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tipologia: Analitici; Id: 1465130


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Franco Fido, Saggi e studi. Giacinta nel paese degli uomini: interpretazioni delle «villeggiature»
Responsabilità
Fido, Franco+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
P . î'hriLtaZ
Ill
11 L'iVZL
SAGGI E STUDI
GIACINTA NEL PAESE DEGLI UOMINI:
INTERPRETAZIONE DELLE « VILLEGGIATURE »
Non sarà un caso che le interpretazioni piú penetranti delle tre Villeggiature di Goldoni siano venute da lettori che non sono critici di professione: un uomo di teatro come Giorgio Strehler, una scrittrice come Anna Banti; o ancora da studiosi non italiani, esperti di tradizioni teatrali piú ricche e varie della nostra, come Jacques Joly. Le tre commedie del 1761 rappresentano probabilmente il maggiore sforzo compiuto da Goldoni per esporre sulla scena le contraddizioni di quella società veneziana che egli era sul punto di abbandonare. Proprio l'ambizione di tale progetto e la complessità della sua esecuzione sembrano aver dissuaso i goldonisti italiani da un lavoro esegetico sulla trilogia paragonabile per estensione e qualità a quello compiuto sugli altri capolavori del veneziano, dalla Locandiera e dagli Innamorati ai Rusteghi, Sior Todero, La casa nova, Le baruffe chiozzotte.
Anche fra le commedie appena ricordate ce ne sono di profondamente nuove nella struttura e nella concezione dei personaggi, come Le baruffe: ma a una lettura, se non altro, in chiave festosa e « corale » delle Baruffe poteva preparare il filone popolare e carnevalesco delle tabernariae (Il campiello!); mentre, nonostante il tema familiare a Goldoni e ai suoi spettatori, niente prepara veramente alle Villeggiature. È significativo che si sia fatto talvolta a proposito della trilogia il nome di Cecov (Banti 1961, pp. 25, 37): confronto con un moderno tanto legittimo quanto altri che si potrebbero ugualmente proporre, con Ibsen o con Brecht, come metafore critiche di una tensione problematica verso il futuro piú che verso il passato.
Niente, dicevo, ci prepara alle Villeggiature, o meglio nessuna singola commedia importante di Goldoni: bensí una serie di elementi sparsi in
* Gli scritti di Goldoni si citano da Tutte le opere, a cura di GIUSEPPE ORTOLANI, Milano, Mondadori, 1935-56, voll. 14, dando fra parentesi il volume e la pagina. La bibliografia finale è strettamente funzionale, cioè esclude titoli anche importanti la cui u presenza » non sia dichiarata o implicita nel mio discorso. Nel caso di lavori stampati piú volte in sedi diverse, si indica di preferenza l'ultima pubblicazione.
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testi diversi, che acquistano rilievo solo se passati in rassegna e valutati in funzione della trilogia. Cosí una percezione adeguata della straordinaria novità delle Smanie, delle Avventure e del Ritorno richiede un esame preliminare dei loro molteplici legami con la « tradizione » goldoniana anche piú minuto di quanto sia necessario alla comprensione delle altre commedie.
1. Il primo contesto nel quale vanno considerate le tre Villeggiature è quello della stagione creativa 1759-1762, anzi del momento esatto in cui cade la loro composizione, tra I rusteghi e La casa nova da una parte, Sior Todero e Le baruffe dall'altra.
L'accostamento che si impone subito è quello agli Innamorati del 1759; sia, in termini piú generali e ovvi, per l'intrecciarsi delle passioni — amore, gelosia, rabbia — e del raziocinio che cerca di canalizzarle; sia per analogie piú specifiche: padroni che « recitano » a piena voce il loro patema e servi che li osservano, li compatiscono o li criticano; clima di angustie economiche e di piccole umiliazioni che si riflette sui rapporti personali e sugli affetti'. C'è il fatto infine che, quasi a salvaguardare l'organismo comico dalla pressione anarchica dei sentimenti, Goldoni adotta in entrambi i casi una distribuzione dei ruoli e una griglia di relazioni derivate da quelle consunte ma sempre buone della Commedia dell'arte 2: due vecchi (Innamorati: Fabrizio e Ridolfo; trilogia: Filippo e Fulgenzio), un paio di camerieri-confidenti (Inn.: Lisetta e Tognino; tril.: Brigida e Paolo), due coppie di giovani (Eugenia e Fulgenzio, Clorinda e Roberto negli Innamorati; Giacinta e Leonardo, Vittoria e Guglielmo nella trilogia). E si osservi di passaggio come in quest'ultimo caso l'anagrafe dei personaggi ne predetermini il destino scenico: Vittoria essendo sorella di Leonardo, la sola doppia conclusione matrimoniale possibile resta quella indicata.
Altrettanto evidenti sono i punti di contatto della trilogia con le grandi commedie borghesi che la precedono e la seguono immediatamente, tutte variamente dominate dalla discussione di un costume di vita interpretato di volta in volta in modo troppo angusto (Rusteghi, Todero) o con spirito troppo liberale (Casa nova, Villeggiature) 3. $ stato anzi notato che la trilogia non fa che articolare in tre successive azioni i tre atti della Casa nova: 1) sogno di un trasferimento « altrove » per scimmiottare la nobiltà; 2) vita
1 Per questa osservazione sugli Innamorati v. BARATTO 1964, pp. 213-16.
2 Per il riconoscimento di un canovaccio dell'Arte negli Innamorati seguo (con una lieve modifica: Clorinda al posto di Flamminia) ZORZI 1972, pp. 10-15.
3 Cfr. BARATTO 1964: « Goldoni è costretto via via a mutare i criteri del giudizio ... Appare innovatore nelle vecchie famiglie, conservatore nelle nuove » (p. 222).
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dissipata nella nuova residenza; 3) intervento risanatore di un personaggio « buono » e ritorno alla saggezza (Joly 1978, p. 216).
A parer mio la differenza tra il lieto fine della Casa nova e la malinconica conclusione della trilogia è assai piú significativa delle loro somiglianze. Resta comunque il fatto che in tutte queste commedie il malessere di un ceto culturalmente immaturo davanti alla storia si traduce nel falso — e pur tormentoso — dilemma di una scelta nello spazio: « in casa »/« fuori », « casa vecchia »/« casa nuova », « città »/« campagna », come alibi da una motivata scelta nel tempo, del presente contro il passato dei rusteghi, o contro il futuro assurdamente prolungato e pianificato dal vecchio Todero, incautamente ipotecato da Giacinta 4.
In parecchie di tali commedie l'interesse dell'autore per una situazione ricca di sfumature e suscettibile di interpretazioni contrastanti provoca un impegno e una sperimentazione tecnica senza precedenti: nei Rusteghi lo studio dello stesso vizio in quattro personaggi, nel Todero l'analisi di tre (o quattro) vizi in un personaggio solo, nella trilogia la rappresentazione di un « disordine » in tre commedie, e di conseguenza la « continuazione di caratteri sostenuti in tre differenti azioni »5.
Questo ci porta al secondo contesto in cui è opportuno inquadrare le Villeggiature, e cioè a quella struttura ciclica di cui l'autore sottolinea la peculiarità fin dalla prefazione delle Smanie (« Ho concepita nel medesimo tempo l'idea di tre commedie consecutive... » Opere, vii 1007), ma che non è unica nella storia del suo teatro.
Goldoni lavorava in fretta, e spesso dopo aver svolto uno spunto teatrale in una prima commedia si accorgeva di non averne sfruttato appieno tutte le possibilità comiche, e lo riprendeva in composizioni successive. La sua opera presenta cosí, a differenza di quella di Molière, vari « cicli » piú o meno involontari, cioè dei gruppi di commedie perfettamente indipendenti quanto alla trama e ai personaggi, ma di argomento e di ambiente affine. Si pensi alle tragicommedie sull'innocenza primitiva (La bella selvaggia e La peruviana), alle commedie sulla guerra e sui militari (L'amante militare, L'impostore e La guerra), sul mondo dello spettacolo (Il teatro comico,
4 « Al di d'ancuo no ghe ne xe piú de quei zoveni del nostro tempo. V'arecor-deu? » (I rusteghi, ii, 5, Simon). « Se nascerà dei fioi ... i vegnirà grandi, i me servirà. I manderò fora in tei mi loghi... » (Sior Todero, I, 7). « Prevedendo ch'ei possa un giorno essere mio marito, vo' avvezzarlo per tempo a non esser geloso » (Smanie, i, 11).
Sui Rusteghi, cfr. Mémoires, II, 34 (Opere, i, 392). Per il Todero la prefazione: « Todero ... non è brontolon solamente, ma avaro e superbo » (Opere, vili, 51) e quanto dice di lui Marcolina: « El xe un vecchio che gh'ha ste tre piccole qualità: avaro, superbo e ostinà » (II, 14). Per le Villeggiature la prefazione alle Smanie (Opere, vii, 1008).
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L'impresario delle Smirne, La scuola di ballo), sulle donne del popolo a Venezia (Le massere, Le donne de casa soa, Il campiello), e cosí via.
Accanto a queste costellazioni tematiche ci sono i cicli veri e propri: le due commedie di Bettina (La putta onorata e La buona moglie, 1748-49), la Pamela del 1750 e Pamela maritata del 1759-60, le tre Ircane (La sposa persiana, 1753, Ircana in Julfa, 1755, e Ircana in Ispaan, 1756), le Villeggiature del 1761, e infine la trilogia ricavata nel 1764 dagli scenari scritti a Parigi per l'Arlecchino Bertinazzi e la Camilla Veronese degli Italiens: Gli amori di Zelinda e Lindoro, La gelosia di Lindoro, Le inquietudini di Zelinda.
