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tipologia: Analitici; Id: 1472468


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo (Mito e civiltà moderna) Ernesto De Martino, Mito, scienze religiose e civiltà moderna
Responsabilità
De Martino, Ernesto+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
N UOVI ARGOMENTI

N. 37 Marzo - Aprile 1959

Il mito, il simbolo, l’arcaico, il magico, il sacro esercitano sulla cultura contemporanea un fascino crescente in palese contrasto col tecnicismo del mondo moderno e con le molto concrete e realistiche passioni sociali e politiche che lo dividono. Il fenomeno può essere considerato da punti di vista diversi : innanzi tutto come « ritorno alla religione », quale che sia la consistenza e il significato di tale ritorno; in secondo luogo come influenza e suggestione immediate dell’arcaico, del simbolico, del mitico — e in genere del variamente irrazionale — sulla sensibilità, sul costume, sulle arti figurative, sulla musica, sulla letteratura e sulla stessa vita politica; in terzo luogo come particolare orientamento delle scienze religiose, soprattutto neirultimo quarantennio; e infine come nuovo modellarsi del mito e delle forme di vita religiosa presso i popoli coloniali o semicoloniali — o da poco usciti dal rapporto coloniale — e presso le minoranze di colore, nel quadro del movimento di emancipazione politica e sociale di questi popoli e di queste minoranze. Per quanto si tratti di manifestazioni disparate vi è fra di loro una connessione non casuale, almeno nella misura in cui pongono in quistione il destino culturale della civiltà occidentale e ne esprimono con varia voce il travaglio in cui versa. Se si pensa che ognuna di queste singole manifestazioni del fenomeno presenta a sua volta numerosissimi aspetti particolari, e che una letteratura molto vasta — per non dire sterminata — si è venuta accumulando sull’argomento, si comprenderà come il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti » possa proporsi soltanto il compito limitato di richiamare l’attenzione del pubblico italiano sulla attualità e sulla complessità del problema.

Rispetto alle altre culture nazionali dell’occidente, la cultura italiana è in evidente ritardo per quel che concerne la presa di coscienza di una problematica del genere: il lettore potrà agevolmente sincerarsene solo che scorra i dati bibliografici contenuti nel presente fascicolo, poiché raramente gli accadrà di leggere il rinvio a opere italiane o a traduzioni in italiano di opere straniere. Tuttavia, soprattutto in questi ultimi tempi, anche in Italia si manifesta un crescente interesse degli2

PREFAZIONE

studiosi e del pubblico per i problemi relativi al mito, al simbolo, all’arcaico : del che fanno fede, in particolare, alcune collane che hanno assolto una importante funzione culturale in questo senso, e prima di tutte in ordine di tempo la collana di Studi religiosi etnologici e psicologici dell’editore Einaudi. In questo quadro deve essere considerato il presente fascicolo dedicato a « Mito e civiltà moderna », nel quale figurano unicamente contributi italiani. Naturalmente il tentativo presenta qualche menda e qualche lacuna, anche tenendo conto delle forze culturali che erano disponibili: più grave fra tutte la lacuna relativa all’argomento «mito e letteratura moderna» che nel presente fascicolo non trova trattazione. Ci auguriamo che in un prossimo avvenire la nostra rivista possa dedicare la propria attenzione anche a questo importante aspetto dei rapporti fra mito e civiltà moderna. Abbiamo comunque ragione di credere che, anche così come si è riusciti ad attuarlo, il presente tentativo ha qualche merito, soprattutto se si tien conto che in Italia rappresenta in certo senso il primo del genere, soprattutto per la prospettiva che lo caratterizza: infatti solo in parte potrebbero essere considerati come antecedenti i fascicoli dell’Archivio di Filosofia diretti dal Castelli (Filosofia della Religione, 1955; Filosofia e Simbolismo, 1956) e la raccolta Umanesimo e Simbolismo, curata dallo stesso Castelli (Padova, 1958). Numerosi sono invece gli antecedenti stranieri, come

— per ricordare i più recenti e i più importanti — i due volumi del-YEranos Jahrbuch del 1949 e del 1950 (rispettivamente dedicati al mito e al rito), i numeri di Studium Generale del maggio, giugno e luglio 1955, il Journal of American Folclore del 1955, n. 370, e soprattutto il recentissimo fascicolo di Daedalus, Journal of thè American Academy of Arts and Sciences, che è della primavera del 1959 e che è dedicato interamente al mito e alla mitopoiesi (myth and mythma\ing). Tuttavia anche rispetto ai precedenti stranieri, così numerosi e ricchi, il presente fascicolo di « Nuovi Argomenti », dedicato a « mito e civiltà moderna», ha una propria fisionomia per il suo accentuato legame con i problemi connessi alla crisi e al rinnovamento della civiltà moderna. La serie degli articoli comprende uno scritto di R. Pettazzoni che opportunamente richiama una lettera inedita del Croce (in Italia infatti ogni revisione della problematica tradizionale della nostra cultura comincia necessariamente dal Croce anche se è vero che la storia nel mondo non si è conclusa a Napoli, Via Trinità Maggiore 12, come alcuni ripetitori e epigoni hanno talora lasciato intendere x:on palese provincialismo); un saggio di E. de Martino in cui si tenta di dare unaPREFAZIONE

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valutazione critica complessiva del movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito negli ultimi quarantanni ; una monografia di Vittorio Lanternari che si occupa delle riplasmazioni subite dal mito e dalla vita religiosa dei popoli coloniali e semicoloniali nel quadro del movimento di emancipazione che ormai li coinvolge tutti; un saggio di Remo Cantoni che riprende e rielabora i suoi temi già svolti in Umano e Disumano; un contributo di Diego Carpitella sul rapporto fra musica primitiva e musica moderna; e infine una nota di Annabella Rossi che imposta alcuni termini del problema del rapporto fra arte preistorica e arte contemporanea. Ci auguriamo che questo fascicolo, pur nei suoi limiti, svolga una funzione benefica nel progresso umanistico della cultura nazionale e stimoli sia pure di poco la formazione presso di noi di una coscienza storico-religiosa moderna, fortemente radicata nel presente e nei suoi problemi anche quando volge la sua attenzione all’arcaico, al simbolico, al mitico, al magico, al sacro*MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

Negli ultimi quarantanni, e più precisamente a partire dalla fine della prima guerra mondiale il dominio delle scienze religiose è senza dubbio entrato in una crisi decisiva. Nell’età precedente le scienze religiose — cioè la filosofia, la storia, la etnologia, la tipologia, la sociologia, la psicologia della religione — nella misura in cui si muovevano al di fuori di presupposti teologici e apologetici mostravano uno spiccato orientamento ad accogliere i temi ermeneutici della eredità illuministica, idealistica, materialistica e positivistica: basterebbe ricordare gli schemi dell’evoluzione religiosa dell’umanità dal Comte in poi, le teorie religiose di Fuerbach e del materialismo storico, la scienza del mito e la storia comparate delle religiosi inaugurate da Max Mùl-ler, la etnologia religiosa di un Tylor e di un Frazer, la psicologia del misticismo di un Janet o di un Leuba, la Vdikerpsycholo-logie del Wundt e la interpretazione sociologica della religione da parte del Durkheim e della sua scuola, la riduzione della religione e sublimazione della sessualità da parte del primo freudismo. Nei vari indirizzi di quest’epoca, per quanto diversi fra di loro per metodi e per risultati, si palesa la innegabile comune tendenza a non riconoscere al rapporto religioso una sua specifica e permanente funzione nella storia culturale deirumanità. In generale, consapevoli o non che ne fossero i singoli autori, la religione e il mito venivano ricondotti ad altro, erano « maschera » di qualche cosa d’altro : di esigenze filosofiche, scientifiche, estetiche, morali, di mondani bisogni proiettati nel sopramondo e nel sopramondo illusoriamente soddisfatti, di strutture economico-sociali o addirittura 'della sessualità. Un’analoga tendenza « riduttiva » si faceva valere nel campo della psicologia del misticismo, dove l’analisi era prevalentemente orientata a sottolineare i disordini psichici nelle esperienze dei mistici. In ogni caso si faceva strada in modo più o meno esplicito e consapevole la persuasione che la civiltà moderna aveva ormai imboccato la via della saggezza, e si accingeva a dissolvere le proiezioni religiose della sua eredità arcaica, e a vivere la sua vita morale e sociale in piena autonomia, al di fuori degli impacci mitico-rituali. Lo stesso cattolicesimo fu investito dalla tempesta, e dovette fronteggiare il movimento modernista.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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Negli ultimi quarant anni, invece, si è venuto affermando in occidente un vario movimento di pensiero che tende a rivendicare la autonomia della religione e del mito nel quadro di una tematica esistenzialistica alimentata da un continuo riferimento alla concreta varietà dei fenomeni religiosi della storia umana. È un movimento caratterizzato da mutue influenze fra scienze religiose diverse, e da singolari convergenze di orientamento pur nella varietà di indirizzi, di provenienze culturali, di metodi e di prospettive. Etnologi come Frobenius, Jensen, Malinowski, Leenhardt, storici e fenomenologi della religione come R. Otto, Hauer, van der Leeuw, Eliade, W. Otto, Kerényi, sociologi come Lévy-Bruhl, Lévi-Strauss e Caillois, filosofi come Cassirer, Bergson, Machelard, Gusdorf, psicologi come Jung e Neumann, hanno inaugurato una valutazione della vita religiosa e del mito che, in netto contrasto con l’età precedente, è orientata verso il riconoscimento di profonde motivazioni esistenziali del « sacro », del « mitico », del « simbolico ». Ciò che sorprende di più in questa generale convergenza di indirizzi diversi verso un obiettivo tendenzialmente affine è che ad un certo momento entrano nel movimento, o ne appaiono comunque influenzate, anche tradizioni culturali che, per la loro provenienza e per le loro origini variamente laicizzanti, razionalistiche, idealistiche, materialistiche e positiviste, sembravano più refrattarie ad una problematica del genere. Così, p. es., nel quadro della scuola di Marburgo, tradizionalmente interessata alla ricerca delle condizioni logico-trascendentali della scienza, Ernesto Cassirer dallo studio del simbolo matematico nella scienza passa alla analisi della struttura e della funzione del simbolismo mitico (1); il movimento psicoanalitico che procedeva da presupposti materialistici e positivistici si volge, soprattutto per opera della secessione junghiana, ad una rivalutazione della vita religiosa e del mito; la tradizione epistemologica francese, che già col Bergson accentua le radici esistenziali della funzione fabulatrice (2), palesa con Gastone Bachelard una netta flessione verso il mondo dei « simboli » (3).

Una analoga vicenda è possibile riscontrare nella tradizione sociologica francese, particolarmente a proposito del Lévy-Bruhl; il quale nei suoi primi lavori sulla mentalità primitiva si muove ancora sul piano

(1) E. Cassirer, Philosophie der symbolischen Formen, II (Das mythische Denken), Berlino 1925.

(2) Bergson, Le deux sources de la morale et de la relìgion, Parigi 1932.

(3) G. Bachelard, La psychanalyse du feuy Parigi 1938; L'eau et les rèves, Parigi 1942; La terre et les rèveries de la volontà, Parigi 1948; La terre et les rèveries du repos} Parigi 1948; L’air et les songes, Parigi 1943.6

ERNESTO DE MARTINO

del « progresso della coscienza » come lo intendeva Leone Bruschwicg, e quindi nella prospettiva di una mentalità prelogica che è soppiantata da quella logica; ma successivamente il Lévy-Bruhl ha sempre con maggiore energia negato che la mentalità primitiva o mitica dovesse essere considerata come fase di sviluppo dell’umanità, sottolineandone invece il carattere di permanente struttura antropologica (4). Naturalmente in indirizzi di pensiero francamente ispirati alle istanze dell’esistenzia-lismo — si pensi all’Eliade, al Caillois, al Gusdorf e al Cazeneuve — la motivazione esistenzialistica e antropologica del sacro appare più esplicita: ma è significativo il fatto che l'orientamento complessivo fa sentire la sua influenza anche per entro tradizioni culturali che per la loro origine non erano inizialmente disposte a considerare il mito e il sacro come valori antropologici permanenti e autonomi. Né è da credere che il movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito concerna soltanto le « scienze religiose » come tali : a parte gli ovvi riferimenti alla vita artistica e letteraria del mondo moderno in generale (5), e al problema dei rapporti fra mito e letteratura, la stessa propensione del gusto, della sensibilità e del costume hanno palesato una rinnovata familiarità col mitico, col magico, con l’arcaico. Anche la vita politica ne è stata coinvolta, come mostra il caso del neopaganesimo nazista e dei prestigi che assegnò all’arcaico e all’ancestrale: e non è certo una coincidenza fortuita se uno dei rappresentanti più caratterizzati della rivalutazione della irrazionalità del sacro, lo storico e fenomenologo delle religioni J. W. Hauer, fu anche il capo riconosciuto del « movimento della fede tedesca » {Deutscheglaubensbewe-gung). Ma lasciando da parte questi estremi sussulti, così scopertamente legati alle sorti di un imperialismo politico e la cui stagione fu breve ancorché sanguinosa, è innegabile il fatto che negli ultimi quarantanni le forme tradizionali di vita religiosa, e il cattolicesimo in particolare, sembrano aver riacquistato negli animi prestigio e signoria: tanto che da più parti si è parlato di un « ritorno alla religione », quale che sia

(4) Il disatcco di Lévy-Bruhl dalle posizioni prevalenti in Les fonctìons mentàles dans les sociétés injérieures (1910) è segnato dall’intervento alla Societé fran^aìse de philosophie (1929) e dalle opere successive (Le surnaturel et la Nature dans la mentalité primitive, 1931; La mythologie primitive, 1935; L'experience mystique et les symboles chez les primitives, 1938; e soprattutto i Carnets pubblicati postumi nel 1949). Per questo sviluppo del pensiero di Lévy-Bruhl si veda ora G. Gusdorf, Mythe et métaphisique, 1953, p. 187 sg.

(5) Come giustamente osserva il Gehlen, Urmensch und Spat^ultur, Bonn 1958, p. 292, « Gauguin a Tahiti e Nolde a Raboul hanno cercato qualchecosa di più che dei semplici motivi artistici ».MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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poi la consistenza e il significato di questo «ritorno» nei diversi ambienti culturali (6).

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L’analisi completa e la corrispondente valutazione critica di un movimento così vasto e complesso richiederebbero molto più di un semplice articolo. Ci soffermeremo pertanto solo su alcuni punti nodali relativi al movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito nel quadro delle scienze religiose. Si tratta in sostanza di rintracciare nel dominio di queste scienze e per quel che si riferisce al movimento in questione una serie di aspetti salienti, e un ordine di connessioni, fra ciò che, a prima vista, si presenta come coesistenza di motivi indipendenti o casualmente affini. Ne risulterà in tal modo una elaborazione dei dati secondo una particolare prospettiva atta a facilitare alcune osservazioni critiche conclusive.

Se prescindiamo dagli antecedenti e dai prodromi (6bls) il vero e proprio inizio del movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito si ricollega ad alcuni episodi culturali che ebbero luogo verso la fine della prima guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra : e non senza fondate ragioni si potrebbe indicare il 1917 come una data decisiva del nuovo corso che ci accingiamo a lumeggiare. Proprio nel 1917, infatti, ebbe inizio una rivoluzione destinata ad imprimere alla vita culturale di una parte notevole del grande spazio eurasiatico un netto atteggiamento di rifiuto rispetto alle forme tradizionali di vita religiosa : la tradizione Feuerbach-Marx diventava così, in questa parte del mondo, lo strumento di lotta per la effettiva costruzione di una società senza classi, apprestandosi a verificare nella realtà anche l’altra tesi che nella società senza classi il riflesso religioso doveva scomparire. Ma mentre dal crollo della Russia zarista e dalla rivoluzione di Ottobre si inaugurava un orientamento che, almeno nelle intenzioni coscienti, intendeva essere ateo e irreligioso, e che doveva influire di fatto, come ideologia, su centinaia di milioni di uomini, la crisi e il successivo crollo della Germania guglielmina si ricollegò invece con il rinnovato impulso di una tendenza radicalmente opposta. Proprio nel 1917 un teologo e storico delle religioni della Università di Marburgo pubblicò un piccolo libro cui doveva toccare una straordinaria fortuna, e che esercitò una

(6) Sul « ritorno alla religione » si veda più avanti a p. 44 sg.

