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tipologia: Analitici; Id: 1465198


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Giovanni Testo, Ritratti critici di contemporanei. Lalla Romano
Responsabilità
Testo, Giovanni+++
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Romano, Lalla+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
RITRATTI CRITICI DI CONTEMPORANEI
LALLA ROMANO
1. Ad un tema di argomento dantesco svolto dal figlio, al solito, in modo non ordinario e giudicato dall'insegnante che glielo aveva dato « fuori del consueto » — l'episodio è raccontato ne Le parole tra noi leggère —, Lalla Romano ha apposto questa chiosa: « Comunque sono certa che non solo per furore logico né per desiderio di singolarità interpretò a quel modo il tema, la ragione prima — della quale non poteva essere consapevole allora — era che la sola lettura interessante per lui era quella dal punto di vista dell'autore: il fatto creativo insomma » (Torino 1969, p. 156). La postilla (postilla verba auctoris, ne è il caso) contiene un pensiero altrimenti espresso, in modo ancora piú esplicito e in una sede propriamente critica, nella Presentazione della ristampa di Maria fatta per le scuole (Torino 1973). « Cosa c'è da dire sullo stile, sul linguaggio del libro Maria? » è la domanda. E la risposta: « L'incontro, la simpatia che si verificò nella realtà si è attuata anche nel libro attraverso lo stile ». « E come altrimenti? » si stupisce la scrittrice, che torna a domandarsi in un contraddittorio pensato a scopo didattico: « Dunque lo scrittore dovrebbe modellare il suo stile a imitazione del suo personaggio? ». Ma la risposta è perentoria: « Non si tratta di compiere un tale sforzo assurdo e, come ogni sforzo, inutile, peggio, dannoso » poiché — questo è il centro del ragionamento — « lo scrittore opera una scelta, nel mondo o nella sua fantasia, che è lo stesso » e « in questa scelta è compreso il modo » (pp. 6-7): con tanto di corsivo.
Un corsivo non inopinato che ci indirizza, senza volere forse, a un preciso creditore: a Lionello Venturi, e al suo libro piú noto Il gusto dei primitivi. Troviamo qui, infatti, nel libro di Venturi, la seguente affermazione: « Se l'opera critica deve avere un senso, esso sarà quello di ragionare sul modo con cui l'artista è giunto all'opera sua. Poiché il modo è l'opera d'arte, il modo, e non il risultato, deve interessare il critico » (Il gusto dei primitivi, Torino, Einaudi, 1972, p. 174). Questo, per una scrittrice come Lalla Romano sempre cosí attenta ai risvolti di poetica, cosí sorvegliata e consapevole, è di un'importanza nient'affatto secondaria, ha il valore anzi di un punto di forza mai smentito.
« La fantasia (come la memoria) astrae dalla realtà quello che le serve »,
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dirà nell'Avvertenza alla ristampa delle Metamorfosi (Torino 1967, p. 11). È un pensiero che ha poco o nulla da spartire con ogni forma di « realismo », previa intesa che non usiamo la parola, secondo invece la proposta del Venturi, come sinonimo di « non imitazione », perché allora finiremmo per cadere in una specie di gioco nominale (ad esempio, per Pavese, si è dovuta inventare la formula, che sta come un ossimoro, di « realismo simbolico ») e dovremmo riprendere da capo ogni concetto: cosa, è ovvio, che quand'anche ne fossimo capaci, sarebbe fuori luogo. Qui piuttosto ci interessa dire che la poetica di Lalla Romano non va ascritta, se non in modi estremamente indiretti e condizionali, al grande (ottocentesco) alveo realista e meno ancora può patire l'etichetta, ancor piú angusta, di neo-realista. Ne fa fede non tanto l'esordio poetico, che avvenne nel 1941 con la raccolta Fiore pubblicata dall'editore Frassinelli di Torino e che si collocava in un ambito di risonanze elette e preziose — condotte con modulazioni di personale ermetismo —, ma il vero e proprio esordio narrativo che avvenne di contromano con Le metamorfosi (1951), un'antologia di sogni secchi e concreti, che passò, pour cause, sotto silenzio. Né bastano a smentita, tacendo d'altri pochi minimi, l'appetito curioso e non sorprendente di Sereni o l'« interessata » attenzione di Bo, che proprio allora veniva investigando, con prudenza, sul neorealismo all'apice.
Abbiamo detto per inciso della formula a cui si è fatto ricorso per Pavese e per l'altro variare la formula auerbachiana, ai casi della Romano proponendo per lei le formule forse più quiete di « realismo allusivo » o di « realismo memoriale » o ancora di « realismo analogico » (« Trasformazione e analogia sono l'essenza dell'arte » [ Le parole cit., p. 52]. E nel Diario di Grecia: « È una di Alberobello, dal gran corpo a uovo con una piccola testa in cima; per cui alla mia immaginazione fertile di analogie essa appare come un'incarnazione del monumento tipico del suo paese »1). Con ciò intendiamo per un verso prendere le distanze dall'accanita officina di Pavese e per l'altro variare la formula auerbachiana, ai casi della Romano sorprendentemente adattabile, di realismo « figurale » (dr. Mimesis, Torino, Einaudi, 19562, ii, pp. 339-343).
Lasciamo pur da parte Le metamorfosi, che sono anch'esse, a ben vedere, una prova estrema di raffigurazione, e pensiamo al felicissimo incipit di Maria, la « servente au grand coeur »: esordi e chiuse sono sempre, nella Romano, vere e proprie chiavi della volta:
Quando entrammo nella nostra casa, c'era già Maria. Eravamo di ritorno dal
viaggio, e camminammo in punta di piedi, perché era mezzanotte.
Io non conoscevo Maria, se non per averla vista, quando era venuta a pre-
' Citiamo dalla ristampa einaudiana dei « Nuovi Coralli » (1974), p. 66.
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sentarsi. Affrontare la conoscenza delle persone mi metteva in grande imbarazzo; cosí, da una stanza vicina, avevo spiato, attraverso l'uscio socchiuso.
Stava seduta sull'orlo della sedia, con i piedi incrociati e le mani raccolte nel grembo; era magra e minuta, vestita di nero: con un colletto, rotondo, di pizzo. Teneva la testa reclinata su una spalla; i suoi occhi azzurri e fermi, dalle palpebre piegate all'ingiú, avevano un'aria rassegnata e un po' triste. Non ne avevo concluso niente: piú che altro avevo pensato che era una figura adatta a ritrarsi nei quadri (Maria, Torino 1953, p. 9).