Da una parte, nella prefazione al Ritorno, Goldoni insiste sulla differenza delle Villeggiature dalle altre pièces « serializzate », cioè sul fatto « che le altre le ha immaginate una dopo l'altra, e queste tutte e tre in una volta » (Opere, vii 1147). Dall'altra, come ha ben visto Jacques Joly, tutti questi cicli senza eccezione hanno in comune il tema principale, l'amore o meglio l'analisi della passione 6: talché il prolungamento della fabula in sei o nove atti corrisponde alla necessità di render plausibile « une évolution psychologique du personnage en rapport avec les exigences de la passion », e il « genere » che ne risulta, a metà strada fra il teatro comico tradizionale e il romanzo, è la precoce versione goldoniana di quel genre sérieux che avrà in Diderot, Mercier e Beaumarchais i suoi maggiori teorici (Joly 1978, pp. 197-98 e Petronio 1962). In questo quadro il caso piú considerevole e (tranne che dal Joly) sottovalutato è quello delle tragicommedie « persiane ». La sposa persiana, scritta per reagire alla concorrenza del Chiari e alla caduta delle due prime commedie prodotte al teatro San Luca (Il geloso avaro e La donna di testa debole), riportò nell'autunno del 1753 uno straordinario successo, « e fu replicata per trentaquattro sere, segnando cosí il piú grande trionfo del settecento sui teatri di Venezia » E dopo le accoglienze piuttosto tepide riscosse dalla seconda commedia, Ircana in Jul/a, un grande successo nel 1756 ebbe pure la terza, Ircana in Ispaan, che della Sposa persiana è la vera continuazione.
Spiegare la fortuna delle Ircane semplicemente coll'entusiasmo di allora per le turcherie e le mascherate orientali mi sembra un modo di ignorare il problema dall'alto del nostro « buon gusto », o se si vuole di estendere anche a questo filone del teatro goldoniano la condiscendente sopportazione che la
6 Cfr. la prefazione alla Sposa persiana: «Questa è una Commedia fondata sulla passione... » (Opere, ix, 522), e la lettera da Parigi al Vendramin dell'11 ottobre 1763 sugli Amori di Zelinda e Lindoro: «La commedia è di grande intreccio, di gran passione... » (Opere, xiv, 299).
7 Cosí ORTOLANI, in Opere, Ix, 1333.
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critica ha sempre riservato ai romanzi del Chiari, anche quando si tratta di opere ricche di trovate narrative e di idee.
Di Fatima, la fanciulla ancora innamorata dello sposo che la ripudia per una schiava, poté ricordarsi il Manzoni (che vide con ogni probabilità La sposa persiana a Venezia l'8 febbraio 1804 8) per il personaggio di Er-mengarda: « Caddi qual fior sul campo, colto dai rai del sole... » (iv, 10). Ma non fu Fatima, bensí la sua appassionata rivale Ircana, interpretata dalla seconda donna Caterina Bresciani, a sedurre il pubblico veneziano e a indurre quindi l'autore a seguirne le vicende in altre due commedie.
Come agli inizi della sua carriera 9, e come piú tardi nei testi parigini per Arlecchino e Camilla, Goldoni si abbandona dunque alle sollecitazioni di un forte temperamento drammatico, le asseconda, e contemporaneamente se ne giova per costruire un personaggio nuovo: la donna che lotta ferocemente contro tutti gli ostacoli per assicurarsi l'affetto esclusivo del suo amante e, qui, padrone.
Per la Ircana-Bresciani, specialmente nella seconda e terza commedia, Goldoni scriverà i suoi piú sonanti martelliani: « Taccio le smanie estreme del mio schernito amore / [ ... ] Sul momento confusa, smanio, peno, m'adiro, / Per parlar non ho voce. Parto con un sospiro » (Ircana in Julfa, i, 5). « Morir da te lontana è il mio solo tormento. / E in tempo, oh Dio! morire, che mi parea vicino / Il mio sposo, il mio bene, il mio dolce destino! » (ibid., Iv, 11). Ma dentro la declamazione patetica, da grande melodramma ottocentesco, già si profilano i riflessi psicologici che resteranno caratteristici di tutte le eroine concepite per la stessa attrice, fino alla Giacinta delle Villeggiature.
Tendenza adolescenziale ad esasperare e concentrare tutti i propri desideri in un punto (qui l'allontanamento di Fatima sposata a un altro e dunque non piú rivale, come poi nelle Smanie l'invito a Guglielmo a villeggiare con Filippo e Giacinta): « Se mi soddisfi in questo, teco sarò qual fui; / Ti crederò mio caro, piú non darotti un duolo, / Tutto soffrir m'impegno, con-
8 Recitata dalla compagnia di Salvatore Fabbrichesi al teatro San Giovanni Gri-sostomo: cfr. ORTOLANI, Nota storica alla Sposa persiana, in Opere complete, Venezia, Ed. del Municipio, 1907-60, xxiv, 215; e FERRANTE, 1961, p. 82. Come è noto, Manzoni fu a Venezia dall'ottobre 1803 al marzo 1804.
9 Mi riferisco naturalmente ai ruoli scritti alla fine degli anni 30 per il « Pantalone » Francesco Golinetti, dal Momolo cortesan in poi: v. Mémoires, I, 40 (Opere, I, 185 sgg.). In vista dello stimolo che la Bresciani e poi a Parigi la Veronese esercitarono sulla fantasia di Goldoni, andrebbe riformulata meno recisamente l'osservazione in sostanza giusta che « il rapporto personaggio-attore va certamente diminuendo di importanza a mano a mano che il personaggio vive entro un piú organico rapporto con altri personaggi e attinge una verità sempre piú singolare e universale » (BINNI 1963, p. 296).
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tentami in ciò solo » (Ircana in Ispaan, iii, 12); al tempo stesso, matura consapevolezza di sé: « Sfogar vorrei col pianto il mio dolore estremo, / Ma piangere non so, quando mi dolgo, io fremo » (La sposa persiana, iii, 1), della propria irragionevolezza e dei propri eccessi: « Io merto i sdegni tuoi, se fin tentai svenarti. / Pur, di ragione ad onta, pretendo essere amata » (Ircana in Ispaan, iii, 12), ma anche della propria forza e superiorità di carattere nei confronti dell'uomo amato:
IRCANA: ... se valor ti manca per assalir quell'empio,
Coraggio in te risvegli di femmina l'esempio.
Dammi una spada... 10
O disarmar l'audace saprò donna orgogliosa,
O morirò fra l'armi, ma morirò tua sposa.
TAMAs: Non cimentarti, Ircana, non incontrar ruine.
Sei coraggiosa e forte; ma sei femmina alfine.
IRCANA: Femmina sono, è vero, mancar mi può il valore,
Ma tal son io che in petto piú di te forte ha il cuore
(Ircana in Ispaan, II, 9).
Personaggio nuovo, dicevo, non solo per la sua carica passionale, ma anche per la nota polemica che risuona in versi come gli ultimi riportati. Non dobbiamo dimenticare che quando Goldoni comincia a lavorare per i Vendramin al teatro San Luca il suo posto presso i Medebach al teatro Sant'Angelo è preso dal Chiari, e l'abate bresciano andava affermandosi come il piú deciso campione, a Venezia, dei diritti delle donne. Si leggano, tra i numerosi esempi che potrei citare, questi versi della Pastorella fedele, composta nel 1754, cioè precisamente fra La sposa persiana e 1'Ircana in Jul/a:
TURPINo: Guarda in Città, in campagna: guarda per ogni banda, La femmina ubbidisce, e l'uom sempre comanda.
CEFISA : Perché le prime donne diedero all'altre il crollo, Lasciandosi dagli uomini metter i piè sul collo. Dalla padrona morta, che avea molta perizia, Ho inteso dir piú volte che questa è un'ingiustizia. Del par uomini e donne del Ciel son la fattura; Madre del par benefica con tutti è la natura. L'uom rapi il primo luogo; a noi lasciò il secondo; Perché l'uomo superbo vuol esser solo al mondo. [...] Noi piú di lui capaci d'amor siamo, e di sdegno; Noi di beltà il vinciamo, noi lo vinciam d'ingegno.
10 Per altre fanciulle capaci di maneggiare le armi v. per es. Zandira nella Dalma-tina: « Barbaro, cedi il ferro, o di mia man ti uccido... » (Iv, 4).
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Per tenerci soggette, come piú ad esso aggrada,
Diede a noi donne il fuso, l'uomo impugnò la spada.
Ci mandino alla scuola, mettanci un ferro a lato:
Arrossirà un Dottore, arrossirà un soldato.
Oppresse ed avvilite, sta il valor nostro accolto
Nell'arti d'un bel core, nell'armi d'un bel volto [...] (II, 1)II
Non che nelle commedie borghesi di Goldoni manchino confronti fra i due sessi e vittorie dei personaggi femminili — da quella di Mirandolina sul Cavaliere e quelle di Felice e Marcolina sui rusteghi e Todero. Ma all'interno di una struttura piú ampia (la trilogia), e di un genere meno vincolato alla misura del quotidiano (la tragicommedia) sia la passione che l'antagonismo crescono in proporzione, e salgono a un diapason mai toccato prima. Conseguentemente, le armi « femminili » tradizionali, civetteria, pazienza, astuzia, sono abbandonate come altrettanti segni di debolezza e di compromesso, o meglio come vestigia d'una ancestrale condizione servile.
Dal fantasma della schiavitú femminile sarà letteralmente ossessionata Giacinta nelle Villeggiature: « Se principia ora a pretendere, a comandare, se gli riesce ora d'avvilirmi, di mettermi in soggezione, è finita: sarò schiava perpetuamente » (del futuro marito: Smanie, i, 11); « non sono nata una schiava, e non voglio essere schiava... » (Smanie, ir, 11); « Non ha ... da trattarmi villanamente, e da tenermi in conto di schiava » (Ritorno, i, 5).
In questa prospettiva, il percorso dalla trilogia esotica del 1753-56 a quella « nazionale » del 1761 porta Goldoni e la sua nobilmente smaniosa interprete dall'enfatica semplificazione della schiavitú letterale patita da Ircana, alle sorprendenti e inquietanti conseguenze della schiavitú metaforica paventata da Giacinta.
Nel primo caso, preoccupato di rispondere subito al rivale Chiari e di apparire con tutte le carte in regola sul terreno del « femminismo » Goldoni fa di Ircana la vittima di un sistema totalmente ed esemplarmente fallo-cratico (mi si passi per questa sola volta un'abusata espressione) come quello mussulmano e persiano: e perciò stesso, date le leggi immanenti al genere tragicomico (trionfo dell'innocenza perseguitata, ecc.) ne assicura la felicità. Nel secondo caso, alle prese con la resistenza elastica di un referente ben altrimenti concreto come quello della società « livornese », cioè veneziana, poco egli potrà fare per la sua eroina.
Come nella prefazione al Ritorno l'autore accosta la trilogia ai suoi pre-
11 Commedie in versi dell'abate PIETRO CHIARI, Venezia, Bettinelli, 1756, I, 156. Che nella trilogia persiana sia da vedere una risposta di Goldoni alla sfida « femminista » di Chiari sembra suggerito anche dal fatto che nell'edizione Pitteri le dedicatarie sono dame di cultura: Vittoria Serbelloni Ottoboni della Sposa persiana, Marina Savorgnan Canal dell'Ircana in Julia, Metilde Erizzo Bentivoglio dell'Ircana in Ispaan.
