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tipologia: Analitici; Id: 1465199


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Cesare Musatti, Varietà e documenti. Freud e l'ebraismo
Responsabilità
Musatti, Cesare+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Freud, Sigmund+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
VARIETÀ E DOCUMENTI
FREUD E L'EBRAISMO
Mentre mi sembra di conoscere abbastanza bene l'opera e la personalità di Freud, anche solo definire ciò che per ebraismo si debba intendere è, almeno per me, assai difficile.
Pure esso, come elemento di differenziazione, dalla popolazione in mezzo alla quale gli ebrei della diaspora vivono, è certamente una realtà. Una realtà che ha la sua base nella famiglia stessa, e che attraverso questa viene trasmessa.
Della propria famiglia Freud raccontò che i suoi erano originari della Galizia. Il bisnonno Ephraim Freud fu un noto rabbino, e cosi il figlio di lui Schlomo: non si sa bene se rabbini nel senso tecnico della parola, oppure uomini addottrinati e colti nelle sacre scritture, e come tali circondati di rispetto ed autorità. Schlomo morí nel 1856, l'anno stesso della nascita di Freud, a cui fu imposto, proprio in ricordo del nonno, il nome di Sigismund (che a quanto pare corrisponderebbe all'ebraico Schlomo). Fu lo stesso Freud che piú tardi si abbreviò il nome in Sigmund. Il padre di Freud, Jakob, fu invece commerciante di lane, e si trasferí in Moravia a Freiberg (l'attuale Pribor). Si era sposato giovanissimo ed aveva avuto due figli, Emanuel nato nel '32 e Philipp nel '36. Rimasto vedovo, si risposò con Amalie Nathanson, assai giovane, e coetanea del secondogenito Philipp. Essa era molto bella, e da essa nacquero numerosi figli: tre maschi (di cui il secondo morí bambino) e cinque femmine.
Sigmund era il primogenito. Fu indubbiamente il piú amato dalla madre, e quello sul cui successo, nel campo degli studi e dell'affermazione sociale, si appuntarono tutte le aspettative dell'intera famiglia.
Questa posizione preminente influí moltissimo sul carattere di Freud, che fin da ragazzo si sentí predestinato a grandi cose. Si paragonava per questo motivo a Goethe, dicendo che il figlio primogenito prediletto dalla madre è sorretto nella vita da una tale forza interiore, che gli fa conquistare, non soltanto nella fantasia, ma nella stessa realtà, il successo.
Questo orgoglio, questa fiducia in se stesso, questa attesa del successo, accompagnarono sempre Freud, anche quando dovette affrontare difficoltà e inimicizie.
Godette in famiglia di privilegi, che considerò piú tardi egli stesso ingiusti. Ad esempio tardò a laurearsi e ad entrare nella professione medica, perché preferiva studiare scientificamente, essendo però mantenuto dal padre, il quale
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versava in pessime condizioni economiche, e facendosi aiutare da prestiti anche cospicui concessigli da amici.
Dichiarò sempre che non si considerava propriamente medico nel senso professionale del termine, quanto piuttosto ricercatore e scienziato.
Per quanto riguarda la famiglia, poiché, mentre egli era bambino, vivevano col padre anche i due figli di primo letto (che appartenevano dunque alla stessa generazione della loro matrigna, madre di Sigmund) si creò una situazione strana: per cui l'anziano padre Jakob appariva di fronte a Sigmund piú come nonno che non come padre; mentre le funzioni di padre erano in certo modo esercitate dal fratello maggiore Emanuel: il cui figlio John (nipote dunque di Sigmund, benché maggiore di un anno rispetto a lui) fu suo compagno di giochi e di infantili litigi.
La famiglia era molto unita, come per lo piú avviene nell'ambiente ebraico. Ma quando Jakob, poiché gli affari gli andavano male, si trasferí prima a Lipsia (Sigmund aveva allora tre anni) e quindi a Vienna, i due fratelli maggiori emigrarono in Inghilterra, dove si stabilirono, e la grossa famiglia si scompose.
