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tipologia: Analitici; Id: 1472489


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo (9 Domande sul romanzo) Elsa Morante
Responsabilità
Morante, Elsa+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
ELSA MORANTE
Per evitare ogni malinteso, io penso che convenga, da principio, mettersi d'accordo sulla definizione di romanzo. Mi sembra difatti che, in proposito, esistano ancora delle convenzioni, tutte esteriori, che limitano o confondono i giudizi.
Secondo l'opinione corrente, meriterebbe il titolo di romanzo qualsiasi narrazione in prosa che sia comunque legata, nelle sue parti, da un intreccio unitario, e che, nella sua mole cartacea, raggiunga un peso non inferiore a un certo numero di ettogrammi. Di conseguenza, succede che chiunque abbia riempito 300 pagine di pettegolezzi, oppure abbia allungato fino a 300 pagine una novelletta amena, si presume autore di un romanzo. Mentre che, magari, per difetto di uno o due ettogrammi di peso, vengono classificati altrove che fra i romanzi alcuni modelli perfetti di romanzo, quali, a esempio, « La steppa » di Cekof.
Inoltre, succede pure, che, secondo le rigide, e talora incongrue, determinazioni dei « generi », le storie letterarie àccademi-' -che, nelle loro trattazioni del romanzo, studiano, si, fra i romanzi
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— com'è logico —, « L'asino d'oro », per esempio, o il « Don Chi-sciotte »; ma non, invece, l'« Eneide », per esempio, o l'« Orlando furioso », che pure, nella loro sostanza, sono assolutamente dei romanzi, e andrebbero studiati sotto lo stesso titolo dei due primi. Nei riguardi dell'arte del romanzo, non importa se questi siano scritti in prosa, e quelli in versi. Anche nell'arte del teatro, si possono dare drammi in versi, o in prosa; ma non se ne determinano, in conseguenza, due « generi » distinti. « Il giardino dei ciliegi » appartiene all'arte del teatro, come vi appartiene « The cocktail party ».
Per quanto mi riguarda, io confesso che arrivo addirittura a considerare romanzi il « Canzoniere » di Petrarca, per esempio, o « I Sonetti » di Shakespeare (per le stesse considerazioni sostanziali per cui si chiama romanzo « La princesse de Clèves » o « A la recherche du temps perdu »).
Già altre volte (per esempio nel 1957, a proposito del « Can- zoniere » di Saba) mi è capitato di esporre le mie ragioni su simile argomento. E mi si scuserà, dunque, se, ripetendo, in parte, cose già dette allora, riproporrò qui una definizione del romanzo che a me sembra giusta (ma che do, naturalmente, per quello che vale) :
«Romanzo sarebbe ogni opera poetica, nella quale l'autore — attraverso la narrazione inventata di vicende esemplari (da lui scelte come pretesto, o simbolo delle « relazioni » umane nel mondo) — dà intera una propria immagine dell'universo reale (e cioè dell'uomo, nella sua realtà) ».
Non occorre far notare, evidentemente, che opera poetica significa, per definizione, un'opera che, attraverso la realtà degli. oggetti, renda la loro verità poetica: è inteso da tutti che questa verità è l'unica ragione del romanzo, come di ogni arte. L'interezza, poi, dell'immagine rappresentata, distingue il romanzo dal racconto. Il racconto, difatti, rappresenta un « momento » di real tà, mentre il romanzo rappresenta una realtà (da questo non si. desume, tuttavia, una superiorità poetica del romanzo sul racconto! Non si tratta di qualità superiore o inferiore, ma di un differente rapporto con l'universo).
Bisogna però aggiungere che una raccolta di racconti — quan
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do si componga, con la ricchezza omogenea delle sue parti, in una interezza sviluppata e armoniosa — ha valore certo di romanzo. Così, poniamo, « La lettera rubata » di Poe é un racconto; però il volume dei « Racconti straordinari » (di cui « La lettera rubata » è parte) si può identificare certamente con un romanzo, del quale i singoli racconti sono altrettanti capitoli. Allo stesso modo, gran parte delle singole narrazioni di Cekof sono, a sé stanti, dei rac-contï; ma la raccolta cekofiana dei « Racconti » (anche senza contare quelli, come « La steppa » o « Una storia noiosa » ecc. che sono già dei romanzi in se stessi) senza dubbio ha valore di romanzo: giacché presenta un intero sistema (il sistema cekofiano) delle relazioni umane e dell'universo reale.
Liberato, così, da certi superflui schemi, e meglio inteso secondo le sue origini e le sue ragioni poetiche, il romanzo non può restringersi nella misura di un genere letterario, fissato da convenzioni scolastiche o determinato da contingenze culturali. Il gusto di inventare la storia inesauribile della vita è una disposizione umana naturale, comune a tutte le epoche e a tutti i paesi (perfino le leggende mitologiche e popolari sono già una specie di romanzo collettivo).
Il romanzo in prosa, che ha prevalso (sebbene non esclusivamente) dal Seicento in poi, non é altro che il successore diretto del poema narrativo, ossia del romanzo in versi; e non é detto che il romanzo in versi non possa, in seguito, tornare a fiorire (del resto già in tempi moderni ne sono occasionalmente ricomparsi degli esempi: « Childe Harold », « Eugenio Onjeghin », ecc.), come non è detto nemmeno che, in futuro, il romanzo non possa rivestirsi anche di altri nuovi aspetti, finora inediti. Ma il variare dei pretesti, e dei modi esteriori, lascia invariato l'antico, e spontaneo, motivo umano, a cui risponde l'arte del romanzo. L'arte narrativa (al pari di quella del teatro, o della poesia lirica), é una delle forme necessarie di cui si vale l'uomo per suscitare, col mezzo della parola, una sempre nuova verità poetica dagli oggetti reali (secondo il fine di tutte le arti: che é il perenne rinnovamento della realtà). E quest'arte trova, nel romanzo, la sua intera configurazione.
