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tipologia: Analitici; Id: 1465112


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Gillo Dorfles, Noterelle e schermaglie. Una cinquecento tutta di marmo
Responsabilità
Dorfles, Gillo+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Baladi, Roland+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
NOTERELLE E SCHERMAGLIE
UNA CINQUECENTO TUTTA DI MARMO
Mi è accaduto, di recente, di osservare il comportamento della gente che passava in via Manzoni — nel pieno centro di Milano — davanti a una galleria d'arte dove era parcheggiata, come se fosse stata una normale utilitaria, una vecchia Fiat 500, proprio di quelle che furono battezzate « topolino », ma costruita in marmo.
Si trattava della « scultura» d'un curioso artista francese — Roland Baladi —il quale da qualche tempo dedica tutta la sua attività a eseguire repliche fedeli — anzi fedelissime — di oggetti domestici (macchine da cucire, da scrivere, libri, poltrone), tutte in purissimo marmo di Carrara.
Si dirà che la cosa non è nuova, che già molti artisti pop, americani e non, hanno prodotto dei fac-simili ingranditi o meno di tali oggetti: tipico il famoso tubetto di dentifricio gigante di Oldenburg; o hanno addirittura preso a prestito degli oggetti cosí come erano includendoli nelle loro opere, nei loro combine-paintings, per « decontestualizzarli » (come si usa dire oggi che questo problema del contesto è divenuto particolarmente di moda).
Ma il processo cui alludevo piú sopra è del tutto diverso: l'artista francese realizza, con meticoloso impegno dei fac-simili di oggetti d'uso il cui maggior merito è quello di essere di marmo, e non di qualche vile materia plastica (come è stato compiuto ad esempio con i personaggi dell'americano Duane Hanson, cosí perfetti da sembrare veri). Questi oggetti, invece, danno subito a riconoscere la loro qualità marmorea; anche da lontano si rivelano per essere delle copie conformi ma assurde e paradossali dei loro modelli. Ben piú assurde di quanto non siano i funerei calchi gessosi d'un George Segal.
Il caso del « topolino » di cui sopra, poi, era ancora piú ambiguo; e infatti la gente si fermava esterrefatta o perplessa, da prima incredula, poi insospettita, finché finalmente si decideva a « toccar con mano » l'oggetto che sulle prime aveva magari creduto autentico, o tutt'al piú di lamiera verniciata di bianco, mentre poi si rendeva conto che proprio di marmo si trattava, di freddo, levi-gatissimo, compatto marmo. In alcune giornate invernali quando un leggero nevischio avvolgeva il centro della città, la 500 pareva ricoperta d'un impalpabile strato ghiacciato che accresceva la sua apparenza realistica e assurdamente veritiera.
Perché ho creduto di portare questo esempio, prescindendo ovviamente da ogni giudizio critico, da ogni valutazione assiologica, circa l'opportunità di questa operazione? Perché mi sembra che si tratti di un caso simile e insieme opposto
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a quello che a suo tempo ebbe a riferire Gombrich nel suo ben noto volume Arte e Illusione 1. Gombrich, in quel testo racconta: « I remember a visit
I made to one of Queen Victoria's residences, Osborne, on the Isle of Wight, which is still the principal monument to that incredible taste which seems more remote to us, than the taste of primitive cultures. Prominent among the works displayed there was a life-size marble sculpture of a large furry dog, a portrait of the Queen's beloved pet "Noble". The portrait must have been as faithful as the dog undoubtedly was— but for the lack of color it might have been stuffed.
I do not know what impelled me to ask our guide: "May I stroke him"?. She answered, "Funny you want to do that; all the visitors who pass stroke him - we have to wash him every week" ». La spiegazione che lo storico dell'arte dà di questo fatto, è che, nonostante tutto, c'è in noi una segreta disposizione a credere che l'opera d'arte in questione sia provvista d'una componente magica. Accarezzando il cane miriamo, tutto sommato, a rassicurarci che si tratta proprio d'un oggetto marmoreo, dunque d'un'opera d'arte e non d'un amuleto o d'un qualche ordigno magico.
Ma anche questa giustificazione non è sufficiente per il nostro esempio. Cosa muove i passanti a toccar con mano e a sostare incuriositi davanti alla 500? A prescindere dall'aspetto insolito o dal dubbio circa il materiale di cui è costruita, credo che la vera ragione sia ancora una volta quella della somiglianza. La copia in pietra somiglia in maniera quasi perfetta all'originale, ma è una somiglianza del tutto diversa da quella che ingannò i celebri uccelli venuti a beccare il grappolo d'uva dipinto da Zeusi o lo stesso Zeusi quando, di fronte a un'opera di Parrasio, tentò di scostare il lembo di tela che la copriva prima di avvedersi che si trattava d'un particolare dipinto.
