Brano: [...]ddetti. Usavano con noi un'autorità, che noi saremmo del tutto incapaci di usare. Forti dei loro prìncipi, che credevano indistruttibili, regnavano con potere assoluto su di noi. Ci assordavano di parole tuonanti; un dialogo non era possibile, perché appena sospettavano d'aver torto ci ordinavano di tacere; battevano il pugno sulla tavola, facendo tremare la stanza. Noi ricordiamo quel gesto, ma non sapremmo imitarlo. Possiamo infuriarci, urlare come lupi; ma in fondo alle nostre urla di lupo c'é un singhiozzo isterico, un rauco belato d'agnello.
Noi dunque non abbiamo autorità: non abbiamo armi. L'au
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torità, in noi, sarebbe un'ipocrisia e una finzione. Siamo troppo consapevoli della nostra debolezza, troppo malinconici e malsicuri, troppo consci delle nostre inconseguenze e incoerenze, troppo consci dei nostri difetti: abbiamo guardato troppo in fondo dentro di noi e abbiamo visto in noi troppe cose. E poiché non abbiamo autorità, dobbiamo inventare un altro rapporto.
Oggi che il dialogo é diventato possibile fra g[...]
[...]iamo: imperfetti; fiduciosi che loro, i nostri figli, non ci rassomiglino, che siano piú forti e migliori di noi.
Poiché siamo tutti assillati, in un modo o nell'altro, dal problema del danaro, la prima piccola virtù che ci viene in testa di insegnare ai nostri figli è il risparmio. Regaliamo loro un salvadanaio, spiegando com'è bello conservare il denaro invece di spenderlo, in modo che, dopo mesi, ce ne sia molto, un bel gruzzolo di denaro; e come sia bello resistere alla voglia di spendere, per poter comprare, alla fine, qualche oggetto di pregio. Ricordiamo d'aver ricevuto in regalo, nella nostra infanzia, un salvadanaio eguale; ma dimentichiamo che il denaro, e il gusto di conservarlo, era al tempo della nostra infanzia meno orribile e sudicio di oggi: perché il denaro, più passa il tempo, e più è sudicio. Il salvadanaio, dunque, è il nostro primo errore: abbiamo installato, nel nostro sistema educativo, una piccola virtù.
Quel salvadanaio di coccio dall'aspetto innocuo, a forma di pera o di mela, abita per mesi e mesi nella stanza[...]
[...] Il salvadanaio, dunque, è il nostro primo errore: abbiamo installato, nel nostro sistema educativo, una piccola virtù.
Quel salvadanaio di coccio dall'aspetto innocuo, a forma di pera o di mela, abita per mesi e mesi nella stanza dei nostri figli ed essi si abituano alla sua presenza; s'abituano al piacere di introdurre, giorno per giorno, il denaro nella fessura; s'abituano al denaro custodito là dentro, che là, nel segreto e nel buio, cresce come un seme nel grembo della terra; s'affezionano al denaro, dapprima con innocenza, come ci s'affeziona a tutte le cose che crescono grazie al nostro zelo, pianticelle o bestiole; e sempre vagheggiando quel costoso oggetto visto in una vetrina, e che sarà possibile comperare, come noi gli abbiamo detto, col denaro così risparmiato. Quando infine il salvadanaio viene infranto e il danaro speso, i ra
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gazzi si sentono soli e delusi: non c'è più il denaro nella stanza, custodito nel ventre della mela, e non c'è più nemmeno la rossa mela: c'è invece un oggetto a lungo vagheggiato in vetrina, e di cui noi gli abbiamo vantato l'importanza e il pregio: ma che ora, nella stanza, sembra grigio e disadorno, appassito dopo tanta attesa e dopo tanto denaro. Di questa delusione i ragazzi non incolperanno il denaro, ma l'oggetto stesso: perché il denaro perdu[...]
[...]o salvadanaio e nuovo denaro da custodire; e rivolgeranno al denaro dei pensieri e un'attenzione che è male gli siano rivolti. Preferiamo il denaro alle cose. Non è male che abbiano sofferto una delusione; è male che si sentano soli senza la compagnia del denaro.
Non dovremmo insegnare a risparmiare: dovremmo abituare a spendere. Dovremo dare spesso ai ragazzi un po' di denaro, piccole somme senza importanza, sollecitandoli a spenderle subito e come gli piace, seguendo un momentaneo capriccio: i ragazzi compreranno qualche minutaglia, che dimenticheranno subito, come dimenticheranno subito il denaro speso così in fretta e senza riflettere, e al quale non si sono affezionati. Trovandosi fra le mani quelle minutaglie, che saranno subito rotte, i ragazzi rimarranno un po' delusi, ma dimenticheranno rapidamente sia quella delusione e le minutaglie, sia il denaro; anzi associeranno il denaro a qualcosa di momentaneo e di stupido; e penseranno che il denaro è stupido, come è giusto nell'infanzia pensare.