Freud ebbe la prima istruzione dalla madre, come si usava nelle famiglie israelite, poi dal padre che era un uomo non privo di cultura. Quando erano ancora a Freiberg, Sigmund si era molto affezionato ad una donna di servizio Nannie, che lo portava a spasso ed anche in chiesa, parlandogli, con linguaggio cattolico, di Dio e dei santi. Questa Nannie però, accusata di furto, fini in prigione, creando gravi problemi psicologici al piccolo Sigmund.
Il padre di Sigmund era un ebreo osservante, con una certa conoscenza della lingua tradizionale. Tuttavia Sigmund a Vienna fu anche inviato in una scuola privata israelitica, tenuta da un amico di famiglia, Hammerschlag, a cui Freud rimase sempre legato, e da cui fu in seguito pure aiutato anche economicamente per la prosecuzione dei propri studi. Presso Hammerschlag studiò l'ebraico (senza tuttavia apprenderlo bene) e si preparò per entrare in Ginnasio.
Non credo che si debba dare importanza, ai fini di cogliere qualche cosa del suo ebraismo, a questa istruzione elementare. Di cui egli in una lettera del 26 Febbraio 1925 alla Judische Presszentrale, di Zurigo, parlò in questi termini: « Sono stato giovane in un'epoca in cui i nostri maestri non annettevano alcun valore alla conoscenza della lingua e della letteratura ebraica. La mia cultura in questo campo è pertanto rimasta indietro, cosa di cui in seguito ho avuto spesso occasione di rammaricarmi ».
Cosí pure non ritengo si debba dare importanza al fatto che nella biblioteca di Freud a Vienna (quando egli aveva già ottant'anni) qualcuno abbia intravisto lo Zohar (poi scomparso quando la biblioteca fu trasferita a Londra), per parlare di una influenza del pensiero mistico medioevale ebraico su Freud. Anche se nello Zohar sono contenute interpretazioni di sogni che possono far pensare al metodo delle associazioni libere, ideato da Freud.
Egli era un uomo di grande e varia cultura, e come possedeva una quantità di testi classici greci e latini, e di opere moderne in tutte le lingue, poteva benissimo possedere fra i suoi libri opere appartenenti ad alcuni filoni di tradizione
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ebraica. Ce li ho del resto anch'io, pervenutimi da biblioteche di famiglia, senza che io abbia un particolare interesse per queste cose; e senza che possa neppure considerarmi propriamente in modo completo ebreo.
Lo sforzo che fa David Bakan, nel suo libro (Freud e la tradizione mistica ebraica, ed. di Comunità, 1977, dall'ed. originale inglese del 1958), dove cerca di far derivare la psicoanalisi dalle tracce che l'educazione ebraica, con particolare riferimento agli elementi del misticismo giudaico, avrebbe lasciato su Freud, mi appare quindi una forzatura.
Che la psicoanalisi e la mentalità stessa di Freud, di cui essa è frutto, abbiano qualche cosa a che fare con l'ebraismo è un altro conto: questo però non ha nulla a che vedere con una trasmissione di nozioni e di concetti. Parenti, amici, colleghi piú intimi, piú tardi perfino la maggior parte dei pazienti appartenevano allo stesso ambiente: un ambiente chiuso, un ghetto, anche se con le porte spalancate da quasi un secolo. Dove tutti si conoscevano; e parlavano in tedesco sí, ma in un tedesco di gergo, con inframezzate parole yiddisch, o addirittura espressioni ebraiche.
Penso che anche attualmente e pure nel nostro paese sia abbastanza frequente una situazione del genere, che naturalmente cento anni fa, nella Vienna di allora, doveva presentare caratteri molto piú accentuati. Si tratta di quella specie di circolo chiuso, che si costituisce tutt'ora, un po' dovunque ci siano ebrei, e che comprende anche coloro che all'epoca delle persecuzioni ad esempio si sono fatti battezzare credendo di sottrarsi cosí ai pericoli incombenti, oppure che per effetto di matrimoni misti, non sono bene né carne né pesce (come io stesso), ma hanno conservato qualche legame col ceppo ebraico originario.