Nessuno, invece, neppure per un momento, nel nostro caso crede che la macchina da cucire sia vera o che lo sia la poltrona con i suoi cuscini afflosciati o l'automobile con la sua capote che imita la tela. La somiglianza — e per di piú una somiglianza raggiunta con mezzi artigianali e non meccanici, dunque con mezzi molto diversi da quelli dei multipli pop — è tale da ricondurre lo spettatore a un'epoca ormai trascorsa quando la « copia dal vero », la realisticità d'un
quadro o d'una statua, costituivano una delle mète piú ambite di ogni artista. Ma quello che soprattutto viene messo in evidenza da questa acuta rassomi-
glianza è, credo, la dimostrazione d'una valenza « magica », incantatoria, della copia, che, nonostante ogni contraria opinione o convinzione, continua ad agire malgré nous e a presentare un'efficacia analoga a quella che, secondo Kerény avrebbero avuto gli eidola per gli antichi Greci 2.
Secondo Kerény, infatti, gli eídola possono essere descritti come immagini in uno specchio, come immagini che abbiano una somiglianza spettrale: « gli
eídola erano creati dagli dei per ingannare i mortali » (p. 168), mentre tutt'altro significato hanno le eikónes; « eikón, in senso stretto, è l'immagine storica [...]
1 E. H. GOMBRICH, Art and Illusion, New York, Pantheon Books, 1960, p. 114.
2 KAROL KERENYI, Agalma, Eikón, Eidolon, in Demitizzazione e Immagine, Padova, Cedam, 1962, pp. 161-171.
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troviamo detto esplicitamente che agli dei convengono gli agálmata e agli uomini le eikónes ». Solo per il cristianesimo le eikónes sono considerate immagini di culto: « la icona cristiana vuole essere storica e non soltanto simbolica ». Quanto al termine ágalma « questo termine, usato per lo piú per le immagini sacre, [...] è la fonte perpetua d'un evento al quale si suppone che la divinità prenda parte non meno dell'uomo [...] gli agálmata erano la gioia degli dei ai quali, attraverso gli agálmata, andava l'adorazione ».
Forse questa antica tripartizione delle immagini (un po' diversa e piú sottile di quella adottata dagli odierni semiologhi), può avere ancora una sua ragion d'essere; soprattutto in quanto supera la polemica, alquanto sterile, attorno all'iconismo e per contro privilegia l'immagine (l'icona) meramente mimetica rispetto a quella che contiene in sé un quid di religioso; o diciamo meglio — per allargare i termini della sua sfera d'azione — addirittura di magico.
Ancora oggi, infatti, dopo che tanti prodigi tecnologici — piú o meno benefici — ci hanno consentito la replica fedele del mondo esterno attraverso fotografia, cinema, olografia, siamo dilaniati da un dubbio: il dubbio se dare la nostra preferenza a un'immagine tecnicamente perfetta o ad una immagine magicamente efficace.
Il culto dell'immagine — non solo dell'immagine religiosa, dell'immagine devozionale —, ma della stessa nostra immagine considerata come qualcosa che partecipa della nostra personalità e forse della nostra stessa « entelechia », non riesce ad abbandonarci: ne sono una prova i tanti episodi di un istintivo terrore per il « furto della propria immagine » (nel caso, ad esempio di una normale ripresa fotografica) da parte, non solo di popolazioni « barbariche », ma persino di coltissimi monaci buddisti i quali spesso sono giunti a vietare che venissero fotografate le statue (i simulacri: gli agálmata, dunque) delle loro divinità, proprio per una ragione analoga a quella delle superstizioni barbariche.
Tutto ciò sta dunque a dimostrare che c'è in noi il desiderio e l'impulso a copiare, a replicare, a rappresentare, nel modo piú esatto possibile, la realtà del mondo esterno; e, al tempo stesso, un impulso a credere che questa copia, questo simulacro (o diciamo addirittura: questo feticcio, se vogliamo usare la parola nella sua accezione portoghese di feitiço) abbia davvero le caratteristiche — iconiche in questo caso nel senso piú completo della parola — dell'oggetto o della persona di cui è la rappresentazione.
La magia d'un volto ritratto o specularmente osservato non è diversa dalla magia del « topolino » marmorizzato: entrambe non solo presentano alcune delle caratteristiche dell'oggetto che vogliono denotare (secondo l'antica definizione morrissiana) ma possiedono parte di queste caratteristiche, o forse ci lasciano credere di possederle. E stimolano nella nostra mente la credenza — il belief — in una qualità magica che consenta alle stesse di agire nei nostri riguardi e in quelli degli altri spettatori, in maniera — benefica o malefica — ma comunque misteriosa e quasi soprannaturale.