E giusto che i ragazzi vivano, nei primi anni della loro vita, ignorando che cos'è il denaro. A volte questo è impossibile, se siamo troppo poveri; e a volte è difficile, perché siamo troppo ricchi. Tuttavia quando siamo molto poveri, quando il denaro è strettamente legato a un fatto di sopravvivenza quotidiana, a una questione di vita o di morte, allora esso si traduce così immediatamente agli occhi d'un bambino in cibo, carbone o panni, che non ha il modo di guastargli lo spirito. Ma se siamo così così, né ricchi né poveri, non è difficile lasciare che un ra[...]
[...]argli lo spirito. Ma se siamo così così, né ricchi né poveri, non è difficile lasciare che un ragazzo viva, nell'infanzia, senza saper bene che cos'è il denaro e senza curarsene affatto. E tuttavia è necessario, non troppo presto e non troppo tardi, spez
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zare questa ignoranza: e se abbiamo delle difficoltà economiche, è necessario che i nostri figli, non troppo presto e non troppo tardi, ne siano messi al corrente; così come è giusto che a un certo punto dividano con noi le nostre preoccupazioni, e le nostre ragioni di contentezza, e i nostri progetti, e tutto quanto concerne la vita famigliare. E abituandoli a considerare il denaro famigliare come una cosa che appartiene a noi e a loro in egual misura, e non a noi piuttosto che a loro, o al contrario, potremo anche invitarli ad essere sobri, a stare attenti al denaro che spendono: e in questo modo l'invito al risparmio non è piú rispetto per una piccola virtù, non è astratto invito a portare rispetto ad una cosa che non merita rispetto in se stessa, come il denaro; ma è un rièordare ai ragazzi che non è molto il denaro di casa, è un invito a sentirsi adulti e responsabili di fronte a una cosa che. appartiene a noi come a loro, una cosa non specialmente bella né amabile, ma seria, perché legata alle nostre necessità quotidiane. Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell'educazione sta nell'indovinare i tempi.
Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro. E non c'è dubbio che, nelle famiglie dove il denaro viene guadagnato e prontamente speso, dove scorre come limpida acqua di fonte, e, praticamente, non esiste come denaro, è mena difficile educare un ragazzo ad un simile equilibrio, a una simile l[...]
[...]ro, una cosa non specialmente bella né amabile, ma seria, perché legata alle nostre necessità quotidiane. Ma non troppo presto e non troppo tardi: e il segreto dell'educazione sta nell'indovinare i tempi.
Essere sobri con se stessi e generosi con gli altri: questo vuol dire avere un rapporto giusto col denaro, essere liberi di fronte al denaro. E non c'è dubbio che, nelle famiglie dove il denaro viene guadagnato e prontamente speso, dove scorre come limpida acqua di fonte, e, praticamente, non esiste come denaro, è mena difficile educare un ragazzo ad un simile equilibrio, a una simile libertà. Le cose diventano complicate là dove il denaro esiste ed esiste pesantemente, acqua plumbea e stagnante che esala fermenti e odori. Presto i ragazzi avvertono la presenza in famiglia di questo denaro, potenza nascosta, di cui non si parla mai in termini chiari ma alla quale i genitori alludono, discorrendo fra loro, con nomi complicati e misteriosi, con una plumbea fissità negli occhi, con una piega amara sulle labbra; denaro che non è semplicemente riposto nel cassetto dello scrittoio, ma grandeggia ch[...]
[...]icchezza, della sua fragilità e delle viziose conseguenze che può portare: la vera difesa dalla ricchezza é l'indifferenza al denaro. Per educare un ragazzo a questa indifferenza, non c'é altro modo che dargli del denaro da spendere, quando esiste denaro: perché impari a separarsene senza cruccio e senza rimpianto. Mi si osserverà che così un ragazzo s'abitua ad avere denaro da spendere, e non potrà più farne senza; se domani non sarà più ricco, come farà? Ma é più facile non aver denaro quando abbiamo imparato a spenderlo, quando abbiamo imparato come vola via in fretta fra le mani; é più facile fare a meno del denaro quando l'abbiamo ben conosciuto, che non quando gli abbiamo tributato, nell'infanzia, reverenza e paura, abbiamo sentito la sua presenza all'intorno e non ci é stato permesso di alzare gli occhi a guardarlo in viso.