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Il romanziere, al pari di un filosofo-psicologo, presenta, nella sua opera, un proprio, e completo, sistema del mondo e delle relazioni umane. Solo che, invece di esporre il proprio sistema in termini di ragionamento, é tratto, per sua natura, a configurarlo in una finzione poetica, per mezzo di simboli narrativi. Ogni romanzo, perciò, potrebbe, da parte di un lettore attento e intelligente (ma purtroppo lettori simili sono molto rari, specie fra i critici) essere tradotto in termini di saggio, e di « opera di pensiero ». E se é vero che alcuni romanzi (a differenza di quelli che si affidano alla pura rappresentazione) si valgono, dentro la loro struttura, di modi e forme dichiaratamente saggistici, questa differenza non si riscontra solo nell'epoca moderna, ma é di tutti i tempi. « La divina commedia », a differenza dell'« Iliade », é un romanzo saggistico; e « I promessi sposi » é saggistico, a differenza dei « Malavoglia ». Cosi come, oggi, il romanzo di Musil é saggistico, a differenza di quello di Hemingway; ma la stessa, valida coesistenza di questi due autori potrebbe forse provare che non si può stabilire una prevalenza decisiva dell'una forma sull'altra, nel romanzo contemporaneo.
Io credo, veramente, che la scelta fra le due forme dipenda — più ancora che da possibili contingenze esterne — dal diverso genio di ciascun autore. Tutti sanno, difatti, che la ragione e la immaginazione, per natura, si equilibrano in ogni persona umana in diverso modo; ma che, nella loro diversa armonia, le due funzioni sono entrambe necessarie alla salute e alla sopravvivenza di ogni cultura.
Senza l'una o l'altra di queste due funzioni — per quanto equilibrate in diverso modo — é impossibile scoprire una qualsiasi verità nelle cose. E se il romanziere — come ogni artista — si distingue specialmente per la qualità immaginativa, d'altra parte gli. si richiede anche un dono superiore di ragione. Altrimenti, non gli sarebbe dato di ordinare felicemente, nelle sue parti, quel piccolo modello di architettura del mondo che si configura in ogni vero romanzo.
Questa necessaria intelligenza, però, si rivela, certo, di una qualità piú generosa e limpida quando non tradisce, sulla pagina,
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la presenza dell'autore; ma pare esprimersi spontaneamente dalle cose rappresentate, come una proprietà delle cose stesse. Allora si raggiunge la più incantevole bellezza umana: quella in cui la ragione si confonde con la grazia. E tale, appunto, é la bellezza di certi capolavori della pura rappresentazione.
In proposito, é certo che i romanzieri (anche quelli saggistici) non sempre sono consapevoli di tutte le verità che scoprono; ma questo non importa, giacché le loro verità, piuttosto che per se stessi, essi le scoprono per gli altri. Quello che conta, in loro, non è la consapevolezza dei mezzi, o dei risultati; ma la fedeltà disinteressata a un unico impegno: interrogare sinceramente la vita reale, affinché essa ci renda, in risposta, la sua verità.
Questa interrogazione eterna di ogni poeta è — oggi, più di prima — per il romanziere, un'esigenza non solo della sua ispirazione, ma della sua coscienza. E tanto piú, dunque, suonano equivoche e stonate le voci di cerai piccoli recensori di romanzi, i quali parlano arbitrariamente di impegno e di evasione, dimostrando soltanto, coi loro poveri criteri, la loro deficienza critica e umana. Essi evidentemente ignorano che un romanzo bello (e dunque, vero) é sempre il risultato di un supremo impegno morale; e che un romanzo falso (e, dunque, brutto) é sempre il risultato di una evasione dal primo e necessario impegno del romanziere, che è la verità.
Bisogna riconoscere, a questo punto, che simili recensori di rado osano nominare la verità: essi nominano più volentieri la realtà, ma hanno il potere, coi loro argomenti, di rendere irreale perfino questo nome. Non si capisce, difatti, in quale mondo esista il feticcio inerte e rudimentale nel quale essi pretendono di identificare la « realtà assoluta ».
Se la realtà fosse quel simulacro convenzionale vantato da loro, la scienza e l'arte sarebbero morte sul nascere, per mancanza di alimento. Come ogni altra viva esperienza umana, difatti, l'arte non può nutrirsi che di realtà. E certo non basteranno le presunzioni ignoranti dei nostri piccoli conformisti a farla morire di inedia e di noia.
La ricchezza della realtà, a loro torto e dispetto, é inesauri-
LL ELSA MORANTE
bile: essa si rinnova e si moltiplica per ogni nuova creatura vivente che parte a esplorarla. La molteplicità delle esistenze non avrebbe né significato né ragione, se non fosse che per ogni esistenza si scopre una diversa realtà. L'avventura della realtà è sempre un'altra. Ma al romanziere (come a ogni altro artista) non basta l'esperienza contingente della propria avventura. La sua esplorazione deve tramutarsi in un valore per il mondo: la realtà corruttibile dev'essere tramutata, da lui, in una verità poetica incorruttibile. Questa è l'unica ragione dell'arte: e questo è il suo necessario realismo.
Supremi esempi di non-realismo, di non-impegno, e di evasione, a me sembrano certi prodotti del realismo socialista (così nominato), o del (così nominato) neo-realismo contemporaneo.
Un vero romanzo, dunque, è sempre realista: anche il più favoloso! e tanto peggio per i mediocri che non sanno riconoscere la sua realtà. Soltanto degli sciocchi, a esempio, potrebbero disconoscere il realismo di Alighieri: per quanto il suo romanzo pretenda narrare le peripezie di un vivente nell'oltretomba e metta gli angeli e i diavoli sulla scena. Così pure, a esempio, è realista la narrativa di Poe: giacché le figure, che egli proietta nel mondo, rappresentano con verità la sua psicologia reale di uomo vivente. Se egli, falsando la propria realtà psicologica, avesse descritto con zelo documentario, a edificazione dei borghesi suoi concittadini, gli onesti passatempi domenicali di una famigliola puritana, allora si che non sarebbe stato realista. Né più né meno che non sarebbe stato realista Verga se, in luogo di proiettare nel mondo (secondo la propria realtà psicologica) le figure dei Malavoglia, avesse fabbricato, a edificazione della sua parrocchia o dei Circoli della Caccia locali, dei pescatorelli e delle pescatorelle sul genere di quelli dei calendari, o dei manifesti turistici di propaganda.