Che la discriminazione razziale sia un segno massimo di inciviltà è certo, ma che gli ebrei rappresentino, nel seno di una data comunità nazionale, un nucleo differenziato, il quale resiste abbastanza tenacemente alla assimilazione, e presenta qualità e difetti che lo distinguono dal resto della popolazione, è anche indubbio.
Si può tranquillamente affermare che la psicoanalisi poteva nascere e svilupparsi soltanto in un ambiente ebraico.
È necessario però ricercarne il perché. Non andando in caccia, come fa il libro citato di Bakan, di analogie che si troverebbero nella tradizione scritta od orale della mistica ebraica, ma considerando certe caratteristiche particolari della mentalità degli ebrei: caratteristiche innovatrici che si manifestano — in uno strano contrasto — accanto ad un insieme di tendenze invece conservatrici, e ad un timore costante di esporsi di fronte ai gentili, con elementi suscettibili di promuovere la reazione antisemita.
A proposito della relazione fra psicoanalisi e mentalità ebraica Freud stesso scrisse nella « Revue juive » di Ginevra del marzo 1925: « Forse non è stato un fatto puramente casuale che il primo esponente della psicoanalisi fosse un ebreo. Per aderire alla teoria psicoanalitica bisogna avere una notevole disponibilità, ed accettare un destino al quale nessun altro è avvezzo come l'ebreo: è il destino di chi sta all'opposizione da solo ». Queste caratteristiche innovatrici sono date
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dalla capacità di sviluppare improvvisamente in se stessi forze dirompenti, suscettibili di capovolgere radicalmente una situazione di pensiero consolidata. Si. tratta dunque di una vocazione particolare — nel campo del pensiero — che alcuni dimostrano di possedere, sviluppandola con una forza intellettuale inusitata, e che può in essi coesistere con una forma di estrema timidezza e perfino di conformismo nella vita quotidiana.
Penso a tre di questi scienziati rivoluzionari, spuntati fuori dopo che sono state aperte agli ebrei le porte della cultura europea, e specificamente tedesca. A tre fra i maggiori naturalmente: a Karl Marx, ad Albert Einstein e a Sigmund Freud.
Io ho conosciuto personalmente (per modo di dire, e per combinazione) soltanto Einstein: a cui, quando ero un giovanotto, ho dato il braccio per fargli salire la scaletta che conduceva alla Cattedra nella solenne Aula Magna dell'Università di Padova. Era timido come un bambino. E come gli altri due aveva l'aria del pacifico padre di famiglia borghese.
Che cosa accomuna questi tre personaggi? Tutti e tre hanno rovesciato il modo di considerare le cose di questo mondo. In campi diversi, certo, e con conseguenze molto differenti. Ma dando prova tutti e tre di una indipendenza di spirito, che derivava loro probabilmente dal fatto di non essere passivamente inseriti nella comune realtà accettata dai cristiani.
Rivoluzionari disarmati! Come i profeti dunque, ma dotati di uno straordinario coraggio, perché capaci di porsi contro l'umanità intera.
Freud, in un discorso tenuto al B'nai B'rith di Vienna nel 1926, dopo aver detto che « ciò che lo legava all'ebraismo era la familiarità che nasce dalla comune costruzione psichica », continuò: « Poiché ero ebreo mi ritrovai immune da molti pregiudizi che limitano gli altri nell'uso del loro intelletto e, in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all'opposizione e a rinunciare all'accordo con la maggioranza compatta ». (L'espressione maggioranza compatta, — kompakte Majorität — è tratta da Ibsen, Il nemico del popolo.)
Questo carattere profetico è certamente qualche cosa di molto strano. Si comprende però come sia suscettibile di provocare la formazione di fedelissimi segñaci, e folle di oppositori tenaci.
Per la relatività di Einstein il fatto è forse meno visibile, perché dato lo strumento tecnico matematico su cui la teoria è fondata, è difficile discuterla: benché anche in questo campo vi siano scuole differenti e dissensi non sopiti.