(6bis) Fra questi antecedenti ha p. es. un suo proprio rilievo culturale la teoria del mito elaborata da Giorgio Sorel.8

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notevole influenza non soltanto sulla metodologia storico-religiosa e sulla rivalutazione del Sacro, ma sulle coscienze e sulla sensibilità culturale in generale: il teologo e storico delle religioni era Rudolf Otto, e il piccolo libro portava il titolo II Sacra, col significativo sottotitolo programmatico: L'irrazionale nell’idea del divino e il suo rapporto col razionale (7). L’opera di R. Otto apre in un certo senso in Germania quella epoca culturale che è caratterizzata dalla crisi dello storicismo, dal passaggio dal protestantesimo liberale alla teologia della crisi e al-l’affiorare di una tematica esistenzialistica: nel 1918 appare infatti il primo volume di Der Untergang des Abenlandes dello Spengler, mentre nel 1919 la prima edizione del Rómerbrief barthiano, inaugurerà, insieme alla Psychologie der Weltaschuungen dello Jaspers, la cosiddetta rinascenza kierkegaardiana. Qualche anno più tardi, nel 1923, J. W. Hauer pubblicherà Die Religionen: ihr Werden, ihr Sinn, ihre Wahrheity opera nella quale già affioravano alcuni temi che dovevano poi, una diecina d’anni più tardi, alimentare — come si è già detto — il « movimento della fede tedesca », capeggiato dallo stesso Hauer. Il Sacro, oltre l’ovvio ed esplicito richiamo alla filosofia religiosa dello Schleiermacher, riprende e sviluppa un tema che già era affiorato in due storici delle religioni, il Marett e il Sòderblom: il tema, cioè, di uno specifico carattere dell’esperienza religiosa. In sostanza il « timore religioso » si distingue per qualità dagli altri timori naturali per un suo oggetto specifico, che è il « radicalmente altro » :

... Il religiosamente misterioso, il puro myrum, è — se vogliamo forse coglierlo nella sua più tipica essenza — il « tutt’altro » (Ganz andere), il thateron, l’anyad, l’alienum, Faliud valde, lo straniero e l’estraneo, ciò che è assolutamente al di là della sfera dell’usuale, del comprensibile e del familiare, e per questa ragione « nascosto » ed in opposizione radicale con l’ordinario, e proprio in forza di ciò ricolmante l’animo di sbigottita sorpresa (8).

(7) R. Otto, Das Heilige. tìber das Irrationale in da' Idee des Gòttlichen und sein Verhàltnis zum Rationalen, Breslau 1917. L’opera è. giunta in Germania alla trentesima edizione ed è stata tradotta in dodici lingue: le aggiunte anteriori al 1923 — cioè alla undicesima edizione — formarono un volume a parte col titolo Aujsàtze das Numinose betrefìend, Gotha 1923, che a sua volta fu riedito in due volumi distinti {Das Gejtihl des Ùberweltlichen, Munchen 1931, e Siinde und Urschuld, Mùnchen 1931). La traduzione italiana, del Sacro, com’è noto, fu curata da Ernesto Buonaiuti (Bologna 1926).

(8) R. Otto, Das Heilige, 30a ed., p. 31. Thateron e anyad sono vocaboli che rispettivamente in greco e in sanscrito corrispondono alPagostiniana aliud valde e al ‘tutt’altro’ nel senso di R. Otto. Cfr. R. Otto, Das Gefiihl des Vberweltlichen, 1931, cap. Vili {Das Ganz-andere in ausserchristlicher und in christlicher Spe\ulation und Theo-logie), e p. 229 {Das Aliud valde bei Augustin).MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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Ma il numinoso come alterità radicale che atterrisce, cioè come tremendum, è sperimentato al tempo stesso come alcunché di polarizzante, di cattivante, di fascinante, che invita perentoriamente al rapporto (9). Questo « radicalmente altro » e « ambivalente » costituisce il momento irrazionale della complessa categoria del sacro, nella quale i momenti razionali (morali, estetici, conoscitivi) sono senza dubbio argomento di perfezione e di elevatezza, ma non esauriscono mai la fonda-mentale irrazionalità della esperienza religiosa:

Una religione potrà salvarsi dal razionalismo se manterrà desti e vivi gli elementi irrazionali. D’altro canto saturandosi copiosamente di momenti razionali essa si preserva dal cadere o dal permanere nel fanatismo o nel misticismo, meritando di diventare religione di cultura e di universalità (Qtta-litats-Kuìtur-und Menschheits-Religion) (10).

Il « tutt’altro ambivalente » si configura dunque come un momento ulteriormente irriducibile ad altro, come un dato che è l’ultima Thule dell’analisi: lo si può rivivere e descrivere e suggerire in qualche modo, ma non propriamente rigenerare nel pensiero. Il fenomenologo e lo storico delle religioni possono individuare i modi con i quali, soprattutto nelle cosiddette religioni superiori, l’incontro col «tutt’altro» si satura di elementi razionali: ma quell’incontro è una esperienza di fronte alla quale una scienza assennata non può non arrestarsi, limitandosi ad indicare, e in ultima istanza lasciando il posto all’immediato rivivere. Ora proprio a questo punto si fanno valere alcune aporie. Senza dubbio il « tutt’altro ambivalente » circoscrive un momento essenziale dell'esperienza religiosa; dal tnana e dalle altre rappresentazioni della forza numinosa sino alla collera di Jahvé e alla stessa esperienza cristiana del divino, questo momento appare comunque presente e ineliminabile, anche se in ciascuna formazione storica concreta sta in un diverso equilibrio e assume diversi significati culturali e diversi rapporti col razionale. Ma se deve considerarsi un acquisto sicuro per la scienza della vita religiosa l’aver circoscritto l’esperienza di una alterità sacra qualitativamente diversa dall’alterità profana, e l’aver indicato il tremendum e il fascinans come interna polarità di tale alterità sui generis, resta il problema se ciò che nella sfera cosciente dell’uomo è vissuto come momento irrazionale del Sacro non si configuri per l’uomo di scienza come ulte
(9) R. Otto, Dos Heilige, pp. 42 sgg.

(10) Op. cit.} p. 170 sg.10

ERNESTO DE MARTINO

riormente analizzabile in profondo al di là di ciò che è vissuto dalla coscienza religiosa in atto. Potrebbe infatti darsi che aggredendo il momento irrazionale del sacro con particolari metodi di analisi, quel momento palesi per l’uomo di scienza una sua propria coerenza e razionalità, onde poi il Sacro nel suo complesso appaia in una nuova luce. Il limite della impostazione di R. Otto è di muoversi interamente al livello della coscienza religiosa nella sua immediatezza: R. Otto procede infatti dalla coscienza di una fondamentale irrazionalità del numinoso al cosciente tentativo di aprirsi verso razionalizzazioni più o meno parziali. Con ciò però si ripete la esperienza del numinoso, aggiungendovi solo una descrizione generalizzante: ma si rinunzia senza giustificazione al compito più propriamente scientifico di rigenerare nel pensiero la immediata esperienza del numinoso, la polarità ambivalente del tut-t’altro, rivissuta dalla coscienza religiosamente impegnata. Ora questa così grave rinunzia potrebbe essere giustificata solo se l’analisi non riuscisse ad andar oltre l’irrazionalità del numinoso, e solo se mancasse qualsiasi metodo per comprendere come e perché si genera nella vita culturale dell’umanità l’esperienza del tutt’altro ambivalente: sarebbe cioè giustificata se non fosse proprio possibile risolvere il dato immediato del tutt’altro ambivalente nel risultato di inconsce motivazioni e nel movimento della coscienza verso il mondo dei valori razionali. R. Otto scorgeva molto bene l’aprirsi della coscienza religiosa verso i valori, ma non si chiedeva se anche il nucleo irrazionale del Sacro palesasse le sue « ragioni » in una prospettiva che tenesse conto delle motivazioni inconsce. Aveva luogo così una distorsione esattamente opposta a quella del primo freudismo, che tendeva a ridurre la religione a maschera della sessualità, il tutt’altro ambivalente ad una riattivazione dell’immagine infantile del padre, e i miti e i riti ad una sorta di nevrosi coatta collettiva: nel che si aveva certamente un tentativo di non restar paghi dell’irrazionalità del numinoso e di cercare una motivazione inconscia dei comportamenti irrazionali della vita religiosa, ma si finiva poi col perdere il piano cosciente e la qualità specifica della esperienza del sacro. Alla interpretazione freudiana della religione si poteva obiettare che la religione non è riducibile a maschera della sessualità per la stessa ragione che il Duomo di Colonia, ancorché sia fatto di pietre, non può essere valutato con i criteri della mineralogia (11): ma nei ri
(11) C. G. Jung, Wcmdlungen und Symbóle der Libido, in.Jahrbuch fùr Psychoa-nalytische un psychopatologische Forschung, III (1911), p. 126. Allo stesso modo il mitoMITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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guardi di R. Otto sussisteva la obiezione che la esperienza irrazionale del numinoso poteva per l’uomo di scienza riguadagnare coerenza e razionalità se si fossero tenute presenti le « ragioni dell’inconscio ».

D’altra parte nel periodo successivo alla prima guerra mondiale si produssero proprio nel movimento psicanalitico alcuni nuovi orientamenti che in parte dovevano contribuire indirettamente alla rivalutazione esistenziale del sacro, e in parte finirono col ricongiungersi in modo diretto con i risultati della indagine di R. Otto; ricongiungimento che mostra come il moto di convergenza verso tale rivalutazione investisse gradualmente anche quell’orientamento culturale che per le sue origini positivistiche sembrava il meno propenso a muoversi in questa direzione.

Tre anni dopo la pubblicazione di II Sacro, cioè nel 1920, Freud pubblicò la sua monografia « Al di là del principio del piacere » (12), che doveva segnare l’inizio di un nuovo corso del movimento psicoanalitico, e che racchiudeva notevoli possibilità ermeneutiche per una interpretazione del sacro e del mito che tenesse conto delle motivazioni inconsce, senza tuttavia incorrere nella riduzione della religione a sublimazione della sessualità. Nelle nevrosi traumatiche, su cui la gran copia di casi offerti dalla prima guerra mondiale aveva reso possibile il moltiplicarsi delle osservazioni cliniche, il malato tende a ripetere nella crisi l’episodio traumatizzante, cioè a riviverlo suo malgrado. In modo analogo l’episodio traumatico tende a ripetersi ossessivamente nel corso della vita onirica. D’altra parte la terapia psicoanalitica aveva messo in evidenza la tendenza del nevrotico a rivivere, nel corso del trattamento, gli episodi traumatizzanti del passato e a trasferirli nel presente, in una situazione in cui il medico analista sta al centro : di qui la necessità terapeutica di risolvere il transfert, riconducendo gli eventi rivissuti e ripetuti come attuali a ricordi di episodi appartenenti al passato. Ora Freud osservava che manifestazioni del genere, determinate dalla tendenza a ripetere un passato sgradevole, non potevano essere ricondotte al « principio del piacere », ma rendevano necessaria l’ipotesi di un istinto di morte, inteso come coazione al ritorno, all’eterno ritorno. In tal modo nei paesi di lingua tedesca, e nell’atmosfera della sconfitta militare, del crollo di due imperi e del conseguente smarrimento morale faceva inplatonico della caverna non è riducibile alla nostalgia dell’utero materno, anche se Platone ebbe — al pari degli altri mortali — fantasie di carattere sessuale: cfr. C. G. Jung, Seelenprobleme der Gegenwart, Ziirich 1931, p. 47 sg.

(12) Jenseits des Lustprinzips., Intern. psychoanal. Verlag, Vien 1920.12

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dipendentemente la sua comparsa in due domini culturali indipendenti il principio del ritorno ciclico e della corsa alla morte: nel 1918 e nel 1922 vedevano la luce i due volumi della prima edizione del Tramonto dellrOcadente dello Spengler, che inaugurava — come si è detto — la crisi dello storicismo tedesco, nel 1920 il fondatore della psicanalisi introduceva la coazione a ripetere e l’istinto di morte nella vita psichica individuale, accanto e oltre al « principio del piacere », che aveva sino allora dominato nella sua concezione teorica. Ma per quel che si attiene più strettamente al nostro argomento ritroviamo nella monografia freudiana l’accenno ad un caso che è di più diretto interesse per lo studioso della vita religiosa e del mito. Un bambino di diciotto mesi cui era stato dato un rocchetto, aveva con esso animato un giuoco che consisteva nel lanciare il rocchetto in modo da nasconderlo alla vista, per poi riprenderlo tirando il filo, e accompagnando con espressioni di disappunto lo scomparire del rocchetto e con espressioni di gioia il suo riapparire: tali espressioni erano le stesse di quelle impiegate dal bambino nella situazione reale quando la madre si assentava o tornava. Qui si ha dunque la ripetizione della situazione traumatica, cioè l’assentarsi della madre a cui seguiva l’ansiosa attesa del ritorno: tuttavia la ripetizione «giuocata» presenta caratteri specifici rispetto alla semplice ripetizione coatta, poiché nel giuoco del rocchetto la ripetizione non era passivamente subita, ma il passato veniva fatto attivamente tornare, in una vicenda di cui il bambino possedeva la regola della ripetizione. Il jfilo col quale il bambino governava la « madre-rocchetto » esprimeva simbolicamente la riappropriazione e la risoluzione della situazione conflittuale della scomparsa e dell’attesa penose. Nella situazione reale l’allontanarsi e il ritorno della madre cadevano fuori di ogni possibilità di controllo, nel giuoco invece la madre era fatta allontanare e tornare secondo una vicenda che il bambino governava mediante il filo del rocchetto. Aveva luogo così una forma di ripetizione di tipo diverso dalla ripetizione coatta e irrisolvente nelle nevrosi traumatiche, poiché nel giuoco del rocchetto si ha una ripetizione attiva che mira alla riappropriazione e alla risoluzione dell’episodio traumatizzante. La coazione a ripetere e l’istinto di morte, quali erano stati definiti nella monografia del Freud, sollevarono nelPambito del movimento psicoanalitico una vivace polemica (13): qui però basterà mettere in evidenza come il ritorno del passato acquistava due significati nettamente diversi a se
(13) Per questa polemica si vedano i rinvii bibliografici contenuti in O. Fenichel, Trattato di Psicoanalisi, trad. it. di C. Gastaldi, Roma 1951, pp. 57, 138, 608 sgg.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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conda che si trattasse di ripetizione coatta e cifrata nel sintomo morboso

o di ripetizione attiva e risolvente mediante un simbolismo aperto della rappresentazione e del comportamento, come nel caso del giuoco del rocchetto (14). Ora questo secondo significato della ripetizione accennava in qualche modo al simbolismo mitico-rituale della vita religiosa. Già nel 1926 il Malinowski, riassumendo i risultati delle sue osservazioni sulla mitologia vivente degli indigeni tobriandesi, sottolineò il fatto che il mito in azione, cioè nella concretezza della esperienza religiosa, significa rivivere, sotto forma di racconto, una realtà dei tempi primordiali (15). Anche un altro etnologo, il Preuss, che era venuto formulando le sue considerazioni sul mito attraverso lo studio della mitologia vivente dei Cora amerindiani, pervenne a conclusioni analoghe (16). Uno studioso del mondo classico, Karl Kerényi, nella Introduzione alla essenza della mitologia — pubblicata in collaborazione con

lo Jung — così ha raffigurato la « vita per citazioni » delPuomo antico :

Prima di agire l’uomo antico avrebbe fatto sempre un passo indietro, alla maniera del torero che si prepara al colpo mortaile. Egli avrebbe cercato nel passato un modello in cui immergersi come in una campana di palombaro, per affrontare così, protetto e in pari tempo trasfigurato, il problema del presente. La sua vita ritrovava in questo modo la propria espressione ed il proprio senso (17).