Dalla figura di Maria cosí nitidamente delineata nell'uscio socchiuso, dal tratto essenziale, sintetico — grazie allo scorciato inventario dei particolari —, spira come un'attesa per cosi dire geometrica, lontana, in virtú del segno, dalle figure sognanti in perplessità che, piacevano ai crepuscolari. Questo, nonostante che il periodo si serri in sottraendo, con calibrata sprez-zatura. Si mostra insomma subito evidente, fin dall'esordio, un processo creativo che contiene intero il suo sviluppo. Nel principio dell'opera è il suo centro, e pensiamo, con qualche ragionevole licenza, ancora a Le parole
tra noi leggère, dove è detto che « non si può diventare quello che non si è già » (Le parole cit., p. 22).
Maria è il primo consistente personaggio della Romano, che nasca dalla memoria, se è vero che il libro fu scritto, come è detto nella Presentazione già citata, quando non era piú nella casa della scrittrice. Ma la sua forza d'attrazione è sorta prima e si è imposta impercettibilmente, a poco a poco, e insieme subito, intuitivamente, come un segno d'ordine, « quasi un ordine invisibile nel disordine del mondo » (p. 5). La sua scomparsa — che poi fosse destinata a risultare temporanea non era dato a suo tempo di supporre — mette in moto, per l'appunto, i meccanismi della memoria ed esalta il fascino esemplare della figura. Il senso della realtà, in questo processo, scaturisce tanto piú consistente, ma è insieme come filtrato, e ridotto all'osso, dall'inevitabile distanza. Il nome e la figura di Maria aprono una cifra simbolica nel calcolo assoluto della memoria. E d'altra parte il credo è esplicito: « Tutti riviviamo sempre la stessa avventura, perché le nostre avventure sono simboliche » (Le parole cit., p. 22). Che vi abbia inciso l'esempio di Flaubert, del quale la Romano ha tradotto i Trois contes, può bene valere a conferma. (Si veda la recente Nota introduttiva che introduce la ristampa dei Tre racconti nelle « Centopagine » einaudiane). Con Maria, salvo alcuni precedenti coevi alla produzione in versi, ha inizio quello che la stessa scrittrice ha chiamato « un cammino dalla poesia alla
prosa ». Anche se, a ben vedere, nel modo di comporre, per frammenti compiuti, per respiri illuminati — anche ne Le parole tra noi leggère e in
Una giovinezza inventata che sono i piú prosastici — l'impronta (l'imprinting) della formazione di poeta non verrà mai meno.
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2. Una giovinezza inventata (1979) è il ritratto della scrittrice da giovane. Dylan Thomas ha detto da qualche parte che una « certezza deve pure esistere, se non di amare bene, almeno di non amare »2 e la considerazione sta nel libro come un emblema. In Una giovinezza inventata (Torino 1979) c'è una pagina che apre con una cert'aria di risolutezza e insieme, quasi, di sfida un po' trepidante, il capitolo xxxix:
Dissi a Venturi che volevo scrivere (raccontare) ma che non era possibile, perché a me sarebbe piaciuto scrivere soltanto storie della mia famiglia. Nulla mi avrebbe mai interessata quanto il mio mondo. (...).
Rise, e con l'aria di chi ha già risolto il problema, si alzò, sfilò da uno scaffale alle mie spalle un volume in brossura, e me lo porse. Era il primo volume della Recherche (p. 208).
L'ouverture racchiude l'ineluttabile di una vocazione, ma anche, certo non voluta, la radice di un equivoco. Non per nulla (è buffa e comica l'« angosciosa sensazione » provata dalla Romano giovane alla lettura di Combray, « che il suo libro l'avesse già scritto Proust », ibidem) la Recherche sarà ricordata pigramente da piú di un critico. Questo è accaduto specialmente con La penombra che abbiamo attraversato (1964), un libro che ebbe molti consensi ma che da qualcuno fu iscritto frettolosamente alla temperie lirico-memoriale degli anni '30-'40 e giudicato tardivo.
Salinari su « Vie Nuove » (22 ottobre 1964) fece il nome di Pavese per segnare uno spartiacque oltre il quale non notava — pur facendo nel caso specifico alcune concessioni — che ricalchi, e coagulò il suo dissenso nella formula gravemente limitativa della « letteratura in calzoncini corti ». Non cosi Giansiro Ferrata su « Rinascita » (22 agosto 1964), che richiama si il clima « poeticomemorialistico » tra le due guerre, ma per affermare: « Questo romanzo della Romano va proprio a colpire certi nodi caratteristici dell'antica questione, con una forza che le dà un interesse ben nostro e attuale », o per osservare, molto persuasivamente, e citiamo in questo caso dall'Introduzione alla ristampa negli « Oscar » di Mondadori (Milano 1972): « Otto anni dopo la prima pubblicazione ci si ritrova sollecitati da ogni vivo elemento critico a leggere questa narrazione con l'interesse che merita, senza farle pagare le spese d'un ipotetico proselitismo cui nulla — in nessun caso — la portava per naturale riflesso dei suoi caratteri particolari: lontanissimi, in verità, dal suggerire formule a impiego corrente » (p. 6). Era un esplicito invito ad uscire dalle formule di comodo e a individuare nella Romano i tratti di una poetica e di un linguaggio peculiari.