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Si potrà dire che il mondo di Poe è soggettivo, mentre che quello di Verga, o, poniamo, di Flaubert, è oggettivo; ma la distinzione varrà solo a qualificare la diversa forma psicologica di questi diversi poeti, e non a negare la realtà dell'uno o quella dell'altro. Il dramma dell'uomo Poe, che si proietta nei simboli narrativi del poeta Poe, non é meno reale del dramma dei poveri pescatori siciliani, o di quello della piccola borghesia di provincia, che si riflettono nei simboli narrativi dei poeti Verga, o Flaubert. Ogni dramma umano é reale; e ogni romanzo, che rappresenti questo dramma secondo verità, é realista.
Ogni dramma umano, inoltre, proprio in quanto umano, è un dramma psicologico. Si recherebbe la più stolta offesa alla persona umana se si riconoscesse all'uomo soltanto la sua funzione sociale (di poeta, o di medico condotto, o di re, o di pescatore) e si ignorasse la sua prima verità, e la più umana realtà del suo dramma: che è una realtà psicologica. Tolstoi, scrivendo (se ben ricordo) al giovane Gorki, lo avverte che è lecito inventare qualsiasi cosa in un romanzo, fuorché la psicologia. Per me, questa è l'unica, assoluta legge del realismo nel romanzo.
Ogni vero romanzo é un dramma psicologico, perché rappresenta il rapporto dell'uomo con la realtà. E il primo termine di questo rapporto, é, in partenza, sempre l'autore del romanzo, giacché è il suo diverso orientamento psicologico a determinare la scelta del suo itinerario nella esplorazione del mondo reale. Si potrebbe dire che l'avventura umana, rappresentata in un romanzo, è sempre soggettiva, perché significa sempre, nella sua verità, il dramma umano del romanziere stesso (cioè il suo particolare rapporto col mondo). Se si volesse isolare il sentimento predominante che stimola, in ogni romanziere, la sua diversa scoperta del mondo, si potrebbe riconoscere che in Verga, per esempio, questo sentimento è la pieta, in Flaubert (come già in Cervantes) è l'ideale romantico, in Melville è la religione materna, in Kafka è la paura dell'esistenza e delle « relazioni » nel mondo, in Poe è l'orrore della morte, ecc. Sono sempre sentimenti soggettivi, ma il dramma, che ne nasce, ha sempre, come ogni dramma, un termine di rapporto oggettivo: che è sempre, in ogni romanzo, il mondo
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reale. Così, anche la distinzione fra romanzi soggettivi e romanzi oggettivi, a me sembra soltanto esterna. E riguardo all'ipotesi che il romanzo volti definitivamente le spalle alla psicologia, essa mi sembra assurda nella sua stessa enunciazione, perché il romanzo è, in se stesso, la proiezione di una psicologia nel mondo. Lo è quando intreccia favolisticamente delle vicende, non meno di quando si ferma a esaminare, in termini di analisi psicologica, le coscienze e le relazioni umane. Ma in quanto, poi, alla scelta fra queste due diverse forme espressive (la favolistica e la psicologica) direi anche qui (come per il romanzo di pura rappresentazione rispetto a quello saggistico) che essa, più che dalle diverse società o dalle mode, dipenderà sempre, forse, dalla diversa psicologia che distingue ogni autore di romanzi da un altro, come ogni uomo da un altro. Suppongo perciò che la coesistenza di queste due forme sia un fenomeno naturale in ogni tempo (basterebbe ricordare che uno stesso secolo vide nascere lo psicologico Canzoniere petrarchesco e il puro oggettivismo del Decamerone...).
***
Giustificato, invece, da un'esigenza particolare del nostro secolo, mi sembra il frequente e particolare uso, da parte dei romanzieri moderni, della prima persona. È un fatto che la multifor-mità sterminata e cangiante (la chiamata «relatività ») dell'oggetto reale, anche se fu sempre avvertita dai sensi e dalla intelligenza degli uomini, oggi é diventata un'acquisizione di tutte le scienze, posta addirittura al loro servizio, e confermata, con evidenze spettacolari, dalla pratica. Seppure si volesse ammettere (ma sarebbe un errore) che, per esempio, i Greci antichi credevano in una « realtà assoluta », una simile credenza sarebbe impossibile per un uomo moderno: a meno che non si trattasse di un analfabeta o di un selvaggio. E allora, nel momento di fissare la propria verità attraverso una sua attenzione del mondo reale, il romanziere moderno, in luogo di invocare le Muse, é indotto a suscitare un io recitante, (protagonista e interprete) che gli valga da alibi. Quasi per significare, a propria difesa: « S'intende che quella da me rappresentata non è la realtà; ma una realtà relativa all'io
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di me stesso, o ad un altro io, diverso in apparenza, da me stesso, che in sostanza, però, m'appartiene, e nel quale io, adesso, m'impersono per intero ». Così, mediante la prima persona, la realtà nuovamente inventata si rende in una verità nuova.
