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tipologia: Analitici; Id: 1465204


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Edoardo Esposito, Noterelle e schermaglie. Della Poesia, ovvero il dispiacere preliminare
Responsabilità
Esposito, Edoardo+++
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Wojtyla, Karol Józef+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
724 NOTERELLE E SCIIERMAGLIE
Dalle mamme ai bambini, in un crescendo di francescana innocenza. Che dire, infatti, di Papa Wojtyla, il cui « trasporto verso i bambini è di una spontaneità meravigliosa. Fin dalle immagini delle prime udienze tutto il mondo ha ammirato il senso di paternità di Papa Wojtyla con le sue carezze ai piú piccoli, il suo prenderli in braccio » e perfino, in un mistico accesso di giocosi abbandoni, « il farsi rincorrere ».
Il fatto è — ed è qui il sugo di tutta la storia, come diceva don Lisander — che di là del Tevere imperano logiche incommensurabili con quelle vigenti al di qua. « Chi non ha capito... che la preoccupazione religiosa è, piú che dominante, esclusiva, rischia di essere irrimediabilmente fuori strada ». Ne è testimone vivente Papa Wojtyla: « Nessun particolarismo sembra condizionarlo; nessun fine terreno lo occupa e lo preoccupa; sono evidenti in lui ii limite e insieme la forza di sentirsi ed essere portatore solo di parole di vita eterna ».
E diciamo la verità: non piove un raggio di tanta grazia anche sugli uomini della D.C., che all'altra sponda del Tevere, alla Gerusalemme celeste, sono cosí spiritualmente vicini? Non è, in fondo, anche per loro, l'esercizio del potere temporale, spirito di servizio, abnegazione, disinteressata dedizione al bene comune?
L'uomo del Guicciardini, di cui De Sanctis, non potendo prevedere i futuri sviluppi della storia italiana, paventava l'endemica incubazione nella coscienza nazionale (« vivit, immo in senatum venit, e lo incontri ad ogni passo ») è morto. Dalle sue ceneri rinasce, ricco di valori civili, spirituali, morali, l'uomo della D.C.
Ora possiamo guardare con maggior fiducia all'avvenire. Si compagni, con questi uomini si può collaborare alla edificazione di una nuova società.
VITILIO MASIELLO
DELLA POESIA, OVVERO IL DISPIACERE PRELIMINARE
« ... mediocribus esse poetis / non homines, non di, non concessere colum-nae », diceva Orazio, ma da allora i tempi sono molto cambiati e l'epoca delle comunicazioni di massa pare abbia esigenze del tutto diverse; si bada poco alla
Tra le molte pubblicazioni dedicate alla poesia d'oggi, mi limito a ricordare qui i titoli a carattere antologico: Il pubblico della poesia, a cura di A. Berardinelli e F. Cordelli, Cosenza, Lerici, 1975; La parola innamorata. I poeti nuovi. 1976-1978, a cura di G. Pontiggia e E. Di Mauro, Milano, Feltrinelli, 1978 (a queste due raccolte fa in particolar modo riferimento il saggio, cui mi richiamo: S. ANTONIELLI, La corporazione della poesia, in Pubblico 1979, a cura di V. Spinazzola, Milano, Il Saggiatore, 1980, pp. 41-59). Dal volume Poesia degli anni Settanta, a cura di A. Porta, Milano, Feltrinelli, 1979, prendo qui spunto come da quello recentemente piú discusso, ma sono ora usciti anche: Nuovi poeti italiani. 1, curatori vari, Torino, Einaudi, 1980; Poesia uno, •a cura di M. Cucchi e G. Raboni, Milano, Guanda, 1980, mentre al momento in cui scrivo non è ancora apparso l'Almanacco dello Specchio per il 1980, in cui Mondadori presenta annualmente un'ampia rassegna poetica. L'antologia curata da Pier Vincenzo Mengaldo che cito nel testo è Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1978; su di essa si possono confrontare gli interventi di R. Lupe-rini e dello stesso Mengaldo in « Belfagor », 31 marzo e 31 luglio 1979.
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mediocrità o meno di ciò che si presenta, e importante è diventato il fatto stesso del presentare: tutti poeti, quindi.