Per il marxismo e il freudismo, siamo su terreni dove è piú facile la dissidenza, e l'ambizione di sostituirsi al fondatore, creando nuovi indirizzi e nuovi punti di vista. Ma sono i cascami del movimento rivoluzionario originale, ed essi non sono piú privilegio di uno spirito ebraico. La strada è stata aperta, e tutti possono infilarcisi con la illusione di poter divenire essi pure dei nuovi Messia.
Rimangono altri problemi per individuare i rapporti fra psicoanalisi ed ebraismo.
È stato indubbiamente piú facile a Freud (come osservò egli stesso) di quanto avrebbe potuto esserlo ad altri, porre al centro della propria considerazione la

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libido: la libido, che in tedesco è un sostantivo strettamente connesso con Liebe, e che è sempre per Freud la forza motrice dell'amore nel senso piú ampio. Il tabú del sesso è piú cristiano. Gli ebrei hanno maggiore tolleranza e comprensione per l'eruzione degli impulsi erotici; e sono meno inibiti verso la sessualità, non essendo ossessionati dal prete con il concetto del peccato carnale che conduce direttamente all'inferno.
Cosí Freud ha avuto maggiormente mano libera collegando le nevrosi con i tabú sessuali, ed ha potuto trovare maggiore comprensione da parte dei pazienti ebrei, presso i quali il problema della colpa è vissuto in modo diverso che presso i gentili.
Con ciò non si vuol dire che la psicoanalisi sia fatta per gli ebrei soltanto. Ma che con un paziente ebreo l'analista trova una via di intesa molto piú rapidamente che non con altri.
In tutto ciò Freud vedeva anche un pericolo. Non per nulla affermò: « Dobbiamo evitare che la psicoanalisi diventi un affare interno per il solo ambiente ebraico. E perciò siamo costretti ad accettare anche gli svizzeri (e cioè Jung in quel periodo) ed essere comprensivi, rendendoci conto che essi, i gentili, hanno maggiori difficoltà che non gli ebrei, ad accettare alcuni punti di vista della psicoanalisi » (Lettere del maggio e del luglio 1908 ad Abraham).
Bakan sostiene che Freud avrebbe pubblicato inizialmente anonimo il saggio sul Mosè di Michelangiolo, per il timore di attrarre su di sé l'ostilità degli antisemiti. È una affermazione del tutto infondata. La verità è soltanto che Freud nel suo saggio parla del Mosè di pietra come se si fosse trattato di un ,essere vivente, che mutava di sentimenti ed era in movimento: e cioè di un paziente di cui si vuol ricostruire un processo di pensiero. E non voleva di fronte ai critici d'arte (che di fatto in genere non hanno seguito il suo modo di ragionare) prestarsi a critiche che avrebbero investito anche la psicoanalisi. L'antisemitismo non c'entra proprio per nulla.
Preoccupazioni d'ordine politico Freud ebbe invece piú tardi per il libro sull'uomo Mosè: benché coloro che questa volta potevano risentirsi delle tesi sostenute da Freud, fossero proprio gli stessi' ebrei, che si vedevano privati della ebraicità del loro piú grande profeta. Ma al tempo del libro su Mosè e il monoteismo, i nazisti stavano per invadere l'Austria. E Freud paventava sí da un lato di offendere, o addolorare gli ebrei già provati dalle persecuzioni iniziate, ma altresf di irritare la Chiesa cattolica (pur essa in definitiva interessata all'autenticità della figura di Mosè, su cui poggia tutto l'Antico Testamento). Di irritare quella Chiesa cattolica, da cui Freud allora continuava ad illudersi che potesse venire qualche aiuto, per impedire che la Germania nazista ed atea inghiottisse la cattolicissima Austria.
Certo Freud, fin dalla piú tenera età ebbe da temere l'antisemitismo: che in forma, ora latente, ora aperta, persisteva da tempo immemorabile specialmente nell'Europa centrale. Ma non cessò mai — benché non credente in alcuna religione — di proclamare non solo la propria discendenza ebraica, ma la propria piena appartenenza al popolo di Israele.