Questa prima persona responsabile, dunque, é una condizione moderna; ma non è detto che sia definitiva. La enorme riforma scientifica del mondo é, oggi, ancora una novità, in piena azione: e le coscienze presenti ne risentono l'urto. Ma è possibile (augurabile!) che, più tardi, scontato questo trauma scientifico e industriale, l'uomo riprenda la sua naturalezza e si riabbandoni, senza ripugnanze mentali, alle proposte immediate della realtà. Così, a esempio, é probabile che, all'epoca delle grandi scoperte astronomiche, ne sia conseguito, per qualche poeta, un certo scetticismo, al momento di chiamare la luna candida vela del cielo, vergine della notte, e simili. Ma poi, gli astronomi sono rimasti padroni delle loro verità, e i poeti si sono ripresi le verità loro; e, attraverso i secoli, fino a Leopardi e a Ungaretti, hanno seguitato a rivolgere madrigali alla luna, né più né meno di come faceva Saffo.
Le verità scientifiche sono, senza dubbio, legittime: però le verità poetiche, di certo, non lo sono meno. E mai, come in periodi di dittatura scientifico-industriale, si richiede ai poeti di difendere le loro verità, come un feudo minacciato, che appartiene a loro, ma è un bene necessario per tutti. Il mondo vivente si ridurrebbe a un campo di maledizione e di sterminio se gli uomini cessassero di riconoscere dei simboli di verità poetica nelle cose reali.
Tale necessaria difesa della propria verità non potrebbe mai giustificare, però, l'ignoranza, o l'assenza, o il rifiuto. Al contrario. Al romanziere (più che a qualsiasi altro artista), occorre — oggi, in special modo — la consapevolezza dei percorsi compiuti prima di lui, e del punto presente dal quale lui si muove. Per trovarsi maturo alla propria scelta, il romanziere deve avere esperimentato in sé la prova comune, fino all'ultima angoscia. E deve avere assi-
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milato in sé le verità del passato, e la cultura dei propri contemporanei. Avere assimilato, però, significa un arricchimento, e non una intossicazione, o un ingorgo.
Cosi, al momento della sua massima attenzione verso le cose reali (al momento, cioè, in cui si dispone a scrivere) lo scrittore dovrà fare il silenzio intorno a se stesso, e liberarsi da ogni schermo culturale, da ogni feticcio, da ogni vizio conformistico. La sua coscienza provata e matura, in quel momenta, dovrà raccogliersi e fissarsi su un unico punto: l'oggetto reale della sua scelta, inteso a confidargli la propria verità. Col sentimento avventuroso e quasi eroico di chi cerca un tesoro sotterraneo, egli dovrà ora cercare quell'unica parola, e nessun'altra, che rappresenta l'oggetto preciso della sua percezione, nella sua realtà. Appunto quella parola è la verità, voluta dal romanziere. E appunto qui, nell'atto stesso di scrivere, il romanziere andrà così inventando il proprio linguaggio. È l'esercizio della verità, che porta all'invenzione del linguaggio, e non viceversa. Col puro esercizio delle parole — dove queste parole non siano confidate dalle cose, e discusse attraverso il dialogo con le cose — si potrà magari combinare un artificio elegante; ma non si inventa nulla.
Il problema del linguaggio — come ogni altro problema del romanziere — si identifica e si risolve, da ultimo, nella realtà psicologica del romanziere stesso, e cioè nella intima qualità del suo rapporto col mondo. Il più vivo segreto di un linguaggio nuovo (ossia valido ad aprire nuovi itinerari all'avventura umana nel mondo reale) si ritrova in una libera e disinteressata simpatia del romanziere con gli oggetti della natura e dell'universo umano. Questa é la prima legge vitale, senza la quale non può prodursi un linguaggio nuovo, che regga ai massimi paragoni della vita. E quanto più il romanziere sarà vicino alla sua maturità perfetta, tanto più il suo linguaggio si farà semplice e limpido. Difatti, se la realtà é torbida, la verità è naturalmente limpida nei suoi colori. E l'arte più difficile, per il romanziere, è di rispecchiare nel proprio linguaggio la limpidezza della verità. Per questo, fanno meraviglia certi nostri giovani critici pieni d'ingegno: i quali spendono il loro ingegno nell'analisi artificiosa di pagine artificiose; e
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non riconoscono (perché nascosto, come il segreto stesso della vita) quello che (oggi, in ispecie), é il lavoro più difficile, o la grazia più rara.
Rispondendo, adesso, alla domanda circa il dialetto, a me sembra di poter affermare che il dialetto — finché non acquisti le ragioni e la forza vitale per elevarsi a strumento universale di una cultura — non pub « dire tutto ». Difatti, la funzione del romanzo è di esprimere e comunicare una verità; e ogni verità, per venire espressa e comunicata nella sua assolutezza, deve valersi di simboli universali, quali sono i simboli eletti nella lingua della cultura. Qui appunto si determina senza rimedio il limite di qualsiasi opera (anche geniale) scritta in dialetto: che, é insieme, naturalmente, anche il limite proprio del suo autore.
D'altra parte, a me sembra che, in una certa misura, l'adozione nel romanzo di parole e forme del linguaggio parlato (non solo dei dialetti, ma anche dei gerghi) sia, più che legittima, salutare e addirittura necessaria: perché la lingua perderebbe la propria funzione vitale se non ricevesse alimento dalla vita. Però questo alimento, per valere in quanto tale, deve venire assimilato: occorre, cioè, che simili parole o forme dialettali o gergali (o magari anche inventate all'occasione dallo scrittore stesso) si assumano naturalmente, per la qualità dello scrittore, fra i valori propri della lingua della cultura. Ecco perché, nei veri romanzi, la novità di certi modi si avverte appena, tanto è naturalmente assimilata all'elemento proprio del linguaggio; mentre che, negli altri, si fa notare come un elemento indigesto, ibrido e stravagante. Qui si denuncia la sua necessità o la sua intrusione forzata: e qui si lascia riconoscere anche la presenza o l'assenza di un vero impegno nel lavoro artistico. Perché, nel primo caso, l'uso di elementi nuovi nel linguaggio é richiesto da un'esigenza assoluta di verità; mentre che, nel secondo caso, é richiesto solo in funzione esteriore del pittoresco: o per servire allo snobismo, o all'istrionismo, o magari all'opportunismo dell'autore.