Ma lo studioso che più a lungo e con maggiore dovizia di dati storico-religiosi si è soffermato su questo «passo indietro» del nesso mitico-rituale è stato senza dubbio Mircea Eliade. Ciò che l’autore chiama « la ontologia arcaica » consisterebbe nella risoluzione del divenire storico nella ripetizione degli archetipi mitici, di eventi primordiali prodottisi una volta per sempre in ilio tempore. Questa ontologia arcaica, dominata dal terrore della storia, investe lo stesso ordine rituale, nel senso che il rito resta definito non soltanto dalla riattualizzazione, dalla iterazione e dal ritorno degli eventi di fondazione dei primordi, ma anche dalla ripetizione di modelli rituali che nei primordi furono fondati, di guisa che l’uomo religioso si configura coinè tendenzialmente

(14) Cfr. H. Leichtenstein, Zur Phanomenologie des Wiederholungzwanges und des Todestriebes, in Imago XXI (1935), Heft 4, pp. 466-488 e R. Spitz, Wiederholung, Rhytmus, Langweile, in Imago XXIII (1937), Heft 2, pp. 171-196.

(15) B. Malinowski, Myth in Primitive Psychology, Londra 1926.

(16) Th. Preuss, Der religiose Gehalt der Mythen, Tiibingen 1933.

(17) p. 18 della trad. it. [Torino, 1948]: l’immagine del «passo indietro» è però di Ortega y Gasset.14

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orientato verso il ripetere rivivendo e un rivivere ripetendo il passato metastorico esemplare, nel quale viene periodicamente riassorbita la proliferazione storica del divenire, e persino la stessa norma mimica o verbale delle singole iterazioni rituali. Così, per es., la festa babilonese dell’anno nuovo, Ya\ttu, disfa ogni volta il tempo accumulato nel corso dell’anno spirante, raggiunge il caos primordiale e ripete l’atto cosmogonico. Lo scenario delle cerimonie comporta innanzi tutto un regresso nel periodo mitico che precede la creazione, nel periodo caotico e germinale del mostro marino Tiamat: tale regressione è simbolicamente rea-lizzata col rovesciamento simbolico dell’ordine sociale, con l’umiliazione del re, con l’instaurazione del caos. Il secondo momento dello scenario cerimoniale comporta la creazione del mondo, simboleggiata dalla lotta dell’eroe Marduk contro il mostro marino Tiamat e adeguata-mente mimata nel rito, che rende gli operatori umani del rito contemporanei della cosmogonia mitica; il terzo momento dello scenario cerimoniale comporta la «festa dei destini» che decide sul piano mitico ciascun mese e ciascun giorno dell’anno nuovo; infine il quarto momento celebra con una ierogamia la « nuova nascita » umana e mondana, ripete la nascita esemplare della prima volta (18). Il rapporto fra «ritorno indietro» che si realizza nel nesso mitico-rituale e il ritorno indietro realizzato dalla terapia psicoanalitica è esplicitamente accenna-nato daU’Eliade:

Non si può evitare di pensare all’importanza che ha assunto « il ritorno indietro» nelle terapie moderne. La psicoanalisi soprattutto ha saputo utilizzare come principale mezzo di guarigione il ricordo, la rammemorazione, degli eventi primordiali. Ma al Fori zzante della spiritualità moderna e in conformità con la concezione giudaico-cristiana del tempo storico e irreversibile, il primordiale non poteva essere che la prima infanzia, il solo e vero inizio individuale. La psicoanalisi introduce dunque il tempo storico e individuale nella terapia. Il malato non è più un essere umano che soffre unicamente a causa di eventi contemporanei e oggettivi (accidenti, microbi), o per colpa di altri (eredità), come era il caso del malato dell età prepsicoanalitica, ma soffre del pari in seguito ad un trauma patito nella propria durata temporale; un trauma sopravvenuto nell’illud tempus primordiale dell’infanzia, dimenticato, o, più esattamente, mai pervenuto alla coscienza. La guarigione consiste nel ‘tornare indietro’, rifacendo il cammino in senso inverso, in modo da riattualizzare la crisi, da rivivere il traumatismo psichico e dà integrarlo nella coscienza... L’impresa di Freud era audace: introduceva il tempo e la storia in una categoria di fatti che venivano accostati, prima di lui, dall’esterno, un

r

(18) M. Eliade, Le mythe de Véternel retour, 1949, passim.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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po’ come il naturalista considera il suo oggetto. Soprattutto una scoperta di Freud ha avuto conseguenze considerevoli, cioè quella che esiste per l’uomo un’epoca primordiale in cui tutto si decide: la primissima infanzia, e che la storia di questa infanzia è esemplare per il resto della vita » (19).

La tematica di Le mythe de l’éternel retour di M. Eliade ha avuto una singolare fortuna in Francia nell’ultima decennio, ed anche in domini lontani dalle scienze religiose come tali: così p. es. Robert Volmat non ha esitato recentemente ad interpretare i disegni di un malato mentale secondo i criteri ermeneutici offerti dalPEliade:

M. Eliade ci mostra come l’uomo delle civiltà tradizionali e arcaiche lotta contro il terrore della storia mediante la ripetizione dell’atto cosmogonico e mediante la rigenerazione periodica del tempo. Con procedimenti diversi esso giunge ad abolire lo spazio e i'I tempo profani. La storia è sentita come peccato dall’uomo anistorico, e questa angoscia è bandita grazie al ritorno agli archetipi e alla ripetizione. Il nostro malato è condotto, se ci collochiamo da un punto di vista psicogenetico, ad abolire ila sua storia personale, ripetendo in maniera delirante l’atto cosmogonico, che lo situa in ilio tempore, abolendo il tempo profano.» (20).

Ma lasciando da parte gli echi meno prossimi e meno diretti, e per attenerci alle scienze religiose, ritroviamo un largo impiego della tematica delFEliade nell’esistenzialismo del Gusdorf, dove però si fa valere una prospettiva del tutto inaccettabile. Il Gusdorf infatti fantastica di un’epoca « precategoriale » in cui l’uomo — ancora unità indivisa di coscienza e mondo — starebbe integralmente immerso in condotte di ripetizione rituale di miti primordiali. A trarlo da questo «paradiso degli archetipi e della ripetizione » e da questo gigantesco « déjà vu » senza fine, sarebbe intervenuta a un dato momento la « rottura del patto mitico», cioè la scissione introdotta dal progresso della razionalità, e con la contrapposizione di coscienza e mondo il continuo da capo delle iterazioni avrebbe lasciato posto sempre maggiore alla sfera del profano e della « tecnica » (21). Si ha qui la caricatura e la riduzione all’assurdo di un criterio interpretativo che circola insistentemente nel movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito, e cioè l’idoleggia-mento di un’epoca dell’umanità « tutta » religiosa e « tutta » mitica, non ancora « snaturata dalla tecnica », e « senza storia » nel senso oggettivo

(19) Eliade, Mythes, réves et mysteres, Parigi 1957, p. 55.

(20) M. Volmat, L’art psychopatologìque, Parigi 1955, p. 211.

(21) G. Gusdorf, Mythe et métaphisique, Parigi 1953, passim.16

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che sarebbe vissuta beatamente nell’assoluto (22). Senonché questo « paradiso degli archetipi e della ripetizione », così come il Gusdorf lo concepisce si basa in sostanza su un equivoco concetto di « storia ». Se infatti per « storia » si intende semplicemente le res gestae che manifestano una coerenza culturale definita e attuano valori umani, nessuna civiltà è mai riuscita a nascere e a mantenersi chiudendosi integralmente nell’assoluto della ripetizione rituale di miti primordiali. Se per storia si intende il senso immediato di sé che accompagna l’umano operare e le res gestae qualificate che ne risultano, occorre ricordare che anche il cacciatore del paleolitico superiore doveva in qualche misura esser cosciente del proprio cacciare e degli accorgimenti tecnici necessari per la buona riuscita della battuta di caccia: tale coscienza, ancorché riceveva protezione e garanzia dai simboli mitico-rituali, non poteva mancare. D’altra parte se con la parola « storia » si fa riferimento al riconoscimento culturale del divenire storico, alla espressione di tale riconoscimento attraverso la historia rerum gestarum, e alla teorizzazione più o meno coerente e sistematica di una origine e di una destinazione umana dei beni culturali, allora è ovvio che solo l’occidente partecipa pienamente alla « storia » in questi più circoscritti significati. Pertanto quando il Gusdorf sostiene che « il mondo primitivo è anistorico », la sua affermazione è tanto ovvia da essere banale se vuol intendere che le civiltà primitive non danno espressione culturale al divenire storico, non posseggono una historia rerum gestarum, non sanno nulla di teorizzazioni sistematiche sulla origine e la destinazione umane dei beni culturali; ma la sua affermazione è certamente falsa se vuol intendere che vi sia stata al mondo un’epoca « tutta mitica », tutta immersa nella esperienza immediata dell’assoluto, senza abbozzi di coscienza tecnica

o artistica o morale, un’epoca di sonnamboli e di deliranti che, fra l’altro, non avrebbe potuto dar vita a nessuna civiltà.

Il Gusdorf segna dunque il combinarsi della tematica della ripetizione con lo sterile motivo delPidoleggiamento di un’epoca precatego
(22) La priorità di un’epoca mitica di intenso rapporto col divino, cui sarebbe seguita un’epoca di impiego tecnico ed utilitario è rintracciabile, con varie sfumature, in Frobenius e in Jensen come anche in W. Otto. D’altra parte il « paradiso degli archetipi e della ripetizione » ricorda le fantasticherie di Edgar Dacqué sul « paradiso perduto » o « lo spirito antagonista dell’anima » di Ludwig Klages. Una ricostruzione completa della storia culturale di questo motivo interpretativo romantico sarebbe molto opportuna e istruttiva, e per i molteplici e intricati riferimenti che comporta costituirebbe un capitolo a sé nel quadro dei rapporti fra mondo moderno e mito. È da avvertire che questo motivo non è senza segrete affinità con la teoria della rivelazione primitiva.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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riale, in cui mondo e coscienza stanno ancora indivisi, e la vita culturale si riduce in modo esclusivo alla iterazione di identici miti: un’astrazione che non aiuta certo alla comprensione né l’etnologo né lo storico delle religioni. Ma la tematica della ripetizione ha avuto anche nelle scienze religiose un impiego che si annunzia più promettente di risultati. Così per es. Jean Cazeneuve ha recentemente ripreso il rapporto fra ripetizione coatta della scena traumatica, ripetizione riappropriatrice nel giuoco e ripetizione rituale di un mito primordiale:

Quale può essere la funzione, la virtù, della ripetizione (di un evento numinoso) ? Con tutte le riserve che comporta un paragone del genere, è possibile chiedere alla psicanalisi la risposta a questa domanda, poiché può trattarsi in questo caso di un fenomeno che appartiene al meccanismo più generale dd pensiero simbolico. Freud, in effetti, si era trovato dinanzi a un problema simile a proposito di una osservazione particolare che lo aveva condotto a riflettere sul significato della ripetizione. Egli cita a questo proposito l’esempio di un bambino che si abbandonava al singolare giuoco di far scomparire un oggetto nascondendolo alla vista. Con questo atto, che ripeteva spesso, il bambino voleva mimare l’allontarsi della madre, per lui molto penoso... Freud si chiese quale poteva essere la funzione della ripetizione, agita

0 sognata, di un evento traumatico, e concluse che la ripetizione consentiva di padroneggiare tale evento, dando al soggetto rimpressione di produrlo da sé, in luogo di subirlo passivamente. ...Trasferiamo questa spiegazione, mutatis mutandis, sul terreno dei fatti che abbiamo preso in considerazione. Il primitivo... cerca di chiudersi in un sistema di regole che sia atto a definire per lui una condizione umana senza angoscia; cerca per così dire di chiudersi in un ideale di inerzia. Certamente la varietà delle situazioni che egli può incontrare lo obbliga a frazionare questo insieme di regole in parecchi sistemi. Ora il cangiamento... si traduce spesso in « passaggio » da un sistema a un altro. La uscita e l’ingresso di un elemento rispetto a ciascun sistema costituisce per il primitivo un vero e proprio trauma: p. es. la pairtenza di un uomo per il mondo dei morti, o l’ingresso di un individuo in una nuova famiglia o in un nuovo gruppo. Sono eventi che si subisce. Ma ripetendoli simbolicamente, il primitivo può darsi l’illusione di padroneggiarli. Con ciò egli annulla gli effetti inquietanti che ne derivano, e trasfigura gli eventi stessi: mimando il passaggio, egli se lo rende sopportabile... (Perché

1 riti di passaggio divengano effettivamente riti religiosi) basterà che l’azione simbolica sia considerata come la ripetizione di un atto archetipico, di un modello trascendente: allora, i'1 rifiuto di accettare il mero dato come tale si riplasmerà nella consacrazione dell’evento » (23).

(23) J. Cazeneuve, he rites et la condition humaine, Parigi 1958, p. 122 sg.18

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Sul tema del « passo indietro » e del ritorno rituale di una situazione mitica iniziale si è soffermato anche Lévi-Strauss, che non ha mancato di sottolineare a questo proposito la omologia con la terapia psicoanalitica :

Curando il malato, lo sciamano offre al suo uditorio uno spettacolo. Quale spettacolo? A rischio di generalizzare imprudentemente certe osservazioni, diremo che questo spettacolo è sempre quello di una ripetizione, da parte dello sciamano, della chiamata, cioè della crisi iniziale che gli ha portato la rivelazione della propria condizione di sciamano. Ma la parola spettacolo non deve trarre in inganno. Lo sciamano non si contenta di riprodurre o di mimare certi eventi: egli li rivive effettivamente in tutta la loro vivacità, originalità e violenza. E poiché, al termine della seduta sciama-nistica, lo sciamano ritorna allo stato normale, noi possiamo dire, prendendo a prestito dalla psicoanalisi un termine essenziale, che egli abreagisce. Come noto la psicoanalisi chiama abreazione quel momento decisivo della cura in cui il malato rivive intensamente la situazione iniziale che è all’origine del suo disturbo, prima di superarla definitivamente. In questo senso

lo sciamano è un « abreagente » professionale (24).

Con ciò si pone in tutta la sua ampiezza il problema della efficacia dei simboli mitico-rituali, non soltanto nel senso di un tornare e di un riprendere una situazione iniziale, ma anche in quello di raggiungere conflitti e disordini inconsci per la loro natura organica o anche semplicemente meccanica A questo argomento il Lévi-Strauss ha dedicato una interessante monografia, che prende spunto da un testo magico-religioso proveniente dai Cuna del Panama, e pubblicato per la prima volta dal Wassen e dall’Holmer nel 1947 (25). L’incantesimo ha una destinazione specifica: viene impiegato esclusivamente per facilitare un parto difficile. Quando il caso lo richiede la levatrice va a chiamare lo sciamano, il quale si reca alla casa della partoriente e compie la propria opera accovacciandosi sotto l’amaca dove la partoriente giace, impegnata nel suo travaglio senza esito. Ora la struttura di questo incantesimo

(24) C. Levi-Strauss, Anthropdogie structurcde, Parigi 1958, p. 199.