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cedenti lavori di analoga struttura ciclica, cosí già nella prefazione alle Smanie Goldoni aveva provveduto a ricordare ai lettori la sua abbondante produzione sullo stesso tema, lo sperpero e la confusione del villeggiare: « argomento ... sí fecondo di ridicolo e di stravaganze, che mi ha fornito materia per comporre cinque commedie, le quali sono fondate tutte sulla verità: eppure non si somigliano... » (Opere, vii 1007).
Piú precisamente, il tema delle « smanie » dei cittadini in partenza per la villa è affrontato una prima volta, con indubbio impegno ma con esito poco felice, in una commedia del 1755, I malcontenti, mentre la vita in campagna, « intorbidata » da « gelosie » e « puntigli » 12 costituisce lo sfondo della Villeggiatura del 1756, che è invece a mio parere una delle prove piú felici del veneziano al teatro San Luca prima del grande triennio 1759-62.
Già nella Villeggiatura prima che nelle Avventure del 1761 abbiamo lo spettacolo di una campagna periodicamente invasa da spudorati scrocconi e superficiali gaudenti, che ignorano la natura (« giorno e notte colle carte in mano. Vengono in villa per divertirsi, e stanno lí a struggersi ad un tavolino »: i, 1, Donna Florida), e frequentano i contadini solo quel tanto che basta a corromperli, secondo un processo opposto a quello vagheggiato poi dall'ingenuo Filippo: « al giorno d'oggi non vi è malizia. Pare che l'innocenza della campagna si comunichi ai cittadini » (Smanie, i, 10).
Ancora come la trilogia, La villeggiatura del 1756 è la storia di una signora sensibile ed esigente che torna dalla campagna sofferente e sconfitta. In villa la protagonista donna Lavinia ha cercato a lungo di ridestare l'affetto o almeno i sensi del marito don Gasparo, gran cacciatore di selvaggina e di giovani contadine, e al tempo stesso di ricondurre al suo onesto servizio don Paoluccio, il cicisbeo al quale si è mantenuta fedele durante i due anni trascorsi dal Cavaliere viaggiando per l'Europa. Alla fine, frustrata sia da Imene che da Amore, per impiegare una dicotomia pariniana del tutto pertinente, la signora deve incoraggiare la candidatura a suo cicisbeo dell'introverso don Mauro, servente appena licenziato dalla vivace donna Florida, se non vuole tornare sola in città.
Non meno evidenti e importanti sono le differenze tra La villeggiatura e le tre commedie di cinque anni dopo, riconducibili alla classe sociale cui appartengono i personaggi della prima, tutti nobili (il che spiega tra l'altro l'indulgenza dell'autore per la pratica del cicisbeismo), con l'opportuno contorno di due procaci contadine per stuzzicarli, e di un malizioso paggio, degno veramente di Beaumarchais, per commentare le loro debolezze.
Per tali personaggi titolati e blasés la villa di don Gasparo e donna La-
12 Sono espressioni di Lavinia nell'ultima scena della Villeggiatura.
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vinia è come un'isola nel mare deserto della campagna. Ed è significativo che gli unici agganci col mondo di fuori, la caccia del padrone di casa e i viaggi all'estero dell'ex-cicisbeo di sua moglie don Paoluccio, valgano soprattutto come spunti per due felici e bizzarre invenzioni comiche: le beccacce e le pernici che — emblemi di una natura degradata e rifiutata — don Gasparo regala alle contadine sue amiche per non doverle spartire con gli invitati della moglie, le contadine ai loro corteggiatori don Eustacchio
e don Riminaldo, e questi, ignorandone la provenienza, di nuovo a don Gasparo che le ha ammazzate; e l'ossessivo ticchio turistico-analogico di Paoluccio, che è letteralmente incapace di capire quanto man mano gli passa davanti se non citando casi, personaggi, detti in cui si è imbattuto durante l'esaltante esperienza del suo Grand tour: « Anche a Parigi si suol dire... » (ii, 6); « una burla simile ho veduto fare a Marsiglia » (ir, 15);
« anche a Versaglies si trovano di queste bellezze... » (III, 5); « cosí si fa in Inghilterra » (III, 8); « mi parete uno di quei superbi villani di Castiglia » (III, 17), ecc. ecc.
Come un'isola, dicevo, la villa di don Gasparo e donna Lavinia rappresenta per i suoi numerosi abitanti una provvisoria salvezza (qui, dalla noia,
o per uno scroccone senza mezzi come don Ciccio, dalla miseria), ma anche uno spazio coatto, in cui essi continuano a scontrarsi e a provocarsi. Vedremo tra poco quale forza metaforica stia per assumere l'alternativa città/campa-gna in quanto allusiva di un altro, e per i borghesi ben piú arduo dilemma, fra intimità e promiscuità, fra « privato » e « pubblico ». Per il momento mi preme osservare come nella Villeggiatura l'assenza di personaggi borghesi coi loro complessi e i loro tabú, e le continue frizioni prodotte da una stretta convivenza consentano all'autore un trattamento dei caratteri assai piú tagliente e crudele di quanto potrebbe aspettarsi chi crede ancora al buon papà Goldoni.
Questa « cattiveria » — non infrequente nelle commedie di questi anni 1755-59: cfr. Fido 1977, pp. 121-35 — si manifesta già nel linguaggio, ricco di insinuazioni malevole e di sarcasmi, appesantito da iterazioni, anzi rappreso in parole tematiche che tradiscono con martellata insistenza le nevrosi dei personaggi. Si prenda per esempio l'episodio dell'ingordo don Ciccio schernito dalle contadine:
Crccro: Lasciatemi sedere, che la pancia mi pesa.
MEMCHINA: Che cosa ha mangiato di buono?
Ciccio: Ho mangiato due piatti di minestra, un pezzo di manzo che poteva essere una libbra e mezza, un pollastro allesso, un taglio di vitello, un piccione in ragú, un tondo ben pieno di frittura di fegato ed animelle, due bragiolette colla salsa, tre quaglie, sedici beccafichi, tre quarti di pollo grasso arrostito, un pezzo di torta, otto o dieci bignè, un piatto d'insalata, del formaggio, della ricotta,
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dei frutti, e due finocchi all'ultimo per accomodarmi la bocca... Era tutto magro, vi era pochissimo grasso. A me piace la carne grassa: i polli colla pelle grassa, i stufati col lardo grasso, l'arrosto che nuoti nel grasso, e anche l'insalata la condisco col grasso.
LIBERA: Come diavolo vi piace il grasso, e siete cosí magro?
Ciccio: Ho piacere io d'essere magro; se fossi grasso, mangerei meno. Per-
ché, vedete? il grasso che si vede di fuori, è anche di dentro; e si restringono le budella, e vi capisce tanta roba di meno (II, 11).
Alla ripetizione ossessiva delle medesime espressioni nella stessa scena (grasso 12 volte, mangiare 11, desinare 4, come nella scena seguente, venuto il momento della digestione, dormire 7 e sonno 4), corrispondono a parte i commenti sprezzanti e ingiuriosi delle due ragazze: « è briaco ... scrocco ... linguaccia cattiva ... il signor porcone ... come un cappone ... che sudicione! »; per cui quando esse legano don Ciccio alla sedia su cui si è finalmente addormentato coi legacci delle sue calze, la burla è resa socialmente accettabile dal generale clima di laisser aller e di aggressività che impronta tutta l'azione.
All'estremo opposto del materiale don Ciccio, la tenera e sospirosa donna Lavinia è oggetto d'una non meno severa Verfremdung. Tra i tentativi assai ingenui per risvegliare l'attenzione del marito e il savoir faire con cui tratta ospiti e cicisbei, la sua principale caratteristica è d'esser « dominata dalla passione », come dice di lei donna Florida (ii, 7, e lei stessa piú tardi all'incostante Paoluccio: « Lasciatemi sfogare almeno la mia passione »: III, 8). Ma il paggio Zerbino, commentando le rimostranze della padrona al marito che era partito per la caccia senza salutarla offre del suo paterna una spiegazione terra terra (« Poverina! la compatisco. Vorrebbe ora l'addio che non le ha dato questa mattina »: i, 4), che sembra confermata da quanto dice Lavinia a Gasparo nella scena seguente: « Fareste molto meglio a starvene a letto la mattina, come fanno gli altri mariti colle loro mogli ».
Nei dialoghi di Lavinia con Zerbino e don Gasparo (I, 4-5) la parola letto torna 11 volte, ma il marito è deciso a non capire le allusioni della moglie, cosí come nel III atto, quando Lavinia finge un'indisposizione quale « pretesto ragionevole » per « sciogliere la compagnia, troncar le scene per tempo, finir la villeggiatura » (9), don Gasparo si trincera dietro l'ironia di un'interpretazione letterale: « Voi altre donne avete sempre qualche cosa che duole ... Andate a letto, e domani si farà venire il chirurgo, e vi caverà sangue » (III, 10; e fra sé: « Queste donne si fanno venir male quando vogliono ... Don Paoluccio le avrà fatto venire le pulsazioni »: in, 11).
Il fatto è che i sintomi accusati da Lavinia (« Marito mio, ho del gran male intorno, mi sento una pulsazione interna, un'agitazione negli spiriti, una lassitudine universale con giramenti di capo ») sono l'involontaria con-
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fessione di una condizione isterica, e questa il risultato del disagio con cui la signora si adatta alla perpetua dimensione teatrale della vita patrizia, esasperata dalla paradossale clausura in campagna: pubblico scambio di complimenti, recitazioni d'avventure di viaggio o galanti, bons mots, pungenti malignità, ma anche teatro segreto dei sentimenti, secondo le teorie dell'amore clandestino, o « alla parigina », professate da don Paoluccio. Come un diplomatico che decida di mentire al suo interlocutore perché questi, scartata l'ipotesi troppo ovvia della menzogna, si aspetta da lui la verità, cosí i discreti amanti della Villeggiatura dovrebbero scambiarsi studiate attenzioni solo per evitare che la loro pubblica indifferenza sia interpretata come « occulta parzialità » (III, 13).