2 Citiamo dal romanzo L'archiamore (Milano, Guanda, 1980) dell'esordiente OSVALDO GUERRIERI.
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Prima della Penombra erano stati pubblicati Tetto murato (1957), L'uomo che parlava solo (1961) e, a parte, il Diario di Grecia (da Rebellato, nel '59). Dopo la Penombra sono poi venuti, trascurando le ristampe, che pure non sono mai senza revisioni, Le parole tra noi leggère (1969), L'ospite (1973), Una giovinezza inventata (1979) e tra L'ospite e Una giovinezza inventata due libri coevi, uno di racconti, La villeggiante, e l'altro di fotografie commentate, Lettura di un'immagine (1975). Senza dimenticare l'esercizio della poesia, che ha dato nel '74 Giovane è il tempo, frutto di una scelta riveduta delle due raccolte precedenti (Fiore prima, e poi L'autunno, 1955) e di molte poesie nuove. Si tratta di un percorso segnato negli anni da stazioni ben pausate, quasi periodiche, come esistesse una misura ritmica anche nel licenziare, oltre che nel comporre, i propri lavori. Ci siamo cosí voluti liberare d'un colpo del curricolo editoriale per non tornarci poi piú sopra, assegnando alla Penombra, non senza ragioni, un ufficio di discrimine
La consapevolezza drammatica di voler raccontare il proprio « mondo » (non nel senso, larghissimo, che ogni scrittore racconta sempre il proprio mondo) in Lalla Romano è certamente anteriore, ma, fino alla Penombra, anche se riconoscibile e subito connotabile con precisione, ha come fatto delle prove, come saggiato delle varianti. Cosi è stato, nel modo forse piú evidente, con L'uomo che parlava solo. (Il « parlare da sola » sarà curiosamente annotato ne La Penombra come un tratto della Romano bambina: « Io "parlavo da sola", e la mamma mi lasciava fare, non mi interrompeva », p. 21). L'uomo che parlava solo è il romanzo piú « obiettivo » di Lalla Romano, anche se poi la storia narrata in prima persona e lo stile cosí netto (ma un'ombra di inautentico vi si annida a tratti nel ritmo, specie dei dialoghi, che sente di Pavese) rendono l'opera facilmente apparentabile alle altre.
Cosí ci pare che sia di Tetto murato. Ma Tetto murato conta di piú soprattutto per il segno lievitato delle figure, incardinate in un'atmosfera ferma, chiusa, perfetta e insieme misteriosa, fiabesca, quasi magica, un'enclave nel clima della guerra che sta come un sogno vagamente shakespea-riano (« come quando si sogna e si sa di sognare » 3), una « metamorfosi » continuata (« ... cosa sarebbe stato, un giorno, Tetto murato, se non un sogno? », p. 81). In Tetto murato il gioco segreto delle affinità elettive che tramano i rapporti dei protagonisti (due giovani donne e un uomo) esalta il valore allusivo dei gesti, ridesta per attimi il senso ultimo delle cose:
Qualche volta mi svegliavo a notte alta; se tutto era tranquillo, se, dopo essere stata un poco in ascolto, mi convincevo che anche Paolo dormiva o almeno non dava segno di essere sveglio e di voler parlare, scivolavo piano fuori della
3 Tetto murato, Torino 1972', p. 36.
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camera. Mi avvolgevo in qualcosa di lana o nel mio pellicciotto stesso, ma sul pianerottolo il freddo mi piantava addosso le unghie. Scendevo a metà scala e rimanevo per un poco affacciata a un finestrino — senza vetri — sulla campagna. Vedevo, sotto, un piccolo orto quadrato, sepolto nella neve: affioravano i rami corti della siepe, rade macchie nere, di sterpi e alberelli, che disegnavano tracce lineari. Era uguale a un piccolo cimitero, e dava, della morte, una immagine povera, calma e solenne. Lo guardavo a lungo, fin che potevo resistere al freddo; e mi pareva di cogliere un poco del senso ultimo delle cose (p. 97).
Ma non sempre è un senso cosí pacificato, poiché il terrore può aggredire all'improvviso (« Improvvisamente mi trovai accerchiata da terrori che mi ero illusa di aver smarrito nel tempo », p. 79), scoprendo il dramma dell'esistere: se è vero, come sarà detto dalla scrittrice in un altro libro, che « per ognuno l'esserci è tutto quello che abbiamo » (L'ospite, Torino 1973, p. 112).
In quest'atmosfera creativa si situa anche la seconda parte de La villeggiante, poi stampata a sé con il titolo Pralève e la cui data effettiva è il 1958. Pralève piú che un luogo connotato di particolari e popolato di figure (il luogo delle vacanze povere: « bellezza, avara, che nasce dalla povertà » come in Tetto murato, p. 41), è una « dimensione diversa » 4, nella quale sembra di entrare ancora con il piú recente Lettura di un'immagine (1975). Questo libro infatti, tutto giocato com'è — e calibrato — su una sorta di doppio immaginario, fotografico e testuale, è un tessuto (prezioso) di allusioni, un libro delle affinità, e piú sottile di tutte, questa, contenuta già nella Penombra (p. 95): « ... la mamma non inventava niente, anzi, lei spogliava, sfrondava, non "raccontava", propriamente: alludeva soltanto ». Ma se Lettura di un'immagine ha nella Penombra la sua couche, anche se ne distacca perché ne è come l'essenza.
3. Con La penombra che abbiamo attraversato inizia dunque un periodo che non sapremmo deciderci a dire nuovo. Nuovo infatti propriamente non è, e basterebbe leggersi il capitolo xxii di Maria:
Rividi, quando fu l'autunno, i boschi del Villar: velati da una sottile bruma.
Era il primo pomeriggio, quando passai il ponte sul Maira, e cercai con gli occhi il balconcino alto sul Borgo Sottano, dal quale Maria aveva salutato il bambino diventato grande che ripartiva sulla sua motocicletta.
Prima di scendere, per la gradinata di pietra, al vicolo di Maria, volli rivedere il paese.
Rividi, nell'attraversarlo, la villa dei Maina, che dietro l'alterigia della f ac-data celava le sue storie oscure, e le fastose alcove, che Maria spolverava con tanta fatica.
4 La villeggiante, Torino 1975, p. 95.
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Percorsi i piccoli portici, uscii nella piazza, e m'indugiai nel leggere le piccole lapidi bianche, murate in memoria dei fucilati dell'ultima guerra. Cercai il nome di Milio; ecco: Emilio Martini, di anni ... Una bicicletta attraversò la piazza deserta, metà sole e metà ombra. Margherita? (avevo pensato a lei, cercando il nome di Milio?).
Poteva essere lei, la donna della bicicletta: la testa piccola, dal profilo minuto e severo. Anche lei mi guardò (p. 136).
È soltanto il primo « respiro » del capitolo, ma ci troviamo già un poco nel clima della Penombra. Cosí in Tetto murato ci soccorre una traccia esile ma proficua: « La stanza non era "remota". Vi era in essa una mescolanza di rustico e di civile, di primitivo e di prezioso che aveva per me il sapore della mia infanzia » (p. 45). E ancora, tornando a Maria, in piú di un tratto del rapporto della Romano con il figlio, è contenuto l'embrione di quelle che saranno Le parole tra noi leggère.
