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tipologia: Analitici; Id: 1472512


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Renzo Rosso, Gli apologhi della medusa
Responsabilità
Rosso, Renzo+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Guiducci, Armanda+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
GLI APOLOGHI DELLA MEDUSA
L< I GABBIANI »
Nel loro tuffarsi, il mare mutava colore; la massa blu, precisa e circostanziata per la presenza degli iceberg, diventava un campo verde dai contorni lilla, e all'inversione del volo, una lastra nera e una lastra rossa dalle superfici incrociate. Il loro iceberg, dall'alto, sembrava proprio il centro della vita per quella coppia di gabbiani che, indomiti o pigri, avevano preferito l'avventura su quel ghiaccio da corsa al trasferimento del nido dalla sua sommità — dove l'avevano costruito con licheni tritati, paglia e grumi di argilla — alla terraferma. Si deve dire che il distacco della balena fredda dalla corazza retrostante era avvenuto senza i soliti sconquassi, semplicemente con un attutito tonfo sotterraneo. Quella notte, nel nido, era trascorsa immobile e tiepida come sempre, un occhio solo del maschio sbarrato nell'oscurità a captare le incertezze e gli sbandamenti del bianco baricentro. Da allora il buio si era rimpicciolito, ed era venuto nove volte lo stretto spazio del giorno.
Nell'aria pervasa da gelidi soffi, sotto un sole bianchiccio, il maschio volava lento sulla superficie grinzosa dell'Atlantico. Senza emozioni piombava su piccole, rare prede, che inghiottiva ancor prima di volgere il becco in alto. Uno strido che gli giunse da dietro l'iceberg gli fece mutar rotta: su un branco di foche la femmina stava compiendo evoluzioni bizzarre, cioè impennate improvvise e corse radenti, finquando, emerse che quelle furono due volte con le loro teste ingrugnite, non scomparvero; la femmina allora si ricongiunse al maschio che aveva proseguito attento la posta. Ora sul mare il riverbero del sole toccava la piastra inferiore delle ali, e tra le piume la pelle sentiva esili punte di calore.
Ad un tratto un boato lacerante frantumò il loro volo. Risalirono concordemente un ampio tratto di cielo, fin dove non sentirono le palpebre trafitte dal freddo. Da lassù scorsero la nave, grigia, che vomitava fumo e fiamme dal ventre squarciato. La visione si ripercosse nelle ali che essi sbatterono disordinatamente, e, poco dopo, intraviste sotto il pelo dell'acqua le gigantesche ombre di due squali lanciati in quella
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direzione, si gettarono anch'essi nell'aria rapida alla volta della nave.
Volteggiarono a lungo, in attesa degli effetti che avrebbe provocato l'attrazione di quel rovinio sui pascoli guizzanti. Le grida che si alzavano dalla nave, tosi simili a quelle di immensi gabbiani feriti, e i rumori e gli scoppi li eccitarono; varie volte essi girarono attorno alla colonna di fumo denso che sembrava un iceberg leggero e inseguirono le loro immagini sullo specchio di quello strano lucido mare che usciva a singhiozzi viscidi dal piroscafo. Poi, lo spavento della rossastra strage degli squali li scagliò in sú come frecce, e quando, dopo un ampio giro ridiscesero, la superficie del mare era tornata compatta e silenziosa. Cacciando con ali prudenti e rabbiosa fame dimenticarono il sole, finché se lo videro improvvisamente quasi sotto di loro, nel riflesso perfetto — rosso, elittico e fermo — della macchia laccata, e alzato il volo, lo volsero all'iceberg ormai lontano che nella colorazione dell'imbrunire sembrava una collina viola, di vera terra.
« A CUERTA, A. D. 158... »
A Cuerta, quell'inizio di sera estiva, l'aria aveva limpide trasparenze, dopo la pioggia rinfrescante del pomeriggio. Sopra il nastro vermiglio dell'orizzonte le nuvole disegnavano figure polpose, grassi cavalli brucanti, gravidi ventri, e allo sguardo di fra' Luis de Sotomayor che lo mirava in preda a una negligente stupefazione, perfino una gonfia medusa, tanto più marina quanto più margine d'azzurro le si faceva d'intorno. Sul selciato brillante, la dove le pietre lavate della piazza si affossavano in scoli, scorreva ancora dell'acqua, cui il sole uscito da poco dava aspetto di polle sorgive più che di retroguardia piovana.