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Nella già citata lettera del 26 febbraio 1925 alla Judische Presszentrale di Zurigo, afferma: « Posso dire di sentirmi lontano dalla religione ebraica come da tutte le altre religioni, nel senso che non mi coinvolgono emotivamente, anche se nutro per esse un grandissimo interesse scientifico. Per contro ho sempre avuto molto forte il senso di appartenenza al mio popolo, senso che ho cercato di coltivare anche nei miei figli. Abbiamo tutti conservato la denominazione ebraica » (l'ultima frase significa che i membri della famiglia Freud dichiaravano — come la legge del paese allora richiedeva — di essere e di voler essere considerati ebrei). In casa sua non si rispettava molto il coscerüth (e cioè il complesso delle prescrizioni della cucina ebraica), benché sua moglie si sforzasse di conservare il piú possibile le vecchie abitudini tradizionali.
Dal 1896 in poi Freud restò sempre socio del B'nai B'rith di Vienna (circolo culturale ebraico, senza alcun rapporto con elementi religiosi), dove, quando poteva ancora parlare in pubblico, tenne spesso conferenze. L'appartenenza al B'nai B'rith diede anzi luogo ad una complicazione quando i nazisti invasero Vienna e perquisirono la sede della Società psicoanalitica. Ci si illudeva di poter salvare la continuità della Società, malgrado la presenza dei nazisti, ma questi posero la condizione che fossero allontanati i soci che risultavano ebrei (cioè in pratica quasi tutti), e che la associazione non avesse nulla a che fare con organismi ebraici. Saltò però fuori, durante la perquisizione dei locali, la tessera del B'nai B'rith, di cui Freud aveva pagata anche la quota dell'anno in corso, e si dovettero dare infinite spiegazioni per superare momentaneamente lo scoglio. Piú tardi, come si sa, ogni riferimento alla psicoanalisi fu vietato dal governo nazista. E i fascisti italiani, senza capirne niente, scimmiottarono un tale comportamento.
Nel libro di Bakan sono contenute molte affermazioni riguardanti Freud e la sua ebraicità, le quali tuttavia a mio parere sono del tutto infondate.
Cosí quando Brücke spinse Freud, allora giovanotto, ad abbandonare gli studi puramente scientifici per dedicarsi alla professione medica, egli lo fece certamente perché non esistevano prospettive di una rapida carriera universitaria per Freud, che aveva invece assolutamente bisogno di guadagnare. Pensare che il comportamento di Brücke nel 1882 fosse dettato da antisemitismo, e dal desiderio cioè di non tenere, per questo motivo, ulteriormente Freud nel proprio Istituto, come suppone Bakan, è assolutamente assurdo.
È vero che gli ebrei sono stati e sono spesso oggetto di persecuzioni reali; ma bisogna tener conto che questo ha anche sviluppato fra loro una certa mania di persecuzione, per cui possono tendere ad attribuire ad antisemitismo situazioni che coll'antisemitismo nulla hanno a che vedere.
Freud fu invece sempre grato a Brücke di averlo indotto a mettersi a lavorare professionalmente, e riconobbe che Brücke aveva contribuito a toglierlo da una situazione indignitosa, per non dire vergognosa. Infatti per consentire a Sigmund, che non guadagnava un soldo, di continuare i propri lavori scientifici nel campo della neurofisiologia, in vista di una carriera accademica del tutto aleatoria, le sue sorelle erano in quel tempo costrette a fare le domestiche a
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servizio di estranei. Era quindi perfettamente giusto che Brücke riportasse il proprio allievo ad una visione piú realistica della situazione.
Assai dubbie sono pure le affermazioni di Bakan, secondo il quale Freud avrebbe derivato dalle dottrine di Abulafio ()in secolo) elementi per le proprie teorie, o la affermazione che il nome fittizio Dora, inventato da Freud per la paziente del primo dei suoi Casi clinici, sia stato inconsciamente scelto da Freud, derivandolo da Torah. Parimenti gratuita è l'affermazione secondo cui la interpretazione simbolica dei sogni (la quale fu del resto aggiunta solo nelle edizioni successive al 1908 della Traumdeutung), deriverebbe da una tradizione ebraica risalente alla Bibbia. È ben noto che il tentativo di trarre dai sogni un significato occulto, eventualmente per ricavarne un pronostico per l'avvenire, si trova presso moltissime culture molto diverse fra loro. Cosí in tutto il mondo greco e latino. Ed io stesso mi sono occupato di una edizione della Onirologia di Artemidoro di Daldi del II secolo dopo Cristo, che contiene una simbologia facilmente comparabile con quella che si trova nelle edizioni successive al 1909 della Traumdeutung di Freud. Ma molte altre corrispondenze possono essere trovate in documenti provenienti da diverse civiltà.