Assai spesso, poi, nei romanzi odierni, e in particolare nei
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passaggi dialogati, l'uso del dialetto non ubbidisce a una qualsiasi intenzione — legittima o spuria — di arricchimento del linguaggio o di allargamento del territorio reale; ma soltanto alla moda contemporanea del documentarismo, che, per la sua falsa presunzione, dà sempre dei prodotti falsi. I Malavoglia non parlano in dialetto siciliano, come i loro modelli reali; ma in italiano, e per questo riescono tanto più veri. La funzione del romanziere non si riduce alla registrazione della greggia realtà parlata (per questo, basterebbe un magnetofono); ma si motiva nell'espressione della verità umana, resa attraverso i suoi dialoghi reali. Non c'è cosa più irreale (e anzi spettrale) di una voce «ripresa dal vero », scaduta e morta, recitata da un automa. E non c'è cosa più reale, e viva per sempre, di un qualsiasi dialogo fra amanti italiani alla Corte di Parma, riferito, in linguaggio francese stendhaliano, dal suo inventore Stendhal.
Nella realtà poetica, propria del romanzo, un dialogo, per essere proprio vero, bisogna che sia inventato. La trascrizione documentaria di una realtà praticamente auditiva, rischia di ridursi, sulla pagina di un romanzo, a una larva spenta, che non dice nulla.
Quanto alla realtà puramente visiva predicata da una giovane scuola francese odierna (detta, se non mi sbaglio, du regard) confesso di non avere ancora letto nessuna delle opere prodotte da questa scuola; ma la sua tesi programmatica, così come é enunciata nella presente inchiesta, mi ispira qualche perplessità. Mi domando, difatti, per chi possa darsi mai una realtà puramente visiva, se non per una macchina fotografica; e in nome di quale « valore di verità » l'organismo, tutto altrimenti articolato e complesso, di un romanziere, debba costringersi a imitare il lavoro di un povero meccanismo ottico di bottega. Immagino che possa trattarsi di un degno esercizio ascetico: quale, a esempio, assistere ai concerti con gli orecchi imbottiti di cera Ohropax; oppure nutrirsi esclusivamente di limonate. Ma uno spettacolo di ascetismo, per quanto edificante, non rappresenta, in se stesso, un ro-
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manzo, né, comunque, un'opera d'arte; e suppongo, perciò, di potere, in occasione della presente inchiesta sull'arte del romanzo, sospendere, senza troppi rimorsi, il mio giudizio su tali mode ascetico-letterarie. Tanto più che all'attuale scuola della realtà puramente visiva potrà succedere, magari, fra una stagione, un'altra scuola ancora più moderna: la quale predichi, a esempio, una realtà puramente olfattiva, o gustativa, o simile. E allora, a meno di non farsi considerare dei sorpassati, tutto sarà da ricominciare.
***
Un'altra caratteristica certa, che distingue i mediocri e falsi romanzieri, é la preoccupazione — la intenzione programmatica
— di apparire ai propri contemporanei, a qualsiasi costo, « nuovi », « moderni », « all'avanguardia », ecc. È comprensibile, difatti, che un mediocre e falso romanziere si preoccupi di eccitare, a qualsiasi costo, la curiosità dei propri contemporanei: giacché, fuori di quella che gli offrono i suoi contemporanei, a lui non è data nessun'altra occasione di farsi leggere. Col sopravvenire di una nuova generazione — o, magari, anche soltanto della prossima stagione
— la sua falsa realtà non ingannerà più nessuno. Mentre che il poeta vero sente (anche se non lo sa) che molti dei suoi lettori devono ancora nascere, e che la sua realtà è vera per sempre.
Il vero romanziere non si preoccupa, né tanto meno si impone per programma, di apparire nuovo e moderno: eppure, lo é sempre, anche se da principio non lo appare ai volgari, e anche se, per ipotesi, tenta di non esserlo. E come potrebbe non esserlo, se vive, da uomo, nel suo tempo; e se, da artista, è anzi il centro sensibile (che lo voglia o no) del suo tempo, e dei fenomeni contemporanei, e delle « relazioni » reali!
Una esperienza umana, sentita e espressa con sincerità, é sempre unica e sempre nuova: e il suo valore di verità non ha termini di durata, se la sua rappresentazione è opera di un poeta vero. Però, in quanto esperienza umana, essa è pure definita, per necessità, dalle dimensioni umane dello spazio e del tempo: e perciò, qualsiasi voglia essere la sua testimonianza, essa significherà sempre, necessariamente, anche la realtà definita dallo spazio e dal
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tempo dentro i quali si è espressa. Un vero romanziere, insomma — qualunque sia la vicenda o il destino, soggettivo, individuale o collettivo, che offre pretesto ai suoi romanzi — comunicherà sempre necessariamente, alle generazioni contemporanee e future, anche le più sicure verità sul « luogo geografico » e sul « tempo storico » nel quale ha vissuto la propria esperienza umana. Petrarca descrive, in un poema psicologico-intimista (fuori d'ogni « Storia » e d'ogni « Nazione ») il proprio segreto amore per una donna sposata: eppure il Canzoniere rimane una delle immagini perfette dell'Italia del Quattordicesimo Secolo. « I Promessi Sposi » racconta una storia del tempo dei Lanzichenecchi: eppure presenta una perfetta immagine dell'Ottocento italiano. Kafka scrive delle favole surreali: eppure nessun resoconto fotografico e documentato esprime certe atroci verità del presente secolo, come le sue favole surreali, ecc.
Per concludere, insomma: se oggi, 1959, un vero poeta sceglierà di scrivere un romanzo, poniamo, sulle guerre di Algeria, o su Pia dei Tolomei, o magari sulla giornata del proprio gatto, il suo romanzo sarà, in ogni caso, assolutamente moderno, e impegnato, e umano, e reale; e offrirà alle generazioni presenti e future — oltre ai suoi significati incommensurabili — anche una misura perfetta, e un ritratto intero del 1959. Mentre che un falso poeta potrà adoperarsi finché vuole a raccontare i più recenti fatti bellici, o il lancio del Lunik, o l'ultima partita Roma-Napoli; ma il suo romanzo, in ogni caso, non sarà moderno, non apparterrà ad alcun «tempo storico» e a nessun luogo reale, e sarà fuori d'ogni dimensione. Sarà difatti una falsa parvenza, irreale e senza vita, che non significa nulla.