Fra' Luis riportò gli occhi sulla piazza, al palco che nell'ombra bigia del crepuscolo avanzante appariva di dimensioni enormi: il vertice del palo, dal punto in cui egli si trovava, toccava il centro del rosone della facciata della cattedrale. Dal brulicante rumore dietro le sue spalle, che gli diceva che dietro le transenne c'era tutta Cuerta in attesa, la sua mente fu spinta con disappunto prima al vicario che lo aveva fatto accompagnare cola con notevole anticipo sull'ora della cerimonia, poi al lungo viaggio di trasferimento che lo attendeva l'indomani attraverso la Sierra. Quando un mormorio più intenso di quello generale, sorto alla sua destra, gli fece capire che la squadra era uscita dalle prigioni e stava per arrivare, fra' Luis si segnò tre volte. (L'esame era durato due anni, ed egli aveva dovuto farsi non meno di una ventina di viaggi, a
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Cuerta; ma a nulla erano approdati i suoi consigli e i suoi amorosi suggerimenti).
Dopo che le guardie ebbero sistemato ogni cosa secondo le consuetudini del cerimoniale, il frate con un cenno fece attaccare il coro del capitolo che intonò: « Gloria per il mondo intero al Signore degli umili », e, afferrato con la mano destra il crocefisso d'argento che gli pendeva sulla coscia, si mosse in direzione del palco. Sulla sommità di questo egli pronunciò le formule di rito, e non avendo ricevuto altra risposta alla sua esortazione al pentimento e alla confessione della eresia che un sordo belato, siglò l'aria con un ampio simbolo di croce e tornò al suo posto. Mentre il capoguardia si avvicinava alle fascine reggendo una torcia accesa che rendeva intensamente azzurra l'aria circostante e tutta la scena, fra' Luis cadde in ginocchio e chiuse gli occhi, nell'atteggiamento cioè in cui meglio gli pareva di attenuare il dolore e di aumentarne il decoro edificante. Lo sfrigolio scoppiettante degli arbusti secchi che la fiamma aveva cominciato a divorare gli diede il primo barlume delle fantasticherie soprannaturali che l'ardente momento sollecitava al suo spirito. Rotonde e sempre più nere fumate avvolgevano e nascondevano ormai il palo e il suo ospite, e dal loro centro si levò un lamento nasale acuto, che solo colpi di tosse interrompevano, e fu allora che, fra' Luis entrò nella visione e vi si insediò stabilmente.
Il giardino era verde e oro, ,e le parole che lo incorniciavano e lo intersecavano in tutte le direzioni, sfiorando l'immagine beatifica del Cristo che stava coagulandosi a uno dei lati, erano aeree e solenni, quali: « Il signore è il mio dio », « Egli redimerà i nostri peccati », e così via. Vi erano uccelli variopinti nel giardino, e da una roccia levigata e ombrosa un ruscello faceva cadere la sua acqua mormorante ai piedi del Signore, come a un dipresso nella tela di soggetto analogo del Ribera che il frate aveva ammirato di recente sopra l'altar maggiore della chiesa degli agostiniani a Salamanca.
Mentre le orecchie di Luis tenevano di fuori l'urlo nel quale si era frattanto mutato il precedente lamento, l'immagine santa toccò con la punta dell'indice la fronte madida di sudore del frate, che ne ebbe un grande struggimento e balbettò : « Ti invoco, mio Dio, perché io non so esistere senza di te. Sollevami perché io sia degno. Fa' che non mi disperda nei sensi e abbia la forza di essere giusto. Fa' Signore che il tuo amore perdoni questo peccatore ».
Fra' Luis adesso si sentiva davvero come morto e le grida bestiali e i sibili che sfuggivano al legno degli arbusti gli giungevano soffocati
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come se oltre il fumo che si sprigionava dalla catasta, tra lui e quel palco infuocato, tra lui e la piazza golosa, ci fosse una immensa distanza.
In Luis la visione si spense più lentamente del fuoco, e quando, compiuto il sacrificio ed espletate le ultime formalità, egli si incamminò verso il convento che lo ospitava, nella cavità sonora del suo cervello si susseguivano in un evanescente disordine frasi come « Cenere e terra », « Io mi rivolgo alla misericordia », e confondendo leggermente sé stesso col dio, e il dio colla propria situazione, egli disse tra i denti: «Io sono la vita », dopodiché, restituito che si senti agli altri e alle cose, pensò che per il viaggio del giorno dopo gli sarebbero occorsi almeno due cavalli.
