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tipologia: Analitici; Id: 1465107


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Alfonso Paolella, Varietà e documenti. Semiologia, narratologia e retorica. Una rassegna bibliografica 1975-1979
Responsabilità
Paolella, Alfonso+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
VARIETÀ E DOCUMENTI
SEMIOTICA, NARRATOLOGIA E RETORICA
UNA RASSEGNA BIBLIOGRAFICA 1975-1979
La vasta eco suscitata dai piú recenti sviluppi della semiotica, la sua istituzionalizzazione in associazioni nazionali ed internazionali e in congressi periodici e, in ultimo, il suo affacciarsi in alcune strutture accademiche hanno sanzionato una collocazione precisa di questa disciplina nel panorama culturale di questi anni.
È noto come il fascismo da un lato ed il crocianesimo dall'altro abbiano tenuto la cultura italiana, per circa trent'anni, lontana dalle ricerche linguistiche e letterarie di punta del nostro secolo. Solo negli anni Sessanta viene intrapresa dall'editoria italiana una sistematica opera di traduzione dei classici della linguistica (Saussure nel 1967, Hjelmslev nel 1968, Sapir nel 1969 ecc.) proseguita poi nel decennio successivo, mentre a soli tre anni di distanza dall'edizione francese venivano riproposti in Italia i Saggi di linguistica generale di Jakobson (1966) e, poco dopo, nel 1971, i Problemi di linguistica generale di Benveniste (1966). Nello stesso tempo la traduzione di Erlich (1954, tr. it. 1966) e la riedizione italiana dell'antologia di Todorov (1965, tr. it. 1968) diffondevano in Italia alcuni pezzi classici del formalismo (e con la raccolta di Faccani e Eco, 1969, dei loro continuatori). Unica eccezione a questa ritardata apertura verso macroscopici fenomeni della cultura internazionale è la precoce traduzione, nel 1956, di Theory of Literature di Wellek e Warren (prima ed. 1949), solo di recente scoperta in Francia.
Gli anni Settanta hanno assistito ad una vera esplosione e quasi ad una inflazione di studi di linguistica e semiotica, che tuttavia trovano sensibile solo una piccola fetta del mondo accademico. Nel 1974 si tiene il primo Congresso internazionale dell'IAss (International Association for Semiotics Studies) a Milano; gli editori cominciano a trovare un mercato piú sensibile a questo tipo di ricerche, e cosí la Bompiani affida ad Eco la direzione di una collana, « Il campo semiotico », inaugurata proprio nel 1974 e nello stesso anno anche il Mulino inaugura « Studi linguistici e semiologici »; nel 1975 nasce presso Feltrinelli-Bocca la collana « Semiotica e pratica sociale » diretta da T. Maldonado, L. Prieto, F. Rossi-Landi e A. Schaff, la cui ultima creatura è stato un volume di Sebeok (1979). In questi anni prosperano anche due grosse riviste, fondate nel decennio precedente, « Lingua e stile » e « Strumenti critici », che si impongono a livello internazionale nella pubblicazione di studi di linguistica, critica e semiotica letteraria. Nel 1970 viene fondata, affiliata all'IAs s, l'Associazione italiana di Studi semiotici (Ars s), che tiene annualmente i suoi Congressi e ne pubblica gli Atti.
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Nel 1971 a Urbino, annesso all'Università, nasce un Centro Internazionale di Linguistica e Semiotica che organizza da allora convegni annuali, in luglio, su temi prefissati. Nello stesso anno Eco fonda « VS: Quaderni di studi semiotici »: il n. 8/9 (1974) della rivista è dedicato interamente alla bibliografia semiotica italiana e straniera, cui naturalmente rinviamo chiunque voglia informarsi sui contributi scientifici fino a quell'anno.
È oltremodo difficile « fare il punto » sulla situazione attuale degli studi di semiotica e per la varietà di interessi e per le numerose aree di ricerca: per rendersene conto sarà sufficiente sapere che l'ultimo Congresso internazionale di Vienna (2-6 luglio 1979) si è dovuto organizzare in ben 23 gruppi di lavoro con interessi diversi. Nel compilare la presente rassegna mi sono assunto l'ingrato compito di dover trascurare, per motivi di spazio e per l'ampiezza del materiale, alcuni settori e/o alcuni lavori magari importanti. Non è perciò mia intenzione essere esauriente (esistono ottime bibliografie e riviste che annoterò in seguito); ma vorrei solo offrire una veloce panoramica su alcuni sviluppi di questa disciplina relativamente recente: saranno utilizzate solo le pubblicazioni italiane o straniere apparse in volume in Italia dal 1975 ossia dall'anno successivo al primo Congresso dell'iAss (per il periodo precedente si veda, oltre al già ricordato n. 8/9 di « VS », la Biblioteca di « Strumenti critici » dedicata ai piú recenti studi semiotici).