(25) Nils M. Holmer e Henry Wasser, Mu-lgcda or thè Way of Muu, a medicine-song jrom thè Cunas of Panama, Goteborg 1947. I Cuna furono diligentemente studiati dal Nordenskiòld, il quale ebbe modo di formare fra gli indigeni preziosi collaboratori: uno di essi, il vecchio Guillermo Haya, fece pervenire al successore di Nòr-denskiòld, Henry Wasser, il testo in quistione, redatto in lingua originale e accompagnato da una traduzione spagnuola, sottoposta poi ad una accurata revisione da parte dello Holmer.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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mostra un complesso simbolismo, orientato in parte verso la ripresa di una situazione iniziale, e in parte verso il rivivere in termini risolutivi i conflitti e i processi somatici del partorire. L’incantesimo si apre con una lunga e minuziosa descrizione degli antecedenti: narra, come in un film al rallentatore, l’inizio della crisi, lo smarrimento della levatrice, la sua visita allo sciamano, la partenza di quest’ultimo per la capanna della partoriente, il suo arrivo. In altri termini la « cura » comincia con un «passo indietro» che riprende gli eventi di interesse retrospettivo e li descrive incisivamente con una incredibile dovizia di particolari, in modo da « ricominciare da capo », la vicenda complessiva. «Tutto accade — commenta Lévi-Strauss — come se l’officiante cercasse di ricondurre la malata (...) a rivivere in modo estremamente preciso e intenso una situazione iniziale, e a percepirne mentalmente i minimi particolari». A questa lunga introduzione segue il nucleo più propriamente mitico dell’incantesimo. Lo sciamano, aiutato dai suoi «spiriti adiutori », esegue il viaggio psichico fino alla sede di Muu, potenza responsabile della formazione del feto. Il presupposto mitico è che l’anima dell’utero abbia rubato l’anima della partoriente, e che la cura consiste nella ricerca e nel ritrovamento di quest’anima perduta: il viaggio psichico dello sciamano si compie proprio neH’interno della vagina e dell’utero, e « la via di Muu », « il soggiorno di Muu » rappresentano alla lettera nel pensiero degli indigeni l’utero e la vagina. Lo sciamano ed i suoi assistenti ingaggiano qui la loro lotta diretta a punire l’usurpazione di Muu e a recuperare l’anima della partoriente. Ora la parte dell’incantesimo che narra l’agone sciamanistico contro Muu si mantiene constantemente fra simbolismo mitico e realismo fisiologico, con un continuo passaggio dall’uno all’altro piano, dalla descrizione simbolica di ciò che potremmo chiamare il paesaggio viscerale e il continuo riferimento alla realtà fisiologica del mondo uterino in travaglio. «È come se si trattasse — commenta Lévi-Strauss — di abolire nello spirito della malata la distinzione che separa (il piano mitico dal piano fisiologico), e di rendere impossibile la differenziazione dei loro rispettivi attributi » (26). L’incantesimo sembra proteso « a rendere chiaro ed accessibile al pensiero cosciente della partoriente la sede di sensazioni e di sofferenze ineffabili e dolorose » (27); lo sciamano « fornisce alla sua malata un linguaggio nel quale possono esprimersi immediatamente degli stati non formulati e altrimenti informulabili», ed è appunto questo pas
(26) Levi-Strauss, op. citp. 213.

(27) Op. cit., p. 215.20

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saggio alla espressione verbale che consente di rivivere in forma ordinata e intelligibile una esperienza attuale e che provoca lo sblocco del processo fisiologico (28). A questo punto Lévi-Strauss istituisce un paragone fra la tecnica psicoanalitica e questo tipo di tecnica sciamanistica :

...[Sia nel caso di trattamento psicoanalitico che di quello sciamanistico] ci si propone di condurre alla coscienza conflitti e resistenze rimaste sino allora inconsce, sia perché repressi, sia — come nel caso del parto — per la loro specifica natura, che non è psichica, ma organica o anche semplice-mente meccanica. Nei due casi i conflitti e le resistenze si dissolvono non per la conoscenza, reale o supposta, che la malata ne acquista progressivamente, ma perché questa conoscenza rende possibile una esperienza specifica nel corso della quale i conflitti si realizzano in un ordine e su un piano che permette il loro libero svolgimento e conducono alla loro risoluzione (29),

A questo punto Lévi-Strauss istituisce però tutta una serie di differenze fra la tecnica psicoanalitica e la tecnica dell’incantesimo Cuna. La psicoanalisi ha per oggetto il trattamento di disturbi psichici, l'incantesimo Cuna tratta un disturbo organico. La cura psicoanalitica cerca di far rivivere al malato la situazione conflittuale che sottende un simbolo individuale, la cura sciamanistica impiega un mito sociale, che il malato riceve dall’esterno. Nella psicanalisi il malato parla, lo psicoanalista ascolta e guida, nella cura sciamanistica il malato ascolta, mentre lo sciamano parla: e mentre nel transfan psicoanalitico il malato fa parlare lo psicoanalista in lui, prestandogli sentimenti e intenzioni supposte, nell’incantesimo Cuna lo sciamano si riplasma per la malata nei modi del mito narrato, e diventa — parlando in simboli — l’eroe e il protagonista del conflitto, che la malata sperimenta a mezza strada fra mondo organico e mondo psichico. Lévi-Strauss non manca tuttavia di notare che questa ultima differenza si attenua quando si tengono presenti le tecniche di Desoille e di Mme Sechehaye (30).

È probabile che un psicanalista considererà come superficiali e ancora senza sufficiente base documentaria questi tentativi di stabilire un rapporto fra il « passo indietro » connesso alla iterazione rituale di un mito e il « passo indietro » che conduce alla abreazione nel senso psicoanalitico del termine : e del resto anche l’etnologo e lo storico delle religioni possono dal loro proprio punto di vista avanzare a questo proposito al
(28) Op. cit.f p. 218.

(29) Op. cit.j p. 219.

(30) Op. citp. 218 sg.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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cune riserve. Tuttavia non c’è dubbio che tale rapporto fra nesso mitico-rituale e terapia psicoanalitica costituisce uno dei temi più fecondi e promettenti affiorati nel più recente corso del movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito. Non si tratta più di applicare semplicemente il metodo psicoanalitico di interpretazione alla religione — con tutti i limiti e i pericoli che tale applicazione comporta —, ma di istituire in modo sistematico un paragone fra le condizioni di funzionamento e di successo della terapia psicoanalitica e le condizioni di funzionamento e di efficacia esistenziale del nesso mitico-rituale nella concreta vita religiosa; con ciò si attinge un punto di vista più alto, che rendendo conto delle differenze non meno che delle omologie promuova una migliore conoscenza della genesi, della struttura e della funzione della religione, e al tempo stesso arricchisca di nuove istanze le prospettive di sviluppo non soltanto della psicoanalisi come tale, ma della scienza dell’uomo nel suo complesso.

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Nel quadro del movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa il movimento psicoanalitico ha sostenuto una parte non certo marginale o casuale. Fra la coazione a ripetere di carattere nevrotico, l’abreazione che ha luogo nel trattamento psicoanalitico e il rivivere un passato primordiale nel simbolismo mitico-rituale delle religioni dell’ecumene vi è infatti un nesso troppo evidente per passare inosservato. Senza dubbio non vi è identità fra i tre fenomeni: ma che essi stiano in rapporto, e possano illuminarsi a vicenda, par fuori di dubbio. È quindi comprensibile che nel seno stesso del movimento psicoanalitico maturasse, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, una crisi che doveva esercitare una notevole influenza diretta nel campo delle scienze religiose. Noi possiamo considerare tale crisi, che si ricollega all’indirizzo di Jung e della sua scuola, da diversi punti di vista. Ma da quello che qui ci interessa l’junghismo appare, in primo luogo, un nuovo apprezzamento del significato e della funzione del simbolo: il quale non è più interpretato, come nel freudismo ortodosso, una semplice maschera del passato ritornante in modo irriconoscibile e irrisolvente, ma si configura come un ponte per un verso rivolto al passato che rischia di tornare nella estraneità e nella servitù del sintomo nevrotico, e per l’altro verso orientato verso la realizzazione di valori culturali di cui è il presentimento, la prefigurazione e il dinamico dischiudersi. In rapporto a questo diverso apprezzamento, mentre nella prospettiva del22

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freudismo ortodosso si trattava di smascherare la maschera simbolica, e di ridurla alla situazione primordiale storica di cui era, appunto, la «maschera», nella prospettiva dell’junghismo la riduzione smascheratrice non era più sufficiente sia rispetto alla interpretazione teorica che alla pratica terapeutica, ma si faceva valere l’esigenza di aiutare il malato a convertire i suoi simboli da chiusi in aperti, da cifrati in dichiarativi di una più compiuta realizzazione di sé, da estranei e servili in culturalmente integrati: cioè, in ultima istanza, i simboli si configuravano come vie di accesso al mondo dei valori, e quindi come strumenti vitali per lo sviluppo della personalità. Nella prospettiva dell’junghismo il significato e la efficacia dei simboli non consistevano più nel loro volgersi indietro, verso una fase anteriore, o nel loro volgersi avanti, verso un ulteriore sviluppo, ma scaturivano dalla dinamica dei due momenti, dal loro cruv - póXXeiv, dal loro carattere di « totalità » del dinamismo psichico, onde essi mediante la ripetizione di uno stadio inferiore tendevano già ad uno sviluppo più alto, e per inaugurare questo sviluppo più alto si avvalevano dello stadio inferiore (31). Ora già per queste ragioni è evidente il rapporto col simbolismo mitico-rituale della vita religiosa, poiché nei miti e nelle cerimonie, e in genere nella religione considerata nel suo dinamismo e nella sua concretezza, si compie continuamente questa vicenda di ripetizione e ripresa, di catabasi e di anabasi, di fondazione e di apertura, di origine e di prospettiva (32). Purtroppo a complicare, e in parte a oscurare, questo tema ermeneutico per le scienze religiose innegabilmente fecondo, è intervenuta la teoria junghiana degli archetipi. Nella sua pratica terapeutica lo Jung fu sorpreso di ritrovare nei simboli onirici — come nelle fantasie e nei deliri di nevrotici e di psicotici — alcuni frammenti di temi mitici che facevano parte organica di sistemi religiosi scomparsi o comunque lontanissimi dalla coscienza culturale del paziente: e tale concordanza si presentava in dati casi in modo da escludere ogni forma di criptomnesia o di consapevole utilizzazione di nozioni occasionalmente apprese. D’altra parte sussistono — ed ogni storico delle religioni lo sa — sorprendenti affinità fra temi mitici di civiltà religiose diverse, e anche qui in modo tale che solo a prezzo di sin troppe ingegnose ipotesi diffusionistiche potevano

(31) Per la concezione junghiana del simbolo si veda R. Hostie, C. G. Jung und die Religion, Monaco 1957, pp. 44 sgg. (L’originale in olandese dell’opera dello Hostie porta il titolo Analytische Psychologie en Godsdienst, Utrecht-Antewerpen 1955).

(32) In Morte e pianto rituale nel mondo antico, Torino 1958, ho cercato appunto di esplorare, in un concreto esempio storico, il rapporto fra crisi, simbolismo mitico-rituale e mondo dei valori.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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essere spiegate mediante la trasmissione culturale da un punto alPaltro dello spazio, e da un’epoca ad un’altra. Jung credette di poter spiegare queste imbarazzanti concordanze mediante l’ipotesi di un inconscio collettivo, come deposito di tracce, o disposizioni, o pieghe psichiche, le quali avrebbero determinato certi binari definiti del rappresentare e certe tendenze al parallelismo delle immagini, indipendentemente dalla tradizione cosciente, come anche dai contenuti rimossi dei singoli individui. Questi archetipi, nel loro insieme, assolvevano la funzione dinamica di stimolare il processo di individuazione, cioè l’ideale della totalità del se stesso, in quanto pieno accordo della sfera cosciente e di quella inconscia e in quanto progressiva reintegrazione delle unilateralità dell’io. Quanto alla origine di questi archetipi Jung parla talora di un precipitato di esperienze ancestrali ricorrenti indefinitamente ripetute nei millenni, e di ricorrenti risposte similari a tali esperienze: onde poi, almeno da un certo momento, ne sarebbe risultata una « impronta » psichica, un centro dinamico di orientamento delle immagini e dei simboli. Ogni volta che la coscienza individuale si rilascia, l’inconscio collettivo con i suoi archetipi tende a battere le vie usate e a reagire secondo modi arcaici : la corrente bloccata nel suo corso travalica gli argini e torna a scorrere nel vecchio letto che con infinita pazienza si era scavato nei millenni. Dietro gli archetipi vi sarebbe dunque, in questa prospettiva, una storia arcaica sepolta di cui, non come lo stesso Jung riconosce (33), non sappiamo proprio nulla. Ma in Jung si è fatta più recentemente valere anche un’altra prospettiva. Gli archetipi sono, sì, semplicemente «impronte» che la scienza psicologica deve limitarsi a ipotizzare rinunziando al problema della origine, tuttavia la fede e la teologia potrebbero ricondurre l’impronta a Colui che lascia l’impronta, cioè a Dio.

« Se come psicologo dico che Dio è un archetipo, mi riferisco con questa affermazione a un « tipo » dell’anima, che notoriamente deriva da typos, impronta. Già la parola « archetipo » presuppone un qualcuno che imprime l’impronta. La psicologia come scienza dell’anima deve limitarsi al suo proprio oggetto... Se essa dovesse anche soltanto come causa ipotetica postulare un Dio, avrebbe implicitamente avanzato l’esistenza di una possibile dimostrazione di Dio, oltrepassando così la sua competenza in modo assolutamente inammissibile. La scienza può essere soltanto scienza: non ci sono dimostrazioni scientifiche della fede» (34).

(33) Ùber die Energeti\ der Seele, 1919, p. 189.

(34) In Psychologie und Alchemìe, 1944, p. 27 sg. (2) C. G. Jung, Aion, 1951, p. 107.24

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In altra sua opera Jung si chiede, se il « se stesso » sia un simbolo di Cristo o se Cristo sia un simbolo del « se stesso » e (35) dichiara di aver optato per questa seconda soluzione, ma si affretta ad aggiungere che tale opzione non ha un valore ontologico, ma soltanto metodologico, concedendo che altri con eguale diritto potrebbe scegliere la prima soluzione: e P. Zacharias, accogliendo prontamente la concessione, ha valutato appunto quali sarebbero le conseguenze teologiche quando si assuma il « se stesso » come simbolo di Cristo (36). D’altra parte in una conversazione personale col suo esegeta cattolico R. Hostie, Jung ha finito col definire a questo modo la sua posizione religiosa : « È chiaro che Dio esiste, ma perché mi si chiede sempre di provare la sua esistenza con dimostrazioni tratte dalla psicologia? » (37). Del resto lo Jung aveva desiderato a lungo di poter collaborare con teologi preparati in psicologia, i quali « benevolmente e con comprensione lo avessero aiutato a correggere e ad integrare la sua insufficiente terminologia teologica», e non mancò di compiacersi quando un domenicano, P. White, gli consentì di realizzare la collaborazione « da lunghi anni attesa » (38). Questa « intesa » che si va progressivamente stabilendo fra junghismo e mondo cattolico è giustificata dal fatto che effettivamente lo Jung negli ultimi decenni si è reso sempre più largamente partecipe del movimento di rivalutazione esistenziale della religione. Colui che fu già nel 1902 discepolo di Pierre Janet alla Salpetrière, e che dal 1907 al 1913 fu collaboratore di Freud condividendone sostanzialmente la valutazione negativa della religione, fu indotto successivamente a modificare profondamente il proprio punto di vista. Dalla religione ricondotta in parte ad una sublimazione della sessualità infantile e in parte ad una sorta di nevrosi collettiva, Jung si aprì gradualmente al riconoscimento del valore storico-culturale della vita religiosa, pur continuando a considerarla come stadio superabile della evoluzione individuale o collettiva verso la autonomia morale: successivamente la religione gli si configurò non più come una fase preparatoria, ma come il coronamento e il vertice del destino culturale dell'uomo. Ora ciò che lo aiutò a compiere questo ultimo passo fu proprio l’opera di R. Otto, che — come abbiamo visto — inaugura idealmente l’epoca culturale che stiamo analizzando. Jung

(35) Aion, p. 107.

(36) P. Zacharias, Die Bedeutung der Psychologie C. G. Jungs jiir die christliche Theologie, in Zeitschrift fùr Religion-und Geistesgeschichte, V, 1953, pp. 13 sgg.

(37) R. Hostie, op. cit., p. 201, nota 98.