Stava per uscire dalla piazza allorché, alzati gli occhi, scorse sul davanzale di una finestra aperta un gatto che lo fissava. Era un gatto soriano, folto di pelo, massiccio, che dal moto delle palpebre, ora aperte ora chiuse, sembrava respirare con esse. Il largo muso rintanato tra le spalle, le zampette retratte sotto il torace, immobile come avesse il corpo impagliato, se ne stava elaborando con saggio indugio del cibo da poco inghiottito. « Ho mangiato — diceva —, ho finito di mangiare che é poco, sono sazio », e placidamente concentrando le papille del gusto sull'ancor vivo peso dentro lo stomaco irrequieto (che mandava loro il ricordo del recente, saporito passaggio), non si avvedeva di nulla, pur essendo nelle sue pupille gialle la piazza tutta intera, col minuscolo portale, il minuscola campanile, il palco bruciato e il palo, e, attorno al palo, una massa nera e grigia, squamosa in parte come carbone di legna, e in parte lucida di grasso. Una contrazione dello stomaco assestò meglio il cibo e una bolla d'aria, sfuggita attraverso l'esofago, gli fece fare un. piacevole rutto.
« LE FORMICHE »
C'era qualcosa di nuovo nel formicaio. Non che questo apparisse manifestamente, ché la vita continuava come sempre; ma l'incessante. ripetizione, vale a dire il fermo contenuto del tempo che si rinnovava. identico ad ogni viaggio fino ai dintorni dello stagno, ritorno compreso,, non esauriva più tutta l'energia delle formiche, e i residui non adoperati. si spargevano nel loro organismo senza però che nulla o quasi trapelasse al di fuori. L'unico segno che si sarebbe potuto cogliere (se le proporzioni dell'osservatore fossero state analoghe al campo d'osservazione) era un riflesso della parte estrema dell'addome, che lo faceva Marcare e lo raddrizzava di colpo, simile esteriormente a quello della
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defecazione, e che provocava un senso di prurito in alcune, e in altre di una puntuta pressione. In tutte poi questo riflesso lasciava una vaga sensazione come di una preparazione indistinta, o meglio, come di un presentimento di una preparazione alla possibilità di svolgimenti diversi, che nelle più sensibili si confondeva col cambiamento dell'atmosfera o col modificarsi delle condizioni del terreno.
Certo é che alcune stagioni prima, ai limiti della zona dello stagno, erano comparse delle formiche rosa, dotate di un corpo più lungo e di una testa fornita di mandibole molto più vigorose. Ma a considerare con attenzione i fatti accaduti nel passato più prossimo — anche se non si può affermare che quella apparizione fosse passata senza lasciar tracce —, l'atto irriflesso dell'addome era forse da collegarsi con un avvenimento verificatosi alcune generazioni prima di quella attuale: un gruppo di provveditrici, probabilmente sotto lo schok di un eccidio perpetrato ai loro danni da un grande uccello, o forse per lo stato dell'ambiente, con una temperatura calata di colpo al di sotto del normale limite inferiore della stagione e un vento che intontiva e accecava tanto era violento, o forse anche perché in concomitanza con questi disagi e a causa di un precedente lungo periodo di caldo stagnante si era avuto uno scoppio di natalità ritardata, fatto sta che al ritorno da uno dei viaggi, questo gruppo stracarico di vettovaglie aveva premuto contro la parete di sostegno delle celle incubatrici, sfondandola e provocando un crollo che le aveva sepolte assieme alla maggior parte delle uova.
Nel conseguente sbandamento dell'organizzazione, gli sforzi e i sacrifici espressi per la ricostituzione dell'equilibrio smarrito produssero tra l'altro un inspiegabile ingrandimento delle celle; e una parte delle uova che vi erano state in seguito deposte si erano sviluppate con deformazioni, malattie e mostruosità sulle nuove misure.
Passarono varie stagioni, durante le quali, benché apparisse nella maggioranza delle formiche quell'invisibile inarcarsi dell'addome che si é detto, la vita nel formicaio sembrò rientrata nella normalità. Molto probabilmente anche quell'insolito segno nervoso sarebbe scomparso col tempo, se una mattina non fosse stata trovata proprio dinanzi all'ingresso della galleria principale, una formica rosa. Gigantesca, immobile, ipnoticamente curiosa, le alte antenne tranquille, essa si lasciò circondare e poi divorare dall'assalto confuso e accanito di tutto il formicaio senza opporre la minima resistenza. Rapido fu lo strazio ma non tanto che non si imprimesse dentro le formiche l'immagine di quella. testa enorme e di quelle zampe robuste. Rapido e deciso fu del pari il.
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tentativo di non lasciar corrompere gli antichi orari, la laboriosa alacre e calma precisione dell'istinto interrotto; cominciò invece a serpeggiare tra tutte un inconsueto eccitamento che aveva aspetti assai simili alla frenesia precedente il volo nuziale (alcune ad esempio, una volta all'aperto si bloccavano improvvisamente e compivano un lento giro su se stesse, provocando in quelle che venivano dietro l'illusione di essere già sulla strada del ritorno), e il disordine, anche se confinato in settori marginali dell'organizzazione, si insinuò stabilmente nel formicaio.