Lavori di carattere generale e divulgativo sono apparsi anche recentemente: va innanzitutto citata la facile e buona sintesi di Calabrese & Mucci (1975), Caprettini (1976), il volumetto di Casetti (1977), il Segno di Eco (1973), la recente traduzione della Semiologia di J. Martinet (1979); per quanto riguarda la situazione in Italia fino al 1976 (con buona bibliografia) si veda il volume antologico di Ponzio (1976). Notizie bibliografiche abbastanza recenti si trovano pure in Gambarara (1979). Nel 1979 Eco ha inaugurato una nuova collana, « Espresso Strumenti », di divulgazione scientifica e in cui finora sono apparsi diversi volumi. Un quadro sommario per argomenti riguardanti anche la letteratura, con esauriente bibliografia, si trova in Raimondi e Bottoni (1975). Un panorama internazionale relativo alle aree di ricerca, ai problemi e alle teorie semiotiche (i lavori italiani sono presentati da Segre) si può trovare in un recentissimo volume apparso in Belgio: Le champ sémiologique a cura di A. Helbo (1979). Esistono anche buoni dizionari, anche se qualcuno è ormai obsoleto come quello, non tradotto, di Morier (1961); ancora valido, anche se avverte per alcune voci il peso degli anni, è quello di Ducrot e Todorov (1972). Solo da pochi mesi è uscito in Francia Sémiotique: Dictionnaire raisonné de la théorie du langage di Greimas e Courtés che presenta tuttavia notevoli lacune bibliografiche per la non motivata decisione degli autori di operare un appiattimento cronologico del materiale esaminato; infine è da ricordare quello di Marchese (1978), piuttosto insoddisfacente e lacunoso in molti lemmi.
Da quando Peirce e Saussure, ciascuno per conto proprio, scoprivano il valore « segnico » degli oggetti, questa disciplina, chiamata ormai indifferentemente, dopo varie polemiche e proposte, semiologia o semiotica, si è sviluppata
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ed allargata fino al punto che gli stessi semiologi non sono concordi all'unanimità sulla sua definizione. Essa è straripata dagli originari margini strettamente filosofici
o linguistici per andare ad indagare, prima con strumenti strutturali e poi più specificamente semiotici, altri oggetti come l'antropologia (Levi-Strauss), le pratiche culinarie e la moda (Barthes), l'araldica (Mounin), il fumetto (Fresnault-Deruelle), la musica (Pagnini, Stefani), l'architettura (De Fusco, Scalvini), la comunicazione animale (Sebeok), il cinema (Metz, Bettetini), il teatro (Ruffini), la psicanalisi (Lacan, Verdiglione) ecc.
La semiotica, come è considerata da qualche decennio, riconosce come propri ascendenti sia Peirce, che sul versante logico-filosofico scopriva, alla fine del secolo scorso, l'esistenza di « una dottrina quasi necessaria o formale dei segni », sia Saussure, che sul versante linguistico, agli inizi di questo secolo, postulava una scienza generale, comprensiva della stessa linguistica, che studiasse la « vita dei segni nel quadro della vita sociale » (p. 26). Le idee di Peirce sono state successivamente sviluppate da Morris (1939, tr. it. 1954 e 1946, tr. it. 1949); eredi della tradizione saussuriana sono il ben noto Circolo fonologico praghese, il Circolo danese (Hjelmslev), Buyssens, Prieto. In Italia, di stretta osservanza saussuriana possono considerarsi Segre, Avalle e Corti; Eco (1975) invece opera, spesso con esiti convincenti, lucidi tentativi di conciliazione e di amalgama delle due tendenze, miranti ad una dottrina unificante del segno.
Oggetto della semiotica è qualsiasi segno di qualsiasi natura che abbia funzione significativa e/o comunicativa. Questa affermazione non sembri priva di problemi poiché ad una tendenza che analizza solo i segni con valore intenzionalmente comunicativo, si oppone un'altra, di ascendenza peirciana, che esamina qualsiasi tipo di segni, indipendentemente dall'intenzionalità dell'emittente. Sono di pertinenza della semiotica, in questa accezione più lata, sia gli oggetti linguistici (letteratura, strutture narrative di qualsiasi tipo, atti linguistici ecc.) che qualsiasi altro oggetto che possa ritenersi in qualche modo significante (moda, cucina, architettura). Quest'ultima tendenza, che mira ad investigare con strumenti linguistici oggetti di altra natura, fa capo soprattutto a Barthes (1964, tr. it. 1966; 1967, tr. it. 1970) secondo il quale la semiotica deve prendere dalla linguistica i concetti generali per poter costruire se stessa invertendo in tal modo i termini della questione saussuriana: la semiotica è parte della linguistica
e non viceversa (1966, pp. 14-15). Questa posizione è stata duramente attaccata da Mounin (1970, tr. it. 1972).
Innegabili e notevoli sono i contributi della grammatica trasformazionale (Chomsky), della « Textlinguistik » (Dressler, Petöfi ecc.), della teoria degli atti linguistici (Austin, Searle), della logica (Quine, Linsky) alla semiotica, ma basti qui solo una menzione.