(38) Lettera di Jung al domenicano P. V. White, in White, God and thè uncon-scious, 1944, p. 260.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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potè infatti stabilire una sorprendente concordanza fra l’esperienza del « vivente rapporto con gli archetipi », quali gli veniva suggeriti dalla sua pratica di psicoterapeuta, e i momenti del numinoso così come R. Otto li aveva indicati nella sua ricerca fenomenologica sul Sacro. Il sentimento di dipendenza, il maestoso, l’efficace per eccellenza, il mistero tremendo e fascinante, il tutt’altro che chiama perentoriamente al rap-porto, potevano essere agevolmente tradotti nel linguaggio della psicologia analitica come segno del rapporto con realtà psichiche non dipendenti dalla coscienza, svolgentisi nell’oscurità dell’inconscio: di un rapporto, cioè, che si identifica in ultima istanza con ciò che la psicologia analitica aveva definito come rapporto con gli archetipi e come processo di individuazione (39). Se poi queste realtà psichiche fossero il riflesso della realtà ontologica di Dio, la psicologia come scienza non era in condizione di decidere, e doveva lasciare il passo alla fede e alla teologia. Una posizione del genere non era più incompatibile con la teologia, ed in sostanza manifestava un sostanziale accordo con le note tesi cattoliche circa i « limiti di competenza » della ricerca scientifica in generale (40).

Attraverso il suo condizionamento inconscio, sottolineato con tanto

(39) Si veda, per questa parte dell’influenza di R. Otto, sulla interpretazione junghiana della religione, Jung, Psychologie and Religion, New Haven, 1938 (Psychologie und Religion, Ziirich 1940).

(40) Cfr. R. Hostie, op. cit.y p. 235. Per un più diretto rapporto dell’junghismo con la concreta documentazione storico-religiosa si veda: Jung e Wilhelm, Das Ge-heimnis dcr goldenenen Biute, Miinchen 1929 (19443); Jung e Kerenyi, Einfiihrung in das Wesen der Mythologie, Amsterdam-Leipzig 1942; Jung, Psychologie und Alchemie, Ziirich 1944; Jung, Ueber Mandala-Symboliin Gestcdtungen des XJnbewussten, Ziirich 1950; Aion. Untersuchungen zur Symbolgeschichte, Ziirich 1951. Per la interpretazione junghiana dei simboli cattolici: Jung, Versueh einer psychologischen Deutung des Tri-nitatsdogmas in Symboli\ des Geistes, Ziirich 1948; Das Wandlungssymbol in der Messe, in Von den Wurzeln des Bewusstseins, Ziirich 1954; Antwort auf Hiob, Ziirich 1952. In quest’ultima monografia lo Jung considera la proclamazione del dogma dell’assunzione corporea al cielo della vergine Maria come « il più importante evento religioso dal tempo della Riforma in poi» (p. 160), poiché segnerebbe la compiuta valorizzazione dell’archetipo della femminilità e della maternità per eccellenza, e quindi la possibilità per i credenti di ritrovare in cielo tutti i tratti femminili e materni che la concezione troppo rigidamente maschile della Trinità ' lascia in qualche modo nell’ombra. Non a caso, secondo Jung, la proclamazione del Dogma è avvenuta solo nel 1950, poiché mai come oggi si avverte, nell’attuale congiuntura storica, il pericolo di un impulso distruttivo cui il mondo è esposto (la bomba atomica!), e quindi mai come oggi i tempi sono maturi per una adeguata valorizzazione dell’archetipo femminile della figura della Madre di Dio. Sull’archetipo femminile si veda ora la grassa fatica di E. Neumann, Die Grosse Mutter. Der Archetyp des grossen Weiblichen, Ziirich 1956. Dello Jung è da leggere anche il commentario psicologico al libro tebetano dei morti in M. Y. Evans-Wentz, The Tebetan Boo\ of thè Dead, London 1957, pp. XXXV-LXIV. Fra gli scritti junghiani ancora inediti vi è anche un commentaro agli esercizi spirituali di S. Ignazio. Il lettore italiano che voglia formarsi un’idea dei rapporti fra junghismo26

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vigore dalla psicoanalisi, il simbolo mitico affondava dunque le sue radici nel profondo della vita psichica, e quindi si collegava strettamente col mondo degli istinti e con lo stesso ordine biologico. La teoria junghiana degli archetipi come «organi» dell’inconscio collettivo, richiama — sia pure in via meramente ipotetica — ad una base anatomicofisiologica degli archetipi stessi. Ma il nesso più ardito fra mito e biologia si ritrova in alcune tesi di Roger Caillois, e segnatamente nel suo saggio sulla mantide religiosa. La riplasmazione mitica di questo insetto, attestata in diversissimi ambienti culturali, sarebbe fondata, secondo il Caillois, in parte sul suo aspetto antropomorfo in parte sulle sue abitudini sessuali, caratterizzate dalla indifferenziazione del piacere sessuale e di quello della nutrizione. Ora di tale indifferenziazione vi sono tracce anche nell’uomo in quanto essere biologicamente condizionato, e pertanto la mantide nella storia religiosa dell’umanità è stata miticamente riplasmata in quanto essa rappresenta una condotta di cui l’uomo avverte la sollecitazione : solo che mentre nella mantide si tratta di un comportamento istintivo, nell’uomo, si tratta di un 'immagine mitica che sta come equivalente e come surrogato del comportamento umanamente interdetto. Il mito della mantide testimonierebbe quindi — sempre secondo il Caillois — « un condizionamento biologico dell’immaginazione » (41). Un analogo orientamento interpretativo ritroviamo in Jung e in Kerènyi, lì dove essi concordemente accennano alla possibilità che il ricorrente simbolo della quaternità possa avere un fondamento cosmico nel fatto che il carbonio, la principale sostanza chimica dell’organismo vivente, ha quattro valenze, il che rinvia addirittura all’anorganico. Ma si tratta, come è evidente di ipotesi sin troppo ingegnose, in cui par quasi che gli antichi miti si vengano inestricabilmente mescolando con le affabu-lazioni dei loro interpreti moderni (42).

# # #

Il contributo anglosassone al movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito è rappresentato in modo eminente dalla cosiddetta scuola mitico-rituale (Myth-Ritual School). Già in Frazer, in Robertson Smith, nel Murray e nella Harrison prese rilievo la persua
e scienze religiose può avvalersi delle poche traduzioni comprese nella collana etnologica della casa editrice Boringhieri e della collana Psiche e Coscienza della casa editrice Astrolabio, nonché della recente traduzione del volume di J. Campbell, The Hero with a thousand faces pubblicata nel 1958 dalla casa editrice Feltrinelli.

(41) R. Caillois, L’homme et le sacre, 19502, p. 39 sg.

(42) Jung-Kerényi, Prolegomeni dio studio scientifico della mitologia, trad. ital. Torino 1948, p. 33 sg.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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sione che il mito, nella concretezza della vita religiosa, affonda le sue radici nel rito e nel culto, e che fuori di questo rapporto il mito non è più tale, ma diventa arte, dramma, letteratura, filosofia, scienza, cioè — in generale — opera umana avviata alla consapevolezza della sua umanità e mondanità (43). Ma il vero e proprio atto di nascita di questo indirizzo è segnato da due symposia editi da S. Hooke, nei quali un gruppo di studiosi sottoponevano ad analisi il rapporto fra mito e rito nel vicino Oriente. Poteva sembrare una disputa fra dotti tendente a rivalutare nella religione di Israele, e in genere nelle civiltà delPoriente vicino, il rituale ed il culto, e a rintracciare i modelli mitico-rituali che operavano in questa vasta area religiosa, soprattutto in rapporto al tema della « regalità divina»: in realtà — come ha recentemente osservato il Bran-don — se si pensa che la maggior parte degli studiosi che promossero questo indirizzo erano vivamente interessati alle sorti della religione cristiana ed erano mossi da interessi teologici, e che questa apologia del momento rituale coincideva con il rinnovato interesse — in Inghilterra e nel continente — per l’eredità liturgica delle Chiese Cristiane e con le controversie relative alla revisione del Boo\ of Common Prayer (44), si comprende come anche per questa via si facevano valere nel campo degli studi inquietudini religiose e spunti polemici verso la concezione tradizionale della religione e del mito. In polemica col Frazer, che ancora in Myths of thè Origin of Pire (45) difendeva la interpretazione del mito come conato di risoluzione dei « problemi generali » relativi al mondo e alPuomo, S. H. Hooke ricollega i modelli mitico-rituali con la loro radice esistenziale:

Quando ci facciamo ad esaminare [i] modi primitivi di comportamento [che sono alila base del mito e del rito del mondo antico] noi troviamo che coloro che dettero origine ad essi non erano occupati con ‘problemi generali’ relativi a'1 mondo, ma con certi problemi pratici e pressanti della vita quotidiana: problema di assicurare i mezzi di sussistenza, di far sì che il sole e la luna assolvessero alla loro funzione, garantirsi la regolarità delle piene del Nilo, mantenere il vigore corporeo del re in quanto simbolo della prosperità della comunità. Vi erano anche problemi concernenti l’individuo, come la difesa dalla malattia e dalla sfortuna, o l’acquisto di una conoscenza del futuro... In Egitto e in Mesopotamia, due o tremila anni a. C., le attività

(43) Cfr. S. E. Hyman, The Ritual View of Mith and thè Mythic, in Journal of american Folklore, 68 (1955), n. 270, p. 462 sg.

(44) S. H. Hooke, Myth and Ritual, Oxford 1933 e The Labyrinth, Oxford 1935.

(45) S. H. Hooke, Ritual and Kingship, Oxford, 1958, p. 261 sg.28

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rituali assunsero un modello adattato ai bisogni di una civiltà urbana e di una struttura sociale di cui il re è al centro (46).

Per quanto la scuola mitico-rituale si lasciò talora fuorviare da una unilaterale accentuazione del momento rituale della vita religiosa (47), resta come suo merito l’aver energicamente sottolineato che un vero mito, nel quale si crede e che conferisce vita e significato, è inseparabile dal rito e dal culto o almeno dalla prospettiva di un possibile riviverlo, in date e luoghi stabiliti, in una definita vicenda liturgica : i « miti » che operano nella letteratura, nella filosofia, nella scienza senza alcun riferimento a un culto attuale o possibile sono propriamente letteratura, filosofia o scienza, ma non miti vivi, ancorché ne riecheggiano il tema. Noi cercheremmo del resto inutilmente in questo indirizzo generale delle scienze religiose formulazioni teoriche molto rigorose, tali da assùrgere a un vero e proprio impegno sistematico. Forse la formulazione teorica più impegnata è quella tentata da Clyde Kluckhohn in una monografia apparsa in The Harward Theological Review (48). L’autore polemizza con la tendenza prevalente nel secolo decimonono di considerare i miti indipendentemente dai rituali corrispondenti e dai loro concreti nessi esistenziali, e al tempo stesso rimprovera le interpretazioni psicoanalitiche della prima maniera (Abraham, Rank, Reik, lo stesso Freud) di non aver dato rilievo alla funzione sociale dei simboli mitico-rituali. Secondo l’autore, il rapporto fra mito e rito è quello di una dinamica interrelazione, e né la teoria dell’origine del mito dal rito, né quella opposta della origine del rito dal mito possono considerarsi pertinenti. In concreto lo studio di determinate società pone in rilievo uno stesso rito e può comportare più orizzonti mitici di autenticazione e di esplicazione, e che i rituali si modificano, acquistano nuovi significati e si trasformano profondamente nella loro struttura in rap
(46) Myth and RituaL 1933, p. 2 c 4.

(47) Un’altra critica mossa all’indirizzo è l’applicazione meccanica dei modelli mitico-rituali a civiltà religiose diverse, col risultato di non scorgere o di sottovalutare le differenze di struttura, di funzione e soprattutto di significato che i modelli in questione assumono in ciascun concreto contesto culturale: cfr. le varie posizioni dibattute al 7° congresso internazionale di storia delle religioni tenuto ad Amsterdam nel 1950 e interamente dedicato al tema « thè mythic-ritual pattern in civilization » (Proceedings of thè 7th Congress for thè History of Religions, Amsterdam 1951). Sia qui detto incidentalmente che il punto di vista rituale del mito ha dato notevole incremento a ricerche speciali sulle strutture mitico-rituali operanti nel dramma, nell’epica, nelle fiabe, nello stesso romanzo moderno, etc.

(48) K. Kluckhohn, Myths and Rituals: a generai therry, in « The Harward Teologica! Review », 35 (1942), pp. 45-79.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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porto a nuovi miti. Vi sono miti che sono intimamente connessi col rituale, e che ne sono la minuta descrizione giustificativa, mentre altri miti non presentano una connessione così stretta col rito, nel senso che il rito racchiude tratti simbolici che non trovano espressione equivalente sul piano mitico, o che il mito si estende in particolari che non hanno riscontro nel comportamento cerimoniale. Vi sono infine miti secolarizzati, che svolgono una funzione prossima alla nostra « letteratura». Il mito è un sistema di parole simboliche, mentre il rituale è un sistema di oggetti e di atti simbolici: potremmo perciò parlare di un dinamismo simbolico mitico-rituale, che non può essere disarticolato fin quando ci manteniamo nel quadro della vera e propria esperienza religiosa. Il modello mitico-rituale assolve la funzione di proteggere gli individui e i gruppi dai rischi della insicurezza connessi col bisogno e con la morte: ogni civiltà è, in una certa misura, un gigantesco sforzo per mascherare il bisogno e la morte e in generale la fondamentale insicurezza della condizione umana, e per far sì che il futuro sia una ripetizione di un identico mito di fondazione:

Il rituale costituisce una garanzia che in determinati comportamenti relativi a ‘sfere di ignoranza’ che costituiscono i punti nevralgici di ogni essere umano, la gente può contare sulla natura iterativa del fenomeno. Rito e mito forniscono quindi punti fissi in un mondo di angoscianti mutamenti e di frustrazioni: essi si occupano di settori dove 'l’insicurezza è massima, ed è perciò qui che si manifesta il massimo di fissità (49).

Questa analisi del Kluckhohn, per quanto condotta con molta incertezza e empiria di prospettiva, fa affiorare di nuovo il problema della ripetizione nel sue duplice significato di « impulso a ripetere » come ritorno mascherato e irrisolvente della situazione traumatica, e di « ripetizione attiva » in un orizzonte mitico-rituale che assolve la funzione di riprendere il rischio di alienazione, e di riaprirlo al mondo dei valori culturali.

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Il riconoscimento che la ripetizione rituale dei modelli mitici assolve la funzione esistenziale di proteggere dal terrore della storia e di dare

(49) Kluckhohn, op. cit., p. 68. Il richiamo alla base esistenziale dei modelli motico-rituali è ricorrente nei rappresentanti di questo indirizzo, p. es. in E. O. James, Myth and Ritual, Eranos Jahrbuch XVII (1949), pp. 79 sgg. Nel caso di G. Thomson i presupposti della scuola mitico-rituale si sono combinati col marxismo (del Thomson il lettore italiano può leggere Eschilo e Atene pubblicato nel 1949 presso Einaudi).30

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un fondamento e una prospettiva alla precarietà della condizione umana non poteva mancare di avere un contraccolpo nella valutazione della religione cristiana. La Harrison aveva messo in rilievo come l’azione sacra in Grecia, il dromenon, è la ripetizione di un exemplum di fondazione, è un ante-fatto (pre-donè) mitico continuamente « rifatto » (re-donè) nel rito, così come il mito è per essenza parola « ridetta » e « ridicibile». Sulla base di osservazioni condotte su una mitologia vivente presso popolazioni primitive, il Malinowski aveva confermato che il mito non è semplicemente una storia raccontata, o una reazione intellettuale per risolvere un enigma, ma costituisce la riattualizzazione di una realtà dei primordi, una giustificazione e una conferma dell’ordine attuale mediante una dichiarazione di antecedenti esemplari di fondazione. Ma anche il Cristianesimo, a prima vista, si fonda su una ripetizione rituale di un modello mitico, su un « antefatto » continuamente « rifatto », su un inizio che giustifica, fonda e dà prospettiva alla condizione umana. Il « qui pridie quam pateretur... » del Canon Missae, considerato dal punto di vista della struttura, sembra infatti riflettere il carattere di ogni simbolo mitico-rituale, poiché la messa come incruenta ripetizione del sacrificio cruento del Golgota costituisce la riattivazione liturgica e sacramentale del mito di Cristo, o addirittura — come dice van der Leeuw — «la trasposizione dell’evento iniziale dalle origini alloggi » (50). Anzi tutto Tanno liturgico è la ripetizione della vita divina che ha inizio con l’avvento : in virtù del ciclo liturgico ogni anno solare è riassorbito, mese per mese, settimana per settimana, giorno per giorno, nel tempo della liturgia e del mito (51). Non quindi soltanto

i dromena greci illustrati dalla Harrison, o la vita religiosa dei trobrian-desi osservati dal Malinowski, o Xakjtu babilonese o i misteri di Osiride e in genere i simboli mitico-rituali non cristiani mostravano la struttura della ripetizione liturgica di una fondazione mitica, ma lo stesso simbolo cristiano appariva in certa misura il prolungamento dello stesso tema strutturale. Solo però «in certa misura»: poiché non tardò a manifestarsi una differenza strutturale decisiva fra simbolo cristiano e altri simboli mitico-rituali. Già lo Hòlscher non aveva mancato di notare come il pensiero escatologico del giudaismo si contrapponesse in modo radicale alla concezione ciclica del divenire che fu propria del mondo

(50) G. van der Leeuw, Urzeit und Endzeit, in « Eranos Jahrbuch », XVII (1949), p. 25.