C'è qualcosa di allegro e spavaldo, in tutto questo, che non può non suscitare simpatia, specie quando si pensi alla seriosità che molte volte aduggia il mondo della cultura; cosí come fa piacere pensare a questo largo interesse, a questo voler partecipare in prima persona: il rifiuto sessantottesco della delega rifluisce dalla politica alla poesia; e forse non ci sarebbe da lamentarsene, se non ne nascesse il sospetto, in molti casi, e allora come ora, della moda, e se non si trattasse semplicemente di un altro tipo di seriosità. Ciò che si presenta come nuovo, come diverso, attira di per sé; il poeta sul palcoscenico fa spettacolo e chiama gente, mentre quello che medita per conto suo no. Ma questa poesia trasformata in spettacolo ha ben poco dell'atteggiamento democratico che le si vorrebbe rivendicare, anche perché l'eventuale pubblico è attirato spesso proprio dallo spettacolo, e non dalla poesia (la quale non si regge piú nemmeno come sostantivo, ed ha bisogno di appoggiarsi ad aggettivi come totale, visiva, visuale, sonora, ecc.).
Non è comunque contro il poeta in piazza (fatto in sé non privo di interesse) che intendo parlare, ma piuttosto contro gli pseudoversi che continuamente vengono proposti, in piazza o nelle vetrine dei librai, e ancor piú in questa sede che in quella. Il libro, che dovrebbe costituire suggello e riconoscimento importante, soggiace ormai troppo agli interessi dell'industria editoriale e alla scarsa capacità autocritica degli autori; invece di vedersi offrire poche buone cose, il lettore è sempre piú costretto a un ritmo da cottimo, e temo che la stanchezza conseguente vada non poco a scapito di un sereno giudizio.
Troppo lungo sarebbe l'elenco dei volumi pubblicati in questi ultimi anni, e anche limitandosi alle antologie chi volesse aggiornarsi sul fenomeno della poesia attuale può sentirsi a ragione scoraggiato; basti dire che il volume Poesia degli anni Settanta, a cura di Antonio Porta, contempla 85 poeti per una decina d'anni (non solo giovani, certo), contro i 51 che leggiamo nella antologia curata da Pier Vincenzo Mengaldo e relativa a tutto il Novecento; cronaca e storia, naturalmente, ma il rapporto non pare comunque un po' sproporzionato? Ci sono fra questi poeti persone che a trent'anni hanno già pubblicato tanti versi quanti Ungaretti o Montale in una vita; se questo è anche un risultato di poetica (l'accumulazione, tanto piú se dell'informe, sembra essere diventata un preciso canone espressivo), bisogna riconoscere che non è estranea ad esso un'intenzione che non ha niente a che vedere con la poesia e che è appunto moda e volontà di presenza.
Ha scritto Sergio Antonielli in un saggio recente, e pur tra favorevoli apprezzamenti, che « l'odierno diffuso saper scrivere in versi » potrebbe sembrare, ma in realtà è lontano dall'essere « un sintomo di buona salute nazionale »; e non solo perché sembra in questo costume di veder risorgere il « letterato » di altri tempi, o perché in fondo la poesia resta nonostante tutto « fenomeno privo di risonanza sociale »; o meglio non solo per ciò che queste immagini immediatamente suggeriscono, ma per la verità che sta al fondo di esse, e che sempre Antonielli indica parlando altrove di « pronunciato intellettualismo », di « pre-
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ziosismo da discorso rivolto a pochi », di « mistica dell'autosufficienza del testo ». Se è vero, infatti, che non si tratta di riproporre vani anatemi contra le tendenze criptiche del linguaggio poetico, è anche vero che gran parte dell'attuale poesia si distingue proprio per il suo disinteresse per la comunicazione, per l'esaurirsi della sua capacità espressiva nel narcisistico gioco di un linguaggio del tutto privato: esito naturale del suo esasperato sperimentalismo, del suo avere innalzato a fine quello che dovrebbe essere soltanto mezzo.