Linguista di ascendenza saussuriana è Prieto, il cui ultimo volume apparso in Italia è Pertinenza e pratica (1975, tr. it. 1976). La semiologia di Prieto può essere considerata uno sviluppo ed estensione della scuola fonologica di Praga e, in particolare di Trubeckoj. Prieto, in dura polemica con il neopositivismo e con ogni concezione che ammetta l'esistenza di una lingua naturale, oggettiva
e che goda di vita autonoma, sostiene che la lingua, avendo come fine principale,
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secondo l'insegnamento di Saussure, la comunicazione, è un prodotto sociale. Il sistema di equivalenze e di opposizioni attraverso il quale II parlante riconosce i suoni della propria lingua viene determinato dal fatto che egli si serve di essi per comunicare. Da questo Prieto conclude che la lingua viene costituita dalla maniera in cui i « segnali » e i « sensi » vengono conosciuti come mezzi per la pratica comunicativa, e ciò avviene per il fatto che i primi sono utilizzati come mezzi per produrre questi ultimi. Prieto quindi, considerando la lingua come una conoscenza (per il parlante), approda a concepire la linguistica, che ha per suo oggetto tale conoscenza, come un discorso epistemologico e gnoseologico. L'autore propone d'altra parte un concetto di denotazione e di connotazione che si allontana da quello hjelmsleviano, poiché, secondo Prieto, « il modo in cui si concepisce un oggetto è `connotativo' quando esso presuppone un altro modo di conoscere lo stesso oggetto, e `denotativo' o, meglio, notativo nel caso contrario... Dato un modo connotativo di concepire un oggetto, l'altro modo di concepirlo che viene presupposto da quel primo è sempre un modo (de)notativo di concepire l'oggetto in questione. Si avrebbe cosí connotazione quando si ha a che fare con una concezione di un oggetto che si può dire `sussidiaria' nei confronti di un'altra concezione dello stesso oggetto » (p. 58).
Per Prieto la costruzione di ogni conoscenza della realtà materiale è legata ad una pratica. Una ideologia è un discorso tendente a far dimenticare questo legame tra conoscenza e pratica e cioè a « naturalizzare » le conoscenze. Ciò interessa in particolare II gruppo sociale egemone che riesce ad imporre le pratiche per esso privilegianti tramite la « naturalizzazione » delle conoscenze che ne derivano. Prieto quindi, conciliando le posizioni marxiste con la concezione saussuriana della lingua, riesce ad elaborare un sistema ricco di conseguenze teoriche e pratiche anche di ordine socio-politico.
Sullo stesso filone marxista, ma di ascendenza morrisiana si pone Rossi-Landi. Già nei lavori precedenti (1968 e 1972), analizzando il concetto di discorso ideologico, Rossi-Landi aveva affermato che esso « usa privilegiare se stesso, cioè autodichiararsi piú importante, piú fondato, piú obiettivo, piú rappresentativo di tutti gli altri discorsi che riguardino lo stesso tipo di situazioni » (1968, p. 152). L'autore sostiene che è possibile una omologia tra merci e segnali linguistici in quanto ambedue presentano lo stesso tipo di « alienazione ». In altri termini il parlante viene espropriato dalla classe egemone, che possiede i mezzi di produzione e di comunicazione, dei mezzi di comunicazione propri e della sua comunità attraverso la proposta di modelli linguistici e il controllo della formulazione grammaticale e lessicale delle sue espressioni fino a fargli produrre espressioni « corrette » del messaggio.
Afferma Rossi-Landi (1975) che tra struttura e sovrastruttura, tra modi di produzione ed ideologia esiste un elemento mediatore (il sistema semiologico) che permette un'analisi piú articolata e completa della realtà: « l'elemento mediatore consiste nel complesso dei sistemi segnici, verbali come non verbali che sono presenti in ogni comunità, `costituiscono' il sociale... Se tale ipotesi è corretta, i `pezzi del gioco' sono pertanto non già due ma tre: ai modi di produzione ed alle ideologie è necessario aggiungere i sistemi segnici » (p. 206). Evidente
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risulta l'importanza della pubblicità, dei mass-media per la formazione e vitalità di una ideologia, Su questo argomento si veda anche Foucault (1970, tr. it. 1972).
Recentemente sono apparsi due volumi della Kristeva (1969, tr. it. 1978 e 1974, tr. it. 1979). Nel primo EriµrLwti.xrj, Ricerche per una semanalisi, viene avanzata la proposta di parlare di semanalisi piuttosto che di semiologia. La Kri-steva osserva che il lavoro (in senso marxiano) della lingua consiste nel produrre senso e, in questa produzione, subisce un processo di trasformazione che viene, ogni volta, fissato nel testo; l'autrice propone quindi di parlare di una « sema-nalisi che studia nel testo la significanza e i suoi diversi tipi, [e che] dovrà perciò attraversare il significante con il soggetto e il segno, come pure l'organizzazione grammaticale del discorso per raggiungere la zona dove si adunano i germi di ciò che significherà la presenza della lingua » (p. 20). Per l'autrice il significante assume un valore rilevante perché esso diventa, soprattutto in termini psicanalitici, il luogo di elezione per un'analisi corretta di qualsiasi tipo di linguaggio e di interazione linguistica. Per questo motivo la Kristeva si propone addirittura di tracciare una logica dei significanti. Ed è in questo senso che il linguaggio poetico (1974) si pone come pratica trasgressiva e rivoluzionaria sia verso il proprio sistema linguistico e stilistico, che nei confronti dei codici linguistici della propria comunità investendo in tal modo tutto lo spazio del biologico, del sociale e del culturale dell'artista. Quello della Kristeva si può perciò considerare come un tentativo di sintesi di linguistica, marxismo e psicanalisi: sintesi che arriva a volte a risultati apprezzabili, anche se non priva di contraddizioni e di qualche superficialità, che si aggiungono al difetto di un'esposizione spesso oscura.