Appena i nostri figli cominciano ad andare a scuola, noi subito gli promettiamo denaro in premio, se studieranno bene. E un errore. Noi così mescoliamo il denaro, che é una cosa senza nobiltà, ad una cosa meritevole e degna, quale é lo studio e il piacere della conoscenza. Il denaro che diamo ai nostri figli, dov[...]
[...]o carattere, e la sua impotenza ad appagare i desideri più veri, che sono quelli dello spirito. Elevando il denaro alla funzione di premio, di punto d'arrivo, di obbiettivo da raggiungere, noi gli diamo un posto, un'importanza, una nobiltà, che non deve avere agli occhi dei nostri figli. Affermiamo implicitamente il principio — falso — che il denaro è il coronamento d'una fatica e il suo termine ultimo. Invece il denaro dovrebbe essere concepito come il salario d'una fatica: non il suo termine ultimo, ma il suo salario, cioè il suo legittimo credito: ed è evidente che le fatiche scolastiche dei ragazzi non possono avere un salario. E un errore minore — ma è un errore — offrire denaro ai figli in cambio di piccoli servizi domestici, di piccole prestazioni. È un errore perché noi non siamo, per i nostri figli, dei datori di lavoro: il denaro familiare è altrettanto loro quanta nostro: quei piccoli servizi, quelle piccole prestazioni dovrebbero essere senza compenso, volontaria collaborazione alla vita familiare. E in genere, credo si debba [...]
[...]olastico dei nostri figli siamo soliti dare una importanza che è_ del tutto infondata. E anche questo non è se non rispetto per la piccola virtù del successo. Dovrebbe bastarci che non restassero troppo indietro agli altri, che non si facessero bocciare agli esami; ma noi non ci accontentiamo di questo; vogliamo, da loro, il successo, vogliamo che diano delle soddisfazioni al nostro orgoglio. Se vanno male a scuola, o semplicemente non così bene come noi pretendiamo, subito innalziamo fra loro e noi la barriera del malcontento costante; prendiamo con loro il tono di voce imbronciato e piagnucoloso di chi lamenta una offesa. Allora i nostri figli, tediati, s'allontanano da noi. Oppure li assecondiamo nelle
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loro proteste contra i maestri che non li hanno capiti, ci atteggiamo, insieme con loro, a vittime d'un'ingiustizia. E ogni giorno gli correggiamo i compiti, anzi ci sediamo accanto a loro quando fanno i compiti, studiamo con loro le lezioni. In verità la scuola dovrebbe essere fin dal principio, per un ragazzo, la [...]
[...]le e irrisorio. E se là subisce ingiustizie o viene incompreso, é necessario lasciargli intendere che non c'è nulla di strano, perché nella vita dobbiamo aspettarci d'essere continuamente incompresi e misconosciuti, e di esser vittime d'ingiustizia: e la sola cosa che importa è non commettere ingiustizia noi stessi. I successi o insuccessi dei nostri figli, noi li dividiamo con loro perché gli vogliamo bene, ma allo stesso modo e in egual misura come essi dividono, a mano a mano che diventano grandi, i nostri successi o insuccessi, le nostre contentezze o preoccupazioni. E' falso che essi abbiano il dovere, di fronte a noi, d'esser bravi a scuola e di dare allo studio il meglio del loro ingegno. Il loro dovere di fronte a noi é puramente quello, visto che li abbiamo avviati agli studi, di andare avanti. Se il meglio del loro ingegno vogliono spenderlo non nella scuola, ma in altra cosa che li appassioni, raccolta di coleotteri o studio della lingua turca, sono fatti loro e non abbiamo nessun diritto di rimproverarli, di mostrarci offesi n[...]
[...]a un divano a leggere romanzi stupidi, o scatenati su un prato a giocare a football, ancora una volta non possiamo sapere se veramente si tratti di spreco dell'energia e dell'ingegno, o se anche questo, domani, in qualche forma che ora ignoriamo, darà frutti. Perché infinite sono le possibilità dello spirito. Ma non dobbiamo lasciarci prendere, noi, i genitori, dal panico dell'insuc
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cesso. I nostri rimproveri debbono essere come raffiche di vento o di temporale: violenti, ma subito dimenticati; nulla che possa oscurare la natura dei nostri rapporti coi nostri figli, intorbidirne la limpidità e la pace. I nostri figli, noi siamo là per consolarli, se un insuccesso li ha addolorati; siamo là per fargli coraggio, se un insuccesso li ha mortificati. Siamo anche là per fargli abbassare la cresta, se un successo li ha insuperbiti. Siamo là per ridurre la scuola nei suoi umili ed angusti confini; nulla che possa ipotecare il futuro; una semplice offerta di strumenti, fra i quali forse é possibile sceglierne uno di cui giova[...]