Periodo non nuovo dunque, ma se non nuovo, piú deciso, piú fermo; in una parola: maturo. Quello in cui lo scrittore è finalmente consapevole di avere trovato la sua strada e insieme il « modo » esatto di percorrerla, senza piú perplessità. Comincia propriamente dalla Penombra il personale e non proustiano, nonostante il titolo, « rimemorare metodico » della Romano. In lei, nonostante la passione, la memoria non ha urgenze, si dispone con un ritmo grave, si modula per adagi, è pausata, respira. È il caso di appellarci a Barthes quando parla dei momenti in cui è preso dalla voglia improvvisa di ricordare: « In quei momenti non c'è occupazione che mi trattenga, interrompo tutto, mi butto sul letto e rivedo e sento ancora le scene, gli odori, i sapori del passato, le luci, i volti » (Prefazione a Jean Daniel, Memoria al presente, Milano, Spirali, p. 9) 5.
Ebbene, c'è curiosamente un letto anche nell'esordio della Penombra, un letto però che fa pensare a una voglia pigra, indolente, quasi riluttante (« Mi ero distesa sul letto e cercavo di pensare a cose innocue », p. 9). Anche se poi l'impasse fa presto a sciogliersi in crescendo, liberando (nell'aria aperta) una memoria piena di puntigli. Citiamo dall'esordio del secondo capitolo della prima parte:
Sono uscita nella strada davanti all'albergo, e ho sentito l'aria. L'aria mi può bastare. È la mia aria.
In nessun'altra valle vicina o lontana c'è quell'aria. Io la riconosco all'odore leggero che sa di latte, di strame, di erbe amare. Ma non è un odore, se non dopo.
Non è mai esaurito il mio bisogno di quell'aria. Io la penso di lontano, e mi nutre. Mi tormenta, anche: per qualcosa di irraggiungibile, ma anche di
5 Il libro del Daniel è stato recensito da Lalla Romano in « Tuttolibri », vi, n. 24, 28 giugno 1980, p. 15.
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fatale. Essa è per me il passato: tutto quello che è avvenuto. Per me è anche « loro ».
In loro sono compresa io. La conoscenza di loro e di me, come non era veramente distinta allora, tanto meno lo è adesso (p. 18).
E un'immersione della memoria nelle persone e nelle cose, una simpatia radicale. Non c'è tristezza (e nemmeno nostalgia) nella Penombra, ma un memorare dolce e controllato: casomai malinconico. Ma felicità e malinconia hanno un forte senso della convivenza ed è da ricordare in proposito un episodio delle Parole cosí concluso: « Capii che l'idea era di lui; e la piccola coppia era cosí amorosa che mi ispirò rispetto. E malinconia come tutte le cose felici » (p. 84).
Anche il dramma ne La penombra è redento da una pietas sobria, discreta, venata spesso di un umorismo improvviso, che s'accende. La memoria insegue il suo equilibrio tra l'interno domestico e borghese, e il modo dei contatti con il piccolo cosmo provinciale, che è sempre sul punto di svelare, insieme con gli incanti, le sue angustie. Si pensa per questo agli Scritti autobiografici di Hesse con la consapevolezza di una proposta non peregrina visto l'appetito onnivoro e spregiudicato di letture (« l'inguaribile eclettismo », anche, della sua cultura) che la Romano ha sempre denunciato. Anche perché poi Hesse funziona per Il mio credo, per il suo tentativo di comporre la scissione tra fantasia e intelletto, tra concetto e immagine. Nella Weltanschauung della Romano possiamo infatti sistemare Kant accanto a Schopenauer, e meglio ancora mettere lo zio matematico Giuseppe Peano, che ebbe diretta influenza sulla sua formazione e sul suo « implacabile illuminismo »6. D'altra parte tra logica e poesia esistono profonde affinità, sulle quali la Romano è ritornata, e togliamo ancora dalle Parole: « Hanno in comune la nettezza, la fulmineità, lo scatto. Sono entrambe una presa di possesso e di trasformazione della cosiddetta realtà » (p. 26).
La memoria è un vaglio che decanta la passione e la restituisce lucida e precisa. (La memoria come passione è a sua volta controllata dallo stile). Proprio a proposito di Delacroix, il cui Diario la Romano ha a suo tempo antologizzato e tradotto, Baudelaire sosteneva: « Passionnément épris de la passion et froidement déterminé à chercher les moyens de l'exprimer » Il problema dello stile, di cui non v'è luogo a soffermarci, è tutto qui.
6 In Diario di Grecia, cit., p. 49. Su Peano si veda la testimonianza che la scrittrice ha pubblicato in « Spirali », Iii, giugno 1980, n. 6, pp. 5-6, intitolata Lo spirito creativo è leggero. Si veda poi naturalmente Una giovinezza inventata.
7 Cit. da F. FLORA, Il decadentismo, in Questioni e correnti di storia letteraria, Milano, Marzorati, 1965, p. 781.
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La memoria dunque non è idillio, non rifugio, non nasconde le ferite e non gioca a rimpiattino. Il rapporto con le cose della Romano è sempre schietto e sa correre i suoi rischi. Lo stesso ritratto frammentario che la scrittrice fa di sé nelle sue pagine è spietato, privo di indulgenza, certo costruito, cioè artisticamente rivissuto. Lalla Romano è un personaggio che vive con gli altri personaggi e ne condivide il destino, ne ricerca le dissonanze, ne suggerisce, o ne dice, le affinità. Borlenghi molto acutamente, a proposito della presenza della scrittrice nella Penombra, ha parlato di « una propria storia in minore, nel cerchio delle memorie ».
C'è sempre una dialettica intensa — un dramma — in questo rapporto tra personaggio e personaggi (il punto estremo sono Le parole tra noi leggère), spesso doloroso fino allo spasimo perché la memoria (autentica) non vuole patire inganni. In questo senso, l'opera della Romano è memoriale e non autobiografica: una differenza, che ha la sua ragion d'essere e che è
stata polemicamente ribadita piú volte dalla scrittrice nelle interviste, con taglio perfino troppo netto:
È vero che un romanzo, in quanto tale, brucia e ricrea ogni dato, ogni fatto — reale o immaginario — cosí che i fatti stessi costituiscono appunto un materiale; ora, questi dati si possono sempre far risalire all'esperienza piú o meno diretta — esistenziale, culturale storica o fantastica — dell'autore; nel mio caso poi si tratta effettivamente di un rapporto molto stretto fra « vita e narrazione »: senonché io non amo il termine usuale « autobiografia ». Anzi, lo considero il piú lontano dal mio gusto, dalla mia idea della narrativa. Io non scrivo affatto per dar notizie sulla mia vita; però la mia vita è tutto quello che ho, è me stessa 8.