Non intendo naturalmente fare d'ogni erba un fascio; mi esprimo contro una tendenza e non presumo di esaurire con questo il possibile discorso sulla poesia d'oggi e sui suoi aspetti positivi. Proprio in riferimento all'antologia di Porta le cose da segnalare non mancano, e proprio per le loro ricerche non tradizionali andrebbero citati Majorino, Rossana Ombres, Valentino Zeichen, la Rosselli, Giuseppe Conte e altri. Ci sono, in molti di questi versi, figurazioni intense, ci sono immagini vive e la musica delle parole che da sempre è propria della poesia; sono tratti di per sé sufficienti a garantire che non siamo di fronte a intenzioni o a parole false, e che c'è in molti di questi giovani e meno giovani una tensione sincera verso l'espressfone poetica. Ma soprattutto dove questa appare solo in potentia credo sia giusto non consentirvi con troppa immediatezza, e chiedere piuttosto uno sforzo maggiore, una disciplina piú severa; non ci si improvvisa poeti, e se la difficoltà di far seguire a un'immagine felice, a un armonico giro di parole uno sviluppo adeguato, una serie di immagini e di parole che quelle prime approfondiscano e rendano vere; se questa difficoltà viene aggirata privilegiando un incontrollato associazionismo, un susseguirsi di piú o meno indovinati frammenti che eludono lo sforzo compositivo, continueremo ad avere pagine e pagine di righe arbitrariamente troncate che continueremo a chiamare versi semplicemente per mancanza di un vocabolo piú adatto.
Non so come Giuliani o Cagnone o Kemeny o Ballerini e molti altri possano ancora presentare le loro cose come poesia; la loro posizione è piuttosto riassumibile semplicemente sotto l'etichetta di avanguardismo, intendendo il rapporto con le avanguardie storiche in modo analogo a quello che corse tra i petrarchisti e il Petrarca; si continuano infatti ad usare moduli oramai usurati, non sostanzialmente diversi da quelli che già usavano (e con ben altre motivazioni storiche) futuristi e surrealisti. Soprattutto il surrealismo ha fatto scuola, grazie anche al diffondersi della psicoanalisi (ridotta anch'essa acriticamente a moda), con il . convincimento conseguente e deteriore che svincolando le immagini dal controllo razionale sia possibile attingere a superiori verità. Ma già, come osserva Porta nelle sue note, la ragione di oggi è soltanto « menzogna », e solo svincolandosi da essa sarà possibile ottenere una « concentrazione di senso cosí forte da fare pensare a una implosione di significati pari alla condensazione di energia che sappiamo propria dei buchi neri », e grazie alla « lezione DADA » ottenere « una pronuncia del linguaggio che mi sento di definire metafisica ».
Per quanto questo linguaggio sembri rimandare a qualcosa di piú vasto e inafferrabile della comune realtà (l'insofferenza per il reale e la presunzione di conoscerlo, anzi di esserne limitati e costretti, è il denominatore comune di coloro
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che lo misurano sull'astrattezza delle proprie velleità) si scoprirà guardandolo piú da vicino che ciò che rispecchia è soltanto il privatissimo mondo di un singolo, un gioco solipsistico che non comunica non perché alla comunicazione non crede, ma perché non ha niente da comunicare. Stupisce che Porta rimproveri a Fortini che nei suoi versi « il privato spesso diventa come un'ombra che pesa per certi riferimenti non del tutto afferrabili »; stupisce perché se ne accorge solo in questo caso, per dei versi certo molto piú comunicativi di tanti altri da lui raccolti. L'osservazione può comunque essere pertinente, e colgo l'occasione per sottolineare che non è la « comunicazione » astrattamente intesa, o la comunicazione a tutti i costi (il contenuto, si sarebbe detto in altri tempi) che intendo difendere, ma la comunicazione che deve essere propria della poesia. Molti testi di questi « anni Settanta » si distinguono per un andamento raziocinante che è certamente comunicativo ma non per questo è poetico; e i difetti già indicati di accumulazione sono tali anche se ciò che si accumula è comunicabilissimo; anche qui, sia pure in altro modo, si trascrive il proprio vissuto senza capacità di coglierne gli elementi piú interessanti e di farne scaturire significati che superino la propria quotidianamente banale esperienza.
Un poeta di indubbio valore e di complessa formazione, che pure nelle sue ultime composizioni ha un po' troppo ceduto al gusto della proliferante associazione è Zanzotto; anche in lui (benché certo con una ricchezza di implicazioni che non hanno coloro che dei suoi versi si fanno schermo) ha avuto troppo spazio il gioco sul linguaggio che Lacan in particolare sembra autorizzare. E in questo gioco si risolvono i versi di un giovane come Cesare Viviani, che sottopone il linguaggio a una continua operazione di analisi e addirittura di notomiz-zazione, ad una ironica messa in rilievo delle sue manchevolezze e delle sue aporie, ad un lavoro destruens che a quello costruens non dà luogo mai.