[...] per sommi capi, e la vita religiosa, e la vita dell'intelligenza, e la vita affettiva, e il giudizio sugli esseri umani; noi dobbiamo essere, per loro, un semplice punto di partenza, offrirgli il trampolino da cui spiccheranno il salto. E dobbiamo essere là per soccorso, se un soccorso sia necessario; essi debbono sapere che non ci appartengono, ma noi sì apparteniamo a loro, sempre disponibili, presenti nella stanza vicina, pronti a rispondere come sappiamo ad ogni interrogazione possibile, ad ogni richiesta.
E se abbiamo una vocazione noi stessi, se non l'abbiamo tradita, se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a ser
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villa con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell'amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l'abbiamo, o se l'abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si é installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tro[...]
[...], se abbiamo continuato attraverso gli anni ad amarla, a ser
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villa con passione, possiamo tener lontano dal nostro cuore, nell'amore che portiamo ai nostri figli, il senso della proprietà. Se invece una vocazione non l'abbiamo, o se l'abbiamo abbandonata e tradita, per cinismo o per paura di vivere, o per un malinteso amor paterno, o per qualche piccola virtù che si é installata in noi, allora ci aggrappiamo ai nostri figli come un naufrago al tronco d'albero, pretendiamo vivacemente da loro che ci restituiscano tutto quanto gli abbiamo dato, che siano assolutamente e senza scampo quali noi li vogliamo, che ottengano dalla vita tutto quanto a noi é mancato; finiamo col chiedere a loro tutto quanto può darci soltanto la nostra vocazione stessa: vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se, per averli una volta procreati, potessimo continuare a procrearli lungo la vita intera. Vogliamo che siano in tutto opera nostra, come se si trattasse non di esseri umani, ma di opera dello spirito. Ma se abbiamo noi stessi una vocazione, se non l'abbiamo rinnegata e tradita, allora possiamo lasciarli germogliare quietamente fuori di noi, circondati dell'ombra e dello spazio che richiede il germoglio d'una vocazione, il germoglio d'un essere. Questa è forse l'unica reale possibilità che abbiamo di riuscir loro di qualche aiuto nella ricerca di una vocazione, avere una vocazione noi stessi, conoscerla, amarla e servirla con passione: perché l'amore alla vita genera amore alla vita.
NATALIA GINZBURG
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[...]ei uscito ieri sera... chi svolge il tuo lavoro non può fare vita di mondo ».
Così per dieci anni. Quando poi ebbi toccato i quaranta, mia madre decise per me il matrimonio. Cominciò ad accennarvi vagamente; poi prese a portarmi esempi di amici cari che adesso godevano di figli,
di affetti. Finalmente, adottò una specie martellante di lamento: le restavano pochi anni di vita, ripeteva a non finire, e non sarebbe morta contenta a sapermi « solo come un cane ». Inoltre, si rifaceva in continuazione a parenti o conoscenti « finiti in mano alla serva », o a casi di scapoli in un modo o nell'altro caduti e svergognati; ricordandomi i miei anni, e rinfacciandomi il mio temperamento portato ai comodi, ai sentimenti domestici.
Io, su questo punto, anche se dolendomene, ero assolutamente deciso a non obbedirle. Non volevo cambiare bruscamente la mia vita e mettermi a vivere con una donna; né volevo rinunziare alle mie abitudini, belle o brutte che fossero. Per esempio io chiamavo sempre Giuseppina per farmi fare il caffè (non bevo e fumo rarame[...]
[...]a e mettermi a vivere con una donna; né volevo rinunziare alle mie abitudini, belle o brutte che fossero. Per esempio io chiamavo sempre Giuseppina per farmi fare il caffè (non bevo e fumo raramente, il caffè é l'unica mia passione); e questo con la moglie, anche ad avere una cameriera efficiente quanto Giuseppina, non mi sarebbe stato possibile: mi sarei vergognato di farlo tanto spesso. E le stesse cure affettuose che mi venivano da mia madre, come le avrei sostituite? Non avrei potuto pretendere dalla moglie che la mattina mi riscaldasse il cerchio di legno della tazza. (Non é che fosse per me importante trovare il cerchio caldo anziché freddo, ma quell'azione di mia madre faceva parte della mia prima mattina). E poi portare d'inverno le mutande lunghe di lana, con un freddo clemente come quello di Roma, è una cosa che a quarantadue anni, quando si é sani e robusti come me, non si può fare: qualsiasi ragazza avrebbe riso. Invece a casa mia questo era pacifico: una mattina dei primi di novembre Giuseppina diceva «fa freddo », ed io in camera trovavo la biancheria dell'inverno.
