondeva e realizzava liricamente negli oggetti, si sono lasciati ormai completamente assorbire e risucchiare, e sono scomparsi del tutto. Hanno abbandonato, al loro posto, un enorme vuoto, una muta ossessione visiva; o corrodono appena le cose, scrostano la vernice di un muro, allungano un'ombra fredda sulle pareti. Nemmeno le cose esistono piú. Soltanto la loro astratta impronta geometrica, o la loro ombra, continua ad incidersi nello spazio, come la macchia irregolare che segna per sempre, sulla parete, l'impronta del grosso millepiedi schiacciato dal tovagliolo di Frank. Non si é molto lon-
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tani dal tentativo di Joyce, nei racconti piú scarni ed impartecipi dei Dublinars. Di suo Robbe-Grillet ci ha aggiunto specialmente l'abilità diabolica del congegno, e quella specie di folle ascetismo avanguardistico, per cui la poesia viene a coincidere interamente con le trovate tecniche, con le formule che si vengono man mano inventando. Ma quanto a fare di questa formula quella stessa della narrativa moderna, l'unica arte possibile in un mondo dove la psicologia sarebbe scomparsa, non é nemmeno il caso di parlarne. Sono quei discorsi che passano gli anni, la vita continua e muta, l'avanguardia si copre di rughe, e uno si vergogna persino di averli non dico fatti ma pensati.
In un recente articolo, Italo Calvino, raccogliendo insieme alcuni sintomi e tendenze recentissime, vede la letteratura e l'arte di oggi sepolte sotto Il mare dell'oggettività. Non riesco per conto mio a condividere la sua tesi, che uno spartiacque senza rimedio divida le tendenze oggettivistiche dei Robbe-Grillet e dei Pollock dall'arte, per cosí dire soggettivistica, della prima metà del nostro secolo. Un secolo fa Mallarmé e Rimbaud avevano iniziato, assistiti per la prima volta dallo spirito di sistema, a trascrivere qualsiasi contenuto in cifre oggettive ed analogiche. Nemmeno la Jalousie aggiunge nulla a quello che sapevamo sui destini dell'oggettivismo moderno. Il quale si trova, non da oggi, ad un bivio:
o proclamare il vuoto senza fine e tacere, dopo averlo espresso una volta; o invece lavorare codesti simboli oggettivi con la devozione preziosa di un parnassiano. Gli oggetti, ormai, come oggetti puri,
o come segni simbolici, o vaghe allusioni, o negazioni di sé, sono spenti, vuoti, incapaci di prestarsi se non a qualche intelligente gioco letterario. Esiste la realtà invece, che si porta via queste povere scaglie di vernice, i millepiedi schiacciati sul muro, le ombre sulle tovaglie o sulle posate, e le annega, le scioglie nel suo enorme calderone drammatico.
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Nessuno vorrà affermare che oggi l'intellettuale europeo ami soverchiamente se stesso; o sia felice della sorte che gli sta 'toccando di vivere. La decadenza delle riviste, lo scadimento della con-
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versazione letteraria, l'esaurimento dei gruppi che da due secoli movimentavano la vita della cultura — tutte queste melanconiche constatazioni ci sembrano ormai cosí naturali, che il discorso ripiega su di esse pigramente, quando nessuno ha più nulla da dire e le verità incontestabili riemergono per conto proprio. Sono fatti incontestabili, certo. La vita letteraria é quasi morta. Non esiste una rivista leggibile. Ma tutto questo non avviene per caso. Insieme alle riviste e alla conversazione; é scomparsa difatti quella geniale scoperta dell'illuminismo e del romanticismo che chiamiamo la "società letteraria", industriosamente inventata, due secoli or sono, per surrogare la lenta fine dell'umanesimo. Composta di scrittori falliti, di artisti, di critici letterari, di intellettuali, di attori e di signore, questa categoria sociale si è sviluppata e si è accresciuta nel corso dell'Ottocento, sino a formare uno stabile e naturale strato connettivo fra il pubblico e gli scrittori. Ha inventato e distrutto tanti miti, ha fabbricato tante reputazioni e gusti letterari, sposando tutte le cause per subito abbandonarle, da renderci ormai inconsciamente persuasi che la civiltà precipiti insieme con essa. Ma il mondo moderno abolisce implacabilmente, l'una dopo l'altra, tutte le distinzioni e le mediazioni che si sono formate nel tempo. Alla società letteraria non lascia più lo spazio sufficiente per vivere e prender respiro. L'industria culturale preme, incalza, dominata dalla legge della produzione, che gli antichi gruppi di avanguardia riuscivano a mascherare, affidandosi alla grazia arrogante e sovrana del proprio arbitrio. Ha bisogno, ad ogni passo, di prodotti nuovi. Quando non ci sono, li fabbrica. Il suo ritmo è infinitamente più svelto e dinamico. Alla società letteraria consente di vivere, ma a patto che rimanga ai suoi servizi, e infiori di trovate i suoi brutali procedimenti.