Di quest'ultimo concetto, fondamentale, come abbiamo già tentato di dire, ritroviamo nella Penombra, e proprio nella chiusa del secondo capi-
tolo della prima parte, di cui abbiamo citato l'esordio, la concordanza piú piena:
Piazza Nuova: è uguale nell'insieme, vuota. Su due lati la chiude ancora l'antica lea di ippocastani.
Il nome ora è quello di un partigiano; ma la storia, « quello che è avvenuto dopo », per me non esiste a Ponte. Ponte per me è immobile. Come l'omino laggiú, in fondo alla piazza.
Anche allora un omino uguale stava là, quasi « posato » davanti a quella casa alta (un tempo c'era scritto Palestra Ginnastica, era della Caserma). Io l'avevo sempre visto cosí, da lontano. Non che sparisse quando gli si passava vicino, ma non gli si badava. Anche nelle vecchie cartoline c'era sempre l'omino in quel punto.
Al pari di lui Ponte Stura è dunque immobile. Lo era anche allora? Forse
8 Da un'intervista su « Uomini e libri », novembre-dicembre 1979, n. 76, p. 58.
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per questo, perché le cose non permangono immobili senza perdere la vita, Ponte Stura continua lentamente a morire. Ma io ne sono consolata. Io penso a quella immutabilità in cui consiste la sua « vera » esistenza: la mia (p. 24).
4. Anche il rapporto con la storia è dunque fondato su un approccio di tipo esistenziale, e in definitiva poetico. Come non muta la « sostanza » dei luoghi non muta la « sostanza » della storia perché la poesia cerca il « permanente », la consistenza oltre le parvenze e la realtà storica è rispecchiata meglio « da una visione personale (poetica) che dalle analisi sociologiche »9: un'idea che risulta particolarmente attiva nell'ultimo romanzo, Una giovinezza inventata.
Già nella Penombra i fatti della storia erano come messi tra parentesi (« c'era la Grande Guerra », p. 23), e la loro parzialità era un fatto poetico. Cosi in Maria la storia era un evento tra gli eventi e interessava per i suoi tratti di tragedia improvvisa e fatale. In Una giovinezza inventata la questione raggiunge l'apertura massima. Una giovinezza inventata è la storia della formazione di una ragazza borghese e provinciale che prende la strada della città. È anche la storia stessa della scrittrice, come sempre. Lalla Romano è nata a Demonte ed ha vissuto infanzia e adolescenza tra il paese che l'ha cresciuta e la cittadina di provincia (« Cuneo città "d'antan" », p. 133) dove ha compiuto gli studi ginnasiali e liceali. Il suo approdo torinese coincide con gli anni dell'Università, con gli umori, le inquietudini, le contraddizioni di una vitalità ispida e inappagata.
È la storia di una iniziazione, dei rituali e delle sofferenze che tale iniziazione comporta; la storia di un personaggio di angoscia (e di allegria?) dentro la « grande misteriosa città » (p. 73) autunnale, che sta come una favola dal fascino intenso, come un amore doloroso e senza futuro: che anzi con quest'amore fatalmente coincide. La Torino di una tardiva belle époque vibra di una sua doppiezza ed è il luogo emblematico dei fatti memorabili. La vita della ragazza si snoda per frammenti tra le pareti protettive di un pensionato (molto esclusivo) di suore, e le ciance, le alleanze, i ripicchi di una comunità di giovani curiose e anche petulanti, tra le lezioni all'Università e le sedute di pittura, tra zie e compagni, tra affabulazioni epistolari e incontri divisi, fatti un po' di audacia e un po' di perplessità, tra presunzioni intellettuali e pene d'incompiuto amore. Eccone un esempio estremo:
Quest'anno, che lui era piú gentile — e io definitivamente delusa — scelsi un altro simbolo. In una vetrina vidi un piccolo libro su Dürer, con la stampa
9 Da un'intervista rilasciata a chi scrive e apparsa su « Nuovasocietà », vni, n. 171, 31 maggio 1980, p. 47.
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della Malinconia sulla copertina. Mi riconobbi in quella figura. Io ero magra, sottile (« quand'ero paggio... »); ma in me qualcosa era pesante: la mia sensualità inappagata, il mio pensiero oscuro. Quella donna — non mi avvidi subito che ero un angelo — delusa, corrucciata, attorniata da simboli spezzati, da un Eros esiliato, ero ben io. Lo avrebbe capito? Ritagliai l'immagine, e gliela mandai, con gli auguri. Lui mi mandò — ma non in risposta, contemporaneamente — un bigliettino: anche lui col suo ritratto.
« Cara Lalla,
tanti auguri: di che cosa, pensaci tu. Auguri proprio di cuore, perché dopo, tutto quel bene che te ne verrà farà piacere anche a me. Quando vieni?
Care cose affettuosissime dal tuo egoista malvagio bugiardo fedifrago sornione e violino senza canto
Peer
Fin d'anno '29 » (pp. 229-230).
Il personaggio che si firma Peer e che reca nel romanzo il nome di Altoviti fa pensare a quel che John Middleton Murry (Katherine Mansfield è di certo nelle letture di Lalla Romano 10) diceva di se stesso: « in parte snob, in parte vigliacco, in parte sentimentale ».
La malinconia severa che si respira nel racconto è distacco dall'età che viene attraversata, angosciosa e conflittuale. I personaggi che si incontrano sono veri e proprii personaggi storici e la giovane Lalla si mescola alla pari, si offre alla rappresentazione senza reticenze, con un anticonformismo che è anche esibizione perché cosí vuole l'età. Il progetto ventilato in un'intervista, rilasciata al quotidiano « La Repubblica » (1 agosto 1976), di scrivere Una giovinezza « come se fosse la vicenda di un'altra persona », è ancora una volta abbandonato, come già era accaduto per la Penombra che una prima volta in terza persona era stato effettivamente scritto. Il punto di vista è quello di un « io » che s'accampa e non ammette trasgressioni.