Il discorso sulla Kristeva ci conduce cosí in un altro ambito della semiotica che si occupa della letterarietà e dei testi poetici. Uno dei punti di riferimento piú costanti è stato il concetto di « funzione poetica » di Jakobson (1963, tr. it. 1966, cap. 11), che costituirebbe la « messa a punto rispetto al messaggio in quanto tale, cioè l'accento posto sul messaggio stesso » (p. 191). Il linguaggio letterario sarebbe quindi il linguaggio in cui la funzione poetica è predominante sulle altre funzioni, ma su questo argomento si rimanda al volume di Di Girolamo (1978). Questo settore di interessi è giustificato dal motivo che compito della semiotica, come abbiamo già detto, è anche lo studio della significazione, del linguaggio come capacità espressiva e, quindi, del codice, dei modelli culturali e sociali che lo determinano. Numerosi sono i lavori teorici ed applicativi in questo ambito di studi: basterà sfogliare qualche numero di « Strumenti critici » per rendersene conto.
Lo studio del testo letterario come oggetto semiotico, ossia come sistema di segni polivalenti, è stato il tema dell'ultimo volume miscellaneo di Segre (1979) che prende a prestito, elaborandoli, alcuni concetti di linguistica testuale, i « modelli culturali secondari » della scuola di Tartu (uxss), sistematizzandoli nel discorso filologico che è l'unico punto di ancoraggio per qualsiasi analisi testuale: « la filologia aiuta a superare il soggettivismo e il solipsismo di certe posizioni moderne della critica e, ahimé, della semiotica » (p. 20). La partita quindi si gioca sul testo, il solo punto di incontro e terreno valido per verificare qualsiasi modello teorico. Nella tesi proposta da Segre il formalismo si innesta
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su una base storica piú robusta, per la quale i modelli semiologici, che sono anche storici e culturali, subiscono una verifica rigorosa su un supporto piú concreto: il testo filologicamente corretto. La presenza di tali modelli non deve spingere il semiologo a prestare fede cieca alla loro validità assoluta ed oggettiva nonostante la loro articolazione e complessità perché « occorrerà tener conto... che ogni lettura è una forma di `esecuzione' e che nessuna lettura è esente dall'intervento dei codici, linguistici e culturali, del lettore » (p. 37). Coerente al principio della verifica sul testo delle posizioni teoriche, Segre inserisce in tutti i suoi volumi, da I segni e la critica (1969) a Le strutture e il tempo (1974), una elaborazione teorica ed una parte applicativa. Sulla stessa linea di fusione dei modelli culturali con l'opera letteraria, ma a carattere esclusivamente teorico, si pone anche Semiotica, storia e cultura (1977)
Altri lavori di applicazione alla letteratura dei metodi semiologici sono quelli di Avalle datati fin dagli anni Sessanta: critico acuto, Avalle applica con rigore sistematico le tecniche semiotiche soprattutto a testi medievali (1975 e 1977); mentre la Corti nei Principi della comunicazione letteraria (1976) presenta un accurato discorso di sintesi sul fenomeno del funzionamento del linguaggio letterario inserito nel sistema socio-culturale ed ideologico della società in cui vive l'autore (si vedano soprattutto i capitoli riguardanti i generi letterari). L'autrice, approfondendo un concetto già enunciato nel volume precedente (il testo è un segno polisemico e dinamico suscettibile di letture diverse), propone, con la metafora del Viaggio testuale (1978) un'indagine del testo come « viaggio dell'autore verso il testo e quello del testo verso il profondo della propria legge costruttiva; e poi viaggio di ogni lettore nel testo e del testo nella realtà o nella storia » (p. 5): in questo modo saggi su Dante e su Bonvesin da la Riva si trovano accanto a saggi sul neorealismo, sulla neoavanguardia e su Calvino. Sul concetto di letteratura e letterarietà si veda anche il buon manualetto di Coletti (1978); a parte si colloca Di Girolamo (1978), che nel criticare il punto di vista formalistico e neoformalistico del letterario, arriva a un allargamento teorico del concetto di letterarietà e a una ridefinizione del fatto letterario, in termini marxisti, come divisione del lavoro linguistico e delega da parte dei destinatari dell'uso estetico del linguaggio.
Un tentativo di fondazione epistemologica della semiotica di ascendenza neo-kantiana, ma con riferimenti anche a Hjelmslev, Peirce e Chomsky, è costituito dai due ultimi volumi di Garroni (1972 e 1977). In Ricognizione della semiotica. Tre lezioni (1977), l'autore, continuando le ricerche iniziate in Progetto di semiotica (1972), sostiene che la semantica non sarebbe una parte della semiotica, come vuole la classica ripartizione di Morris (semantica, sintassi e pragmatica), ma « è ben piú che una parte della semiotica, essa ne costituisce piuttosto la fondazione teorica » (p. 19): ed è sul problema del significato che Garroni sviluppa il suo discorso fino a postulare una semantica trascendentale che dia conto di tutte le possibili forme di significazione.