Tra la brutale franchezza di don Ciccio e di don Gasparo da un lato, gli allusivi ed elusivi silenzi di don Paoluccio dall'altro, il linguaggio della passione che Lavinia vorrebbe ascoltare e impiegare non ha piú corso. Troppo borghese in fondo per l'atmosfera di edonistica disponibilità in cui sono perfettamente a loro agio gli altri nobili e le contadine, la dama riparte per la città senza aver conseguito i suoi fini, e senza aver convinto il pubblico di meritare miglior successo.
In campagna i nobili, se non altro, riescono talvolta a risparmiare: « Non vi è altra differenza, se non che in città vi vogliono dei zecchini, e qui con pochi paoli si fa figura », nota don Eustacchio nella Villeggiatura (III, 3). Tanto piú si aggraverà invece il malessere di donna Lavinia nei borghesi veri, per i quali la mutanza autunnale si dimostra anche economicamente un cattivo affare, fin dai Malcontenti del 1755.
Di questa commedia i goldonisti si sono spesso occupati per ragioni esterne: la notevole critica delle unità di tempo e di luogo e l'omaggio a Shakespeare nella dedica al Murray; e la caricatura dell'abate Chiari nello strampalato personaggio del poeta teatrale Grisologo (cfr. Ortolani 1962 e Sommi Picenardi 1902). Piú interessanti per noi sono gli spunti di satira del costume che anticipano Le smanie per la villeggiatura di sei anni dopo: rivalità fra due fanciulle che cercano di vestirsi ciascuna piú elegantemente dell'altra, servi che tentano di rallentare la rovina dei padroni, debiti che si fanno per « comparire » con l'illusione di poter saldarli « al ritorno », diritto dei fornitori ad essere rispettati e pagati (« non dite loro bricconi. Son gente onesta, che vi hanno affidato il sangue loro »: I, 12), necessità di portar con sé scrocconi e buffoni (qui Roccolino, come poi don Ciccio nella Villeggiatura e Ferdinando nella trilogia), considerati il « miglior condimento » della vita in campagna u.
13 Per quest'ultima formula, cfr. I malcontenti, I, 4 e La villeggiatura, III, 1; sulle due commedie, MANGINI 1965, pp. 100-105.
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Meno ovvio è lo sdoppiamento del borghese ricco e rispettabile in due esemplari dalle inclinazioni diverse, nella trilogia Filippo e Fulgenzio, qui il poltrone e gaudente Policastro e l'attivo e austero Geronimo. Da un lato in questi due fratelli di carattere opposto è dissociata nelle sue componenti la duplice e idealmente inscindibile vocazione del borghese, agli affari e alla vita di famiglia: « ... siamo in due, un po' per uno. Egli bada agl'interessi, al negozio, alle riscossioni, alle lettere e che so io; ma io in vent'anni continui ho avuto una moglie al fianco, che mi ha fatto diventar canuto prima del tempo. Ora è tempo che mi riposi » (i, 6, Policastro). Dall'altro, con il suo perpetuo « io non voglio far niente », l'imbecille Policastro è un antagonista troppo debole per Geronimo. Il vero contrasto che polarizza la fabula è quello fra Geronimo da una parte, la nipote Felicita con la sua amica-rivale Leonide dall'altra. Sembra, alla superficie, una semplice que-
stione di gusti: « FELICITA: D'agosto non si va in campagna. GERO-
NIMO: Anzi, quand'è caldo, allora si gode l'aria aperta. Che vorreste far in villa nel mese d'ottobre, in cui per solito principia il freddo, principiano le piogge, e conviene stare ritirati in casa? » (I, 7). In realtà si tratta di una scelta cruciale per l'identità e l'ideologia di una classe. Come nota severamente lo stesso Geronimo: « ... l'autunno in villa non si va a goder la campagna, ma si va a far la conversazione ... per ispendere, per divertirsi, per far da grande piú che non è [mentre invece bisognerebbe andarci, come una volta] per godervi la libertà, non per essere in maggior soggezione » (ibid.). Ora la libertà, una diversa libertà, è precisamente ciò di cui Felicita e Leonide pensano di essere prive nelle loro case cittadine: « Che importa a me che ci sia sale, olio e zucchero, se manca il miglior condimento, ch'è quello della libertà? » (I, 2, Felicita), e che vagheggiano nella condizione felice della villeggiatura: « In campagna ogni giorno si vedon visi nuovi che vanno e vengono, e si trattano con libertà » (I, 4, Leonide); o meglio ancora:
LEONIDE: ... Siamo andati in dodici in compagnia: e tutti uomini, donne, padroni, servitori, carrozze, cavalli, tutti alla nostra villa. Arrivati colà, trovammo preparata una sontuosa cena, dopo cena si giocò al faraone, e siccome il sonno andava prendendo ora l'uno, ora l'altro, e mio fratello ed io eravamo impegnati nel gioco, ciascheduno che aveva volontà di dormire, andò nel primo letto che ritrovò, ed io fui obbligata dormire colla cameriera, e mio fratello sul canapè.
FELICITA: Questo è piacere! Questa libertà mi piace... (I, 3).
Come in una famosa « novella rusticana » del secolo successivo, lo stesso significante rinvia dunque a significati diversi e inconciliabili. Geronimo intende libertà dalla soggezione degli altri, le due ragazze libertà dalle regole, dall'austerità e dalla monotona routine familiare — cioè, se torniamo
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a considerare le cose dal punto di vista dello zio, disordine, affettazione, promiscuità. Tale conflitto semantico sulla stessa nozione tornerà nelle grandi commedie del 1760-61. Intanto, ed è questo un punto importante, i piaceri caritatevolmente magnificati da Leonide all'amica non ancora certa della sua villeggiatura presuppongono un bisogno degli altri che trasforma la virtú positiva della socievolezza in una condizione negativa di alienazione:
Certo, che per sempre in villa non ci starei; ma a' suoi tempi, quando la stagion lo richiede, quando ci vanno gli altri ... in tempo d'autunno, in tempo che vi è tanto mondo, tanta conversazione, è una cosa deliziosissima (I, 1, Felicita);
LEONIDE: In campagna. Nei nostri beni. A goder l'autunno, a star allegra-
mente, con una buonissima compagnia.
FELICITA: Ci starà un pezzo?
LEONIDE: Tutto l'autunno, fino che ci staranno gli altri. (I, 3).
Con funzione analoga a quella già notata di certe parole-chiave nella Villeggiatura (il grasso di don Ciccio, il letto di donna Lavinia) qui espressioni come d'autunno e gli altri, ripetute instancabilmente, significano l'aberrazione di voler sacrificare l'autosufficienza e la privacy borghese « all'eccesso del lusso, del dispendio e dell'incomoda soggezione », come scrive l'autore nella prefazione alla commedia (Opere, y 1021).
Dunque l'imitazione del villeggiare patrizio è dannosa non tanto economicamente, quanto perché espone l'intimità dell'« interno » borghese a una prova a lungo andare non evitabile, ma evidentemente prematura e pericolosa per un ceto su cui Goldoni sta perdendo le sue illusioni. Nella grisaglia autunnale di una natura assente il privato, che in altre commedie sta ai borghesi goldoniani come un vestito stretto, minaccia di scoppiare e di lasciarli nella imbarazzante nudità dei loro sentimenti. Sarà questo uno dei grandi temi della trilogia.
2. Una delle ragioni che resero memorabile l'adattamento teatrale delle Villeggiature ad opera di Giorgio Strehler fu la piena consapevolezza da parte del regista del carattere unitario della vicenda, cioè dell'indissolubilità delle tre commedie: mentre ancor oggi parecchi critici le leggono una per una e — grazie soprattutto alla vivacità di Giacinta nelle Smanie — giudicano questa « la commedia piú valida dell'intera trilogia », privilegiandone « la structure parfaite, le langage naturel » (Mangini 1959, p. xxx e 1969, p. 123). Eppure Goldoni non risparmia i segnali destinati a guidare lettori e spettatori, sia nelle prefazioni: « Ho concepito nel medesimo tempo l'idea di tre commedie ... ho piacere di dar unito un quadro, che piacerà davan-taggio » (alle Smanie: Opere, vii 1007); « Quelle che tu ora doni al Pub-
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blico, non formano che una sola Commedia, in nove atti divisa » (al Ritorno: ivi, p. 1147); sia nella struttura stessa delle tre pièces, moltiplicando i richiami tematici e le simmetrie.
Per fare solo qualche esempio, si veda il motivo della visita, in cui una pioggia di complimenti maschera una dura partita di frecciate e dispetti fra signore rivali:
Smanie, II, 12: Visita di Vittoria a Giacinta
Avventure, I, 10: Visita di Vittoria a Costanza
Ritorno, III, 7: Visita di Giacinta a Costanza Si parla del mariage (abito di foggia nuova venuta di Francia)
Si parla ancora del mariage
Si parla dei vari matrimoni fra i villeggianti Rabbia di Vittoria per il mariage di Giacinta.
Invidia di Costanza per il mariage di Vittoria.
Turbamento di Giacinta all'idea che Vittoria sposerà Guglielmo.
Da una parte, come nella morra cinese o nella regola delle scale reali al poker, le tre scene obbediscono alla legge che nessun giocatore può aver sempre la vittoria assicurata; dall'altra la sequenza conferma il legame fra mariage e matrimonio, cioè fra moda e destino, involontariamente sottolineato dal servo Cecco fin dalle Smanie: « ... credo sia un vestito da sposa ... ho inteso una parola francese che ha detto il sarto, che mi par di capirla »: i, 7; e dr. Ferdinando nel Ritorno, i, 9: « A proposito di mariage, signore mie, quando si fanno le loro nozze? ». Talché il nome del vestito intorno al quale gareggiano le ambiziose Giacinta e Vittoria nella prima commedia viene ad annunciare la trappola del matrimonio senza amore che chiuderà la storia di entrambe nella terza, e lo scambio fra i due fratelli nelle Smanie:
(« VITTORIA: Io butterei volentieri ogni cosa dalla finestra. LEONARDO: Principiate a buttarvi il vostro mariage »: II, 2) acquista colore di presagio.
Strutturalmente rilevante in un altro senso è il fatto che la crisi sentimentale di Giacinta (« sono stata una pazza ... sono una pazza, e le mie pazzie mi voglion far sospirare ... sono innamorata, quanto può essere donna al mondo ») scoppia nel II atto delle Avventure, cioè esattamente al centro della trilogia, come l'anno seguente le piú intense scene d'amore fra Titta Nane e Lucietta si troveranno esattamente al centro delle Baruffe chiozzotte (II, 2-7), e sempre nel II atto delle Avventure la prima e l'ultima battuta di Giacinta si corrispondono, questa (« Oh amore! oh impegno! oh maledetta villeggiatura! »: Ii, 12) riecheggiando in forma esclamativa il petrarchismo antifrastico di quella (« Maledico l'ora e il punto che ci son venuta... » II, 1).