Stiamo andando incontro ad una progressiva e violenta diminuzione, per non dire ad una scomparsa, degli uomini di cultura e dei letterati. Il moderno amante delle lettere, il curioso, il « lettore », come Valery Larbaud definiva se stesso, subirà forse le sconfitte più gravi. Molta della odierna ideologia é condannata al medesimo destino; o verrà, come dicevamo, fornita
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fisicamente dalla società stessa, secondo una specie di autoproduzione, alla quale, col tempo, le macchine elettroniche sapranno certamente bastare. Gli scrittori finiranno di esistere come scrittori, perdendo quella funzione politico-sociale, tra di vati, interpreti del tempo ed utopisti, della quale li aveva investiti la società letteraria del Settecento e dell'Ottocento. Non c'è bisogno, a questo proposito, di avanzar profezie. Già oggi gli intellettuali come gruppo non contano piú nulla; ed é perfettamente inutile tentar di protestare o di ribellarsi contro questa evidente sentenza dei tempi.
Della prossima scomparsa della categoria sociale alla quale appartengo non riesco veramente a dolermi. Di fronte alle cose che stanno morendo il comportamento migliore e più morale rimane sempre, io credo, quello di aiutarle a morire. Questa scomparsa sembrerà dolorosa e penosa; certo brutale. Ma per tanti indugi, compiacenze, mezzi termini, luci indirette, che invece di aiutare intrigano e complicano la nostra vita, non vedo motivi di nostalgia. Il lavoro di mediazione di una società letteraria sopravvissuta a se stessa non serve, ormai, più a nessuno. Fra la società letteraria, com'è oggi, e la futura stirpe di robot commercializzati che ne hanno ereditato o ne erediteranno i compiti sui giornali o nelle case editrici, forse i più morali sono proprio que- sti ultimi. Sanno di obbedire solamente alle leggi della produzione. Di solito non ostentano intenzioni o presunzioni letterarie. Sappiamo finalmente con chi trattare. Il mondo industriale sarà quanta si vuole brutale e impaziente, ma ammette di essere quello che è e non pretende giustificazioni. Nella sua esclusiva dimensione economica, riconosce oscuramente che esistono delle dimensioni spirituali. Bisogna concedere, alla fine, che riesce a rispettare i distinti assai meglio di quanto non si sarebbe creduto.
Mai come nel secolo scorso gli scrittori si lamentarono della sorte a cui erano costretti dai tempi: isolati e abbandonati come si sentivano, incapaci di stabilire rapporti con una società indifferente o nemica. E invece non avevano mai avuto a disposizione un così perfezionato, intrecciato e capillare sistema di relazioni con le cose. Una società letteraria raffinatissima badava a fornire
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motivi, tentando una prima elaborazione della vita, provvedendo ad assimilarla e a filtrarla; l'esistenza di una classe privilegiata in decadimento, di un côté de Guermantes, poteva rappresentare ancora un appiglio suggestivo; la nascita e lo sviluppo del prole-letariato si prestava alla coscienza di una missione, o ad accrescere almeno la riserva di preziosismi letterari; persino la durezza delle condizioni di vita, l'atteggiamento orgoglioso di solitudine e di protesta — quanti elementi, quanti sostegni contribuirono a costituire agli scrittori dell'Ottocento un piedistallo invidiabile. I puristi del nostro secolo hanno obbiettato che proprio una simile abbondanza di miti e di mediazioni rese impura la loro poesia. Qualche volta sarà certamente accaduto così; anche se ha suscitato per contraccolpo, spesso nei medesimi scrittori, il più assoluto delirio di purezza. Si stabiliva comunque una rete ricchissima, fine, continua, di relazioni vitali.