Un altro grosso filone della semiotica fa capo al formalismo russo degli anni Venti e si è sviluppato per conto proprio. Il discorso sulla tradizione sovietica, scoperta in Italia solo negli anni Sessanta, si fa piú complesso, poiché queste
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ricerche abbracciano ambiti e settori di indagine tra i piú disparati, come la filosofia del linguaggio, la tipologia della cultura, la metrica, la narratologia, l'analisi letteraria, il folklore ecc. Si possono, in ogni caso, distinguere almeno due fasi: il formalismo degli anni 1915-1930, in cui studiosi di diversa estrazione, ma con prevalenti interessi letterari, si raccolgono intorno al Circolo di Mosca
e all'oPoJAz di Leningrado. I maggiori rappresentanti di questo periodo sono Sklovskij, il giovane Jakobson, Ejchenbaum, Tomasevskij, Tynianov che cercano di analizzare, in ambiti diversi, i procedimenti della « Jetterarietà » indipendentemente dai fattori esterni ed ambientali che la determinano. In una seconda fase, il formalismo russo si innesta sulla nascente scuola dello strutturalismo praghese, anche grazie alla mediazione di alcune figure di primo piano, presenti a Praga nel '29, come Jakobson e Trubeckoj (lo strutturalismo praghese sopravvisse al Circolo di Praga con l'opera di Mukarovskÿ). In parte erede del formalismo slavo può essere considerato il gruppo di semiologi che fanno capo alla cosiddetta scuola di Tartu (Lotman, Uspenskij) che si occupa principalmente dell'elaborazione di modelli culturali. Per una informazione completa, si rinvia all'ottimo lavoro della Ferrari-Bravo (1978) che informa il lettore su tutto ciò che è stato tradotto in Italia, dagli anni Sessanta, dei lavori dei formalisti russi e degli strutturalisti e semiotici sovietici del dopoguerra. Aggiungerò solo due volumi apparsi recentemente: Prevignano (a cura di) (1979) e Bachtin (1979).
La riflessione della semiotica letteraria sul testo comporta anche la considerazione di un tipo particolare di testo, che è il racconto. Per l'analisi del racconto,
o narratologia, bisogna risalire alle « lezioni » dei formalisti russi (contributi vengono dagli americani Forster, 1927, tr. it. 1963, Frye, 1957, tr. it. 1969): Veselovskij (1977), Propp (1928, tr. it. 1966), Sklovskij (1925, tr. it. 1966 e 1976; 1959, tr. it. 1969), Tomasevskij (1928, tr. it. 1978) e Todorov (1965, tr. it. 1968) e alle piú recenti ricerche francesi: il n. 8 di « Communications » tradotto in volume (AA.VV., L'analisi del racconto, 1969), Barthes (1970, tr. it. 1973), Bremond (1973, tr. it. 1977), Greimas (1966, tr. it. 1969). A Toma-sevskij e a Sklovskij siamo debitori dei concetti di intrigo o intreccio, di fabula
e di motivo; quelli di funzione, modello e ruolo dei personaggi, a Propp, anche se alcuni di questi concetti si devono far risalire al filologo Veselovskij (Avalle, 1977a). Il discorso narrativo viene dai formalisti russi segmentato dal punto di vista evenemenziale (azione dei personaggi e ruolo da essi coperto), situazionale (analisi dei legami parentali e sociali dei personaggi) e piú strettamente linguistico perché, tutto sommato, le classificazioni che si operano sul testo non sono altro che categorie semantiche. Infatti per Tomasevskij il motivo, ossia l'unità minimale di materiale tematico, non può essere costituito se non da sintagmi formati da un soggetto e un predicato (Venne il marito, L'eroe se ne andò), anche se, naturalmente, non tutti questi sintagmi sono nuclei narrativi. La sequenza formata da queste unità elementari, costituisce una unità piú complessa. L'analisi delle sequenze delle fiabe russe raccolte da Afanasjev e dei ruoli che i personaggi giocano in questo corpus piuttosto omogeneo, ha condotto Propp a definire la « funzione » come « l'operato d'un personaggio determinato dal punto di vista

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del suo significato per lo svolgimento della vicenda » (1928, tr. it. p. 27). Sembra quindi che in Propp il ruolo prevalga sul personaggio proprio perché un personaggio può svolgere funzioni diverse. Lo schema proppiano, abbastanza primitivo, ma anche organico, è stato sfrondato da Greimas (1966). Il semiologo francese, infatti, riduce il repertorio delle funzioni da 31 a 20 e fissa a 6 « attanti » (concetto mutuato da Tesnière), tutti i personaggi di Propp (destinatore, oggetto, destinatario, adiuvante, soggetto oppositore), e scopre che l'impalcatura logica dei rapporti tra i personaggi, abbastanza vasta, ma anche semplice, è sorretta dal materiale semantico e da 7 verbi modali e/o descrittivi (volere, potere, sapere, fare; avere, essere, sembrare) che si combinano tra loro in varie misure. Il tutto è tenuto su dai fili dell'isotopia, ossia dal piano di coerenza semantica di un testo.