Così, vivevo nell'agitazione: sempre ansiosamente combattuto fra la propensione ad obbedire comunque a mia madre e il proposito fermissimo di salvare la mia vita. Tuttavia, quando mia madre intraprendeva i
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discorsi matrimoniali, riuscivo a districarmi senza contraddirla: col farli cadere con garbo, o col fingere un appuntamento imminente, o una telefon[...]
[...] a rincorrermi per le scale. Io al pianterreno, dov'ero frattanto arrivato, ho aperto il cancello dell'ascensore e ho infilato di forza Giuseppina nella cabina, senza dire una parola.
Poi un giorno mia madre me ne ha fatto una grossa. Forse vedendo in pericolo la sua autorità, o imminente la mia rivolta, ha fatto venire a Roma zio Alfonso.
Zio Alfonso, fratello di mio padre, vive a Napoli, é scapolo e lavora in un'industria farmaceutica. Passa come la persona più autorevole della famiglia, certo per l'aspetto serio, ma soprattutto perché la sua passione é l'araldica (ha fatto tante ricerche sulla nostra famiglia e ne parla sempre). E affabile e misurato, ma confida troppo spesso ai parenti il suo pentimento di non essersi sposato.
E entrato nella mia stanza con un sorriso commosso e mi ha abbracciato. Poi mi ha detto che era venuto a Roma per alcune ricerche araldiche da compiere in Vaticano: si trattava di giustificare un «attacco» che ad un suo amico stava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parland[...]
[...]ava molto a cuore, a Napoli non gli sarebbe stato possibile. Ha continuato parlandomi del suo lavoro in fabbrica,
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poi mi ha detto che avrei fatto bene ad interessarmi un po' di più del mio nome. « Tu che hai tempo » ha sussurrato, « faresti bene ad insistere nel distinguerti partendo proprio dall'araldica ».
Io ho tenuto a precisargli che la mia libertà è una favola. Mi è venuto naturale di alzare la voce. « Siccome dopo la laurea sono stato quattro anni senza lavorare » gli ho detto sulla faccia, «tutti mi credono un perdigiorno, un dilettante che si diverte a fare lo spauracchio dei ladri. Invece passo almeno dieci ore del giorno in ufficio ».
« Statti queto, Nicò » ha detto lo zio. « Chi la mette in dubbio, la tua diligenza? ». Ha arrotondato le labbra, e mi ha guardato a lungo con una smorfia affettuosa.
Mi sono alzato e sono andato ad affacciarmi alla finestra. S'è alzato anche lui, e ha mosso qualche passo nella stanza. Quando mi sono voltato, m'è venuto incontro rapido, e mi ha messo le mani sul[...]
[...]è facile trovare lavoro ».
« Dove lavora ? » le ho chiesto.
« Al bar Corallo, in via Po... Faccio la cassiera ».
« Stia tranquilla, signorina » le ha sorriso il maresciallo.
Se n'é andata lanciandomi un altro sguardo lungo. Io sono andato a guardare il verbale e ho letto l'età : ventisei anni. Porzio mi ha detto : « Vedesse che tipo, il fidanzato... ».
La sera sono andato al bar Corallo. Appena mi ha visto Wanda mi ha sorriso con sicurezza, come se si aspettasse la mia visita. Subito ha chiamato il proprietario e me lo ha presentato, dicendogli con affettazione la mia professione. Il proprietario s'é inchinato, poi ci ha lasciato soli.
Wanda mi ha chiesto se il fidanzato era in carcere. Le ho detto che credevo di si, a disposizione dell'autorità giudiziaria; ma che presto sarebbe stato rimesso in libertà. « Con questo freddo... » ha detto lei ridendo. Ha sbagliato due volte nel dare il resto agli avventori, e quando quelli le hanno fatto notare l'errare mi ha sorriso.
Sono tornato a trovarla per quattro cinque sere. Ridacchiava bis[...]
[...]rada quando per il turno finiva a mezzanotte. Io annuivo, sorridevo, qualche volta replicavo; era contento che fosse lei a parlare.
Finalmente una sera mi ha detto : « Ancora non mi ha invitato a fare una passeggiata »._
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« Possiamo farla stasera » ho risposto. « A che ora finisce qui? ». « Alle nove ».
« Allora l'aspetto di fuori ».
Ho telefonato a mia madre e le ho detto che avrei cenato fuori con un collega di Bari. « Come si chiama?» ha detto mia madre. Io ho finto di aver capito se avevo le chiavi, e ho detto « sì, le ho in tasca, sta' tranquilla ». Poi ho interrotto la comunicazione.
Mi sono messo a passeggiare per via Po e ho sentito molto freddo. Alle nove Wanda è uscita. Siamo subito saliti in macchina e mi sono diretto verso Ponte Milvio. Passato il ponte ho imboccato la Cassia, poi ho preso una strada che mena alla Flaminia e mi sono fermato in un anfratto. Durante il tragitto siamo stati in silenzio.