La via di trasmissione di queste corrispondenze non è dunque storico culturale, ma semplicemente psicologica, per la uniformità dell'apparato psichico degli uomini.
Bakan parla anche di una certa dissimulazione della propria persona da parte di Freud in ciò che pubblicava; e la attribuisce pure ad un bisogno di nascondersi in funzione del problema dell'antisemitismo. Cita Bakan, a tale proposito, il fatto che molti dei sogni, od altri episodi analizzati nelle sue opere, non vengono da Freud riferiti a se stesso, che ne è il vero soggetto, ma ad ipotetici pazienti, o comunque ad altre persone.
Freud però faceva semplicemente quello che fanno tutti gli analisti. Un analista non dovrebbe parlare di se stesso (come invece ho proprio io il brutto vizio di fare), per un riguardo verso i propri pazienti, e perché l'analisi con questi si possa svolgere in forma corretta.
Oggi sappiamo che la maggior parte dei sogni narrati nella Traumdeutung appartengono allo stesso Freud. E d'altronde nel piccolo e chiuso ambiente pettegolo della Vienna ebraica di allora, tutti i personaggi dei sogni e delle altre esposizioni di Freud, erano — per uno studio attento, quale fu fatto ad esempio piú tardi dal Bernfeld e da altri — pienamente riconoscibili. E riconoscibile è pure Freud stesso quando racconta sogni propri.
D'altra parte si sa bene che la Traumdeutung è il frutto della autoanalisi di Freud, ed è quindi logico che il materiale dimostrativo contenuto nell'opera sia per la massima parte un materiale personale. L'aver nascosto questo non fu determinato da una qualche paura, ma semplicemente — come Freud in qualche occasione ha esplicitamente dichiarato — da uno spirito di discrezione: che ogni analista dovrebbe avere (afferma appunto Freud) non soltanto verso i propri pazienti, ma anche verso la propria persona.
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Un legame di tutt'altro genere può invece essere trovato fra Freud e il mondo ebraico, quando si prenda in considerazione quello strano suo libro, da lui a dir la verità poco amato, e pure a mio parere molto importante teoreticamente, che è Der Witz und seine Beziehung zum Umbewussten (Il motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio). La battuta di spirito nasce per lo piú spontaneamente ed improvvisamente in chi la pronuncia, in seguito ad un processo dinamico interiore che si svolge automaticamente nell'inconscio, per cui si esplicita un impulso prima represso o rimosso. Esso riesce ad estrinsecarsi utilizzando una certa struttura formale, la quale rende il motto compatibile con le norme abituali che regolano i rapporti verbali fra gli uomini: evitando in tal modo di essere una semplice insolenza o una espressione triviale.
Cosí attraverso il motto di spirito (senza che l'autore neppure si renda conto di come esso nasca) può esprimersi un impulso aggressivo, o anche lascivo, che non sarebbe altrimenti tollerato nelle comuni relazioni fra le persone cosiddette civili e bene educate.
Teoreticamente questi rapporti dinamici sono molto interessanti, perché possono essere messi a confronto con i processi del sogno e con quelli della formazione dei sintomi nevrotici.
Freud aveva comunicato a Fliess nel settembre del 1899 (quando la Traumdeutung era già in stampa) che si accingeva a raccogliere una collezione di quelle che vengono indicate come « storielle ebree »: le quali avrebbero dovuto servirgli come materiale dimostrativo per quest'opera sul Witz. E cosi fece effettivamente. Gli esempi utilizzati nel libro sono in gran parte presi da storielle ebree (per lo piú originariamente in yiddisch, o comunque circolanti fra gli ebrei aschenaziti dell'Europa centrale) in parte da racconti di Heine, che (nonostante il battesimo) rimase sempre per mentalità, spirito e genialità, un ebreo tipico.