Il rapporto di questo « io » con la storia è parziale ma concreto, s'incarna nei personaggi che rimemora e ricrea. Cosí quando la scrittrice sostiene: « Per me il fascismo era un adolescente dalle mani fredde » (Una giovinezza cit., p. 36), non adopera una semplice metafora. Tutto è storico in questo romanzo, ha dichiarato la scrittrice in un'intervista, « nel senso che i personaggi sono tutti veri, con il loro nome e cognome. Venturi è Venturi, Casorati è Casorati. E il fascismo è il fascismo. Ma insieme si può dire che tutto è "inventato", nel senso che questa è la mia verità poetica di quelle persone e di quel tempo. È la giovinezza che diventa poetica nella vecchiaia. Del resto la verità dell'artista non è la verità storica, ma la verità delle sue impressioni, e queste impressioni nel mio libro sono assolutamente
10 L'accostamento e la citazione successiva ci vengono dalla « Lettura della domenica » di P. CITATI apparsa sul « Corriere della Sera » del 6 aprile 1980.
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autentiche » 11. I documenti che compaiono in Una giovinezza inventata non sono documenti inventati (ma potrebbero anche esserlo e non cambierebbe nulla). Lettere, diari e persino i frammenti di un romanzo non compiuto servono a comporre un ritratto dell'autore, e questo ritratto è anche l'effigie di un'epoca che vien fuori non soffusa di beatitudine postuma, piú scandalosa forse, ma più vera.
5. Da L'ospite, cit., pp. 121-122:
Dell'ultimo giorno, l'indomani, sono rimasti due momenti. Uno, di allegria un po' favolosa. A colazione, Emiliano, eccitatissimo, fa la spola tra il nostro tavolo e Rachele in cucina; zampetta velocissimo tanto che i piedini sollevati dietro battono uno contro l'altro, e intanto ride e strilla di gioia guardando sua madre. Come ripetesse in una « fantasia » di balletto il buttarsi di ieri dalle braccia dell'una a quelle dell'altra.
Era tale una festa che non mi sentii nemmeno estromessa.
Nel pomeriggio si fece il trasloco; li accompagnai in via Colletta (Innocenzo era in viaggio). Quando rientrai, trovai la casa buia e vuota. Un silenzio sordo. E quel senso di occasione non colta, di felicità perduta, che da giovani fa parere senza valore la vita. In verità tutta quella mia passione intorno a Emiliano era stata appunto analoga agli amori immaginari dell'adolescenza: non meno dolorosi per questo.
Avevo il vantaggio, sugli amori segreti, che di questo potevo parlare. Non avendo trovato Silvia, telefonai alle zie di Cuneo. Esse non mi canzonarono come forse avrebbe fatto la mamma; nemmeno sembrarono stupirsi della mia irragionevole disperazione.
È sempre la passione, il dramma di un rapporto che ha lasciato le sue impronte, a guidare la scrittura e lo stile, a cercarne la misura, a decantarne l'impeto e l'angoscia. Ma sempre, all'origine, c'è un moto di passione, anche nelle opere in cui, come già s'è detto per Tetto murato, lo stile riesce persino troppo puro.
L'ospite, da cui abbiamo appena citato, è un'opera che metteremmo in questo senso tra le perfette. Il rapporto che si narra tra la nonna e il nipotino di pochi mesi giunto improvvisamente a sconvolgere ritmi e abitudini è un rapporto pieno di tensione che lo stile compone in geometriche consistenze, chiude in una sorta di sinfonia breve (la musica della Romano è una musa assai sentita) il valore fulmineo del dono. Qui la poetica di quel « realismo allusivo » — e quanto tornerebbe il « figurale »! —, che proponevamo come formula sintetica all'inizio di questo ritratto, trova cospicue pezze d'appoggio. Ma la Romano, che pure non è scrittrice amante di cla-
11 Da un'intervista apparsa su « La Gazzetta del Popolo » il 15 dicembre 1979.
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mori sperimentali (la discrezione, s'è detto, e s'intende discrezione stilistica, è la sua misura) non si è mai nemmeno rinchiusa in una ricetta. E accaduto in Una giovinezza inventata, dove il valore del documento assume un posto cospicuo e svolge una importante funzione narrativa. Ma su questa strada, che arriva a Una giovinezza inventata, non può non essere considerata decisiva la tappa del romanzo Le parole tra noi leggère. Qui infatti il dramma di un rapporto assume le sue tinte piú forti, e il modo di rappresentarlo una spregiudicatezza inventiva mai sperimentata prima.
Le parole tra noi leggère sciolgono in chiarezza intellettuale (e poetica) i nodi di uno scacco. Il romanzo racconta un assedio, una contesa, un duello e tutt'e due i personaggi sono in primo piano, sono dei protagonisti. La lotta è aspra — certo dolorosa — e richiede grande impegno. Ma la caccia insidiosa che la madre dà a suo figlio è sfortunata, e la scrittrice di fatto è relegata, in un crescendo pieno di significato, negli spazi riservati delle postille, delle chiose, dei piccoli commenti.
Ma poi basterebbe leggere, con l'esordio (magnifico), che enuncia il motivo conduttore, il finale, risolto in una battuta, che contiene, nel suo umorismo compassato e sornione, il senso di una commedia tutt'altro che da ridere, perfino un poco surreale.
Le prime avvisaglie di un rapporto difficile compaiono già in Maria. Quel tratto, ad esempio (« Quando prendeva il mio latte, il bambino sembrava feroce; io ne provavo timore, e mi sentivo a lui sottomessa », p. 20), che è ripreso con altra intonazione ne Le parole: « Quando succhiava il mio latte, mi sembrava feroce, come se allattassi un leoncino (infatti mordeva). Ero intimidita, preoccupata, non irritata » (p. 9). Ma solo qui assumono una prospettiva intera, non corsiva. Le parole tra noi leggère è un romanzo progressivo non nel senso di un rispetto rigoroso ad un ordinamento cronologico (questo, nella Romano, non c'è mai: la memoria insegue la sua cronologia) ma nel senso che rispetta grosso modo delle tappe che si succedono e riprende il discorso — il romanzo è anche un saggio, e un viaggio —, lo aggiorna, se si vuole, in corrispondenza con i diversi stadi evolutivi.
Il libro si può leggere come il dramma delle affinità non appagate, delle attese frustrate, di una vocazione elusa insomma — quella dell'arte —, come grande frammento di un discorso amoroso e insieme costruttivamente (morfologicamente) come esempio di romanzo nuovo. Nuovo nella storia dell'opera di Lalla Romano e nuovo nel panorama della nostra letteratura.