Appena ho spento il motore Wanda mi ha abbracciato stretto e mi ha baciato. Io mi sono sentito avvamp[...]
[...]ofumata male.
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Quando l'ho accompagnata alla porta le ho detto « ti voglio bene ». Lei mi ha dato un bacio lascivo, e ha detto « non. ci credo ».
Nei giorni che sono seguiti l'ho vista con regolarità, e negli stessi giorni ho ricevuto una delle solite visite. La ragazza era leggermente zoppa e assai loquace. (Mia madre la mattina mi aveva detto: « Ha avuto la paralisi infantile ed ha un piccolo difetto, ma è carina »).
Siccome cominciavo a sentire Wanda anche affettuosa, una mattina, facendo colazione, ho deciso di invitarla a casa, questa volta per offrirle una tazza di té in salotto con tutte le regole. Ho subito chiamato mia madre, e l'ho avvertita. Lei ha capito che si trattava di una donna che non mi sarebbe stato leggero presentarle, e anche che ne ero preso; mi ha detto: « Non disperderti, guarda che i cinquant'anni sono alle porte ».
Quando Wanda ha suonato_ Giuseppina é andata ad aprire, e l'ha fatta aspettare nell'ingresso. Io avevo il respiro affannato e tremavo, già da mezz'ora. Mia madre é andata subi[...]
[...] subito di far preparare da Giuseppina la mia roba, e che la sera stessa me ne sarei andato via. Mia madre non mi ha risposto, io sono uscito. Sapevo che quella sera Wanda cominciava a lavorare alle sei, e alle sei meno dieci ero davanti al bar.
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Poco dopo l'ho vista arrivare, col passo stanco e un vestito più corto. Non aveva l'aria di disappunto che mi aspettavo. Mi ha detto che era rimasta male, ma sorridendo, come se parlasse di un'altra. Le ho fatto le mie scuse. « Tu non c'entri » ha detto lei, « tua madre vuole che tu frequenti le signore... e poi deve avermi giudicata male ». Io le ho detto che mia madre era nevrotica, lei forse non ha capito la parola e mi ha detto « non parliamone più ». Poi é entrata nel bar.
Dall'ufficio ho telefonato ad un albergo secondario del centro ed ho prenotato una stanza. Poi ho mandato un agente a casa a prendere la mia roba. Gli ho ordinato di portarmi le valigie ad un bar prossimo all'ufficio, per evitare che mia madre potesse strappargli il mio indirizzo. Alle nov[...]
[...] documenti addosso.
Wanda è venuta spesso a prendermi in ufficio, in quei giorni. Una volta l'ho trovata che chiacchierava con Porzio, nell'anticamera. Lei era addossata al muro, Porzio le stava assai vicino e le parlava in una maniera ad un tempo ammiccante e languida, da corridoio di treno. Appena mi ha visto si é fatto serio e si é scostato.
Quelle visite mi seccavano, perché non mi pareva conveniente che in un commissariato venissero donne come Wanda a prendere i funzionari. Sicché un giorno l'ho pregata di non venire più; lei mi ha sorriso e mi ha detto « va bene ». Allora ha cominciato ad aspettarmi in un bar vicino, e presto ha fatto amicizia con la cassiera. Quando io arrivavo mi pareva che parlassero di me, con una certa complicità. Una sera ho spiegato a Wanda la necessità di una riservatezza assoluta, in un rapporto come il nostro. « Non parlare mai dei fatti nostri » le ho detto.
Abbiamo continuato a girare con la macchina, a fermarci in posti solitari, ad amarci come potevamo. Intanto, l'albergo mi disturbava sempre di più. Mi pareva di vivere in uno stabilimento industriale, per l'andirivieni continuo, il personale numeroso davanti al quale dovevo passare, il rumore delle macchine che la mattina pulivano i pavimenti. In più, dovevo scegliere fra lo stare nella sala in mezzo agli altri, e il ridurmi nella mia camera, dove non potevo fare nient'altro che non fosse il dormire. Sicché una sera, lungo l'Appia Antica, ho detto a Wanda: « Adesso cerchiamo un appartamento e andiamo a vivere insieme, se ti va ». Wanda
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mi ha guardato incredu[...]
[...]il nodo della cravatta.
Abbiamo visto insieme diversi appartamenti ammobiliati, ma presto ho capito che era impossibile fare quelle ricerche con Wanda. Per la verità alcuni di questi appartamenti ci erano mostrati da vecchie oscene, altri da gente svergognata; ma i modi di Wanda m'irritavano. Faceva gesti da strada contro i portieri non solleciti nell'aprirci l'ascensore, difendeva il mio denaro strillando, trattando i proprietari con acredine, come se fossero stati senz'altro dei ladri. Già entrando atteggiava la faccia a sopportazione, a disgusto.