Queste storielle ebree sono caratterizzate dal fatto di essere non tanto comiche, quanto umoristiche. E, come Freud nota esplicitamente, l'umorismo è una produzione in cui l'autore stesso si offre personalmente, oppure identificandosi con la propria comunità, o gruppo, quale bersaglio ed oggetto della ilarità aggressiva altrui.
Ciò significa che le storielle ebree sono tutte lievemente masochistiche ed autolesionistiche. Freud del resto in altra occasione aveva affermato che nella mentalità ebraica è sempre presente una certa componente masochistica. E quanto alle storielle, ci si deve riferire a quelle costruite e pronunciate proprio da ebrei, le uniche veramente spiritose; giacché le battute dovute ai gentili nei confronti degli ebrei, sono per lo piú soltanto aggressive e non raggiungono mai la efficacia di quelle, per cosi dire, fabbricate in casa. Il rivestimento spiritoso che copre il contenuto critico nobilita, anche di fronte a chi ascolta, l'autore (o ciò che egli rappresenta). Egli ironizza su se stesso, o su la propria gente con cui si identifica, ponendo in rilievo determinati aspetti tipici, o ricorrenti, nel mondo ebraico. Col sottolineare egli stesso tali elementi criticabili, rende per cosi dire superflua la aggressività altrui e raggiunge una propria forma di superiorità.
All'inizio del 1938 io stesso stavo completando il mio Trattato di psico-
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analisi, che, data la situazione politica, poté essere pubblicato soltanto dieci anni dopo.
Mi misi allora alla ricerca di un materiale idoneo ad illustrare il problema del motto di spirito. Desideravo infatti, come per tutte le altre parti del Trattato, utilizzare esempi dimostrativi miei personali, o trovati da me: cosí feci per i sogni, per gli atti mancati, per la sintomatologia psicopatologica ecc. Ma per il motto di spirito mi trovai nei pasticci.
Non potevo attingere anch'io alle storielle ebree, perché eravamo in piena campagna razziale, e rischiavo di mancare di riguardo verso gente già perseguitata, oltre che di espormi personalmente, giacché mi trovavo io pure in acque agitate. Cercai allora nella produzione umoristica di altre culture, a partire dai classici della letteratura latina, provando a farmi anche aiutare da Concetto Marchesi, il maggiore latinista di allora, col quale avevo quotidiani rapporti all'Università di Padova.
Ma non trovai nulla che mi potesse servire. Il Witz, il motto di spirito ebraico, su cui Freud aveva costruito la sua teoria per questo genere di produzione, mi apparve qualche cosa di pressoché unico, difficilmente ripetibile in letterature e culture diverse. Fui cosí costretto a limitarmi ad esporre nel Trattato la teoria quale Freud l'aveva enunciata, rinunciando a qualsiasi esempio dimostrativo. Questo ovviamente non significa che non vi siano altre forme di spirito. Ma solo che Freud ha potuto scrivere il libro sul Witz unicamente rifacendosi al proprio ambiente di origine, e dimostrando nel modo piú aperto la propria appartenenza alla realtà ebraica.
A proposito di questa voluta appartenenza, qualcuno ha sollevato dubbi, citando alcune difficoltà nevrotiche che Freud ebbe, per dare esecuzione, verso la fine dello scorso secolo, al suo vivissimo desiderio di visitare Roma, dove, malgrado vari tentativi, non era mai riuscito ad arrivare. Si è detto cioè che Roma, il centro del cattolicesimo, gli incuteva un particolare rispetto, supponendo perfino che nel corso della sua vita avesse talora pensato di farsi cattolico. Queste sono fantasie senza fondamento alcuno, sostenute questa volta non da un ebreo come Bakan, ma da pii cattolici, convinti che tutti, nel fondo del loro cuore, dovrebbero aspirare ad essere accolti nel seno della santa madre Chiesa cattolica.