Un giorno, era l'epoca del letargo alla sesta generazione dal crollo interno, un nubifragio si abbatté sulla zona: in breve la struttura superficiale del terreno cedette e l'argilla trasformatasi in fango cominciò a slittare. Quando l'allarme si sparse era ormai troppo tardi: la melma penetrata in ogni angolo trascinò con sé a valle i mille cadaveri delle formiche. Da questo disastro sei sole formiche riuscirono a salvarsi, arrampicandosi in tempo sul tronco di un vicino abete. Passato il cattivo tempo esse tornarono a terra e dopo una meticolosa esplorazione stabilirono di fermarsi vicino allo stagno, al riparo delle radici di una vecchia quercia.
Lo spavento provato e la catastrofe le aveva scosse gravemente, nondimeno quando si rimisero al lavoro, venne loro spontaneo di impostare tutte le celle dello stesso volume allargato di quelle che erano state costruite dopo il crollo, e di considerare naturale che due tra di esse avessero l'addome e la testa più grandi delle altre.
« L'ETIOPE »
Nel periodo delle piogge il giovane A. si immalinconiva a tal punto che si faceva del tutto muto. Si sedeva allora dove capitava, anche all'aperto e, incurante della pioggia, restava immobile lunghe ore a guardare l'acqua che scorreva attorno alle natiche e ai calcagni e andava a ingrossare i rigagnoli che, formatisi al centro del sentiero, fluivano via rapidi verso il Nilo in piena. In quei periodi trascurava ogni rapporto con gli altri, perché da quando era stato preso al cantiere non gli piaceva più nulla al di fuori del suo lavoro, e perfino il cibo aveva sapore per lui solo se mangiato nell'intervallo del lavoro e la sera, nella capanna, al ritorno dal cantiere. Alzare il piccone, sentirne il peso trasformarsi in un movimento leggero sotto la spinta dei muscoli, o inarcare íl corpo nello sforzo della fune al ritmico ringhio del caposquadra, quando veniva messo al traino delle impalcature mobili; tutto e solo
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questo gli piaceva, anche perché il sonno alla fine della giornata gli girava per le membra con un dolce sussurro come di premio, prima di ghermirlo.
A. era nato là, al cantiere, venti anni prima, e dal cantiere non si era mai mosso. Al massimo, da bambino, si era spinto fin sulle sponde del fiume a osservare i bassi e silenziosi velieri, e a giocare con coetanei sulla sabbia della riva. Ma da quando sua madre lo aveva incaricato di portare il paniere al padre e ai fratelli maggiori, non si era più staccato dalla porta del recinto, calamitato come si sentiva dal meraviglioso lavoro degli adulti, finché un giorno il caposquadra lo chiamó e lo fece entrare.
Il padre di suo padre era stato un prigioniero di guerra, e la sua famiglia e lui stesso erano ancora considerati tali. La cosa per A. non aveva alcuna importanza, anche per il fatto che l'unico elemento che li faceva distinguere in pratica dagli altri operai, era che quando essi morivano venivano inumati in una fossa comune. Quegli altri avevano bensì la possibilità di cambiar cantiere e di trasferirsi in un'altra provincia, ma senza contare il fatto che in realtà non si muovevano mai dato che gli ingegneri non lo avrebbero permesso finquando almeno la fabbrica non fosse stata completata, A. non aveva motivi di desiderare di trovarsi in un altro posto di lavoro.
La vecchiaia e la malattia erano gli -unici punti oscuri perché l'amministrazione non tollerava né vecchi né malati, e alle prime denunce di debolezza, i prigionieri venivano esclusi dal cantiere e quindi dalla riscossione delle vettovaglie. Suo padre, ad esempio, da tre anni non usciva più dalla capanna, languendo sul suo letto e per le ferite riportate nelle bastonature e per l'umiliazione di farsi nutrire dai figli. Ma il giovane A. era sano e robusto e gli era impossibile vedere se stesso nei panni del padre, nemmeno quando i lamenti di costui lo impietosivano; e, del resto, anch'egli si sarebbe procurato coll'aiuto di una delle tante giovani donne del campo una nidiata di figli, che, da vecchio, lo avrebbero nutrito e consolato.