Così ho deciso di girare da solo; e finalmente ho trovato questo appartamentino di via Lanciani, tranquillo e ridente, che è composto da una camera da letto matrimoniale e da una stanza per il soggiorno. Wanda ha disdetto subito la stanza di via Famagosta; e quando ha portato la sua roba nell'appartamento ha pianto. Ha spiegato che quella per lei era una gioia nuova. Quando poi le ho detto che avrebbe fatto la donna di casa, e che poteva lasciare il lavoro, il pianto le si è fatto dirotto. M[...]
[...]a di via Famagosta; e quando ha portato la sua roba nell'appartamento ha pianto. Ha spiegato che quella per lei era una gioia nuova. Quando poi le ho detto che avrebbe fatto la donna di casa, e che poteva lasciare il lavoro, il pianto le si è fatto dirotto. Mi ha abbracciato a lungo appoggiandomisi, mi ha bagnato tutta la faccia e mi ha appannato gli occhiali.
Mi sentivo adesso più libero e pieno, più affondato nella vita; mi pareva di esistere come una persona nuova. Quando la mattina mi alzavo Wanda dormiva ancora, Giuseppina era lontana ed io dovevo badarmi da me. Mi alzavo in una maniera svelta, quasi sportiva. Durante la toilette non pensavo; i particolari impiccianti del corso della vita non mi pungevano piú. Anche le parole che dicevo erano diverse, come se avessi buttato via tutto il vecchio repertorio. In ufficio ero allegro, e tutto dell'ambiente mi pareva accettabile: i mobili vecchi e scalfiti, la luce blanda e triste che filtrava attraverso i vetri opachi delle finestre, l'odore delle pratiche e dell'inchiostro per timbri. Analizzavo poco le cose, mettevo meno veleno nel comando, comprendevo di piú.
Ogni giorno, adesso, telefonavo a mia madre. Lei si limitava a chiedermi notizie sulla salute, e a domandarmi se il riscaldamento, dove mi trovavo, era sufficiente; al massimo accennava a qualche novità, che per solito riguardava i parenti:[...]
[...]di portarla a ballare. Io le ho detto di no, ma lei mi ha pregato. Allora ho mandato un agente a casa a prendere un vestito scuro che avevano dimenticato di mettermi nelle valigie; e ho aspettato il primo giovedì, perché in questo giorno si ballava in un locale prossimo alla Stazione del quale conosco il proprietario, e — inoltre — perché non volevo andare nei locali la notte. Siamo entrati nel dancing presto, insieme a quelli dell'orchestra. Siccome Wanda ballava con movenze insistite, mi sono limitato ad un tango.
Com'era diversa dalle ragazze che mía madre mi cacciava in casa! Si dondolava sulle sedie, si grattava dappertutto senza pudore, al telefono strillava. Mangiando sbatteva le labbra; un giorno le ho detto « fa' piano, mi sembri un cane », e lei ha riso.
Una volta mi ha detto che era nata alla Garbatella. Quando aveva dodici anni lavava le teste da un parrucchiere del Corso, e aveva imparato a fatica le strade del centro, in ispecie i vicoli la confondevano. Mi ha detto anche che allora c'erano gli Americani, e il Corso sembra[...]
[...]ona; la madre procurava ragazze ai soldati stranieri, e trafficava nelle cucine dei campi militari. Sicché lei la sera si comprava qualche cosa e mangiava sola. Poi cadeva sul letto, abbattuta dalla stanchezza. La mattina, quando si alzava, il padre e la madre erano usciti; qualche volta non li vedeva per una settimana.
Spesso ci aiutavamo a farci la doccia, e lei mi vezzeggiava. Dopo di avermi asciugato mi cospargeva tutto il corpo di talco; « come ai bam
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bini » diceva. Quando non uscivamo, la sera mi sdraiavo sul divano del soggiorno, lei attendeva alla cucina o rassettava la stanza da letto (era molto meticolosa nel pulire e lucidare). Ogni tanto veniva a sedermi accanto, e qualche volta mi parlava di Lucio, il fidanzato (che era ormai a piede libero), del bene che gli aveva voluto. Aveva saputo dal garzone del bar Corallo che lui la cercava per tutta la città. « E un mascalzone » diceva, « ma mi fa pena ». Io le facevo domande: dove andavano a fare l'amore, con che frequenza lo facevano, se andavano spesso a[...]