(51) G. van der Leeuw, Phànomenologie der Religion, 19562, p. 438.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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greco (52); e il Lommel, in una prospettiva diversa, aveva sottolineato che i popoli arii mancavano del senso della cronologia, mentre alcune civiltà religiose del vicino Oriente, come l’Egitto, la Persia, Israele, cominciarono ad aprirsi alla coscienza della storia nella forma rudimentalissima di coscienza cronologica delle geneaologie e delle successioni di regni. Il Lommel osservava inoltre che questa nuova sensibilità del tempo germinata nell’Oriente vicino ricevette nella tradizione giudaico-cristiana un incremento così decisivo da rendere familiare per noi l’idea che sia databile anche l’evento della incarnazione di Dio (53). Il riconoscimento del particolare carattere del rapporto fra tempo e Cristianesimo giunse a maturazione soprattutto durante gli anni che seguono immediatamente la fine della seconda guerra mondiale. Nel quadro di tale riconoscimento occupa senza dubbio un posto preminente l’opera di Oscar Culmann, Christus und die Zeit (54). Il Culmann pone il contrasto nel modo più netto: mentre per il mondo greco il simbolo del tempo è il circolo, per la religione iranica, per il giudaismo biblico e soprattutto per il cristianesimo il simbolo del tempo è invece la linea retta, con una origine e un termine assoluto. Mentre il mondo greco è dominato dall’eterno ritorno e dalla liberazione dal tempo ciclico, la tradizione giudaico-cristiana pone al centro di un decorso temporale unico ed irreversibile l’evento della incarnazione. Mentre il mondo greco si configurava la beatitudine secondo l’immagine spaziale dell’al di qua e dell’al di là, il Nuovo Testamento conosce un ordine escatologico articolato nei momenti temporali dell’oggi, deliberi e del domani. E infine mentre nel mondo greco era impossibile l’idea di un’azione divina che si rivela progressivamente nel tempo, e che manifesta in tal modo il suo disegno, il Cristianesimo trasforma il terreno accadere in storia santa (55), scandita nei momenti della creazione, del patto di Dio col suo popolo speciale, deli’incarnazione e della seconda definitiva parusia. La coscienza di questa contrapposi
(52) G. Hòlscher, Die Ursprtinge der jiidischen Eschatologie, 1925, p. 6.

(53) H. Hommel, Dit alte Arien, 1935, p. 34. Cfr. M. Buber, Kònigtum Gottes, 1932, p. 121: «In Babilonia il calendario liturgico poteva compiere il suo eterno ciclo sull’empirico divenire, mantenendosi indifferente al divenire stesso; in Israele invece era la storia a circoscrivere in esso, di propria mano, i segni portentosi di ciò che accade una sola volta, deirirripetibile ».

(54) O. Culmann, Christus und die Zeit, 1945 (19482).

(55) Op. cit., pp. 43 sgg.32

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zione appartiene già al Cristianesimo dei primi secoli, come mostrano le teorizzazioni di Ireneo sul tempo cristiano come extansio del passato nelPavvenire (56).

Riepilogo e osservazioni critiche

Dall’analisi del movimento di rivalutazione esistenziale della religione e del mito negli ultimi quarantanni risulta innanzi tutto che alcuni temi fondamentali vi ricorrono con particolare insistenza e danno per così dire il tono al movimento stesso. Il primo tema è la rivendicazione di una specifica esperienza del sacro, cioè di una realtà radicalmente diversa dal «mondo» e non risolvibile interamente in termini razionali, per quanto ogni forma di vita religiosa racchiuda un processo di razionalizzazione del suo nucleo irriducibilmente irrazionale. Da quando R. Otto teorizzò il «tuttaltro ambivalente» questo tema è diventato in certo senso d’obbligo nei domini più diversi delle scienze religiose: e l’accordo che si è realizzato su questo punto è, nell’interno del movimento, totale. La opposizione fra sacro e profano si configura in tal guisa come « un vero e proprio dato immediato della coscienza » : si può descriverla, decomporla nei suoi elementi, darne la teoria, ma non mai risolverla in altro (57). Un punto di vista del genere non è certo in contrasto, com’è chiaro, col punto di vista del credente: e pertanto il tema del « numinoso », inaugurato da R. Otto, ha finito col diventare un punto di accordo non soltanto nel dominio delle scienze

(56) Op. cit., p. 48 sg.: cfr. H. Ch. Puech, Temps, histoire et mythe dans le Christianisme des premiers siècles, in « Proceedings of thè 7th Congress far History of Religions », 1950, pp. 33 sgg. Per il problema dei rapporti fra Cristianesimo e Storia si veda, in particolart, E. C. Rust, The Christian Under standing of History, London 1947; R. Niebuhr, Faith and History, London 1949; H. Butterfield H., Christianity and History, London 1949; K. Lowith, Meaning in History, Chicago 1949; G. van der Leuuw, Urzeit und Endzeit, in « Eranos Jahrbuch », XVII (1949), pp. 11 sgg.; T. Preiss, The vision of History in thè New Testament. On meaning of history, Papers of thè

- ecumenical Institute, Genève 1950, pp. 54 sgg. J. Danielou, Essai sur le mystere de l’histoire, Paris 1953. Non senza significato è l’addensarsi di opere e monografie relative a questa problematica negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale, periodo nel quale cade anche la produzione di Mircea Eliade (Le mythe de l’éternel retour è del 1949).

(57) Si veda p. es. Caillois, L’homme et le sacre, 19502 (19391), p. 17 sg. Analoga impostazione sta alla base della fenomenologia del van der Leeuw e di Mircea Eliade, come della teoria del mito del Gusdorf.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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religiose ma anche fra scienze religiose e punti di vista confessionali. Il gesuita Daniélou può su questa importante questione manifestare il suo pieno consenso con R. Otto e con Mircea Eliade:

Già Rudolf Otto ha acutamente osservato che certi simboli, come l’immensità del deserto o la profondità della notte, risvegliano risonanze specificamente sacrali, il « numinoso », e non possono essere ridotte ad altre categorie di conoscenza: motivo ripreso magistralmente da Mircea Eliade, per il quale le realtà del mondo visibile sono ierofanie, manifestazioni del sacro, attraverso le quali si manifestano certi aspetti della realtà divina, la sua potenza attraverso la tempesta, la sua stabilità attraverso il movimento degli astri, la fecondità attraverso la pioggia ed il sole. Le interpretazioni naturalistiche che riducono il contenuto dei simboli ad una semplice sublimazione della stessa vita biologica sono erronee: ciò che i simboli ci fanno conoscere •è realmente qualche cosa di Dio (58).

Il secondo tema ricorrente nel movimento di rivalutazione esistenziale della religione è la funzione permanente del mito. L’orizzonte metastorico del numinoso, il tutt’altro ambivalente, si articola nella effettiva vita religiosa secondo figure ed eventi inaugurali, e in azioni rituali tendenti a riassorbire la proliferazione storica del divenire nella rivissuta ripetizione delle origini fondatrici e autenticatrici; ne risultano modelli mitico-rituali di destorificazione, che instaurano un regime di «esistenza protetta» dalle traversie dello storico accadere. Sotto la spinta dei risultati della «scuola della storia delle religioni» e della «scuola mitico-rituale» la problematica relativa al nesso mitico-rituale investì lo stesso simbolo cristiano: di qui una serie di ricerche tendenti a mettere in rilievo come il simbolo cristiano, a differenza di tutti gli altri simboli mitico-rituali, non è riducibile a un mito delle origini, ma segna la presa di coscienza della storicità della condizione umana e la instaurazione di un piano escatologico del tempo irreversibile, in opposizione alPeterno ritorno delle religioni del mondo antico o primitive. Si faceva in tal modo valere, anche per questa via, un tentativo di salvare il Cristianesimo, cui corrispondeva nella vita religiosa effettiva un rinnovato bisogno di salvarsi nel Cristianesimo dal terrore della storia profana. E il gesuita Daniélou poteva nel suo già citato «Saggio sul mistero della storia », inserirsi nel discorso iniziato da Cullmann, Rust, Lowith, Mircea Eliade, a dargli un senso accettabile dal Cattolicesimo e dalla sua Chiesa.

(58) Daniélou, Essai sur le mystère de Vhistoire, p. 132.34

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Il terzo tema ricorrente nel movimento di rivalutazione esistenziale della religione accenna in una direzione diversa. Esperienza del sacro, miti e riti si manifestano sul piano della coscienza, e l’analisi può fermarsi alla descrizione di ciò che appare alla coscienza del credente, p. es. l’incontro col numinoso, l’essere afferrati dal radicalmente altro che respinge e che attrae, il riassorbimento del qui e dell’ora nella ripetizione rituale di un evento metastorico inagurale, l’indissolubile nesso tra figurazione mitica e atto cerimoniale di rapporto nella concretezza della vita religiosa in atto, l’apparire della storicità della condizione umana per entro il simbolo escatologico del Cristianesimo: ma è possibile porsi il problema delle motivazioni inconsce delle strutture religiose consapevoli, il che non significa necessariamente ridurre il sacro a queste motivazioni inconsce, ma acquistare una prospettiva più ampia di quella del credente scoprendo oltre alle ragioni che il credente sperimenta e sa, anche altre ragioni che alla sua coscienza non appaiono e non possono apparire, almeno sin quando dura l’impegno religioso. Questa più ampia prospettiva offre almeno la possibilità di riguadagnare, al di là dell’irrazionale del numinoso vissuto immediatamente dal credente, una più profonda razionalità della vita religiosa come fatto culturale, cioè una regola della sua genesi, della sua struttura e della sua funzione nel quadro di date condizioni storiche dell’individuo e della società. La psicanalisi si mise appunto per questa via, ma col primo freudismo non andò al di là di una infelice riduzione della vita religiosa e del mito alla sessualità « sublimata », lasciando così nell’ombra proprio ciò che più importava, e cioè la qualità specifica e la funzione dinamica dei simboli mitico-rituali nella concretezza delle singole civiltà religiose. Sotto la spinta della psicanalisi fu tuttavia scoperta la omologia fra la rivissuta iterazione rituale di un mito delle origini e la abreazione nel corso della terapia psicanalistica, e fu dallo stesso Freud abbozzata una distinzione fra la « coazione a ripetere » e l’attiva ripetizione del giuoco e del rito. Ma fu soprattutto merito dello Jung l’aver messo in rilievo il dinamismo del « simbolo », e cioè il suo carattere di ponte che dischiude il passaggio dalla crisi alla reintegrazione, dal passato che torna in modo cifrato e irrelativo al presente che nella decisione responsabile determina il passato e il futuro, dal sintomo chiuso, isolante, e passivamente subito all’apertura verso il mondo dei valori culturali. Tuttavia nel corso della travagliata vicenda del pensiero dello Jung si riscontra, rispetto alla vita religiosa, un graduale mutarsi delle prospettive di partenza: onde la esperienza religiosa finì col configurarsiMITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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come vivente rapporto con gli archetipi, e col ricongiungersi per questa via al «numinoso» di Rudolf Otto, determinando in tal modo anche nell’ambito del movimento psicoanalitico una singolare convergenza ver-so le posizioni della fede religiosa in atto e verso le interpretazioni della teologia.

Un quarto tema del movimento di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito negli ultimi cinquantanni concerne la sfera di efficacia dei simboli mitico-rituali. Infatti tali simboli, nel loro effettivo funzionamento per entro determinate civiltà religiose, palesano una efficacia che si estende allo stesso ordine somatico e fisico ordinariamente precluso alla decisione consapevole. In questo caso il simbolo mitico-ri-tuale non si limita alla ripresa del «passato psichico perduto», ma fa da ponte tra lo psichico e il somatico, tra lo psichico e il fisico, instaurando efficacie di cui l’incantesimo Cuna precedentemente ricordato offre un esempio. La parapsicologia e la medicina psicosomatica hanno probabilmente favorito il diffondersi nelle scienze religiose di un più cauto apprezzamento circa l’efficacia possibile dei simboli mitico-rituali: ma è certo che il rinato interesse per un problematico del genere è in rapporto con l’orientamento generale dell’epoca che stiamo esaminando.

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Una valutazione critica del movimento di rivalutazione deve partire, per quel che ci sembra, dalla esperienza del numinoso. Nella teorizzazione che ne ha dato R. Otto, si tratta — come si è detto — di una « ultima Thule » esistenziale, o, se più piace, di una sorta di « tetto del mondo » oltre il quale non è dato salire più in alto. È questa esperienza del numinoso, o della ierofania o della cratofania o dell’essere afferrati dal divino, che in un modo o nell’altro opera in tutto il movimento di rivalutazione, e fa convergere i filoni parziali del movimento stesso verso un obiettivo comune, che è l’autonomia del « sacro » come permanente esigenza della natura umana. Ma c’è da chiedersi se il « dato immediato» della esperienza del numinoso, con le sue connotazioni caratteristiche, non possa essere rigenerato dal pensiero, e risultare in tal modo come momento di una dinamica più ampia. In realtà il « tutt’al-tro ambivalente» accenna alla segnalazione di un estremo rischio esistenziale, la perdita della presenza. L’esserci nel mondo come centro di decisione e di scelta è esposto al rischio radicale di non esserci, di perdersi e di alienarsi, dando luogo a tutta una serie di inautenticità esistenziali, che nei loro modi più compromessi costituiscono le malattie36

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della psiche. Il « tutt’altro ambivalente », in questa prospettiva, è la segnalazione di una « alterità » che è certamente sui generis perché ciò che qui rischia di diventare altro è la stessa radice dell’identico e del diverso, del soggettivo e delPoggettivo, del pratico e del teoretico, del « psichico » e del « somatico ». Il « tutt’altro ambivalente », in quanto segnalazione di questo rischio radicale si costituisce e funziona innanzi tutto come piano di arresto delle possibili alienazioni, e quindi come esperienza di una alterità radicale che, per un verso, è una forza ostile e schiacciante, lontana e potente per eccellenza, e per un altro verso è una forza fascinante, che invita perentoriamente al rapporto e alla ri appropriazione. Sempre nella stessa prospettiva, è possibile dedurre tutti gli altri momenti della dinamica religiosa, in primo luogo il simbolo mitico-rituale. La presenza in crisi è esposta al rischio di non essere autentica presenza, cioè di patire il ritorno del passato non oltrepassato, in cui si è perduta e a cui è rimasta legata: un ritorno che, in quanto crisi, ha luogo nella forma cifrata e servile del sintomo psichico dal quale « si è agiti ». Il piano dell’àlterità radicale si configura pertanto come piano di ripresa e di risoluzione del simbolismo chiuso e passivamente subito, cioè del rischio che il passato torni nella maschera irriconoscibile del sintomo nevrotico o psicotico. Appunto per questo il tutt’altro ambivalente si articola nella ripetizione rituale di un mito: le varie crisi individuali ricorrenti in un dato regime di esistenza sono tolte dal loro isolamento individualistico e trattate in forma socializzata e istituzionale mediante modelli di risoluzione che attuano la reintegrazione delle alienazioni e la pedagogia del mondo dei valori. L’esempio freudiano della « madre-rocchetto », fatta scomparire e tornare dal bambino, illustra molto bene questo momento ierogenetico : solo che nell’esempio freudiano si tratta di un angustissimo simbolo infantile, ad uso strettamente individuale, e quindi privo della complessa vita culturale che la socializzazione e la istituzionalizzazione comportano. Il grande tema mitico del « nume che scompare e che torna », e che nel rito è fatto scomparire e tornare, costituisce invece nelle civiltà del mondo antico un esempio di simbolo religioso collettivo, nel quale trovano un orizzonte di arresto e di ripresa, di controllo e di risoluzione,

i momenti critici connessi al ritmo stagionale della vegetazione, all’in-vecchiare e al morire del re e alle crisi della successione, ai lutti familiari e al rischioso ritorno dei morti, e infine a episodi traumatizzanti che ricorrono nell’infanzia e nelPadolescenza di ciascun individuo. In altri termini la vita storica dell’uomo in società comporta necessariaMITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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mente un continua « distaccarsi » da situazioni, un continuo dover oltrepassare le situazioni che passano : in ciò è però anche incluso il rischio di non poter effettuare il distacco, e di morire con ciò che muore, e di condurre una esistenza inautentica, dominata dal ritorno irrelato e servile del passato che non fu deciso. Il simbolo mitico-rituale si atteggia come strumento tecnico che, in date condizioni culturali, funziona da dispositivo per segnalare il rischio, per dare un orizzonte figurativo alle alienazioni ricorrenti e per trasformare il ritorno irrelato e servile del passato in una ripetizione attiva e risolutiva, aperta alle regole umane e ai valori culturali.