Al suo futuro personale tuttavia il giovane non dedicava che scarse e imprecise immaginazioni: egli dormiva, lavorava di lena, mangiava con appetito ed era contento, e con lui era certo che tutti quelli del cantiere fossero soddisfatti e felici. A onor del vero, nel campo, c'era ogni tanto qualcuno che diffondeva strani ragionamenti, come recentemente quell'etiope che aveva predicato di un certo loro diritto a disporre di un ,giorno intero ad ogni luna anche nella buona stagione per i sacrifici ri-
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tuali e il riposo, ma A. non vi prestava il minimo ascolto, dato che aveva una naturale avversione per i discorsi che non riguardassero il lavoro vero e proprio o la vita della sua famiglia.
La seconda piramide stava per essere completata, e tra poco avrebbero cominciato le sfingi: questo era il vero mondo per lui, e questo solo gli prendeva i pensieri. E poi quell'etiope, le guardie del re lo avevano scuoiato vivo.
K IL CAMPO »
Nella sua tessitura prevaleva di gran lunga lo scheletro; il resto era costituito per lo più da sabbia di grana grossa, e poco e rado era il limo. Per l'inclinazione dello zoccolo calcareo su cui esso poggiava, quasi nessun punto della sua massa godeva di completa immobilità : quale in fretta, quale con lentezza, tutte infatti le sue membra slittavano, e poiché così era prescritto dalla disposizione della valle, il movimento avveniva in direzione del fiume. Soprattutto per ciò, il carattere peculiare del campo era l'incoerenza.
Molto tempo prima un affluente del fiume lo aveva avuto a suo letto; poi, un giorno, all'inizio di una torrenziale primavera, una massiccia precipitazione di detriti, contro i quali nulla aveva potuto la sua baldanza, aveva deviato la sua corrente su più comodi scorrimenti. II campo era nato allora; le materne rocce della montagna che lo sovrastava lo nutrirono con le loro arenarie che, pioggia dopo pioggia, si depositarono sfaldate sul fondo, aggiungendosi al fango ghiaioso abbandonato dalle acque.
Difficile fu il suo sviluppo, ostacolato com'era dai tormentosi venti d'autunno e d'inverno, che strappavano al campo quanto erano andati cedendogli la costante scrematura del monte e il pulviscolo delle folate estive. Non tutto ovviamente, se dopo molte stagioni qualcosa si era fissato, e il campo raggiunse quella che sarebbe rimasta la sua fisionomia definitiva.
Questa era determinata per sommi capi da quattro elementi: un ripido gradino ad arco concavo a occidente, che si era formato per un assestamento sotterraneo, e sul quale ora premeva e franava l'intera strato di terriccio; un masso di granito glaciale a mezzogiorno, cher, assieme alla base della montagna di fronte (che guardava il campo da settentrione) pareva serrarlo in una mastodontica forcella; e infine l'aper-
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to pendio di levante, dietro il confine del quale scorreva I'antico affluente, e sulla cui sommità si alzavano due ontani.
Il suo colore fondamentale restò a lungo tra il bruno e il cenere, un colore minerale, acido e sterile. Il primo preludio di verde, se si esclude il fogliame dei due alberi, comparve all'ombra del masso erratico, perché ivi era il massimo grado di staticità, e i materiali rocciosi avendo tempo e modo di macinarsi e di accogliere residui organici, divennero argilla e questa fu capace di ospitare radici. Attecchì il trifoglio selvatico e dopo molte morti e rinascite, la ginestra, che trasformò quell'angolo del campo in un fertile fazzoletto. Uno smunto, giallo lichene spuntò sulla superficie rimanente, perché solo questa pianta magra e discreta poteva allignare su un terreno sabbioso, succube dell'aria torrida di luglio e delle gelide brine di febbraio. Qua e II inoltre, nelle marmitte dove un tempo il fiume usava ingorgarsi e ammulinare le sue acque, e dove ora la terra si macerava nell'umidità stantia della trattenuta acqua piovana, comparve una asfissiata peluria di pallida erba, che il lento smottamento trascinava verso il costone occidentale.
Questo era il campo e tosi viveva ormai da innumerevoli stagioni nel suo gramo equilibrio, quando un giorno — era un mese di settembre e qualche pioggia era già caduta su di esso — sotto i due ontani venne scavata al campo una lunga e profonda fossa. Le pale di ferro stancamente raggiunsero la falda freatica e si spinsero fino al limite calcareo; la terra all'aperto rivelò ancor meglio la sua neutra composizione; i granuli scuri tra cui biancheggiava qualche ciottolo si asciugarono del velo acquoso che li vestiva e divennero in breve farinosi e grigi. L'aria era umida, non pesante, percorsa da brusche buffate di maestrale, chiara nella luce di un sole tranquillo che faceva brillare con un diafano sudore le foglie dei due alberi. Il crepitio degli spari, molto tempo dopo la sepoltura dei cadaveri, risuonava ancora della secca pienezza del loro eco, perché l'atmosfera era elastica e rimandava il loro peso sonoro tra la montagna e il masso indefinitamente, con un lentissimo moto decrescente.