La fobia di Freud per arrivare a Roma, malgrado l'intenso desiderio che ne aveva, fobia durata diversi anni, e che si inquadrava in una piú ampia fobia per i viaggi in genere, ha tutt'altra origine. Quando si leggono i sogni effettuati da Freud (prima di riuscire ad arrivare a Roma) sulla stessa città di Roma, e si tenga conto che il viaggio a Roma finalmente compiuto nel 1901 coincise con la fine dell'autoanalisi (almeno di quella condotta sistematicamente), e con il distacco da Fliess, è facile comprendere come Roma abbia rappresentato l'alma Mater, il simbolo della madre stessa; e come l'ambivalenza costituita dal desiderio di conoscere e visitare Roma (di cui egli possedeva una carta topografica, che consultava per ore intere, a casa sua a Vienna, in modo ossessivo, cosí come un uomo può contemplare il ritratto, o rileggere le lettere della donna amata) senza riuscire a raggiungerla, fosse determinata dal suo complesso edipico.
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Solo alla fine della propria autoanalisi la fobia scompare. Allora Freud (come racconta nell'ultima lettera a Fliess del 1902) poté contemporaneamente arrivare a Roma, e brigare a Vienna, per ottenere il titolo di Professore universitario, liberandosi dagli scrupoli di coscienza che lo avevano precedentemente ostacolato. Insieme egli riuscí a sciogliersi dal legame quasi omosessuale e di tipo transfe-renziale-analitico con lo stesso Fliess: pervenendo in tal modo alla propria piena autonomia e indipendenza scientifica.
Tracce per convalidare questa interpretazione si ritrovano in un tardo scritto di Freud: una lettera dedicata a Romain Rolland del 1936.
Non Roma soltanto lo turbava, ma anche Atene con la sua Acropoli: ancora una madre per un uomo imbevuto di cultura classica, quale egli era. Qui ovviamente non poteva trattarsi di una assurda tentazione di gettarsi fra le braccia della Chiesa cattolica romana. Freud raccontò a Romain Rolland (e il nome richiama ancora una volta Roma) di aver subito un fenomeno di derealizzazione, e di acuta angoscia, mentre per la prima volta nel 1924 visitava col fratello Alexander l'Acropoli di Atene.
Ancora il senso di sgomento per aver raggiunto la madre: l'essere piú amato e insieme piú inattingibile. Nella lettera a Romain Rolland c'è pure un accenno a questo pensiero: « Che cosa avrebbe detto il vecchio padre Jakob se avesse saputo che i suoi figli erano giunti sull'Acropoli di Atene! ».
Ancora il complesso edipico dunque: Atene e Roma unite ed identificate, non per il loro significato pagano o cattolico, ma come simboli della madre amata e proibita.
No. Nulla vi è nel pensiero e negli scritti di Freud, che porti a supporre una tentazione a rinnegare la propria ebraicità.
Scettico e agnostico sul piano religioso, Freud rimase fino alla fine della vita profondamente ebreo, rivendicando per sé e per coloro che appartengono alla sua gente, il diritto al riconoscimento di una piena parità giuridica e morale con ogni altro essere umano.
E vorrei, per concludere, citare gli ultimi due suoi scritti, che egli riusci a veder pubblicati, prima di morire. Sono lettere che aveva inviato a due giornali progressisti, uno francese ed uno inglese, dopo essere giunto profugo in Inghilterra nel 1938. Freud, che pure era stato accolto a Parigi e a Londra col massimo affetto e con i piú grandi onori, constatò come neppure l'Inghilterra e la Francia fossero del tutto immuni dall'antisemitismo. I due giornali avevano infatti scritto accusando si i nazisti di barbarie, ma col tono di invocare, per i poveri ebrei, un po' piú di tolleranza da parte dei nazisti.
No, replica Freud, non tolleranza. Finché si parla di tolleranza si dà per scontata una condizione di inferiorità, e comunque un elemento di discriminazione.
Ciò che in queste sue ultime pagine egli chiede per sé, per gli ebrei, e per tutti gli esseri umani, è il riconoscimento della piena eguaglianza di ogni uomo, nella dignità, nei diritti e nel rispetto della persona.
CESARE MUSATTI
 
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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 11 Giorno: 30
Numero 6
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6


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