Bremond (1966, tr. it. 1969 e 1973, tr. it. 1977) individua in ogni tipo di racconto un'organizzazione ternaria (principio ternario già descritto nella Poetica di Aristotele) dell'azione narrativa: virtualità, attualizzazione (o mancata), scopo raggiunto (o mancato). Egli si propone, seguendo una linea di tipo logico, di tracciare una grammatica dei comportamenti dei personaggi, individuando i punti in cui questi, costretti dalle circostanze, devono « scegliere ». Per questo motivo i personaggi sono divisibili in categorie tipo: agente-paziente, influenzatore, produttore di miglioramento o di peggioramento, retributore ecc. e ciò comporta che in ogni racconto l'eroe agisce in modo da ottenere un miglioramento o evitare un peggioramento della situazione o far fronte ad essa. Il metodo di Todorov (1969) investe solo il piano della sintassi narrativa ossia cerca di individuare nel testo (il Decameron) una dimensione semantica, sintattica e referenziale. Van Dijk (1972, tr. it. 1976) propone un modello testuale, ispirato alla grammatica generativa trasformazionale di Chomsky, capace di rendere conto sia dei testi generalmente narrativi che di quelli piú tipicamente letterari. Postula quindi l'ipotesi dell'esistenza di una unità linguistica di base (testo) che si manifesta nel « discorso » come enunciazione. Questo doppio livello è costituito da una macrostruttura che è la « forma logica » di un testo identificabile con la sua struttura profonda e da una microstruttura, formata da n frasi che è la struttura superficiale. La nozione empirica di « coerenza » globale del testo serve a legare saldamente questi due livelli. Essa è stabilita, naturalmente, dalla dimensione referenziale, semantica e pragmatica del discorso.
Una sintesi ragionata e critica, con lucidi presupposti logici e linguistici, è stata elaborata da Segre (1974): essa può essere considerata fondamentale e punto di partenza per chi voglia interessarsi a questa problematica.
Il contributo italiano in questa area di ricerca e nel periodo qui esaminato, e quantitativamente molto scarso: ai due volumi di Ruffinatto sul Lazzarillo de Tormes (1975 e 1977) si aggiunga il volume di Avalle (1977a) che analizza il tema della « fanciulla perseguitata » attraverso la vita di Santa Uliva, la novella n, 7 del Decameron fino alla Justine di Sade. Nel 1975 esce Semiotica, storia e cultura di Segre che mette a punto delle intuizioni già accennate nel 1974. Segre propone di ridurre le complesse analisi dei formalisti russi e della scuola francese e suggerisce una lettura del testo almeno secondo quattro tagli descrittivi: il discorso, l'intrigo, la fabula, il modello narrativo cui corrispondono rispettiva-
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mente: la lingua (retorica, metrica ecc.), tecniche dell'esposizione, materiali antropologici, concetti-chiave e logica dell'azione.
Per Segre questi tagli « hanno un grado di mobilità e di complessità decrescenti. Uno stesso sistema, concettuale e logico si realizza attraverso molteplici temi, miti, stereotipi, i quali a loro volta possono esprimersi con una gran varietà di modi di narrazione, sino alla lingua, cosí sensibile alle correnti culturali e alle mode, cosi infinitamente plasmabile da istituirsi in tanti `idioletti' quanti sono i parlanti » (pp. 34-35). Tuttavia (cito dalla voce Discorso dell'Enciclopedia Einaudi) « tra intreccio e fabula da un lato, e modello narrativo dall'altro, sussiste una differenza fondamentale: nell'intreccio e nella fabula le azioni vengono indicate metalinguisticamente con termini generali sullo stesso asse semantico di quelli usati nel discorso; nel modello narrativo le categorie coinvolgono campi semantici vari, comprendenti azioni diverse che possono svolgere la stessa funzione entro un modello già definito di narrazione » (vol. Iv, p. 1072). Siamo ancora lontani dal postulare una grammatica generale del racconto, ma questo, di Segre, forse è già un tentativo apprezzabile.
Anche l'ultimo volume di Eco (1979) affronta queste problematiche. Il discorso di Eco è piú complesso perché si pone al crocevia di diversi settori di indagine, proprio perché un testo, essendo un ipersegno polivalente, può essere analizzato su molteplici livelli. Eco infatti considera il testo narrativo come un insieme di blocchi semantici, linguistici, logici, pragmatici, retorici ecc. che devono essere analizzati dagli strumenti delle discipline corrispondenti. Il nodo centrale ed anche il punto di partenza del discorso di Eco è che il testo, per essere compreso, ha bisogno di una collaborazione, sia pur minima, del lettore (cooperazione). Questo discorso teorico e le sue implicazioni pratiche vengono esaminate su due novelle di Alphonse Allais che sconvolgono tutte le attese del lettore e in cui l'autore sembra menare per il naso il suo stesso destinatario. Una applicazione dei modelli grafici (diagrammi e istogrammi), tipici delle scienze sperimentali, alle sequenze narrative e, in generale, alla produzione letteraria, che da anni ormai è sviluppata in Francia, si può leggere in un recentissimo lavoro di Finzi (1979). Una raccolta di saggi di diversa provenienza metodologica, sempre su problemi di narrativa, è apparsa nell'ultimo Quaderno della rivista « Lingua e Stile » redatto a cura di E. Raimondi & B. Basile: Dal « Novellino » a Moravia (1979).