Nella fossa, per la compressione cementante che era stata esercitata sulla terra di copertura e lo strato impermeabile del fondo, il calore dei corpi si mantenne alto e favori la decomposizione. Batteri, muffe e funghi si svilupparono e agirono con rapidità : nell'attiva demolizione mineralizzante, dei materiali originari di quella cessione eccezionale non rimasero col tempo neppure dei frammenti d'ossa. Attraverso i lati
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della fossa il liquame sanioso poté espandersi, ed entrare, umificato, nella soluzione circolante.
Per la prima volta nella sua storia il campo fruì di una fermentante vitalità: nella stagione successiva esso poté dare asilo a una grande quantità di semi, e all'epoca della fioritura tutta la sua zona orientale era coperta da una fitta vegetazione di ortiche, di loglio e di papaveri. Purtroppo l'epoca di grazia dura un solo anno; nell'inverno le piogge si abbatterono con violenza sul campo, imbevendo tutti i pori del suo terriccio e soffocando ogni forma di vita. Quei pochi ceppi di batteri che grazie alla loro natura riuscirono a sopravvivere, portarono definitivamente a termine la scomposizione dei tessuti cadaverici, ma non più a vantaggio del campo. Tanto è vero che se un osservatore non disattento si fosse trovato all'alba di uno dei giorni di quel gennaio in prossimità degli ontani, avrebbe visto aleggiare per vasto raggio attorno ai due alberi, bassa e stagnante nel suo denso respiro, una insoluta nube di ammoniaca.
«LA DIGA
Pietre severe delle ormai arrendevoli mura dell'elettore Guglielmo, che tramontane e paure dell'improvviso svedese avevanó eretto a difesa degli industriosi e ruminanti antenati della sua gente e di lui, Adalberto Vulpius, il filosofo che si stimava amico di Federico di Prussia! Pietre corrose dal salso, specie nel lato di nord-est, davanti allo squero grande e al mercato del pesce, dove si apriva il varco della porta di S. Brigida sotto il cui arco tetro e umido egli transitava di frequente, sia per recarsi alle trisettimanali lezioni di logica del regio ginnasio nella zona nuova oltre il porto, sia per compiere le passeggiate vespertine « della tranquillità », come egli le chiamava, sul molo del sale, o quelle più rare « della riflessione » sulla diga settentrionale.
Più rare perché piú intense qui, le sue gite, e più intense perché per giungervi c'era bisogno di una buona camminata e per restarvi di una disposizione d'animo piuttosto forte, dato che il posto era deserto e a causa della sua conformazione ad angolo acuto, che faceva della diga un gomito spinto dentro il mare, di aspetto tra audace e sinistro. Inoltre, il coraggio stesso di cui gli pareva di dar prova ponendosi solo, in fondo, contro il mare, colà sempre inquieto, e i venti del Baltico, lo metteva in uno stato di abbrivo mentale che se era stato sovente fertile di chiarificazioni razionali, d'altra parte enormemente lo sfibrava. Per andarci in-
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somma, Vulpius aveva bisogno di caricarsi per giorni e giorni della noia della scuola e della famiglia; allora si che la diga lo attirava irresistibilmente, e quel frastuono marino col suo misterioso slancio di pietre testarde e di furibonda acqua gli appariva come il regno del silenzio, della libertà e della grazia.
Tardo pomeriggio del 10 gennaio 1754, duro e aggressivo ma tanto isolante, freddo ma pieno di caldi fermenti interiori, di intraviste perfezioni! Vulpius provava una tale sensazione di pienezza che la gioia della promettente solitudine trasformava gli ululati del vento e il cupo brontolio della risacca in fenomeni cordiali, dolci al suo orecchio come per anime comuni il frinire delle cicale durante i sereni giorni d'estate nelle brughiere dietro la città. Un insignificante episodio occorsogli quella mattina, aveva dato l'avvio a una catena di ragionamenti che lo avevano colpito in maniera straordinaria : nel raccogliere una matita cadutagli dallo scrittoio, si era fissato per un istante sulle leggi dei gravi, e riflettendo sull'astrattezza della norma e sulla sua invasione nel campo di ogni possibile verificazione concreta, gli sembrò di intravedere come conseguenza di ciel una sottrazione al fatto dell'aspetto storico del suo reale accadimento, e quindi la preclusione della possibilità di riconoscere in quel fatto il suo probabile valore finalistico. La « meccanica teleologica »: Vulpius aveva avuto l'impressione che una raggera di deduzioni fondamentali si celasse in quest'ultima parte dei suoi pensieri, ma poiché dalla stanza accanto gli si era sovrapposto il fracasso dei bambini e poi subito dopo l'entrata della moglie nello studio e quindi l'arrivo di uno scolaro, egli aveva serrata quella interrotta visione dentro di sé nel timore che gli sfuggisse con tutto l'etereo carico, e, per ripararla dalle contaminazioni esterne, se l'era covata fino al momento in cui era giunto a metà della diga.