Il suo cuore, come sempre, è nell'attacco:
Io gli giro intorno: con circospezione, con impazienza, con rabbia. Adesso, gli giro intorno; un tempo invece lo assalivo. Ma anche adesso ogni
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tanto — raramente — sbotto. Allora lui mi guarda con la sua famosa calma e dice: — Tu mi manchi di rispetto! La mia collera di ora dev'essere un residuo delle antiche battaglie, quando io reagivo come se lui fosse una parte di me che tradiva se stessa e dunque mi tradiva. Ai miei assalti e assedi ormai piú che altro ammirativi, lui oppone freddezza, noia e perfino gentilezza (distratta).
Ma soprattutto io non rinunzio a tentare di conoscerlo, discorsivamente voglio dire. So bene che le domande sono un sistema sbagliato; ma ci ricasco. Lui è seduto davanti a me, immerso in un libro (magari un fumetto). Io provo a incominciare un discorso, e per di piú su temi generali. Senza alzare il capo risponde: — Non so (p. 9).
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BIBLIOGRAFIA
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Prosa: Le metamorfosi, Torino, Einaudi, 1951 (poi, riveduta e ampliata, nei « Coralli », 1967); Maria, ivi, 1953 (poi nei « Coralli », 1965; nelle « Letture per la scuola media », 1973; nei « Nuovi Coralli », 1975); Tetto murato, ivi, 1957 (poi nei « Supercoralli », 1972); Diario di Grecia, Padova, Rebellato, 1959 (poi, con qualche variante, presso Einaudi, nei « Nuovi Coralli », 1974); L'uomo che parlava solo, Torino, Einaudi, 1961; La penombra che abbiamo attraversato, Torino, Einaudi, 1964 (poi negli « Struzzi », 1977); Le parole tra noi leggère, ivi, 1969 (poi negli « Struzzi », 1972); L'ospite, ivi, 1973 (poi nelle « Letture per la scuola media », 1978); Lettura di un'immagine, ivi, 1975; La villeggiante, ivi, 1975; Pralève, ivi, 1978 (ma già compreso ne La villeggiante); Una giovinezza inventata, ivi, 1979.
Traduzioni: G. Flaubert, Tre racconti, Torino, Einaudi, 1944 (e ora, con Nota introduttiva, nelle « Centopagine », 1980); E. Delacroix, Diario (1822-1863), Torino, Chiantore, 1945; B. Beck, Léon Morin, prete, Torino, Einaudi, 1954.
SCRITTI SU LALLA ROMANO. - A parte i repertori e le storie letterarie del Novecento, che dedicano qualche spazio alla scrittrice, sono pochi su di lei i saggi sistematici. Ricordiamo il profilo di F. VINCENTI contenuto ne « I contemporanei » di Marzorati (v vol., 1974), e perciò fermo a L'ospite. Della stessa Vincenti è da ricordare il profilo piú ampio Lalla Romano apparso nella collana « Il castoro » (Firenze, La Nuova Italia, 1974). Aggiornato fino a Una giovinezza inventata è l'Invito alla lettura di Lalla Romano di A. CATALUCCI (Milano, Mursia, 1980).
Moltissime le recensioni, che indichiamo con qualche ampiezza: F. Neri, « La Stampa », 18 giugno 1941; A. Rossi, « La Gazzetta del Popolo », 20 giugno 1941; E. Battistini, « Il popolo di Roma », 9 giugno 1951; V. Sereni, « Milano-Sera », 11-12 giugno 1951; C. Bo, « La Fiera Letteraria », 15 luglio 1951; Cam. [Aldo Camerino], « Il Gazzettino », 17 agosto 1951; A. Sartori, « La Rassegna », 11 dicembre 1951; P. Chiara, « L'Adige », 26 giugno 1953; E. Montale, « Corriere della Sera », 28 agosto 1953; C. Bo, « La Fiera Letteraria », 20 settembre 1953; A. Grosso, « Il Popolo Nuovo », 28 ottobre 1953; A. Sartori, « La Rassegna », settembre-ottobre 1953; C. M. Richelmy, « Orizzonti », 13 dicembre 1953; D. Persiani, « Lo spettatore italiano », dicembre 1953; G. Contini, « Letteratura », XII, 1953; F. Sanvitale, « Giornale del Mattino », 27 gennaio 1954; G. De Robertis, « Il Nuovo Corriere », 18 marzo
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1954; L. Baldacci, « Il Giornale del Mattino », 11 gennaio 1958; G. Bartolucci, « Avanti! », 11 gennaio 1958; G. Manacorda, « Il Contemporaneo », 11 gennaio 1958; P. Milano, « L'Espresso », 12 gennaio 1958; A. Paoluzi, « Sicilia del Popolo », 24 gennaio 1958; E. Croce, « Il Punto », 1 febbraio 1958; G. Gramigna, « Settimo Giorno », 13 febbraio 1958; G. Vigorelli, « Rotosei », 21 febbraio 1958; G. C. Ferretti, « L'Unità », 24 febbraio 1958; G. De Robertis, « Tempo », 27 febbraio 1958; G. Pul-lini, « Comunità », III, 1958; A. Paolini, « Situazione », marzo 1958;
E. Montale, « Corriere della Sera », 20 maggio 1960; P. Dallamano, « Paese Sera », 21 aprile 1961; G. Manacorda, « Il Contemporaneo », aprile-maggio 1961; P. Milano, « L'Espresso », 19 giugno 1961; L. Baldacci, « Letteratura », VII-VIII, 1961; C. Bo, « Corriere della Sera », 21 giugno 1964; F. Antonicelli, « La Stampa »,
1 luglio 1964; L. Baldacci, « Epoca », 12 luglio 1964; L. Lamberti, « Corriere del Giorno », 22 luglio 1964; G. M. Biovi, « Paese Sera », 24 luglio 1964; T. Fiore, « Gazzetta del Mezzogiorno », 26 luglio 1964; P. Milano, « L'Espresso », 26 luglio 1964; P. Bianchi, « Il Giorno », 29 luglio 1964; L. Gigli, « La Gazzetta del Popolo », 29 luglio 1964; I. Tutino, « Noi donne », 1 agosto 1964; O. Del Buono, « Settimana Incom Illustrata », 2 agosto 1964; L. Baldacci, « Giornale del Mattino », 6 agosto 1964; G. Gramigna, « Amica », 9 agosto 1964; G. Vigorelli, « Tempo », 22 agosto 1964; G. Ferrata, « Rinascita », 22 agosto 1964; C. Marabini, « Il Resto del Carlino »,