La riflessione sul linguaggio e sui meccanismi che lo regolano hanno risvegliato un interesse per la retorica da parte della semiotica che ha tentato un recupero straordinario di questa antica scienza. Già il Florescu (1960, tr. it. 1971) notava che il recupero del « retorico », nella storia della cultura, si verifica ogni volta che si medita sugli oggetti linguistici o letterari. Spesso essa è stata confusa con la poetica o è stata ritenuta « ancilla » della poetica. Di fatto si è verificato che durante i secoli da Quintiliano (Inst. orat. ni, 3-4) in poi, fino a Ramus, Du Marsais, Fontanier, Kant, Hegel e Croce è stata progressivamente sfrondata delle 5 parti in cui si costituiva (inventio, dispositio, elocutio, memoria e actio) fino ad essere in pratica identificata solo con la « elocutio » o diventare sempli-
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cemente un'arte del bello scrivere o modo artificioso di parlare. Fin dagli anni Cinquanta però, prima in Germania e poi successivamente in Francia si è assistito ad un recupero della stessa sia come strumento per indagare gli oggetti linguistici nel discorso ed il loro rapporto con la realtà materiale studiando l'ordinamento e la disposizione del materiale linguistico, la sua esposizione a livelli inferiori e/o superiori all'unità della frase (Genette, Cohen, Lausberg), sia come tassonomia, vocazione antica della retorica (Lausberg, Gruppo µ), sia come tecnica della persuasione e dell'argomentazione (Perelman), sia come strumento di controllo (Barthes).
La tendenza a studiare la retorica in funzione della poetica resta ancora intatta, come eredità del passato, fino ai nostri giorni, se ancora gli autori (Gruppo µ) della Retorica generale (1970, tr. it. 1976) ripropongono il concetto formalistico di « scarto » da una norma come misura per cercarvi lo spazio del poetico e del linguaggio letterario. Lo stesso Gruppo µ, fondandosi sulle dicotomie saussuriane significante/significato, sintagma/paradigma, ripropone il medesimo schema tassonomico delle figure retoriche, secondo l'antica consuetudine anche se vestite a nuovo. Le figure (metabole) sono infatti il risultato di mutazioni parziali o complete che riguardano la morfologia (metaplasmi), la sintassi (metatassi), la semantica (metasememi), la logica (metalogismi). L'imperialismo della metafora sulle altre figure è giustificata, secondo gli autori, dal fatto che essa « è la figura centrale di ogni retorica » ed è il prodotto di due sineddochi. Gli autori, presi a discutere formalmente sulle « figure della comunicazione » spesso dimenticano il contesto e la competenza del destinatario che, in fin dei conti, è il solo giudice che può stabilire il tasso di figuralità di un enunciato. Quest'ultima osservazione vale anche per l'altro volume Rhétorique de la poésie (1977) di prossima pubblicazione in Italia.
Ma forse tutto il discorso di una fondazione scientifica della retorica sta proprio nello stabilire lo statuto di una figura e se essa debba essere considerata in termini di scarto da una norma. Su questo punto si è cominciato a discutere, una volta consacrato il già citato sopravvento della « elocutio », fin da Du Marsais, Fontaniér e poi, piú recentemente, ma per altri fini, con Sklovskij (ostra-nenie: « straniamento ») e con le ricerche di Toma"sevskij e di Tynianov sulla norma e sullo scarto. Spesso si è creduto di poter risolvere il problema operando una equazione tra norma = linguaggio denotativo e scarto = linguaggio connotativo (Barthes, 1957, tr. it. 1974; 1964, tr. it. 1966 e van Dijk, 1972, tr. it. 1976), ma questo si è rivelato scarsamente operativo (Todorov, 1972, tr. it. 1972, p. 301 e Di Girolamo, 1978, pp. 11-23) proprio perché bisognerà definire cosa sia una norma, né essa può essere intesa, formalisticamente, come la ricerca delle invarianti del linguaggio. Ricerche sulla metonimia e sulla metafora sono state condotte anche da Henry (1971, tr. it. 1975).
Nel 1979 è stato riproposto, aggiornato solo nella bibliografia un vecchio saggio di Barthes apparso nel n. 16 di « Communications » (1970, tr. it. 1972 e 1979). L'autore vede nella retorica, intesa come metalinguaggio, un incrociarsi di 6 pratiche diverse: una tecnica, un insegnamento, una scienza, una morale, una pratica sociale « che permette alle classi dirigenti di assicurarsi la proprietà
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della parola » e una pratica ludica. Il riconoscimento di tutte queste pratiche nella retorica ha costituito veramente un passo notevole nella restaurazione della retorica come scienza complessiva cui pertiene sia un'analisi linguistica sia una funzione piú specificamente sociale (arte della persuasione).