Aperte le valve della mente, mentre la pupilla dilatata passava alla retina l'immagine di un sole grosso e scialbo circondato da veli grigi, Vulpius cominciò a farsi strada tra i relitti concettuali che gli ingombravano la mente, fissando in un disciplinato elenco i termini e le proprietà dell'assoluto, vale a dire le verità geometriche e logiche riconducibili per necessità incondizionata alle cause prime, e il cui contenute complessivo doveva corrispondere a una legge universale identica a sé stessa e perciò a una verità eterna, esistente necessariamente perché necessariamente pensabile alla luce dell'impossibilità del suo contrario. Non fu un lavoro da poco; quando gli sembrò di aver dato una sistemazione sufficiente alla premessa che gli occorreva, continuò ad alta voce:
-~i
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« Bene, e adesso vediamo se questo mondo fenomenico non ha diritto anche lui a partecipare al banchetto. La sua colpa sarebbe di essere costituito da fatti che all'analisi rivelano la loro sussistenza solo in altri fatti, ciò che darebbe alle leggi del loro comportamento l'aspetto di stesure astrattive di rapporti meccanici e il valore di verità empiriche. Ma mio caro Leibnitz, senza contare la considerazione che la possibilità dell'esser pensato può benissimo venire postdatata rispetto alle realtà esistenti », — e qui Vulpius, per quanto divertito, passò oltre rapidamente perché una simile proposizione avrebbe fatto sorridere i suoi corretti colleghi wolfiani —, « per un fatto pensato con tutti i suoi accidenti non esiste possibilità che non venga contemplata dalle sue leggi regolatrici ». A questo punto Vulpius si imbatté nella tesi contrastante della limitatezza della capacità induttiva della mente umana, determinata a sua volta dalla impossibilità di esaurire gnoseologicamente tutte le componenti finite del fatto concreto. Il sole che aveva cominciato a fondere íl suo pallido oro con dei vapori violacei, ne era stato alla fine soffocato; la sua luce si era distribuita dappertutto, nel chiarore biancastro della ormai compatta pianura di nubi, che aveva coperto interamente il cielo e che un vento sostenuto spostava lentamente.
« Giusto », riprese Vulpius, « ma guardiamo al valore logico di queste leggi: prima di tutto esse tengono ben fermo nel loro esercizio il carattere limitato della loro estensione; in secondo luogo nulla vieta di pensare che tra due leggi di diritto limitato non se ne possa formare una sola, più ampia e che le abbracci ambedue, (come avviene normalmente del resto), e così di seguito, sino a raggiungere la legge unica, eterna e immutabile della meccanica dei fenomeni. Non vedo signori quale possibilità avrebbe una simile legge di venir pensata diversamente, se non ci fosse, come in realtà non ci sarebbe, un solo fatto capace di smentirla. La sua necessità sarebbe assicurata quindi dalla impossibilità fisica del suo contrario ».
Vulpius si sentiva come un prestigiatore in procinto di compiere il suo gioco finale e più sorprendente; respirò a pieni polmoni l'aria umida e salsa e così facendo si lasciò fuorviare per alcuni attimi dal disegno orgoglioso della diga alla cui estremità la linea superiore continuava senza soluzione nel segno già un po' sfumato dell'orizzonte. Qualche raffica violenta si era insinuata tra le saltuarie folate e aveva già attaccato la diga, e il loro sibilo preannunciava una grave tormenta. Vulpius riprese ancora più convinto: « Ebbene di questa legge generale e suprema non so che farmene. Servendomi però dell'obiezione che le
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verrebbe mossa di non possedere l'attributo dell'impossibilità logica del suo contrario, io mi accontento di dimostrarvi l'assoluto nominalismo della logica metafisica ». Malgrado egli avesse la sensazione che dell'abba-cinante soluzione intrasognata quella mattina attorno al significato storico dei fenomeni, fosse riuscito a salvare appena una esigua scheggia, e per quanto in quel momento gli sfilassero davanti alla mente i numerosi studi da lui compiuti e che mai aveva avuto il coraggio di presentare o di pubblicare, si figurò con intensa soddisfazione l'effetto indubbiamente straordinario che avrebbe avuto sui membri dell'Accademia di Berlino la lettura di quella sua memoria, per la quale « Nova de legibus inquisitio » gli pareva un titolo assai indovinato. Un minimo di notorietà era proprio quello che gli ci voleva: con essa sarebbero forse venuti i viaggi, e con questi la possibilità di staccarsi almeno per qualche periodo dalla casa e dalla famiglia, e di conoscere visi nuovi, nuovi caratteri, e fors'anche una donna diversa. E poiché era stanco, felice e disposto a ricompensarsi, lasciò che una immagine femminile si sovrapponesse a quelle spirituali vanità: gli accadde di inventarsela appoggiata al muro della diga, e poi di credere di vederla addirittura avvolta in uno scialle azzurro, punti neri in bianche focose occhiaie, un rosso acceso sulle labbra, e mani che lo chiamavano. « Mi chiamo Welda, si può sapere cosa vuoi da me, allora vieni più vicino, ancora, ancora più vicino; ti piace il seno, ma adesso cosa fai, sei intraprendente (rideva, dolcemente sguaiata), vuoi proprio che allarghi le gambe, così? così ti piace? ».