Annunciato nelle Avventure, il tema del pentimento domina il Ritorno: « Sconto bene il piacere della villeggiatura. Meglio per me ch'io non ci fossi nemmeno andata! » (I, 4, Vittoria); « Volesse il cielo ch'io avessi
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sposato il signor Leonardo quel giorno medesimo che io mi sono in carta obbligata » (sc. ultima, Giacinta). Questi rimpianti hanno suggerito a Jacques Joly l'acuta osservazione che Giacinta vorrebbe abolire il tempo, cioè « ce qui a permis au drammaturge d'édifier sa trilogie. Le temps qui passe amène le désordre; l'ordre idéal suppose non la durée mais le présent de l'acte. Toute la trilogie se déroule ainsi dans une sorte de parenthèse, une sorte de rêve » (Joly 1978, p. 214).
Ma il passato non si può cancellare: la viscosità del tempo è evidente in altre due scene delle Avventure, 1 e 10 del iii atto. Nella prima, in un boschetto 14, due servitori relativamente fedeli, Paolo e Brigida, commentano il comportamento dei padroni durante il pranzo offerto la mattina da Filippo padre di Giacinta (un po' come negli Innamorati — ancora scena 1 del iii atto — Tognino e Lisetta avevano commentato il triste desinare dei padroni); nella seconda, in una bottega di caffè, altri due servitori, i cinici Tita e Beltrame, riparlano dello stesso banchetto non piú in chiave erotico-psicologica, bensì in chiave economico-gastronomica, per criticarne la povertà, e insieme per vantarsi, con poca logica, di tutto il ben di Dio che son riusciti a mangiare o a mettersi in tasca: un suggestivo ricorso, o esempio di « tempo circolare », che controbilanciando per un verso l'incalzare affannoso delle ore prima della partenza (« Si han da far cento cose, e voi perdete il tempo ... Le ore passano, si ha da partire da Livorno innanzi sera »: Smanie, i, 1, Leonardo), per un altro il disordine e l'apparente casualità dell'azione dopo l'arrivo, materializza per gli spettatori il labirinto in cui si trovano chiusi i protagonisti.
Un'ultima osservazione di carattere strutturale che gli stessi atti ii e iii delle Avventure suggeriscono, riguarda l'abbondanza e l'importanza dei monologhi: non perché l'autore non riesca a tradurre in dialogo e azione 1'animus dei personaggi, ma perché — di nuovo accade di pensare a Cecov — questi borghesi parlano di sé, « si dicono » e si ascoltano molto piú di quanto non ascoltino gli altri. Vedremo meglio tale aspetto della trilogia quando ci occuperemo di Giacinta, personaggio monologante per eccellenza.
Parlando delle sue tre commedie sulla villeggiatura Goldoni scrive: « nella prima si vedono i pazzi preparativi; nella seconda la folle condotta; nella terza le conseguenze dolorose che ne provengono. I personaggi principali sono di quell'ordine di persone che ho voluto prendere precisamente di mira, cioè di un rango civile, non nobile e non ricco » (Opere, VII 1007). Nelle Smanie la partenza di Leonardo per la villeggiatura è amareggiata dai
14 Può essere o non essere un caso che l'unico « esterno » dell'intera trilogia, il boschetto di Avventure, in, 1-4, sia riservato alla sobria dichiarazione di Paolino a Brigida, e alla lunghissima confessione-ripulsa di Giacinta a Guglielmo.
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debiti che egli lascia in città, dai capricci e dalle spese della sorella Vittoria, ma soprattutto dalla gelosia che gli cagiona la decisione di Filippo, suo vicino in campagna e padre di Giacinta da lui amata, di invitare con loro in villa il giovane Guglielmo. E stata Giacinta a insistere col padre perché l'invito sia mantenuto, anche dopo che lei si è promessa a Leonardo, per « guarire » quest'ultimo da una gelosia che la offende e che potrebbe aggravarsi dopo il matrimonio 15. Ma nelle Avventure Giacinta si innamora davvero di Guglielmo, e deve lottare contro di lui e contro di sé per tener fede alla parola data a Leonardo. Nel Ritorno, per mortificare la propria passione, la ragazza architetta un matrimonio fra Guglielmo e Vittoria e sposa Leonardo. Questi, seguendo i consigli del mercante Fulgenzio, accetta in conto di dote una proprietà del suocero a Genova, dove la coppia andrà a vivere.
Il debole Filippo e il savio Fulgenzio costituiscono come si è già osservato una nuova versione, piú sfumata e plausibile, di Policastro e Geronimo nei Malcontenti. Filippo è portato ai piaceri della tavola e del gioco, ma ancor piú forte è « quella passione ch'egli ha d'aver compagnia e di farsi mangiare il suo » (Smanie, III, 1, Fulgenzio): « ... solo non ci posso stare. Amo la compagnia » (Smanie, II, 9); « se non villeggio, ci patisco. Se non ho compagnia, son morto » (Avventure, I, 5).
L'« innocente divertimento della campagna » si trasforma cosí nell'evasione illusoria di una nuova ed elaborata costrizione: « In campagna è necessario aver della compagnia [ si noti l'efficacia della paronomasia ] . Tutti procurano d'aver piú gente che possono ... chi ne ha piú, è piú stimato » (Smanie, I, 4, Leonardo). Ma a differenza dei nobili, la cui vita era una perpetua rappresentazione pubblica, o dei contadini, per i quali solidarietà comunitaria ed elementare collettivismo costituivano una prima difesa dalla miseria, i borghesi non potevano rinunciare senza traumi a quella privatezza che era una loro peculiare condizione, anzi in sostanza una loro invenzione, sacrificare senza rimpianti sicurezza e intimità domestica sull'altare di una « libertà » che certo non era piú esorcizzabile (si ricordi Lunardo dei Ru-steghi: « E tutto xe causa la libertà »: II, 5), ma sul cui contenuto, come abbiamo visto nei Malcontenti, essi erano incapaci di accordarsi.
Il dilemma di accedere alla dimensione della « conversazione » senza disgregare irreparabilmente il privato si accentua nell'isolamento spaesante della villeggiatura. E per una specie di « ritorno del rimosso », la precaria soluzione che Filippo e Leonardo, Giacinta e Vittoria sembrano aver trovato a tale problema, è quella di aggrapparsi disperatamente al codice delle convenienze.
Is In questo senso Zelinda rappresenta l'opposto di Giacinta: « Ero disperata, perché non vi credevo geloso » (Inquietudini, ni, 20).
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Le tre Villeggiature sono percorse da una minuziosa, affannosa casistica delle bienséances: dalla quantità di posate necessaria in villa (« In campagna si suol tenere tavola aperta. Convien essere preparati »: Smanie, r, 1, Leonardo), alle lunghe discussioni su come disporre gli invitati ai tavoli da gioco (Avventure, II, 8), al problema delle partecipazioni e delle visite da fare al ritorno dalla campagna (« Mi ha fatto vedere una lista di trentasette case, alle quali prima del mezzogiorno ha da partecipar l'arrivo loro »: Ritorno, r, 2, Cecco; « Converrà ch'io vada a farle una visita. Come ultima ritornata converrà ch'io sia la prima a complimentarla »: ibid., Vittoria). La funzione caratterizzante dei convenevoli è confermata dalla parodia che ne farà l'inflessibile zio Bernardino (Ritorno, rr, 6).
Da questo punto di vista, la trilogia si potrebbe leggere come un vero e proprio manuale di etichetta sceneggiato, e il libro da cui Giacinta spera di cavar la forza per guarire dalla sua passione, Rimedi per le malattie dello spirito 16 (Ritorno, II, 2) fa pensare a tutta una ricchissima letteratura, specialmente francese, sul protocollo e sulle buone maniere, dai prontuari (di un secolo prima!) studiati recentemente da Philippe Ariès a quelli anche piú numerosi del Settecento (uno dello stesso anno delle Villeggiature: Pons-Augustin Alletz, Manuel de l'homme du monde..., Parigi 1761) 17.
In questa diffusa e assillante preoccupazione dei nostri villeggianti per le convenienze si inserisce come caso particolare la mania vestimentaria: seguire la moda non è un semplice capriccio o segno di frivolezza, ma un altro modo di « sentirsi in regola ». Di qui i tanti elenchi declamati o mormorati come giaculatorie: « mantiglie ... mantiglioni ... cuffie da giorno ... cuffie da notte ... forniture di pizzi, di nastri, di fioretti » (Smanie, r, 1);
« cuffie, cuffiotti, cappellini, cappelloni ... cappuccetti » (I, 10); « la polverina, gli scarpinetti colle fibbie di brilli ... colle calzoline di seta » (ibid.);
« una sopravveste di cambellotto di seta col suo cappuccetto » (ir, . 12);
« le scatole, la biancheria, le scuffle, gli abiti, il mio mariage » (III, 4);
« abiti, guarnizioni, gioje, pizzi di Fiandra, pizzi d'aria, fornimenti di bionda, scarpe, cuffie, ventagli » (Ritorno, r, 5): secondo uno stilema scenico a cui si uniformano il controcanto di Filippo (« Vitello prezioso, capponi stupendi, tordi, beccafichi, quaglie, starne, pernici »: Ritorno, III, 2), e la
16 Su questo libro non si hanno notizie (cfr. ORTOLANI in Opere, VII, 1417). Forse Goldoni aveva in mente qualche pubblicazione francese, come le Consolations pour les personnes valétudinaires di JEAN-HENRI-SAMUEL FORMAY, Berlin, Lange, 1758; un libro dal titolo analogo usci piú tardi: ANTOINE-JOSEPH PERNETY, O.s.B., Observations sur les maladies de l'âme, Berlin, Decker, 1777.
17 Per es. Bienséance de la conversation entre les hommes, anonimo, Pont-a-Mousson, 1617, e J. B. DE LA SALLE, Les règles de la bienséance..., Paris, 1713: cfr. ARIES 1960, pp. 120-26, 429-61. Per i molti manuali settecenteschi cfr. la bibliografia di MAUZI 1960, pp. 664-83.