Adrian Leverkühn, nel Doktor Faustus, poteva confidare nel demonio, sperando che vincesse con l'ironia e l'intelligenza diabolica la inibizione dell'artista moderno a produrre un'arte naturale ed ingenua. L'artista di oggi, di fronte al quale Levekühn sembra quasi un remoto antenato, non può credere nemmeno nel diavolo; e non ha ispirazioni e rimedii, non conosce droghe ed eccitazioni fuori di sé. Gli espedienti che il demonio di Mann aveva consigliato a Leverkühn sono entrati, uno per uno, a far parte della ideologia, la quale é per l'appunto ironica, intellettualistica ed ambigua, capace di orchestrare pastiches e mistificazioni quasi con la medesima sapienza con la quale Mann aveva trascritto, da uno spartito vuoto, la musica dell'Apocalypsis cum figuris. Ma é una sapienza convenzionale: prodotta in serie. Oggi il demonio non rende: continua come prima a richiedere l'anima, ma non ha nulla da concedere in cambio. Meno che mai l'ispirazione. In fondo é un povero tentatore, con la mentalità e i mezzi intellettuali di un agente letterario. Mentre il vero tentatore, il demonio salutare e benefico, colui che sa creare per fede o per ironia, è di nuovo il poeta con la sua sapienza ricca e complicata, che non ha bisogno di espedienti e di trovate, né di provocare l'odore di zolfo. Lo scrittore ha cominciato a riprendere e a rias-
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sumere in sé la parte che per tanto tempo aveva gestito il demonio, tornando una figura completa ed intera, sanando la vecchia lacerazione romantica. Non vorrei affermare che questo processo sia ormai veramente compiuto. $ la società stessa, dal momento che ha ingoiato ed assimilato il diavolo, ad imporla ad ogni scrittore.
Mai la fatica degli scrittori è stata, come oggi, disumana e quasi impossibile. Ricoperta dai rottami convenzionali delle ideologie, la realtà sembra, a prima vista, senza rilievo, senza appigli, liscia, uniforme, tendenzialmente nemica di chi vuole esprimerla e significarla. Le fedi religiose e il mestiere letterario, i credo politici e i. moralismi non offrono più, come un tempo, una rete continua di relazioni e di mediazioni. Le differenze fra le classi, fra le nazioni e gli individui sono diventate quasi impercettibili. Nella fitta, spessa, atroce, meravigliosamente nutritiva noia del mondo moderno, gli scrittori devono sopperire, da soli, alla fatica che un tempo altri compievano per loro. Non possono contare che sulle proprie forze. Proprio ora che hanno smesso di gloriarsene, e l'hanno accettata semplicemente come una condizione naturale, la solitudine é il primo bene che posseggono.
Pochissimi giganti solitari, sparsi per il mondo, divisi fra le capitali, simili ai grandi, melanconici e folli bestioni superstiti verso il tramonto dell'era quaternaria, continueranno tuttavia a guardare e a rivivere la realtà che li circonda con gli stessi occhi penetranti e vivificatori. Isolati dal mondo, abbandonati, senza appigli, gli artisti moderni, quei soli che scrivono perché sono costretti a vivere, hanno bisogno di una ricchezza e di una complessità di visione centuplicate. Desumono tutto da se stessi, « traendo dal proprio corpo », come i ragni di Hofmannsthal, « i fili destinati a portarli oltre l'abisso dell'esistenza ». Ricostruiscono nel proprio sguardo il rilievo perduto delle cose, ritrovano in sé la fatale sottigliezza delle differenze, la trama necessaria e continua delle mediazioni. Non hanno fretta, non attendono nulla dal futuro. Procedono con la calma, la delicatezza, la miracolosa attenzione che non si può non avere per un organismo naturale che cresce, matura e trova le proprie leggi, lentamente, in noi stessi.
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Codesta pazienza disumana il mondo aveva quasi dimenticato di chiederla agli uomini. Vivere nel proprio tempo come se fosse, semplicemente, il Tempo. Scrivere come se si fosse già morti. Meno che mai l'artista può oggi ricorrere alle sue doti di immediato osservatore, o giovarsi delle annotazioni di costume c delle lievi incisioni ironiche. Per restituire vita e profilo al mondo deve guardarlo con uno sguardo tosi distante, così assente, che provenga da lontananze così stellari (telescopico, diceva Proust), con un amore e un odio talmente violenti e completi ma disin-carnati da sé, da renderlo in primo luogo inesistente. Forse soltanto da questa originaria ed immane inesistenza, il mondo moderno può tornare a ricevere l'intera ricchezza dei suoi significati.
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1960 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 42
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42


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