Il valore, anche storico, di un romanzo non dipende dai suoi pretesti narrativi, ma dalle sue verità. Tocca all'intelligenza, alla libertà di giudizio e all'attenzione dei contemporanei riconoscere le proprie verità — fino a quelle più occulte o inconfessate — nelle rappresentazioni dei loro poeti. Il fatto è che — al pari di tutte le dimensioni convenzionali umane — anche quella del « tempo storico » spesso diventa (nelle menti non libere) un pregiudizio.
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Io mi guarderei bene, tuttavia, dal pregiudizio contrario. L'arte non può, per principio, adottare il rifiuto delle convenzioni. I simboli poetici, per il loro valore universale, sono tutti, in se stessi, delle convenzioni: senza le quali nessuna verità poetica potrebbe essere comunicata. Gli avvenimenti storici, anche contemporanei, hanno offerto, in passato, ricchi valori simbolici ai poeti: tanto è vero che ne é nato, per esempio, un poema come « Guerra e pace ». E Dio volesse che certi atroci fenomeni storici del nostro secolo potessero già oggi proporsi a qualche poeta come simboli di verità spiegate, da rendersi in un valore poetico senza fine per noi contemporanei e per gli altri.
Così, non si dovrebbe nemmeno escludere la possibilità, oggi, di un « romanzo nazionale storico » contemporaneo. Rimane solo da sapere se il valore di simboli quali « nazione », e simili, non sia stato, ai nostri giorni, compromesso, o sostituito da altri valori. Ma una tale discussione oltrepasserebbe i limiti della presente inchiesta, e anche i limiti miei.
***
Mi rimane ora da rispondere, qui per ultimo, alla domanda (che la presente inchiesta pone per prima) circa la crisi del romanzo e in generale delle arti. Ma forse, dalle mie risposte precedenti, già si può capire che — se per crisi s'intende (come molti oggi intendono) crisi mortale — io non credo alla possibilità di una tale crisi. L'arte é una manifestazione necessaria degli uomini; giacché « persona umana » significa: avventura cosciente nel mondo reale, immaginazione, esigenza disperata di verità, religione del futuro e della testimonianza. Aggiungerei: necessità di riconoscersi nella bellezza, ma non voglio spaventare tanti miei amici con la parola bellezza, che a loro fa paura. Del resto, verità poetica e bellezza sono la stessa cosa : e diciamo dunque che « la verità poetica come specchio » é una delle ragioni fondamentali dell'uomo. Escluso da questa ragione, anche l'uomo più misero _e abbrutito intristirebbe fino alla morte. A meno di non voler presupporre, dunque, uno snaturamento definitivo dell'uomo (come
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dire una sparizione della persona umana dal mondo) non si può considerare possibile una crisi mortale dell'arte.
Se per crisi invece s'intende « sviluppo » o « trasformazione » (o magari «eclisse temporanea ») è certo che ogni forma artistica, come ogni altra espressione umana, partecipa delle crisi periodiche della società e della vita: anzi, ne è il centro sensibile. Il nostro secolo é il luogo di un passaggio drammatico: che si può tradurre, nella psicologia, in una crisi d'angoscia. Così accade che gran parte degli artisti odierni proiettino, nel mondo, le proprie immagini reali (che essi chiamano astratte) di questa angoscia. Tali, che, molto spesso, per quanto si nominino « artisti », essi, invece, abdicano, nell'atto stesso di esprimersi, alla prima ragione dell'arte: che é la forma della verità, espressa attraversò la realtà delle cose. Le loro immagini si limitano a rendere la greggia realtà della loro angoscia. E qui, curiosamente, certi astrattisti di ogni arte si ricongiungono con quelli che essi ritengono i loro contrari: e cioè i naturalisti, e i documentaristi. Difatti, gli uni e gli altri significano il medesimo fenomeno: registrazione di una realtà greggia — non importa se soggettiva o oggettiva — nella rinuncia al valore della verità, e dunque all'arte.
A una simile rinuncia — benché per altra via — si riducono pure i seguaci di un altro (e, in certo modo, opposto) astrattismo: ì quali, fuggendo impauriti dalla pienezza della loro coscienza, spettatrice dell'angoscia, si esiliano nel deserto estremo dei rap-, porti matematici e spaziali. Si potrebbe ripetere, per loro, che un esercizio ascetico, in se stesso, non significa un risultato artistico; ma, ormai, viene il sospetto che tutte queste « ascesi » dell'arte contemporanea s'ingannino, da se stesse, anche nella loro possibile presunzione edificante. Difatti, quello che esse ricercano, in fondo alla loro fuga, non è un nuovo principio di vita, ma l'ultima sterilità della morte.
Rimane, in ogni caso, la certezza che anche questa astrazione ascetica, come la precedente astrazione, è una risoluta negazione dell'arte. Essa ambisce, difatti, ad alienarsi dagli oggetti della vita reale, riducendo la molteplicità dei simboli allo zero; mentre che il primo segreto dell'arte sta proprio nella sua simpatia coi molte-
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plici oggetti del mondo reale, che l'arte, per la sua qualità, deve saper tradurre in simboli di verità sempre nuove, così da rinnovare perennemente il mondo e la vita. « Un'arte senza oggetti » é una proposizione assurda nei suoi stessi termini: come dire « una vita senza viventi ».
Sembra strana, in proposito, la sentimentale pretesa odierna: di volere riconoscere delle affermazioni di valori poetici dentro le stesse negazioni di questi valori. Ma una simile pretesa, forse, può valere a confermare, infine, la esigenza perenne e disperata di valori poetici nel mondo.