Ma l'opera che veramente ha fondato la neoretorica come scienza complessiva, assegnandole un compito specifico, anche se ha avuto scarso seguito, è il Trattato dell'argomentazione (1958, tr. it. 1966) di Perelman & Olbrechts-Tyteca. Gli autori rivalutano la funzione della retorica come tecnica della persuasione rivendicando ad essa il dominio del probabile. La condanna di questa importante funzione della retorica (forse il vero motivo della sua nascita in Grecia) era stata pronunciata da Kant che diceva di preferire una poesia ad un discorso tendenzioso di un politico: con il romanticismo la retorica è stata pertanto confinata in un ruolo subordinato rispetto ad altre scienze. Secondo Perelman & Olbrechts-Tyteca alla filosofia ed alla logica spetta il dominio della ricerca della verità, delle regole di dimostrazione e, quindi, la ricerca di un linguaggio formalizzato che tenda ad un discorso univoco; alla retorica spetta il compito dell'argomentare, del convincere, del persuadere, non importa se l'oggetto sia vero o falso e, per raggiungere tale fine, si serve anche di pseudo-ragionamenti (paralogismi): si vedano ad esempio, nella pratica quotidiana gli effetti persuasivi del discorso politico, del discorso pubblicitario, del discorso giudiziario o delle varie tecniche di persuasione dei mass-media. Perelman e Olbrechts-Tyteca sostengono che « oggetto della teoria dell'argomentazione è lo studio delle tecniche discorsive atte a provocare o accrescere l'adesione delle menti alle tesi che vengono presentate al loro assenso » (p. 6). Gli autori hanno avuto anche il grande merito di rivalutare l'« inventio » e la « dispositio » come parti imprescindibili di un discorso persuasivo. Recentemente sono apparsi degli stessi Retorica e filosofia (1952, tr. it. 1979) e, quasi contemporaneamente, Il campo dell'argomentazione (1970, tr. it. 1979) che costituiscono l'uno un abbozzo, l'altro un parziale sviluppo delle tesi del Trattato. Un'applicazione al comico dello stesso Trattato è il Comico del discorso della Olbrechts-Tyteca (1977, tr. it. 1977).
Sulla stessa scia della neoretorica di Perelman, ossia della rivalutazione di tutte le parti della retorica si pone Barilli (1979) che, dopo un lungo excursus storico della retorica, appoggia le tesi del Perelman in quanto la retorica « è l'occasione in cui si usa il discorso nel modo piú pieno e totale, dove cioè le componenti fisiche del parlare non cedono rispetto a quelle intellettuali » (p. 1): e per « componenti fisiche vanno intese anche le modalità del porgere, gli atti di pronuncia, la mimica facciale, i gesti» (ibid.). Interessante è l'ultimo lavoro di Ducrot apparso in Italia (1979) che insiste sull'uso delle implicazioni logiche del discorso e sulle strategie comunicative. Di retorica si è interessato anche Eco in alcuni capitoli dei suoi già citati volumi ed insiste sull'uso che si è fatto della retorica sia come mezzo per la manipolazione ideologica sia come pratica di ipercodifica espressiva. L'unico lavoro organico che esiste sulle tecniche della memoria è quello della Yates (1966, tr. it. 1972). In Italia, per gli studi di retorica, è molto attivo il Circolo filologico linguistico padovano diretto da G. Folena, che ha dedicato, in alcuni dei convegni che tiene ogni anno a Bressanone, molto spazio
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a questa scienza: Attualità della retorica (1973), Retorica e politica (1974), Retorica e poetica (1975), Simbolo, metafora, allegoria (1976).
Sulla linea di connessione tra retorica e linguaggio esiste il lavoro di Fonzi & Sancipriano (1975) che studia la metafora nella dimensione della psicolinguistica, Ritter-Santini & Raimondi (1978), in cui si trovano interessanti contributi di studiosi italiani e stranieri in onore di Lausberg; si consulti inoltre l'ultimo volume della s LI: Retorica e scienze del linguaggio (1979). Si veda inoltre Weinrich (1976) e i numeri monografici di alcune riviste, come l'ormai classico n. 16 di « Communications » (1970), il n. 18 di « Littérature » (1975) dedicato alle Frontières de la Rhétorique, il n. 23 di « Poétique » (1975) su Rhétorique et Herméneutique, il n. 14-15 di « Poetics » dedicato alla Theory of Metaphor (1975) e, nel n. 54 di « Langages » (1979), La métaphore.
Se ho dovuto, in questa rassegna, trascurare alcuni settori come la musica, l'architettura, il cinema, il teatro ecc., o sorvolare su qualche argomento, e se qualche volume non è stato trattato con sufficiente approfondimento, questo è da addebitare proprio alla notevole mole di lavori e di studi che testimoniano la fecondità di questo metodo di analisi. Non é possibile quindi, il lettore mi perdonerà, esaurire nel breve spazio di una bibliografia ragionata tutta la ricchezza di una pratica in continua espansione.
ALFONSO PAOLELLA
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Data pubblicazione Anno: 1980 Mese: 5 Giorno: 31
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