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stessa autocritica di Giacinta alla fine della propria storia: « i miei deliri, gli affanni miei, le mie debolezze ... l'ambizione, la vanità, il fanatismo delle
mie superbe villeggiature » (ivi, III, 12).
Rappresentante principale e maestro dell'arte delle convenienze si afferma Guglielmo, già nelle Smanie (« Veramente quello che si fa dalla maggior parte, si dee credere che sia sempre il meglio »: i, 9), ma specialmente nel
Ritorno:
[a Leonardo] Favorite dirmi in che cosa ho mancato ... io non credo che un matrimonio fra due persone civili s'abbia a formare senza le debite convenienze (i, 8);
[a Vittoria] ... parmi che il decoro vostro esiga questo rispetto ... Il nostro debito ci sprona egualmente a quest'atto di convenienza ... ce n'è bisogno per quella massima di onestà, di decoro, che io ho suggerita ... So le mie convenienze, signora (n, 4);
[a Giacinta] Vuole la convenienza, che quando si riceve una lettera, si risponda (III, 8).
Sulla scorta degli esempi citati si potrebbe giustamente osservare che Guglielmo invoca il decoro e la creanza soprattutto per non impegnarsi troppo con Vittoria, e avanzare la sua causa con Giacinta. Ma che non si tratti solo di espedienti tattici, bensí di riflessi connaturati, ce lo dice proprio Giacinta quando spiega alla cameriera perché si è innamorata di lui:
« la sua civiltà, la sua politezza; quella maniera sua insinuante, dolce, patetica, artifiziosa, mi ha, mio malgrado, incantata, oppressa, avvilita ... quelle continue finezze, quelle parole a tempo, quel trovarsi vicini a tavola, sentirmi urtare di quando in quando (sia per accidente, o per arte), e poi chiedermi scusa ... » (Avventure, ii, 1).
« Carattere freddo e flemmatico » (come leggiamo due volte in dieci righe nella prefazione alla Avventure), « carattere che non arrivo ancora a
comprendere » (rincalza Leonardo nel Ritorno, i, 9), Guglielmo vive tutto ed esclusivamente in questa dimensione delle convenienze, un po' come
l'Agilulfo di Calvino in quella della cavalleria. Questa sua paradossale virtú gli acquista l'amore di Giacinta, e al tempo stesso lo rende inaccessibile a lei non meno che al pubblico, « personnage ... imparfait précisément dans la mesure où il n'existe pas en tant que personnage-personne mais seulement comme prétexte à la passion de Giacinta » (Joly 1978, p. 211).
Rispetto a Guglielmo Leonardo, l'uomo al quale Giacinta si unirà in matrimonio, presenta una consistenza psicologica appena superiore. Nelle Smanie egli vive soprattutto, come la sorella, del puntiglio di « comparire » in villeggiatura. Piú tardi, quando sospetta il sentimento di Giacinta per Guglielmo, Leonardo reagisce con truculenza melodrammatica: « non soffrirò vilmente l'insulto ... A costo di perdermi, di precipitarmi ... Sí per-
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fida, sí amico traditore, mi vendicherò, me la pagherete » (Ritorno, i, 10), e insieme con verbosa irresolutezza: « (Dovunque mi volga, non ravviso che scogli, che tempeste, che precipizi). Andate, dite alla signora Giacinta... non so che risolvere... ditele, quel che vi pare .... Son fuori di me, non so quel che mi voglia. S'accrescono i miei timori, le mie angustie, le mie crudeli disperazioni » (Ritorno, i, 13).
Tra il codice della buona creanza di Guglielmo, il registro metastasiano di Leonardo, l'irresponsabilità del padre che sembra rimbambire a vista d'occhio da una commedia all'altra, Giacinta si trova circondata da uomini che le sono nettamente inferiori, squallidi o ambigui manichini. Si tratta di un effetto voluto, che interiorizzando il dilemma della protagonista accentua la sua solitudine — una solitudine quasi ibseniana — e dunque la piena responsabilità delle sue scelte. Al tempo stesso, la palese inadeguatezza del padre e dei due innamorati lascia sgombro il campo, per cosí dire, all'unico contrasto profondo delle Villeggiature, che determina come vedremo la condotta di Giacinta, fra la ragazza e il vecchio amico di casa Fulgenzio.
3. Giacinta, che si definisce esattamente una « fanciulla saggia e civile » (Avventure, in, 3), appartiene al gruppo delle borghesi goldoniane piú evolute, come Giannina, la spigliata e studiosa olandese dei Mercatanti (1753); d'altra parte l'autore poteva contare sul « temperamento » della Bresciani, l'attrice destinata a interpretarla sulla scena, perché una plausibile emotività venisse a insidiarne la canonica e lodevole flemma. Cosí si potrebbe dire che la protagonista della trilogia è una Giannina-Ircana mise en situation, cioè immersa in una realtà equidistante dagli estremi ugualmente f avo-losi della schiavitú persiana e dell'emancipazione nordica.
L'arma principale di Giacinta è l'intelligenza, un'intelligenza che gli esegeti delle Villeggiature hanno rilevato specialmente nelle scene delle Smanie in cui mortifica maliziosamente Vittoria (iI, 12), o convince il padre a fare il contrario di ciò che aveva deciso, lasciandolo per di piú pieno di ammirazione per la logica e il buon senso della figliola (n, 10). Ma il tratto veramente distintivo di questa intelligenza, rispetto a quella di altre donne goldoniane, è la lucidità introspettiva: per cui, ad esempio, quando Brigida cui Giacinta si è confidata osserva che la colpa è di Filippo, che ha invitato Guglielmo a villeggiare con loro, la padroncina risponde: « Sí, è vero, vo studiando anch'io di dar la colpa a mio padre », ma insiste che se si è esposta alla tentazione la colpa è sua, per « la maledetta ambizione di non voler dipendere » (Avventure, ii, 1).
Di fatto, la storia di Giacinta è un tessuto di comprensibili errori e di riflessioni autocritiche, in cui l'eroina si fa di volta in volta storica severa del proprio dramma: « Ho avuto fretta di maritarmi, piú per uscire di sog-
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gezione, che per volontà di marito. Ho creduto, che quel poco d'amore ch'io sentia per Leonardo, bastasse per un matrimonio civile ... » (Avventure, III, 2). A questo primo errore, di sottovalutare la possibilità di un sentimento piú forte, di credere che a una fanciulla civile basti sempre un matrimonio civile, segue l'altro dell'invito a Guglielmo per « educare » Leonardo alla fiducia. Una volta innamorata dell'ospite, la ragazza teme di perdere
« il decoro, la reputazione, e l'onore », e precipita le cose, forzando praticamente Guglielmo a dichiararsi per l'ignara Vittoria.
In questa situazione si è visto spesso un conflitto di tipo cornelliano fra amore e dovere, e anzi un autorevole goldonista si è rammaricato che la conclusione accomodante del Ritorno spezzi « la forza di questo motivo drammatico ». Ma per prendere sul serio il dilemma di Giacinta fra fedeltà
e passione lo stesso critico si lascia tentare dalla congettura che il fidanzamento con Leonardo celi « un effettivo stato coniugale » (Binni 1978, p. 136-37). Ora, chi ha avuto la pazienza di leggermi fin qui avrà già capito che queste pagine nascono proprio dall'insoddisfazione per il cliché di una Giacinta adultera mancata ed eroina romantica rimasta a metà strada.
Per difendere la conclusione della trilogia si potrebbe osservare intanto che i matrimoni senza amore di Giacinta e Leonardo, Vittoria e Guglielmo, obbediscono alla stessa, distorta logica della villeggiatura per cui si va in campagna col freddo, si dorme di giorno e si veglia di notte, ecc. Non sarà un caso che l'unico matrimonio che si annuncia felice, alla fine della trilogia, sia quello fra Brigida e Paolino, gli stessi domestici che nelle prime scene delle Avventure s'erano mostrati capaci di godere davvero la campagna: « BRIGIDA: A giorno la padrona mi ha fatto chiamare ... l'ho messa a letto ...
e mi sono bravamente vestita. Ho fatto una buona passeggiata in giardino, ho raccolto i miei gelsomini, e ho goduto il maggior piacere di questo
mondo. PAOLINO: Cosí veramente qualche cosa si gode. Ma che cosa
godono i nostri padroni? ».
Ma la ragione piú profonda del comportamento di Giacinta si farà chiara, senza ricorrere a ipotesi « infratestuali » come quella ricordata, quando avremo risposto alla domanda che sta veramente al centro della storia: perché Giacinta non rompe il fidanzamento con Leonardo, usando col padre la sua brillante dialettica, e facendo leva sull'argomento plausibilissimo che la situazione economica del giovane è molto piú difficile di quanto tutti pensassero?
Con la consueta lucidità, Giacinta è perfettamente consapevole dell'onorevole scappatoia che le si offre, eppure la rifiuta:
... se mio padre fosse debole a segno di volermi sagrificare, sarei io obbligata ad acconsentire alla mia rovina? No, non sarei obbligata ... Che cosa mi ha trattenuto finora dal recedere da un impegno che non è indissolubile, e preferire ad uno
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sposo, sí poco amato, un oggetto amabile agli occhi miei? Non altro che il mio decoro, il giusto timore di essere criticata; qualunque trista avventura dell'infelice Leonardo non metterebbe al coperto la mia debolezza ... Si ha da penare, si ha da morire. Ma si ha da vincere, e da trionfare (Ritorno, II, 11).
Proprio la stonatura della clausola eroica alla fine del lungo monologo — come se per un momento le inclinazioni metastasiane o « chiaresche » dell'interprete Bresciani prendessero il sopravvento sullo stile raziocinante del personaggio Giacinta — è la spia della difficoltà che incontra quest'ultima a trovare un linguaggio adeguato alla sua linea di condotta.
Un matrimonio con Guglielmo, che resta fino alla fine alla sua portata, non implicherebbe affatto la perdita dell'onore o della reputazione 18, ma la farebbe semplicemente « rientrare nei ranghi » di un comportamento femminile medio, rassicurante, paternalisticamente teorizzato dai borghesi che la circondano: piú precisamente, la pubblica ammissione che la vicinanza
e le attenzioni di un bellimbusto le hanno fatto mutar sentimenti e pensiero varrebbe quanto dar clamorosamente ragione al « saggio » Fulgenzio, assertore della debolezza delle donne e vero antagonista di Giacinta nelle tre commedie. Fin dalle Smanie egli ammonisce Filippo: « Non si lasciano praticar le figlie. Capite? Non si lasciano praticare ... È donna. Oh, oh! mi dicevate: è prudente. Ed io vi diceva: è donna » (III, 10); e nel Ritorno rias-serisce a beneficio di Leonardo la sua convinzione che le donne sono esseri infantili e fragili, bisognosi di guida e dell'autorità maschile: « Quando non vi siano maggiori obbietti per concludere le vostre nozze, ella, o per amore
o per forza, sarà obbligata a venir con voi ... Veramente la signora Giacinta è un po' capricciosa e ostinatella ... (Oh libertà, libertà! Come in oggi si maritano le fanciulle!) » (III, 1).