Forse è proprio qui una delle spiegazioni piú convincenti del perché della corsa alla somiglianza; del perché del tendere dell'uomo a creare delle repliche
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di sé, del prossimo, delle cose che lo circondano. Certo: rimangono insoluti o piú o meno giustificati i problemi del perché della diversità tra i diversi metodi del ritrarre, del rappresentare, lungo il corso dei secoli: se ne sono interessati innumerevoli studiosi e sarebbe inutile riassumerne le opinioni e le conclusioni. Che la prospettiva usata, abbandonata, e ritrovata, dipenda da motivazioni simboliche o scientifiche, che il trompe-l'oeil sia meritorio o deprecabile, che la resa oleografica e meticolosa sia meno « artistica » di quella impressionistica o astrat-teggiante, sono quesiti che qui non interessano, perché quello che mi preme di precisare non è l'aspetto estetico ma quello antropologico di questa incessante ricerca umana.
L'uso dell'immagine sacra, o il divieto di creare tale immagine; l'incantesimo compiuto sulla fotografia dell'amata o dell'odiata; l'uso della fotografia per rintracciare l'ubicazione d'un disperso da parte di qualche stregone piú o meno attendibile, sono tutti, codesti, punti di confluenza d'una mitologia della somiglianza, d'una ragion d'essere del fac-simile come elemento che si carica d'un valore analogo a quello della cosa o della persona raffigurata e ne capta le caratteristiche.
Ed è appunto sull'effettivo valore — anzi sulla valenza — dell'immagine in genere, e oggi soprattutto dell'immagine fotografica (in attesa di quella olo-grafica) che vorrei fare ancora alcune precisazioni. Innanzitutto perché la fotografia costituisce oggi, piú di qualsiasi altra « replica », il mezzo principe d'ogni riproducibilità e di ogni resa dal vero; mentre — lo sappiamo bene ed è stato piú volte affermato — anche questa resa del vero fotografica è tutt'altro che sovrapponibile alla realtà, contrariamente a quanto molti credono; anche a prescindere da ogni volontaria manipolazione del fotogramma da parte dell'operatore. Basterebbe ricordare, ancora una volta (anche se sono fatti ben noti) come ai primordi dell'era fotografica molte persone non fossero capaci di riconoscersi nella fotografia di loro stessi, perché evidentemente ignoravano ancora il « codice » specifico di questo medium tecnologico (come, seppure in grado minore, accadde nei primi tempi della televisione da parte di popolazioni lontane dai grandi centri che non erano in grado di « decriptare » le immagini fantomatiche brulicanti sul video).
In realtà, lo studio della reale significazione dell'immagine fotografica ci può riservare altre sorprese che riguardano, non solo il problema d'una presunta somiglianza o dissimiglianza del soggetto fotografato, ma anche quello d'una presunta « passività » o meno dell'apparecchio stesso.
In un suo recente e stimolante volumetto Franco Vaccari 3 — uno dei pochissimi artisti nostri che non si limiti a realizzare « opere d'arte » ma che cerchi di indagare a fondo alcuni dei fondamentali quesiti estetico-psicologici dei nostri giorni, afferma: « La fotografia è sempre un segno in quanto, anche in assenza d'ogni determinazione conscia o inconscia del soggetto, la macchina
3 FRANCO VACCARI, Fotografia e inconscio tecnologico, Modena, Ed. Punto e virgola, 1979.
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fotografica opera sempre col proprio inconscio tecnologico una strutturazione dell'immagine [...] obbedisce ad un codice simbolico che non ha affatto bisogno di essere istituito da una convenzione preliminare, in quanto obbedisce già alle convenzioni piú profonde e diffuse della cultura in cui è sorto » (p. 19). « La fotografia è, dunque, un segno strutturato dell'inconscio tecnologico del mezzo », non solo, ma « dato che l'immagine fotografica viene strutturata all'insaputa del soggetto, essa può agire separatamente dalla sua significazione » (p. 22).
Ho preferito citare con una certa ampiezza il testo di Vaccari piuttosto che parafrasarlo approssimativamente perché mi sembra che contenga alcuni concetti davvero interessanti. Il primo è quello di « inconscio tecnologico », che, per usare le parole stesse dell'autore: « non deve essere interpretato come pura estensione e potenziamento di facoltà umane; bisogna vedere nello strumento una capacità di azione autonoma: tutto avviene come se la macchina fosse un frammento di inconscio in attività » (p. 11). Come si vede Vaccari mira ad attribuire alla macchina una sua effettiva — seppur inconsapevole — qualità sim-bolizzatrice dovuta al fatto che « là dove c'è cultura, preesiste al soggetto un campo di significati indipendenti dal fatto che se ne abbia coscienza o meno ».