Bisogna osservare, a questo punto, che l'abdicazione ai simboli, e certe « regressioni » e « riduzioni » per effetto dell'angoscia, anche se non possono giustificare col titolo di arte i loro prodotti, si confessano, in se stesse, come nude esperienze umane. La psicologia moderna ha insegnato che spesso l'angoscia, nella sua estremità, cerca una medicina e un riposo nella riduzione spettrale del mondo, e nel ritorno al disordine dell'informe e del prenatale. Anche nei miti, le lotte coi draghi infernali, le discese sotterranee, e le traversate dell'irrealtà notturna rispecchierebbero questa esperienza psicologica comune.
Ma anche nei miti, appunto, si legge che il protagonista solare (ossia la immaginazione ragionante, consapevole del destino) risale sempre dalla prova della notte, portando la liberazione alla città devastata. A lui si richiede di affrontare l'angoscia non per ubbidire alla morte, o per dare spettacolo di se stesso; ma per una assoluta conoscenza. Ogni uomo può sempre ritrovare, in se stesso, una risposta per le proprie domande: anche per quelle a cui perfino la scienza, o la storia, o la religione, rispondono in modo incerto. Questa ultima risposta (resa a lui dalla sua ragione e dalla sua immaginazione insieme) é il punto limpido della « verità poetica », riconoscibile in tutte le cose reali.
Quando il mondo si trova a certi passaggi drammatici, piú che mai sarebbe augurabile una consapevolezza limpida e disinteressata da parte degli artisti, e in ispecie degli scrittori. Difatti, lo scrittore di poesia, e il romanziere in ispecie (uguagliato, in questo, forse soltanto dal poeta tragico), rappresenta, nel mondo, la com-
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piuta armonia della ragione e dell'immaginazione: e cioè l'intera e libera coscienza umana, l'intervento che riscatta la città umana dai mostri dell'assurdo.
A lui non basterà di riconoscere passivamente i segni della malattia, né di denunciarne la strage e lo scandalo comune. Si tratterà, per lui, di compiere l'amara traversata dell'angoscia a occhi aperti (per così dire) : in modo da ritrovare, anche in mezzo alle confusioni piú aberranti e difformi, il valore nascosto della verità poetica, per consegnarlo agli altri. Così hanno fatto, per esempio, Proust e James; così ha fatto Svevo; così ha fatto Saba (per tacere di altri, viventi tuttora). Così non ha fatto, invece, Joice nell'Ulysses (con tante scuse per i Joiciani; del resto, si intende che il mio punto di vista può essere sbagliato, e in questo caso me ne pentir)).
Onestamente, mi sembrerebbe ingiusto denunciare, oggi, una crisi del romanzo: mentre appunto in questi ultimi decenni sono stati prodotti dei romanzi meravigliosi (e non pochi anche in Italia: per un privilegio della sorte di cui gli Italiani, peraltro, non sembrano né abbastanza consapevoli, né abbastanza riconoscenti).
Grazie all'opera dei grandi scrittori, e dei pensatori moderni, nel nostro secolo sono stati aperti nuovi itinerari affascinanti e ancora misteriosi, per la esplorazione della realtà psicologica e della società umana. Un'avventura drammatica, sconfinata e piena d'imprevisti, si propane alla conoscenza dei nuovi romanzieri. Al contrario di quanto affermano alcune persone, io direi che, forse, sta per cominciare una nuova, grande epoca per il romanza.
Così, anche nella ipotesi (finora, tuttavia, non dimostrata affatto) di una eclisse nelle altre arti contemporanee, a me sembra che tale eclisse non dovrebbe raggiungere l'arte del romanzo. Le stesse ombre, difatti, che oggi possono minacciare gli altri artisti, frapponendosi fra loro e la realtà, si propongono, anzi, al romanziere, come tentazioni alla conoscenza reale. Non si deve dimenticare che il romanziere, per sua natura, non è soltanto un termine sensibile nel rapporto fra l'uomo e il destino, ma è anche lo studioso e lo storico di questo rapporto sempre diverso.
Neppure i motivi di carattere <c strumentale », che oggi sembrano congiurare per una possibile crisi delle altre arti, non do-
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vrebbero minacciare l'arte del romanzo, che si esprime e consiste nella parola. La parola si rinnova sempre nell'atto stesso della vita,
e (a meno di una enorme frana della civiltà) non può scadere a oggetto pratico, spento e logoro. Ogni altro strumento può deperire, o decadere, ma la parola rinasce naturalmente insieme alla vita, ogni giorno, fresca come una rosa. Così, seppure i musicisti moderni vorranno ricorrere alla fisica elettronica, e i pittori sostituire al pennello la fiamma ossidrica, e gli scultori, al posto della materia plasmabile, usare degli spaghi ritorti, lo scrittore non potrà seriamente alienarsi dal proprio lavoro in simili esperimenti di fabbrica. Il suo mezzo, e la sua espressione, sono tutt'uno. Non si può trasferire o travisare il valore della parola, giacché le parole, essendo i nomi delle cose, sono le cose\ stesse.
« Una rosa é una rosa é una rosa é una rosa ».
Con questo, non si nega che l'arte del romanzo richiede oggi, da parte dello scrittore, una volontà di resistenza quasi disperata,
e una esclusiva fiducia nelle proprie ragioni durature. Il romanziere odierno (parlo sempre, naturalmente, del vero romanziere,
e non delle sue contraffazioni dozzinali), non può contare, oggi, su nessuna società vivente che comprenda il suo lavoro, o che, addirittura, riconosca una cittadinanza alla sua persona. La necessaria, finale eliminazione delle caste sociali o economiche (già acquisita, ormai da tempo, nella mente e nell'opera degli scrittori) nella pratica, invece, delle società contemporanee (anche delle società « progressive ») si trova ancora a un incrocio convulso, e ingombrato dall'ignoranza, dalla bestialità e dalla gretta paura. Così, le classi nuove che saprebbero forse già accogliere — con intelligenza, e avidità, e freschezza di sentimenti — le anticipate verità della poesia, non dispongono ancora dei mezzi materiali e culturali adatti a riceverle. Mentre le caste che ancora resistono —
o si impongono con la violenza — alla direzione degli stati, sono gente ridotta alle brute funzioni fisiche: qua per la sordida, impossibile conservazione; e là per la cieca, impossibile repressione anti-umana.