2 settembre 1964; V. Volpini, « La Fiera Letteraria », 4 ottobre 1964; F. Bolzoni, « Orizzonti », 18 ottobre 1964; M. Rago, « L'Unità », 18 ottobre 1964; C. Salinari, « Vie Nuove », 22 ottobre 1964; A. Borlenghi, « L'Approdo letterario », ottobre-dicembre 1964; B. Marchiaro, « 45° Parallelo », 11 dicembre 1964; P. Padovani, « L'Italia che scrive », 11 dicembre 1964; F. Bruno, « I diritti della scuola », 15 dicembre 1964; M. Forti, « Aut Aut », maggio 1965; A. Guiducci, « Avanti! », 29 giugno 1967; A. Sala, « Corriere d'Informazione », 16 luglio 1967; G. Calcagno, « Stampa Sera », 21 luglio 1967; C. Mosca, « Roma-Napoli », 3 agosto 1967; P. Milano, « L'Espresso », 6 agosto 1967; G. Gramigna, « Amica », 15 agosto 1967; M. Rago, « L'Unità », 30 agosto 1967; G. Vergani, « Giovani », 7 settembre 1967; A. Grosso, « Il Nostro Tempo », 10 settembre 1967; D. Porzio, « Panorama », 19 settembre 1967; A. M. Catalucci, « Paragone », febbraio 1968; G. Spagnoletti, « Il Messaggero », 22 aprile 1969; E. Montale, « Corriere della Sera », 27 aprile 1969; A. Guiducci, « Avanti! », 10 maggio 1969; P. Dallamano, « Paese Sera », 11 maggio 1969; A. Bevilacqua, « Oggi », 14 maggio 1969; M. Rago, « L'Unità », 16 maggio 1969; L. Gigli, « La Gazzetta del Popolo », 21 maggio 1969; E. Falqui, « Il Tempo », 29 maggio 1969; G. Vigorelli, « Tempo », 31 maggio 1969; C. Marabini, « Il Resto del Carlino », 4 giugno 1969; O. Nemi, « Il Messaggero », 17 giugno 1969; C. Bo, « L'Europeo », 19 giugno 1969; A. Banti, « Paragone », giugno 1969; G. Pullini, « Comunità », giugno 1969; C. Salinari, « Vie Nuove », 3 luglio 1969; D. Straniero, « La Notte », 7 luglio 1969; A. Paolini, « Il Giorno », 9 luglio 1969; G. Gramigna, « Corriere d'Informazione », 12 luglio 1969; M. Visani, « Il Giornale d'Italia », 26 luglio 1969; A. Bor-lenghi, « L'Approdo Letterario », luglio 1969; M. Di Cagno, « La Rocca », luglio 1969; G. Giordanengo, « Cuneo Provincia Grande », agosto 1969; A. Cambria, « Noi donne », 16 agosto 1969; G. Arpino, « La Stampa », 29 ottobre 1969;
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riere », 22 maggio 1973; 0. Notarbartolo, « Giornale di Sicilia », 29 maggio 1973; C. Magris, « Corriere della Sera », 10 giugno 1973; C. Bo, « L'Europeo », 14 giugno 1973; M. Personé, « Il Piccolo », 15 giugno 1973; E. Ghidetti, « L'Unità », 21 giugno 1973; A. Borlenghi, « L'Approdo Letterario », giugno 1973; P. P. Pasolini, « Tempo », 1 luglio 1973; M. Grillandi, « Il Gazzettino », 26 luglio 1973; P. Milano, « L'Espresso », 29 luglio 1973; G. Gramigna, « Il Giorno », 29 agosto 1973; S. Antonielli, « Belfagor », 31 marzo 1974; L. Surdich, « Il Secolo XIX », 22 marzo 1974; E. Siciliano, « Il Mondo », 18 aprile 1974; P. Padovani, « Paese Sera », 7 giugno 1974; A. Di Giacomo, « Il Tempo », 26 ottobre 1974; L. Surdich, « Il Secolo XIX », 1 luglio 1975; C. Bo, « Corriere della Sera », 13 luglio 1975; F. Giannessi, « Il Giorno », 20 agosto 1975; R. Cantini, « Epoca », 23 agosto 1975; L. Sbragi, « Il Giornale Nuovo », 16 novembre 1975; M. Biondi, « Corriere del Ticino », 20 dicembre 1975; L. Surdich, « Il Secolo XIX », 23 dicembre 1975; P. Citati, « Corriere della Sera », 4 gennaio 1976; G. Arpino, « La Stampa », 8 gennaio 1976; L. Sbragi, « Il Giornale Nuovo », 11 gennaio 1976; C. Marabini, « Il Resto del Carlino », 12 gennaio 1976; V. Bramanti, « L'Unità », 22 gennaio 1976; A. Grosso, « Il Nostro Tempo », 25 gennaio 1976; G. Avogadro, « Il Giorno », 28 gennaio 1976; R. Cantini, « Epoca », 28 gennaio 1976; V. Saltini, « L'Espresso », 8 febbraio 1976; G. Amoroso, « Gazzetta del Sud », 10 febbraio 1976; M. Zoni, « Dimensione Democratica », 20 febbraio 1976; L. Baccolo, « La Gazzetta del Popolo », 11 marzo 1976; A. M. Catalucci, « Corriere del Ticino », 27 marzo 1976; G. Raboni, « Tuttolibri », 10 novembre 1979; G. Pam-paloni, « Il Giornale Nuovo », 11 novembre 1979; E. Siciliano, « Corriere della Sera », 11 novembre 1979; M. Rago, « Paese Sera », 20 novembre 1979; V. Saltini, « L'Espresso », 25 novembre 1979; G. Bezzola, « Il Giorno », 27 novembre 1979; L. Mondo, « La Stampa », 7 dicembre 1979; C. Marabini, « Il Resto del Carlino », 15 dicembre 1979; L. Surdich, « Il Secolo XIX », 18 dicembre 1979; C. Bo, « L'Europeo », 20 dicembre 1979; g. t. [Giovanni Tesio], « Nuovasocietà », 31 maggio 1980; A. M. Lamarra, « L'Unità », 5 giugno 1980.
 
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Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 11 Giorno: 30
Numero 6
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - novembre - 30 - numero 6


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