Per capire il significato del confronto fra il « femminismo » di Giacinta
e l'antifemminismo di Fulgenzio dobbiamo fermarci un momento a considerarlo nel quadro di un dibattito sulle donne e sulla loro educazione vivace dappertutto nel Settecento, e a Venezia, in particolare, vecchio di secoli: dalla proverbiale attività delle cortigiane-poetesse del Cinquecento ai casi esemplari e opposti, nel secolo successivo, di Arcangela Tarabotti monaca per forza, che dalla sua cella alza la protesta dell'Inferno monacale e della Semplicità ingannata, e di Elena Corner Piscopia, prima donna mai laureatasi a Padova (cfr. Molmenti 1926, pp. 355-59).
Un panorama ampio e preciso della letteratura femminista in Italia nel
18 Per la possibilità di rompere senza scandalo un impegno matrimoniale a Venezia si veda quanto scrive il BARETTI nel suo Account of the Manners and Customs of Italy di certe nozze fra una Barbarigo e uno Zen disdette all'ultimo momento « for no other reason but because the bride took a disgust to the young man... » (London, T. Davies & L. Davis, 1768, I, 94-95).
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secolo dei lumi si trova nel capitolo Gli studi delle donne nel Settecento di Giulio Natali dal quale risulta tra l'altro la precocità e l'abbondanza degli interventi veneziani rispetto, poniamo, a quelli milanesi (che vanno dall'anonima e notevole Difesa delle donne nel i tomo del « Caffè » — 1765 — all'ode pariniana La laurea), o a quelli europei in genere, culminati in quell'Essai sur le caractère, les moeurs et l'esprit des femmes dans tous les siècles di Antoine-Léonard Thomas che provocherà nel 1772 l'abate Galiani a buttar giú il suo breve e misogino Dialogue sur les f emmes 19.
Ma quel che colpisce a Venezia è la varietà e la veemenza delle opinioni, come se, per un effetto simile a quello notato fra gli ospiti di don Gasparo nella Villeggiatura, la stretta coabitazione nel centro lagunare attizzasse fra i letterati il gusto della replica e della contraddizione: talché per esempio Il filosofismo delle belle pubblicato nel 1753 dall'abate Giovanni De Cataneo « per distogliere le donne dal vano amore della filosofia » (Natali 1955, r 137) induce l'abate G. Melani a sostenere l'ottima disposizione delle fanciulle alle scienze nel suo Libro delle donne (parte r, 1757).
Nel tempo di cui ci stiamo occupando, a cavallo fra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, questa « guerra di abati » si fa piú fitta e piú seria, perché vi si riflettono posizioni e interessi non solo letterari. Basta rileggere certi articoli di Baretti nella « Frusta », scritta e pubblicata a Venezia a partire dall'ottobre 1763 (sull'anonimo La dama cristiana nel secolo. Lettere familiari del Marchese di... al Conte di... suo amico: n. n; e specialmente sul Tradimento scoperto negli amoreggiamenti e nelle conversazioni tra uomini e donne, di Giambattista Bonomo: n. xvi) per riconoscere in Aristarco Scannabue un partigiano del cattolicesimo antiascetico professato dai suoi amici della Compagnia di Gesti (cfr. Neri 1899), in un momento in cui Daniele Concina e gli altri rigoristi domenicani del Convento del Rosario alle Zattere scatenano contro il lassismo dei gesuiti una campagna destinata a diventare presto generale in Italia (cfr. Vecchi 1960, pp. 142-48).
19 Vedilo, col titolo originale Croquis d'un dialogue sur les femmes e preceduto da informatissimi preliminari del curatore GUERCI, in Illuministi italiani 1975, pp. 615-42. Sul libro di Thomas si veda anche la recensione di DIDEROT per la « Correspondance littéraire » di Grimm, in Oeuvres a cura di André Billy, Paris, Gallimard, 1951, pp. 977-88. Fra il cinismo di Galiani e il lirismo di Diderot spicca l'equilibrata posizione di GIUSEPPE MARIA GALANTI nelle Osservazioni sopra la nuova legge abolitiva de' delitti di stupro (appendice alla III ed. delle Osservazioni intorno a' romanzi... con un Saggio sulla condizione delle donne e sulle leggi coniugali, del 1786), in Illuministi italiani, 1962, pp. 1024-30: « Quale condizione piú misera delle donne! Esse non tanto sono da compiangere, per non poter vivere senza guardiani e protettori; per non aver altra regola che la volontà degli uomini, che per lo piú sono insolenti, brutali e ingiusti; quanto per dover soffrire la tirannia della decenza e dell'opinione, da che è piaciuto a cotesti padroni di riporre l'onor delle famiglie nella loro condotta, volendo essi nulladimeno ritenere i propri vizi » (p. 1024).
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Il moderato « femminismo » di un conservatore come Baretti, in cui le simpatie gesuitiche si combinano con il ricordo delle colte e disinvolte amiche londinesi, fa pensare che già allora (come oggi) una presa di posizione piú o meno avanzata sulla questione femminile non fosse sempre automaticamente riconducibile a un'ideologia « progressista » o reazionaria. Di tale impressione troviamo conferma negli scritti di Gasparo Gozzi, in genere tanto piú illuminato del Baretti e sposato a Luisa Bergalli, la piú attiva e pugnace scrittrice veneziana prima della giornalista Elisabetta Caminer Turra.
Mentre la moglie non si stanca di rivendicare la parità intellettuale delle donne (pubblicando tra l'altro nel 1773 una importante raccolta di Rime di Donne illustri che meriterebbe una ristampa), Gasparo rimane profondamente convinto di una disuguaglianza fra i sessi voluta dalla natura, la quale — come egli scrive in una Diceria fatta paradossalmente in difesa delle donne — « non potea, verbigrazia, metter nell'uomo forza virile e dilicata bellezza, ed ella compose un uomo forte e una donna bella ... ella fa un uomo che studia, ed una donna che danza con leggiadria »2°.
Lo stesso ideale femminile tutto debolezza e frivola grazia torna nelle pagine della « Gazzetta veneta » (1760-61) e dell'« Osservatore » (1761-62) 21: mentre nel sermone a Pietro Fabri sulle villeggiature la moglie borghese smaniosa di imitare la nobiltà è paragonata a « ... debil rozza, che sdegnosa / L'animoso corsier andarsi avanti / Vede, ne sbuffa, e trottar vuole anch'essa / Spallata e bolsa; e tu che la cavalchi, / Ti rompi intanto il codrione e il dosso » zz
Si potrà osservare di passaggio che nei vagheggiamenti e nelle idiosincrasie di Gozzi si rifletteva piú da lontano il devoto rispetto, veramente da « scudiero dei classici » per dirla col Carducci, di una tradizione letteraria
2D Lettere diverse, Parte II, al signor Giovanni Marsili, in Scritti scelti, a cura di Nicola Mangini, Torino, UTET, 1967, pp. 91-99. A titolo di curiosità, ma anche come indice della persistenza di certi luoghi comuni in un determinato ambiente (la piccola nobiltà cattolica veneta), val la pena di ricordare un passo del Daniele Cortis di Fogazzaro: « ... disprezzare il mondo ed unirsi, lei, la piú bella, egli, il piú forte! »: Tutte le opere, a cura di Piero Nardi, Milano, Mondadori, 1931, III, 166.
21 « La Gazzetta veneta », nn. 92 e 93 (20 e 24 dicembre 1760), Lettera di Jeniceo ad Antropeo in difesa delle donne, nell'ed. a cura di Antonio Zardo, Firenze, Sansoni, 1915, pp. 408-10, 415-17. « L'Osservatore veneto », Discorso sulla scelta di una donna degna di essere amata, nell'ed. a cura di Emilio Spagni, Firenze, Barbera, 1914, pp. 117-20; Discorso dell'educazione delle donne, ivi, pp. 141-44. Il primo di questi due discorsi, in cui un corrispondente narra d'aver perduto il favore di una prude per aver mantenuto la promessa fattale di non importunarla con profferte amorose, potrebbe aver suggerito a Goldoni la prima idea per Les inquiétudes de Camille (quindi di Zelinda).
22 Scritti scelti, cit., pp. 221-26.
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misogina come quella italiana, piú da vicino l'inappagata nostalgia per una sorte diversa da quella che gli era capitata, fra due donne intelligenti e formidabili come la madre contessa Tiepolo e la moglie Irminda Partenide.
Al polo opposto rispetto alle creature vaporose e femminili sognate dal conte Gasparo stanno le eroine coraggiose e riflessive dell'abate Chiari, che scrivendo la loro storia in prima persona osano confessarsi brutte, come la protagonista della Francese in Italia (Venezia, 1759), o ammettere che « accendersi possa tra donna e donna una passione amorosa », come la Bella pellegrina nel romanzo omonimo dello stesso anno In questi romanzi — per limitarci a due fra i migliori e cronologicamente piú vicini alle Villeggiature — vediamo prender consistenza un tipo, sostanzialmente nuovo nella nostra letteratura, di donna indipendente e decisa, leale con gli amici ma scettica sui motivi di quanti la circondano, convinta che nei rapporti sociali contano soprattutto le apparenze. Le « memorie » di queste dame sono costellate di massime: « La prima bellezza d'una giovane, che vada a marito, vien dalla dote ... Chi serve per vivere, ha non di rado un'anima venderec-cia, che si fa un idolo del favor de' padroni: ma non adora in essi che la propria fortuna ... ella ha stabilita la massima di voler piuttosto non esser mai sposa, che vedersi madre in pochi anni d'una famiglia di miserabili » 24, che si informano alla dottrina illuministica dell'amor sui: « Il solo interesse viene ad essere l'anima di tutte le nostre vicende. Qual cosa si fa per gli altri, che non si faccia colla gran massima universale di vederlo ridondare in pro' di noi stessi? ... Senza questo spirito d'interesse non sarebbe il mondo che una società di sfaccendati incapaci di muovere un passo per se medesimi » u e tendono verso un « machiavellismo di società » vagamente presago di quello abbozzato da Leopardi nell'amara solitudine di Recanati: « L'esito è quello, che giustifica le azioni degli uomini, perocché ordinariamente si attribuiscono a lode dell'umana prudenza anche le favorevoli stravaganze del caso ... non volli, che mancasse né d'oriuolo, né di tabacchiera, né d'anelli di non poco valore; cose necessarie oggidí piú d'ogni umano talento presso il volgo ignorante, per conciliarsi la venerazione, e l'onore »26.