Vulpius aveva gli occhi imbambolati sulla visione, pieni di passeggera febbre, il membro ritto, le mani irrigidite sotto la sognata sensazione della pelle spennata di pollastra e dei peli ricciuti della offerta apertura, quando una ondata, più delle altre vigorosa, si spezzò con forza contro la diga e gettando gelidi schizzi sui suoi calzoni e sul collo, lo svegliò di soprassalto. Rimase stranito, preda di uno di quegli sbalzi di livello cui va soggetta la mente usa a fantasticare allorché, esaurito o troncato il materiale dell'illusione, e creatasi per tal modo una rarefazione degli spiriti interni, la realtà si precipita con fracasso a riempire il posto vuoto.
Vulpius si guardò in giro; sbirciò il cielo che si andava facendo scuro, una poltiglia di neri frastagliati come cocci di bottiglia intorno a fessure filiformi che lasciavano passare l'estenuato chiarore crepuscolare. Il quadro complessivo era però un lago dalla aggrovigliata superficie capovolta, fosco e pesante, e questo perché immensi banchi di nuvole
56 RENZO ROSSO
si erano addensati sulle pianure polacche e una differenza di pressione che andava aumentando gradatamente li stava scagliando a nord verso il mare. Coinvolti nell'ampia fuga, compressi dalle correnti superiori, i corpi bassi del vento via via ingrossavano, si gettavano in apparente disordine per ogni dove, sfiorando tra l'altro con furore la diga, abbattendo sul suo contrafforte esterno in un ventaglio frantumato di gocce gli spruzzi che le ondate portavano oltre la barriera degli scogli. Il risucchio vorticoso che tra questi si svolgeva, era l'inspirazione stessa del mare, prima dell'ulteriore assalto; e tale era il fragore generale che tutto il volume liquido, fin nelle più riposte profondità, sembrava partecipe del furioso movimento migratorio. In realtà, sotto la coltre di spumosa rabbia vi era il nero immobile inchiostro degli abissi, dove una vita tumultuosa continuava in silenzio a scandirsi in miliardi di esseri e di ottenebrate, elementari avventure.
IX LA MEDUSA»
All'altezza delle ultime, fievoli lingue giallastre, alle porte dell'inchiostro, si librava felice una medusa. Aderiva placida alla vasta sua madre, nella flaccida certezza della campana trasparente, dei torbidi peduncoli, dell'esangue fame, del silenzio vibrato che le era dentro e d'intorno. Davanti a lei si protese erta una scogliera, che nascondeva fredde correnti; dimentica di sé essa ristette, entro l'antico stampo di diffidenza e di riposo, come se dietro alla roccia, la pungente materia eseguita, decaduta, non resistente e inessenziale, (il negativo della forma liquida che in quell'istante e in un secondo istante e poi non per sempre era abbastanza calda, ondeggiante e affettuosa); come se dietro la indefinita parete, che sorda subiva la percussione dell'ombra di quell'ammasso gelatinoso, ci fosse la somma e la sottrazione di infinite altre creature, l'eterno e progressivo non essere, ossia per lei il soffio del vortice che l'avrebbe stordita e dissolta — lei che le sue uova aveva ormai sparso un po' dovunque lungo il libero e cieco vagabondaggio — nell'abisso materno. Nella medusa insomma l'acqua sentiva tutta se stessa; e dall'acqua infine la medusa non avrebbe avuto altro che una prossima, indifferente, incompiuta definizione.
RENZO Rosso
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32296+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1960 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 42
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42


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