Costruire è difficile, si risponde in questi casi; ma la crisi di tutti i valori, la destabilizzazione cui ci si appella è diventata ormai un luogo comune, e in quanto tale la giustificazione pretestuosa di una piatta mimesi linguistica. La difficoltà del discorso può spiegare solo in parte, solo come prima reazione, un non discorso; la prerogativa della poesia è sempre stata quella di esprimere ciò che era ritenuto ineffabile.
D'altra parte della psicoanalisi si dimentica una osservazione fondamentale: l'importanza riconosciuta da Freud al cosiddetto « piacere preliminare », a quello cioè che attira il lettore e che dà modo, attraverso il suo magnetismo, di comunicare il messaggio profondo e inconscio; il che significa anche un rispetto per il lettore, per l'« altro » con cui la poesia vuol farci entrare in contatto. È solo attraverso questo contatto che si può procedere oltre, non solo sulla strada della poesia; può naturalmente essere vero che oggi è possibile stabilirlo solo a un livello minimo, ma è importante per questo scegliere il terreno giusto, perché anche di giocare con il linguaggio esistono tanti modi:
Ieri vidi tre levrieri neri neri,
mogi mogi, che domani sloggeranno
oggi vedo tre levroggi levri levri.
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Mi piace citare questi versicoli di Scialoja raccolti da Porta perché piú di tanti altri altamente intonati mostrano come sia possibile far emergere dall'analisi del mezzo espressivo una critica non solo negativa delle sue possibilità; l'ambiguità, il sempre presente « altro senso » del nostro parlare è messo in rilievo attraverso un'intenzione comica, umilmente ma tanto piú in modo significativo (è necessario ricordare che anche il nonsense ha delle regole e non significa semplicemente « privo di senso »?).
Fuori di polemica, mi sembra che le capacità che si intravedono, che la magari caparbia fiducia nella forza della propria parola che è presente in tanti poeti meritino di essere indirizzate a mete forse piú ardue ma certo meno illusorie. Altrimenti, per tornare ai termini del discorso di Antonielli, si avrà davvero piú una « corporazione » che una « società di poesia », e sarà ancora lecito parlare della nuova Arcadia nel vecchio senso desanctisiano.
EDOARDO ESPOSITO
LO STRAORDINARIO GOETHE-INSTITUT DI LISBONA, 1969-1976
Un libro straordinario, un grande scrittore, un letterato colto e raffinato, esperto di letteratura e della civiltà lusitana, con alle spalle una lunga esperienza brasiliana, traduttore e mediatore di culture. Cosí si rivela nei suoi Diari portoghesi Curt Meyer-Clason, che dal settembre del 1969 alla fine del 1976 ebbe la ventura di dirigere il Goethe-Institut di Lisbona [Portugiesische Tagebücher (1969-1976), Königstein/Ts. Verlag Autoren Edition im Athenäum Verlag, 1979, pp. 417]. Un capitolo quindi della politica culturale all'estero della Repubblica federale tedesca. E bisognerebbe aggiungere un capitolo assai felice, se il Goethe-Institut non avesse ritenuto opportuno, allo spirare del contratto, privarsi della collaborazione di un uomo che nel panorama della politica culturale esterna della Bundesrepublik ha rappresentato certamente un'eccezione. Errore del Goethe-Institut? Esperimento? Calcolo? Forse tutti questi elementi insieme portarono alla nomina di Meyer-Clason, insieme probabilmente alla sottovalutazione della personalità dell'interessato, refrattario a farsi ridurre al rango della gestione burocratica e soprattutto ad assimilare gli stereotipi della concezione dell'ordine e della politica culturale come pura gestione dell'esistente iscritti nei regolamenti e nelle istruzioni della casa-madre, costruite sull'esercizio costante di censura e autocensura, appena coperte dall'ipocrisia (dopotutto, si trattava di gestire fondi del contribuente tedesco...) del servizio pubblico e del rispetto per la collettività.
Non fosse servito ad altro, l'errore del Goethe-Institut ha dato a Meyer-Clason la possibilità di offrirci con questo libro una testimonianza di grande civiltà e di grande umanità, di uno spirito di indipendenza e di libertà che certo non rifletteva i valori e le istruzioni che un direttore del Goethe avrebbe dovuto
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31354+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 11 Giorno: 30
Numero 6
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6


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