La stantia e « sfiduciata visione della donna » del Gozzi (Berengo 1962, p. xxxiii), il piú autorevole e acuto critico di Goldoni a Venezia, e le audacie « filosofiche » del suo rivale Chiari costituiscono come dicevo le posizioni estreme di un dibattito che l'autore delle Villeggiature non poteva certo
23 La bella pellegrina, Venezia, Molinari, 1819, II, 116.
24 La Francese in Italia, Venezia, A. Rosa, 1806, i, 28, 42, 52.
25 La bella pellegrina, ii, 101-2.
26 La Francese in Italia, i, 156, 175.
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ignorare, sullo sfondo del quale vanno considerate le riflessioni e le reazioni dei suoi personaggi femminili.
Pieno di simpatia per l'aspirazione delle fanciulle alla cultura e alla libertà, ma anche di rispetto per i prudenti valori e le strutture difensive della borghesia veneziana, Goldoni s'era dapprima limitato a celebrare in commedie diverse l'educazione liberale delle straniere (come nei Mercatanti già ricordati) e la vocazione casalinga delle sue concittadine, come nella Buona famiglia del 1755:
ISABELLA: Perché non fa insegnare anche a me, signor padre, che imparerei tanto volentieri le lettere?
FABRIZIO: Figliuola mia, le lettere non sono per voi. Non dico già che non aveste ingegno atto ad apprenderle, che so benissimo altre valenti donne averle egregiamente apprese; ma le cure devono essere distribuite. La briga della casa non è poca briga, sapete? e le donne vi si adattano meglio; e voi, o qui o altrove, avrete bisogno d'essere istruita in ciò piú che in altro; e i lavori di mano che fate voi altre donne, sono utili alla famiglia quanto le arti che proprie sono dell'uomo. Contentatevi di far quello che a voi si destina, e piú del talento fate conto della bontà di cuore. Imitate la madre vostra e sarete certa di riuscir bene (I, 9).
La paternalistica unzione di un discorso come questo sembra fatta apposta per suscitare le ire e le denunce delle femministe del Chiari (si ricordi la tirata della pecoraia Cefisa nella Pastorella fedele), o delle stesse eroine, Ircana, La Dalmatina, La bella Giorgiana, con cui dopo la metà degli anni Cinquanta Goldoni parava le iniziative del concorrente n. Ma nel 1761 tale meccanica giustapposizione non basta piú: Giacinta rappresenta appunto una ponderata risposta alle coriacee filosofesse della letteratura alla moda, la dimostrazione che carriere libere e dall'esito felice come quelle della Francese e della Pellegrina — cosí come, fuori d'Italia, di Pamela e di Marianne — sono possibili solo al prezzo di un distacco iniziale del personaggio dal proprio ambiente, e della sua successiva immersione in quell'universo di avventure, pericoli e piaceri che costituiva allora la condizione del romanzo picaresco, e costituirà piú tardi, opportunamente intellettualizzato, quella del Bildungsroman '.
n Per La pastorella fedele v. qui sopra, p. 378: e cfr. per esempio la protesta di Ottiana nella Bella Giorgiana di Goldoni: « O ingratissimo sposo! o indegno abuso / Di viril libertà! Non siam noi donne / Metà dell'uom che ci calpesta e opprime? » (n, 5).
zs Entrambi i generi erano e resteranno « piante esotiche sul nostro suolo », per estrapolare da De Sanctis. Al posto dell'individuo che cresce nell'attrito col « mondo » fino a conseguire un successo proporzionato alla maturità raggiunta, noi abbiamo il tessitore che diventa piccolo imprenditore con l'aiuto della Provvidenza, ma non ha
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La scelta della borghese italiana dentro gli orizzonti chiusi, quasi tribali della sua famiglia e della sua classe, andava da una eteronomia serenamente accettata a una sterile e dolorosa autonomia. A Leonardo che nel turbamento di Giacinta alla fine del Ritorno vede un « segno di poco amore » e di decisione forzata, la fanciulla può rispondere: « No, forzatamente non mi conduco a sposarvi. Niuno potrebbe usarmi violenza, quand'io non fossi da me medesima persuasa » (III, 12). Giacinta sacrifica la propria felicità alla propria immagine, o meglio rifiuta di concepire una felicità che implichi la correzione e la banalizzazione di tale immagine: « E che vorresti tu ch'io facessi? Che mancassi alla mia parola? che si lacerasse un contratto? L'ho io sottoscritto ... È noto ai parenti, è pubblico per la città. Che direbbe il mondo di me? ... Si tratta della reputazione » (Avventure, II, 1).
In mancanza di meglio, fra linguaggio metastasiano e linguaggio mercantile Giacinta sceglie quest'ultimo. Trascurati ormai dal padre, i vecchi valori dei mercanti vengono ricuperati dalla figlia, che cerca di asserire la propria intelligenza e autonomia all'interno del sistema che essi rappresentano, non fuori e contro di esso, sperando di forzare Fulgenzio al rispetto invece che alla condanna. « Ringrazio il signor Fulgenzio del bene che dall'opera sua riconosco, e vi assicuro, signore, che non me ne scorderò fin ch'io viva », gli dirà nel commiato, un commiato in cui tutte le espressioni di tenerezza rivolte mentalmente a Guglielmo sono invece indirizzate al padre.
In questo senso, « Giacinta c'est moi » avrebbe potuto dire Goldoni, che leggeva e collezionava romanzi ma non ne scriveva ~, come la ragazza è innamorata di Guglielmo ma non lo sposa. Dobbiamo subito aggiungere che, ancora come in Flaubert, la complessità e verità del personaggio è direttamente proporzionale alla scarsa indulgenza, anzi all'antagonismo dell'autore, al tempo stesso « fraterno » e « spietato » nei suoi riguardi, come ha scritto felicemente Anna Banti (1961, p. 37).
L'eccesso di intellettualismo che Goldoni presta a Giacinta si tinge di sfumature narcisistiche, per cui le si addice in fondo quanto Madame Ro-
diritto d'aver imparato altro che la rassegnazione, o la metamorfosi, mista di malinconia e di malizia, del burattino in bambino buono. Mentre chi cerca di capire, come Ntoni Malavoglia, è giustamente punito con la prigione e l'esilio.
29 Oltre agli elogi della Bibliothèque des romans e ai giudizi su Rétif de la Bretonne e Sébastien Mercier nei Mémoires, in, 33 (Opere, I, 567 e 579), cfr. la lettera del 5 maggio 1780 a Vittore Gradenigo, con l'offerta di vendita della sua biblioteca: « Ho ... un'altra raccolta di romanzi francesi in numero di 135 volumi... » (Opere, xiv, 389). Per contro, cosí s'era espresso il Goldoni sulle commedie del Chiari in una lettera del 1751 all'Arconati Visconti: « novità che fanno bene al teatro, ma non molto all'autore. Romanzi e poi romanzi... » (Opere, xxv, 177). Nel 1791, come è noto, Goldoni pubblicherà una sua traduzione dell'Histoire de Miss Jenny di Mme Riccoboni.
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land scriverà di sé, in attesa di esser condannata a morte: « dans des situations périlleuses, je suis restée sage par volupté, lorsque la séduction m'aurait entraînée à oublier la raison ou les principes » 30. « Io non la prenderei, se avesse centomila scudi di dote », osserva Fulgenzio in controscena dopo la grande « arringa » della ragazza alla fine delle Smanie; e Goldoni nella prefazione alle Avventure: « La baldanza di Giacinta è mortificata, ... I pronostici di Fulgenzio verificati ... » (Opere, VII 1079).
In un unhappy ending raro per lui, e tanto piú eccezionale in quanto preparato da ben nove atti, l'autore guarda impassibile la sua creatura avviarsi al sacrificio (« Si ha da penare, si ha da morire... »), pietosa vittima in mariage e spolverina di un superego cui per ragioni diverse entrambi obbediscono. Ma proprio nel clima rilassato delle Avventure, quando il balletto dei convenevoli si fa piú rapido e la voce del calcolo e del pettegolezzo piú stridula, Goldoni concede alla sua protagonista una momentanea rivalsa: « Lode al cielo, son sola. Posso liberamente sfogare la mia passione, e confessando la mia debolezza... Signori miei gentilissimi, qui il poeta con tutto lo sforzo della fantasia aveva preparata una lunga disperazione, un combattimento di affetti, un misto d'eroismo e di tenerezza. Ho creduto bene di ometterla ... » (sc. ultima). Giacinta reagisce al distacco dell'autore rifiutandosi di collaborare: il che vuol dire, fuor di metafora metateatrale, che lo sfogo (e il ricupero patetico-edonistico della situazione) in chiave melodrammatica è smascherato come facile letteratura e ricusato sotto gli occhi del pubblico.
In circostanze che le impediscono di conciliare la propria femminilità e la propria intelligenza, Giacinta sa di esser punita per aver scelto fin da principio di comportarsi piú « da uomo » degli uomini che le stanno attorno. Se questa, consenziente o meno l'autore, può essere una delle conclusioni delle Villeggiature, allora il sacrificio di Giacinta, inutile a lei, serve forse ad altre, e dietro le ragioni familiari e religiose di Antigone spuntano quelle politiche di Ifigenia.
FRANCO FIDO
3o Mémoires de Mme Roland, Paris, Librairie de la Bibliothèque Nationale, 18831898, in, 109. Madame Roland interessa il nostro argomento anche per il Discours presentato nel 1777 all'Académie de Besançon sulla questione « Comment l'éducation des femmes pourrait contribuer à rendre les hommes meilleurs » (lo svolgimento non è meno convenzionale del tema): vedilo in MADAME ROLAND, Une éducation bourgeoise au XVIIIeme siècle, Paris, Union générale d'éditions, 1964, pp. 159-81.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
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Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 7 Giorno: 31
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