Ma il simbolo mitico-rituale è ben lungi dalPesaurire la sua funzione nella ripresa e nella risoluzione del passato critico. La presenza individuale concretamente inserita in determinati regimi di esistenza sociale non è soltanto sottoposta alle aggressioni del passato critico non deciso, ma patisce il continuo attuale rigerminare di momenti critici ricorrenti, e la insicurezza delle prospettive in rapporto al futuro. In questo rapporto il simbolo mitico-rituale funziona come un piano metastorico di riassorbimento della proliferazione storica del divenire: le situazioni critiche ricorrenti in un determinato regime esistenziale, e i rischi di crisi che comportano sono in tal modo ricondotti alla ripetizione di un identico simbolo inaugurale di fondazione metastorica, un simbolo in cui tutto, in ìlio tempore, fu già deciso da numi o da eroi, onde poi ora non si tratta che di rendere ritualmente efficace l’origine mitica esemplare. Questo aspetto del simbolo mitico-rituale assolve la funzione tecnica di destorificazione del divenire : si sta nella storia come se non ci si stesse, e al rischio di perdere la storia umana nelPisolamento individuale della crisi senza orizzonte si contrappone ora un regime di esistenza protetta, in cui il possibile della esistenza storica viene vissuto come se fosse già accaduto in una vicenda mitica fondatrice e autenti-catrice, e come se fosse già preordinato secondo un esito immutabile, stabilito una volta per tutte sul piano della metastoria. In virtù di questa funzione protettrice del simbolo mitico-rituale quel tanto di senso del mondano che ogni civiltà che è al mondo possiede (altrimenti se vivesse interamente nel « mito » non potrebbe mai mantenersi come « civiltà » e sprofonderebbe nel delirio) subisce un continuo refoulement, cioè un occultamento alla coscienza : ma intanto, attraverso questa « pia fraus », si dischiudono di fatto le opere e i giorni che sono connessi al viver civile, e possono anche de jure cominciare ad essere riconosciuti come doni divini e infine nella loro qualità mondana. Il pescatore me38

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lanesiano, quando affrontava il mare, diventava Peroe mitico Aori e ne ripeteva il viaggio paradigmatico. La storicità del viaggio, con i suoi storici imprevedibili incidenti, era così riassorbita nel modello metastorico, avvenuto nella metastoria una volta per tutte; ma intanto, per entro questa destorificazione delle spedizioni marittime, si realizzavano in concreto imprese che erano di interesse vitale per una popolazione di pescatori. I cacciatori Aranda del clan totemico del gatto selvatico attraversavano un territorio sconosciuto portando con sé, sotto forma di palo, il « centro del mondo », e iterando il centro mitico in ogni luogo di soggiorno del loro peregrinare : essi cioè peregrinavano « come se » si mantenessero sempre al centro; ma intanto, per entro questa destorificazio-ne del peregrinare, veniva ridischiusa la possibilità di attraversare una terra incognita, nel quadro delle necessità vitali di una comitiva di cacciatori (58bls). Uakjtu babilonese riassorbiva Tanno trascorso nel periodo mitico della creazione, ripeteva Patto cosmogonico, e prefigurava Panno nuovo: ma intanto, per entro questa ciclica iterazione dell’identico, Panno nuovo era affrontato, col suo storico accadere. E, infine, il qui pridie quam pateretur del Canon Missae ripresenta continuamente il sacrificio esemplare di Cristo, venuto a togliere il peccato del mondo, cioè la macchia che vulnera lo storico divenire : ma intanto, pur attraverso un «come se non fosse», il mondo riacquista prospettiva per il cristiano, ed è in questa prospettiva affrontato. Si ricordi a questo punto il famoso passo di Paolo, Ad Cor. I, 7, 29-32: «Il tempo stringe. Non resta altro che coloro i quali hanno moglie siano come se non Pavessero; e coloro che piangono, come se non piangessero; e coloro che gioiscono, come se non gioissero; e coloro che comprano come se non possedessero; e coloro che fruiscono di questo mondo come se non ne fruissero: è sor-passatta infatti l’immagine di questo mondo ».

Ma la funzione del simbolo mitico-rituale si manifesta soprattutto quando si tenga conto della sua dinamica complessiva nel quadro di una determinata civiltà. Il comportamento rituale è ripetizione non soltanto nel senso che itera uno stesso mito, ma anche nel senso che uno stesso rito, nella sua mimica, nelle sue parole e nelle sue manipolazioni di oggetti sacri, tende a riprodurre con la maggiore fedeltà possibile una vicenda rituale di fondazione, inaugurata per la prima volta in ilio tempore. Ora già soltanto questo suo carattere internamente iterativo, cicli
(58 bis) Cfr. il mio studio Angoscia territmiale e reintegrazione culturale nel mito Achilpa delle origini, che può leggersi in appendice alla 2a ed. del Mondo Magico, Torino 1958.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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co, prevedibile nel decorso come l’orbita di un pianeta, instaura negli operatori e nei partecipanti un abbassamento della coscienza di veglia, e una condizione favorevole al rapporto con l’inconscio. Questo aspetto di attiva destorificazione della presenza individuale si fa valere nel rito a tal punto che spesso le tecniche riduttive della coscienza stanno per sé, senza avere necessariamente corrispondenti mitici: fissazioni di un punto, brillante e abbacinante, monotona iterazione di parole o di sillabe, rullio di un tamburo, e quant’altro forma l’apparato esterno delle tecniche mistiche di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Ora per questo suo aspetto il simbolo mitico-rituale appare un dispositivo particolarmente adatto per compiere una catabasi nell’inconscio, per evocare il «passato perduto», per riaprire passaggi bloccati, per raggiungere memorie sepolte, e per compiere in tal modo l’anabasi verso la coscienza e il valore: ma sia la catabasi che Panabasi trovano nel simbolo mitico-rituale la loro concreta possibilità e la loro storica disciplina, almeno nella misura in cui il dispositivo protettivo del « sacro » funziona e ubbidisce alla sua intima coerenza. Tale «pedagogia» libera valori, e precisamente gli stessi valori mondani e profani che la crisi esistenziale rischia di compromettere. Nei modi che son propri dell’alienazione e della destorificazione religiose, cioè per entro l’orizzonte protettivo e reintegratore della meta-storia mitico-rituale, gli individui e i gruppi cercano numi e rapporti con numi, ma ciò che effettivamente essi trovano è in ultima istanza la non eludibile storia umana, le opere variamente qualificabili come economiche, sociali, giuridiche, politiche, morali, artistiche, scientifiche, filosofiche. Il simbolo mitico-rituale è apertura verso queste opere dotate di valore, è ponte verso il mondo degli uomini, anche se per il momento religioso è unicamente ponte verso il divino. Questa dinamica ha sempre luogo, anche quando — come accade in determinate civiltà religiose — par quasi che tutto il mondano operare viva occultato e protetto nel « come se » della destorificazione mitico-rituale, e anche quando — come nel caso della « magia » — il simbolismo mitico-rituale par quasi ridotto alla potenza della parola e del gesto, e l’orizzonte umanistico è angusto ed elementare. Nel modo più palese poi questa dinamica ha luogo nelle religioni superiori, nelle quali gli stessi simbolismi mitico-rituali si presentano integrati con significati filosofici e morali, e costituiscono fonte di ispirazione artistica. Comunque, in un modo o nell’altro, la dinamica religiosa, nella varietà delle sue concrete manifestazioni storiche, accenna a un mondo di uomini che si protegge dalla crisi di alienazione radicale fermandola e configurandola in un sopra40

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mondo di dei, e che nel sopramondo di dei ritrova e riprende, a vari livelli di consapevolezza umanistica, il mondo degli uomini e delle loro opere qualificate secondo valori mondani.

Né è da credere che questo rapporto sia smentito dalla mistica. Anche i mistici più impegnati nella negazione della storia e della società cui appartengono sono giudicabili da un punto di vista storiografico non già nell’isolamento delle loro eccezionali avventure psicologiche strettamente individuali, ma come organi di una società storica funzionante, aperta — se si mantiene nella storia — al mondano operare. È in questo più vasto orizzonte culturale che la storiografia religiosa deve considerare lo stesso misticismo, valutando gli annientamenti mistici sotto l’angolo visuale di quanto di positivo e di esprimibile in valori risulta per la società storica nel suo complesso, al di là della esperienza mistica individuale in atto. Un mistico che possa a tutti gli effetti essere considerato nell’isolamento astratto della sua avventura psicologica personale, e che abbia reciso tutti i vincoli che lo legano alla sua propria società e alla sua epoca non è in realtà un mistico, ma un «malato», intorno al quale la psichiatria potrà dirci qualche cosa, ma non la storiografia. Nei « veri » mistici, cioè giudicabili dal punto di vista della storia della cultura, il momento della « malattia » può assumere un rilievo più o meno grande, ma è pur sempre la guarigione che li individua culturalmente, e con la guarigione la loro giudicabilità secondo le « opere », secondo ciò che hanno realmente fatto e che può essere dallo storico espresso e definito. Questo rapporto affiora talora alla coscienza degli stessi mistici, soprattutto cristiani, come p. es. in S. Teresa:

(In S. Paolo) si ammirano gli effetti della vera contemplazione e delle visioni che sono da Dio, non dairimmaginazione o dal demonio. Forse che egli si nascose per non occuparsi che in godere le delizie di queste grazie? Ma lo sapete anche voi: non ebbe riposo di giorno e neppure dovette averne di notte, perché in essa si guadagnava da vivere... Questo è il fine dell’orazione, figliuole mie: a questo tende il matrimonio spirituale: a produrre opere ed opere, essendo questo, come ho detto, il vero segno per conoscere se si tratta di favori e di grazie divine... Ma per questo è necessario, ripeto, che cerchiate di non far consistere il vostro fondamento soltanto nel recitare e nel contemplare, perché se non procurate di acquistare la virtù e non ne fate l’esercizio, rimarrete sempre delle nane. E piaccia a Dio che vi limitiate soltanto a non crescere, poiché su questa via, come sapete anche voi, chi non va innanzi torna indietro. Tengo per impossibile, infatti, che l’amore, quando vi sia, si contenti di rimanere sempre nello stesso stato... (59).

(59) Castello, V Mans., Cap. IV.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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E altrove:

Benché vi siano moltissimi indizi per conoscere se amiamo Dio, tuttavia non possiamo mai esserne sicuri, mentre lo possiamo quanto all’amore del prossimo... Quando vedo delle anime tutte intente a rendersi conto deliberazione che fanno e così concentrate quando sono in essa da far pensare che non abbiano ardire di fare il più piccolo movimento né di divergere il pensiero per paura di perdere quel po’ di gusto e di devozione che sentono, mi persuado che non conoscono il cammino dellunione. Pensano che consista tutto nel fare così. No, sorelle mie. Il Signore vuole opere. Vuole, per esempio, che non ti curi di perdere quella devozione per consolare un’ammalata a cui vedi di poter esser di sollievo, facendo tua la sua sofferenza, digiunando tu, se occorre, per dare da mangiare a lei: e ciò non tanto per lei, quanto perché sai che questa è la volontà di Dio (60).

Così per entro la destorificazione religiosa (« e ciò non tanto per lei, quanto perché sai che questa è la volontà di Dio ») appare alla coscienza non soltanto la necessità dell’opera mondana, ma la produttività mondana è assunta come vero segno dei favori celesti.

Questi passi di S. Teresa pongono il problema dei valori che il simbolo mitico-rituale cristiano ha mediato alla civiltà occidentale. La recente letteratura sui rapporti fra Cristianesimo e storia, Cristianesimo e tempo, Cristianesimo e mito ha messo in evidenza che il simbolo mitico-rituale cristiano ha assolto la fondamentale funzione culturale di mediare per l’occidente il senso della storia. Non si tratta, si badi, della semplice protezione e reintegrazione dell’umano operare compromesso dalla crisi esistenziale, poiché tutte le religioni, anche le più rozze, operano tale protezione e reintegrazione mediante la destorificazione mitico-rituale. Effettivamente il Cristianesimc, a differenza delle altre religioni dell’ecumene, fa apparire la coscienza del tempo e della storia nel cuore stesso del suo simbolo mitico-rituale, e attraverso i temi della « storia santa », del sacrificio dell’Uomo-Dio come evento storico al centro del divenire, e di un processo escatologico che si attua nel tempo, non soltanto dischiude di fatto la storia umana, ma alza il velo sulla storicità della condizione umana e fonda de jure nella prospettiva della fede, il senso dc\Y opera, la coscienza della tensione fra « situazione » e « valore ». Se la civiltà occidentale si è guadagnata nel corso della sua storia una egemonia fondata sulla potenza del mondano operare, se un umanesimo fiducioso ed entusiasta è venuto sempre più intensificando

(60) Castello, V Mans., Cap. III.42

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la sua straordinaria messe di opere economiche, politiche, morali, artistiche, scientifiche e filosofiche, la conquista di questo primato civile è certamente impensabile senza la nuova esperienza del divenire storico inaugurata dal Cristianesimo. Il rapporto fra energia morale mondana della civiltà occidentale e simbolo cristiano assume talora vie molto mediate (si pensi al rapporto fra etica protestante e spirito del capitalismo, secondo la tesi famosa del Max Weber): ma il rapporto sussiste e conferisce alla storia delPoccidente la sua fisionomia inconfondibile. D’altra parte al germe di consapevolezza della storia che è racchiuso nel simbolo cristiano è altresì da attribuire la energia con la quale l’Oc-cidente ha condotto innanzi il processo di laicizzazione del mondano operare, sconsacrando e restituendo all’umano una sfera sempre più vasta di attività culturali. Per quanto già nel mondo antico si manifesta il processo di liberazione del profano dal sacro, per entro la civiltà cristiana la progressiva autonomia dell’umano dal divino ha intensificato il suo ritmo, soprattutto dalla Riforma e dal Rinascimento in poi. Noi abbiamo scoperto oggi le « origini » mitico-rituali del teatro, delle arti figurative, della letteratura, della danza e della musica, il nesso fra mito, teologia, metafisica e filosofia, il passaggio dalla sacralità del gruppo sociale e dalle ideologie teocratiche ai problemi della moderna convivenza democratica, il liberarsi della tecnica e della produzione dei beni economici dall’orizzonte « numinoso » in cui per così lungo tempo si sono svolte e hanno trovato protezione: ma questa nostra scoperta non è nient’altro che la presa di coscienza di un processo che soprattutto la civiltà occidentale ha condotto innanzi, in un riferimento più

o meno mediato col « senso della storia » dischiuso dal Cristianesimo.