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In conseguenza, bisogna che i romanzieri contemporanei siano rassegnati a dedicare quasi sempre le loro più care verità a lettori che ancora non sono nati, o che non sanno ancora leggere (è chiaro che non si tratta, qui, della capacità di leggere i rotocalchi, o i bollettini di propaganda. Si pile, avere studiato a scuola, e conoscere alla perfezione i caratteri romani o cirillici: e essere, tuttavia, imprigionati nell'analfabetismo).
El sueño de la razon produce monstruos. E in poche epoche, come nella presente, il sonno della ragione é stato assecondato, cullato, lusingato. Perfino le macchine prodotte dalla scienza, che dovrebbero rappresentare i monumenti della ragione, si riducono, invece, a dispensieri inerti di questo sonno senile. Ed é logico, allora, che, dentro una simile industria del sonno, la vera arte sia guardata come un'intrusione sovversiva, e poco raccomandabile.
Difatti, i benpensanti addetti ai governi, dal Mediterraneo alla Siberia, glorificano con tutto il cuore i peggiori mostri della non-arte; e sostengono volentieri le più sudice gazzette disposte a diffamare i veri artisti. Dovunque sia a loro permesso d'intervenire, quei direttori generali delle anime si adoperano a « minimizzare », e possibilmente a strangolare ogni viva espressione della realtà, che é il respiro dell'arte. E mentre, come si conviene, condannano ufficialmente il commercio delle droghe, ogni giorno, poi, attraverso i loro giornaletti, la loro radio e la loro televisione, propinano alla gente l'oppio dell'imbecillità. Non esiste stupefacente più efficace di questo, per corrompere e degradare un popolo; e non c'è, evidentemente, immoralità peggiore che fare un commercio di Stato di questa droga.
In compenso, si discute moltissimo, oggi, in occidente e più ancora in oriente, dei compiti, dei doveri, della responsabilità degli scrittori!, e i propagandisti della buona arte indicono perfino dei congressi internazionali su questo argomento. Ma purtroppo, simili propagandisti, nella maggioranza dei casi, appartengono — in qualità di funzionari, o di impiegati, o di commessi, o di semplici devoti — proprio a quelle industrie dei sonno, di cui diceva. E se ne pue), dunque, facilmente dedurre quale sia la buona arte predicata da loro. La prima virtù dello scrittore, e cioè il disinteresse
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per ogni altro vantaggio che non sia la verità, essi per principio la condannano come un delitto. E sono proprio costoro che, in certe società odierne, dispongono di poteri legislativi e esecutivi.
Non ricordo più quale intelligente critico ha detto che una vera opera d'arte si può riconoscere anche a questo: che provoca sempre, nel lettore o spettatore, un aumento di vitalità. Ora, é facile supporre, secondo ogni evidenza, che le odierne caste governanti, per quanto possano discordare fra loro nelle ideologie politiche, si trovino, però, d'accordo su un punto: nel considerare, cioè, non troppo conveniente, e piuttosto scomodo, dal loro punto di vista, ogni nuovo possibile aumento di vitalità nelle « classi inferiori ».
Il fatto è che una vera opera d'arte (si trattasse anche della semplice descrizione, in pochi versi, di un gelsomino) è sempre rivoluzionaria: giacché provoca un aumento di vitalità, appunto. Per questo tutti i reazionari d'ogni partito preferiscono l'arte falsa, la quale non provoca altro che il benvenuto sonno della ragione; e in certi casi, magari potrà essere brava fino a provocare un collasso.
L'apparizione, nel mondo, di una nuova verità poetica, è sempre inquietante, e sempre, nei suoi effetti, sovversiva: giacché il suo intervento significa sempre, in qualche modo, un rinnovamento del mondo reale. Essa disturba, dunque, tutti coloro che vorrebbero, finalmente, fissare il mondo dentro un proprio schema definitivo, foss'anche a costo di anchilosare la vita. Per questo, i filistei si ritraggono, per istinto atavico, davanti a ogni nuova verità poetica che compaia sulla terra, come davanti a una faccenda sconveniente. E per questo certi dittatori, armati di eserciti e di bombe atomiche, hanno paura al cospetto di una inerme poesia, feroce solo della sua bellezza, e le vietano l'ingresso nei loro confini.
Io ho notato (sarà magari un caso) che le persone più pronte a affermare una crisi sicura dell'arte, e in particolare del romanzo, appartengono, il più delle volte, proprio a simili tipi umani: paurosi, nel loro cuore, di ogni nuova verità poetica, e indotti a negarne l'apparizione troppo pericolosa per i loro piani, o per i loro vantaggi. Tanto più, allora, i poeti dovranno tener caro il massimo
valore della poesia e difenderlo dalle varie tentazioni interessate... E la crisi finirà (come diceva una canzonetta della nostra infanzia).
***
Mi sembra, così, di avere risposto coscienziosamente a tutte le domande della presente inchiesta. Mi rimane solo la domanda finale: quali siano i miei romanzieri preferiti, e perché; e a questa rispondo:
Omero; Cervantes; Stendhal; Melville; Cekof; Verga.
Perché questi sei poeti, più di tutti gli altri da me conosciuti, provocano sempre in me, a frequentarli, un aumento di vitalità straordinario. Tale che, più di una volta, nel corso (ormai funghetto) della mia vicenda, io credo di essere stata addirittura risuscitata dai morti, per la virtù loro.
ELSA MORANTE
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 38
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38


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