Il secondo concetto avanzato da Vaccari è quello che si riferisce al principio benjaminiano dell'aura: « È vero che la fotografia ha dissolto l'aura che circondava l'opera d'arte nella sua unicità, ma l'ha sostituita con l'aura della irrepe-tibilità dell'istante » (p. 31). Un'osservazione che mi sembra estremamente acuta, perché sfata l'importanza data all'unicità dell'opera, ormai superata da tutta la piú recente vicenda artistica, e sottolinea invece l'importanza del concetto di « irrepetibilità dell'istante », dunque del nuovo problema legato alla « fissazione del tempo » istituita dall'immagine fotografica, e alla fissazione del « tempo reale » resa possibile dalla sequenza filmica quando questa non venga manipolata attraverso il montaggio, ma permetta la messa in evidenza, spesso drammatica, della realtà temporale in cui una vicenda si svolge (un accorgimento, questo, molto spesso utilizzato dallo stesso autore nei suoi lavori, definiti appunto « in tempo reale »).
Dalle osservazioni di Vaccari, che ho appena citato, emerge, in definitiva un'opinione molto simile a quella che ho ricordato piú sopra a proposito del « furto d'immagine » cosí temuto e deprecato da alcune popolazioni « selvagge » come pure da alcune sette religiose. Non solo, ma del valore conferito alla riproduzione fotografica da parte di « stregoni » e maghi moderni, senza che questi ne diano piú precise giustificazioni.
Il fatto d'ammettere nella fotografia (tanto piú se di soggetti viventi) la presenza d'una qualità simbolica, al punto da potersene valere come di esca per rintracciare un individuo scomparso (o per compiere un maleficio sull'individuo ritratto), equivale già di per sé a considerare la fotografia come capace di ospitare qualcosa di piú d'una semplice « somiglianza ». La persona fotografata, come quella cinematografata o videografata « in tempo reale » è derubata d'una fetta della sua identità. Quel valore « magico » che inerisce nella costituzione dell'elemento simbolico, di cui la fotografia è la depositaria, fa sí che la stessa sia,
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non tanto « piú somigliante » d'un ritratto disegnato o dipinto, quanto piú carica di quella valenza iconica che è presente del pari, in un calco (si pensi ai famosi calchi pompeiani di cadaveri sepolti dalla cenere e dai lapilli). Se — seguendo Cassirer — concepiamo l'uomo come un animal symbolicum, la fotografia si può considerare come una sua simbolizzazione, che, attraverso la stessa, acquisterà una doppia simbolicità, magica oltre che iconica.
Questo può anche spiegare perché il cagnolino di marmo di cui Gombrich discorre, come il « topolino » marmoreo dello scultore francese, stupiscano, inquietino e sconcertino lo spettatore: è proprio la loro « rassomiglianza » coi relativi modelli a presentare una qualità che non possiamo che definire magica, tale da trasformarli — anche ai nostri occhi di occidentali miscredenti — in autentici feticci.
GILLO DORFLES
LA DIARCHIA DIPARTIMENTO - FACOLTA
La legge delega sulla docenza universitaria nell'art. 10 autorizza la sperimentazione dipartimentale. Questa innovazione ardita — come viene definita non senza un brivido di terrore — è ben altro dalla « carta bianca » che si pretende che sia. Presentata piú con trepidazione che con coraggio, essa è cautamente ristretta da una serie di condizioni. La prima è data dal carattere di affinità e di omogeneità che deve costituire la base della istituzione dipartimentale, vale a dire da un riferimento a concetti quant'altro mai indefiniti e indefinibili e pertanto perfettamente superflui ai fini di una realizzazione positiva, ma estremamente utili ai fini di qualunque azione politica o burocratica di remora o conservazione.
La seconda condizione è implicita nel concetto stesso di sperimentazione, con che non si intende un sano empirismo, cosí estraneo del resto alla tendenza metafisica e filosofante degli « intellettuali » del nostro paese che vivono lontano dalla concreta problematica della ricerca in una specifica disciplina, ma s'intende piuttosto un andare a caso verso qualcosa di misterioso e di ignoto. Di qui anche la terza condizione che è quella di orientare e in qualche modo imbrigliare questo andare a caso entro le sicure guide e i limiti precisi che il Consiglio Universitario Nazionale, nella sua saggezza di organo burocratizzato, saprà porre a salvaguardia delle incaute iniziative delle singole università, inclini a tentazioni pericolose e pronte a precipitare.
Ma la peggiore limitazione non sta in queste condizioni, che dimostrano ancora una volta quanto la legge delega cosí esaltata come un grande atto rivoluzionario sia in realtà una legge superficiale e timida priva del coraggio di affrontare alla radice neppure uno dei problemi fondamentali; essa piuttosto dà per scontato che dipartimenti e facoltà possano convivere e che la struttura dipartimentale possa essere assunta nei quadri di una struttura di facoltà.
 
Trascrizione secondaria non visualizzabile dall'utente 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31351+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 5 Giorno: 31
Numero 3
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1980 - maggio - 31 - numero 3


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