Ma ce qualche cosa di più. Non soltanto il Cristianesimo, al pari di qualsiasi vita religiosa, è stato mediatore di res gestite, non soltanto più di ogni altra forma di vita religiosa ha favorito, in virtù del suo senso della storia, il laicizzarsi di vasti settori della operosità umana, ma ha mediatamente favorito il costituirsi di una historia rerum gesta-rum, e il maturarsi di una coscienza storicistica che investe lo stesso simbolo cristiano nella prospettiva di un umanesimo sempre più coerente e consapevole di sé. In questa prospettiva doveva necessariamente apparire, come risultato, il limite di attualità del simbolo religioso cristiano. Ciò che, in virtù del simbolo cristiano, progredisce nella storia è in ultima istanza un piano di annientamento della storia, una promessa di cancellazione del divenire. E la incarnazione è, sì, un evento storico avvenuto « una sola volta », ma il suo privilegio è così « deciMITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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sivo » che nulla di veramente nuovo può accadere « dopo » di esso (61). Per questa via il mito di Cristo al centro della storia torna a configurarsi come un mito delle origini, da iterare nella liturgia e da rivivere nella vicenda sacramentale: e se ciò che viene ripetuto e rivissuto non è l’epoca inaugurale del mondo, ma un evento che sta al centro della storia santa, l’estremo previlegio di questo evento è tale da riconvertire paradossalmente il centro in origine, l’origine in annunzio della fine, e l’annunzio della fine nel calendario liturgico dominato dalla ripetizione destorificatrice. Nel momento stesso in cui il pensiero occidentale riconosce nel simbolo cristiano la dinamica del suo proprio destino di liberazione come « pensiero della storia umana » non è più possibile, per chi si sia innalzato a questa presa di coscienza, immettersi di nuovo in buona fede nella dinamica religiosa di cui storicamente tale coscienza è il risultato: il passaggio dal simbolo mitico-rituale alle res gestae, può sempre rinnovarsi, ma il passaggio dal simbolo mitico-rituale all’umanesimo storicistico dispiegato può effettuarsi una sola volta, salvo che non si cerchi di « dimenticare », alimentando in tal modo una fede artificiale, inautentica e sostanzialmente irrispettosa della stessa grandezza storica del Cristianesimo. Il simbolo mitico-rituale cristiano media il valore della storia umana: ma proprio questa mediazione, nel momento stesso in cui distingue il Cristianesimo fra le altre religioni, e ne fonda l’alta funzione pedagogica nella storia culturale dell’occidente, costituisce necessariamente il principio di un’agonia religiosa, anzi il principio dell’agonizzare di tutti i simboli mitico-rituali e di tutti gli orizzonti numinosi, almeno nella misura in cui resterà operante nell’umanità la memoria della civiltà occidentale. La crisi delle « scienze religiose » nel mondo moderno — e la crisi religiosa che ne è alla base — nascono dalla difficoltà estrema di accettare coraggiosamente questo risultato della storia religiosa dell’occidente, e di viverlo in tutta serietà, assumendosi l’accresciuta responsabilità umana che comporta. Nascono altresì dal rischio di perdere, insieme alla protezione religiosa, i valori su cui si fonda il viver civile, a delPacuirsi del senso di insicurezza e di precarietà di una storia cui la metastoria mitico-rituale non fa più da orizzonte protettivo. Fermenta così negli animi non già propriamente un « ritorno alla religione » — per il quale occorrerebbe un oblio totale di

(61) J. Daniélou, contrapponendo la concezione marxista a quella cristiana della storia, scrive: « Per il marxista la storia non è ancora decisa e il suo sguardo si apre sulPavvenire. Per il cristiano, la storia è sostanzialmente decisa e l’avvenimento essenziale è al centro e non al termine » {Essai sur le mystère de Vhistoire> 1953, p. 83).44

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esperienze e di eventi che volenti o nolenti portiamo nel sangue — ma un urto irrisolvente fra terrore della storia, nostalgia del simbolo cristiano e più o meno consapevole impossibilità di dimenticare il processo culturale che ha fatalmente dischiuso all’uomo moderno il senso della storia e più ancora l’umanesimo integrale che gli è potenzialmente congiunto. Né quest’urto irrisolvente può trovar esito legittimo in tormentati compromessi sul tipo della cosiddetta «demitizzazione del Nuovo Testamento», patrocinata dal Bultmann: il quale — nel proposito di restituire al messaggio cristiano un significato accettabile per il mondo moderno — si è adoperato a cernere, avvalendosi degli strumenti analitici offerti dalPesistenzialismo heideggeriano, quanto nel Nuovo Testamento è « mito » e quanto « messaggio », col risultato di conservare come « messaggio » ciò che, per l’uomo moderno, è ancora « mito », e di respingere come «mito» ciò, per il credente, costituisce parte vitale del simbolo religioso cristiano (62).

Del resto, per quanto riguarda il «ritorno alla religione» negli Stati Uniti, ecco che cosa ne pensa J. Milton Yinger, professore di socio-* logia e di antropologia all’Oberlin College:

L’aumento degli appartamenti alle Chiese, il fatto,che molti 'libri religiosi sono diventati best-seller, i numerosi articoli religiosi in periodici di massa, la popolarità di films a soggetto religioso, la riaffermazione frequente

— da parte dei nostri leaders politici — della nostra eredità religiosa, l’aumento fra gli studenti di atteggiamenti favorevoli verso la Chiesa e la esistenza di Dio (Public Opinion New Service, 20 marzo 1955), ed altri fatti del genere provano la forza del movimento di « ritorno alla religione »... L!American Institute of Public Opinion riferisce che il 97% degli Americani si identificano con uno dei maggiori gruppi religiosi, e l’80% degli Americani adulti dicono di credere nella Bibbia e nella parola rivelata di Dio. Può es
(62) Del Bultmann è da vedere la conferenza programma Neues Testament und Mythologie (apparsa dapprima in « Beitràge zue Evangelischen Theologie », 1941, e poi in « Kerygma und Mythos I», Amburgo 1951). Il lettore italiano può informarsi dello stato della quistione e della vastissima bibliografia attingendo da A. Vógte, Rivelazione Milo, in «Problemi e orientamenti di Teologia Dogmatica », Milano 1957, I, pp. 827 sgg.; R. Marlé, Bultmann e Vinterpretazione del nuovo testamento, trad. it., Brescia 1958; G. Miegge, L’evangelo e il mito nel pensiero di Rudolf Bultmann, Milano 1956; F. Bianco, Introduzione al problema dello smitologizzamento, nel voi. « Metafisica ed Esperienza Religiosa », Archiv. di Filosofia, Roma 1956, pp. 265 sgg.; F. Bianco, Mito, simbolo, esi-stenza, nel voi. « Filosofia e simbolismo », Archiv. di Filosofia, 1956, pp. 289 sgg. e Metodo fenomenologico e interpretazione del mito, ibidem, 1957, pp. 199 sgg.; M. Bendi scioli, Interpretazioni razionalistiche del Cristianesimo primitivo, Padova 1952, pp. 68 sgg.; R. Tucci S. Un nuovo allarme fra i teologi protestanti, in « Civiltà Cattolica », quad. 2562, 16 marzo 1957, pp. 580 sgg.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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sere facile spiegare Fattuale interesse per la religione facendo appello alla frustrazione delle speranze che parecchi avevano riposto nella scienza, nell'umanesimo, nei movimenti politici secolari. Avendo sopravalutato il potere della scienza e avendo riposto troppa speranza nei movimenti politici secolari, si ritorna alle vie religiose della salvezza. La grande confusione e ansietà e sofferenza della nostra epoca incoraggia tale orientamento': e la « bomba atomica » — questa terrificante prova del potere autodistruttivo dell’uomo — induce anche il più insensibile alla riflessione e allo sbigottimento. Tuttavia, malgrado ciò, occorre avare cautela nelTinterpretare la situazione presente come caratterizzata dal « ritorno alla religione ». La Bibbia può essere proclamata parola rivelata da Dio, ma il 53% di coloro che così proclamano non saprebbe indicare neanche il primo dei quattro libri del Nuovo Testamento... Il ritorno alla religione può essere compreso solo notando la simultanea secolarizzazione della Chiesa. Ciò che « torna » è una istituzione che pone poche domande relative alla fede... Vi è una tendenza a ritenere che la religione è un bene perché è utile per altri maggiori valori, rovesciando così il rapporto mezzo-fine secondo il quale la religione è considerata il valore supremo. Ciò è in rapporto col fatto che i principali valori della società americana si esprimono in termini non religiosi, ma secolari e soprattutto nazionali [cioè come esaltazione del «modo americano di vita »] (63).

Da quanto è stato fin qui detto e ragionato affiora un risultato preciso: il sacro è entrato in agonia e davanti a noi sta il problema di sopravvivere come uomini alla sua morte, senza correre il rischio di perdere — insieme al sacro — l’accesso ai valori culturali umani, o di lasciarci travolgere dal terrore di una storia cui non fa più da orizzonte e dà prospettiva la metastoria mitico-rituale. L’alternativa fra umano e divino, che travaglia tutta la storia delle religioni, e che col Cristianesimo è entrata in un drammatico processo di maturazione, si pone oggi nei termini di una decisione attuale, alla quale non possiamo sottrarci. Il « sacro », nei modi tradizionali di un orizzonte metastorico articolato in un nesso organico di miti e di riti, non costituisce una esigenza permanente della natura umana, ma una grande epoca storica che in direzione del passato si perde nella notte delle origini e che giunge sino a noi, eredi della civiltà occidentale: ma per amplissima che sia questa epoca è certo che ne stiamo uscendo, e che il suo tramonto si sta consumando dentro di noi. Il rischio della crisi esistenziale, la esigenza di simbolismi protettivi e reintegratori appartengono certamen
(63) }. Milton Yinger, Religion, Society and Individuai. An introduction to So-tfiology of Religion, New York 1957, p. 270 sg.46

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te alla condizione umana e quindi anche alla civiltà moderna: ma la tecnica dell’orizzonte metastorico è diventata inattuale, onde la civiltà moderna è impegnata ad ordinare una società e una cultura il cui simbolismo esprima il senso della storia e la coscienza umanistica, senza ricorso alla ambigua politica dei due volti.

Possiamo ora meglio apprezzare, dopo questi rilievi, gli aspetti positivi e i limiti del movimeno di rivalutazione esistenziale della vita religiosa e del mito negli ultimi quarantanni. È senza dubbio merito di questo movimento aver messo in evidenza, in polemica con il superficiale intellettualismo, alcuni temi ermeneutici di notevole interesse e suscettibili di sviluppo e di approfondimento, come p. es. il rapporto della esperienza del sacro con la crisi esistenziale, il nesso mitico-rituale in cui si articola l’orizzonte del tutt’altro, le motivazioni inconsce dell’esperienza religiosa, le omologie fra terapia psicoanalitica e dinamismo efficace dei simboli mitico-rituali, il diverso rapporto in cui il tempo e la storia stanno nelle religioni non cristiane e nel Cristianesimo, l’emergere del « senso della storia » per entro il simbolo religioso cristiano. Tuttavia il movimento di rivalutazione non si è reso conto che proprio il processo in virtù del quale il simbolo cristiano è venuto mediando nella storia della civiltà occidentale il « senso della storia » ha avuto come risultato inevitabile la impossibilità di mantenere in buona fede la struttura e la funzione di un orizzonte metastorico, articolato in miti e in riti. Con ciò il movimento di rivalutazione ha più o meno perdute rapporto con un tema che pur stava al centro della precedente epoca culturale, e cioè la coscienza del destino laico e umanistico della civiltà occidentale. Il movimento di rivalutazione ha sottolineato come nell’au-, tentica vita religiosa la coscienza della storia è tendenzialmente refoulée, mentre nel mondo moderno è invece refoulée la coscienza mitico-rituale : ma da ciò troppo spesso ha tratto spunto per denunziare una stortura del mondo moderno, e per ravvisare proprio nel rejoulement della coscienza mitico-rituale la ragione fondamentale della crisi. In luogo di analizzare le condizioni storiche e i concreti regimi di esistenza in cui il sacro sorge e funziona, e in luogo di porsi il problema del modo col quale la civiltà moderna può affrontare e risolvere la crisi esistenziale con mezzi che siano in armonia con la eredità umanistica della sua storia, il movimento di rivalutazione ha mostrato una spiccata tendenza a teorizzare l’esperienza del sacro come permanente esigenza della natura umana, in tutti i tempi e in tutti i luoghi, e non senza frequenti deplorazioni per la scarsa sensibilità religiosa della civiltà moderna.MITO, SCIENZE RELIGIOSE E CIVILTÀ MODERNA

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Ma un altro e più sottile equivoco si insinua nel movimento di riva-lutazione esistenziale della religione e del mito. Il centro della vita religiosa è il simbolo mitico-rituale in quanto orizzonte della crisi esisten-' ziale e mediazione di valori. Ora il movimento di rivalutazione se ha per un verso opportunamente insistito sulla organica unità di mito e rito, di fondamento della origine e ripetizione cerimoniale della fondazione, ha al tempo stesso cercato di assegnare al «mito» come tale la dignità di una permanente esigenza della natura umana, anche se i contenuti del mito possono storicamente mutare. Ma questo tentativo mette necessariamente capo a soluzioni equivoche, perché o si continua a conservare nella coscienza mitica il carattere di « rapporto col numinoso », e allora non si vede come si possa difendere nel mondo moderno l’effettivo esercizio di una « categoria affettiva del soprannaturale », oppure ci si riduce a sottolineare la esigenza della « partecipazione », il trascendimento della solitudine e della miseria del « moi haissable », la tensione fra situazione e valore, l’apertura verso la necessità dell’opera qualificata: e allora si individua certamente una permanente funzione antropologica, ma non si vede perché la si debba denominare « mito », e non piuttosto ethos della presenza nel mondo, energia morale che fonda la civiltà e la storia: a questo ethos che lotta di continuo contro l’insidia della disgregazione e dell’isolamento accennava il Croce in una pagina giustamente famosa della sua Storia come pensiero e come azione. Che se poi si vuol affermare che nella dinamica che segna il passaggio dalla crisi esistenziale al mondo dei valori acquista rilievo il momento tecnico del simboleggiare come ponte mediatore del passaggio, senza dubbio l’uomo non potrà mai fare a meno di vibranti quadri energetici in cui il passato si ricapitola e l’avvenire si ridischiude in una prospettiva piena di senso che toglie dall’isolamento e dalla dispersione; ma, anche qui, chiamare « mito » questa funzione simbolica che si innesta tra crisi e valore, rischia di favorire l’equivoco che tende ad avallare l’attualità, per il mondo moderno, del simbolo mitico-rituale della vita religiosa e ciò proprio quando l’esigenza che oggi più si avverte è invece la determinazione di come il simboleggiare possa rendersi compatible con la coscienza umanistica e col senso della storia. Questa ambigua oscillazione ha certamente favorito l’odierno abuso della parola « mito », che è venuto perdendo nell’impiego linguistico corrente il suo riferimento al nesso mitico-ri-tuale della vita religiosa per designare promiscuamente simboli legittimi e simboli illegittimi del mondo moderno, sopravvivenze arcaiche e neo-formazioni di compromesso, e persino mode e infervoramenti passeg48

ERNESTO DE MARTINO

geri: confusione tanto più dannosa in quanto concerne un dominio di fenomeni in cui molteplici interessi congiurano ad alimentarla, e in cui quindi più si avverte il bisogno della distinzione rigorosa.

Nel complesso, malgrado i suoi aspetti positivi, il movimento di rivalutazione della vita religiosa e del mito negli ultimi quarantanni appare esso stesso coinvolto nella crisi di crescenza che travaglia l’umanesimo occidentale in cammino: una crisi che si configura come conflitto fra le imprescindibili necessità della maggiore età umanistica e la nostalgia di protezioni tradizionali che assolsero la loro alta funzione pedagogica in una infanzia non più autenticamente ripristinabile. Per quel che ci sembra, alle scienze religiose spetta oggi una parte non irrilevante nell’aiutare la civiltà occidentale a prendere coscienza del vero carattere della sua crisi, e nel restituire alla potenza morale dello scegliere un’attualità armonizzata con la storia passata e con la situazione presente, per entro simboli vibranti di senso e di prospettiva che « esprimano» l’età umanistica della storia.

Ernesto De Martino
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32292+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 3 Giorno: 1
Numero 37
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 3 - 1 - numero 37


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