[...]inema, e a ballare. Lei qualche volta mi rispondeva, per esempio che l'amore lo facevano in campagna la sera, se non faceva troppo freddo, oppure che ai films e al ballo Lucio preferiva le pizze; ma talaltra volta mi guardava storto, chiaramente indignata per quella curiosità. Che non era, malsana, giacché quelle domande erano mosse da un sentimento di affetto, ed erano dirette ad inquadrarla, a capirla meglio.
Una volta prese lei l'iniziativa: come per scolpare Lucio, mi disse che non era stato lui a cominciarla all'amore; la scusassi, la sera della nostra prima uscita mi aveva detto una bugia. Era stato invece un capitano francese, quando lei aveva tredici anni e Roma era ancora occupata. L'aveva fatta salire nella sua stanza del « Plaza », adducendo che la moglie aveva bisogno di uno shampoing. Ma la moglie non c'era, forse non esisteva, e lui le aveva strappato una gonna proprio bella, comprata il giorno prima.
La maniera tranquilla nella quale Wanda ricordava il suo passato, che mi si offriva esatto e senza veli, mi aiutava a svinc[...]
[...]va bisogno di uno shampoing. Ma la moglie non c'era, forse non esisteva, e lui le aveva strappato una gonna proprio bella, comprata il giorno prima.
La maniera tranquilla nella quale Wanda ricordava il suo passato, che mi si offriva esatto e senza veli, mi aiutava a svincolarmi dal passato mio. Ne risultava una grande libertà: sempre di più si dileguava la paura di vivere. Non avevo più il gusto affannato di scandagliare le miserie delle donne, come quando dovevo accontentarmi di conoscerle nell'intuizione, in virtù degl'interrogatorî fatti a quelle che incappavano nel mio mestiere; non era più necessario che io fantasticassi sulla rovina di donne e di uomini, e me ne alimentassi per rabbonirmi. Adesso i racconti sereni che Wanda mi faceva, di stenti e di brutture, mi cancellavano ogni residuo di una giovinezza solitaria, e mi rendevano l'ansia passata accettabile come una cronaca.
Inoltre, se è vero che a sentirmi senza mia madre, così solo con Wanda di fronte alla vita, provavo qualche brivido di disperazione, tuttavia la voce di Wanda, o il suo lavarsi veloce, o il suo farsi scattare addosso le giarrettiere, o il suo girare discinta nello stesso spazio dove an
AVVENTURA DI UN COMMISSARIO 123
ch'io vivevo, se appena vi badavo, mi ridavano subito la fede nella giornata, nella gente.
Ho continuato a giovarmi di questa vita; ed anche Wanda. Due mesi dopo l'inizio della convivenza, lei mi pareva parecchio mutata : aveva migliorato nell'educazione, nell'ab[...]
[...]ore gli ha alterato la faccia. L'ho fatto entrare nel soggiorno, e sedere.
Mi ha detto subito che quelli del commissariato, in occasione del mio compleanno, s'erano permessi di offrirmi un modesto segno di stima; eccetera. Ha fatto per aprire lo scatolone; ma è venuta Wanda, ha salutato Porzio, che si è alzato e si è inchinato, e ha voluto aprirlo lei. « E proprio bello » ha detto appena ha estratto il frullatore dall'involucro. « Vado a vedere come sta in cucina ».
Porzio mi ha ripetuto che quel regalo era una schiocchezza, ma che partiva dal cuore, ed io dovevo badare al pensiero.
Wanda è tornata e si è seduta. Porzio ha preso a parlarmi di certi lavori murari che in ufficio ormai urgevano, ma io non l'ho seguito perché Wanda aveva intanto accavallato le gambe e le stava muovendo, in maniera che la veste le salisse. Mi sono messo gli occhiali per seguire bene la moina, e ho guardato Wanda malamente. Porzio, continuando a parlare con la voce fattaglisi adesso fessa, ha fatto una faccia tragica: cercava di non guardare le cosce di Wand[...]
[...]l mio ingresso nella stanza; o addirittura una donna qualsiasi che gli avesse telefonato per motivi d'ufficio: una parente di un « fermato » per avere notizie, un'affittacamere o una negoziante per pratiche relative alla licenza. Ma in questo caso perché Porzio avrebbe salutato la donna tosi affrettatamente? Poteva chiudere la telefonata in un modo limpido! E se fosse stata proprio Wanda? Se si fosse camuffata bene agli occhi miei, mostrandomisi come una ragazza semplice, bisognosa d'affetto, e fosse invece una donnaccia sempre disponibile, pronta a rischiare tutto per un'ora d'amore con questo o con quello, con Porzio, per esempio, che in fondo avevo sorpreso una volta nel corridoio dell'ufficio che la avvinceva con le parole?
Non m'importava niente, a quel punto, che mia madre mi controllasse e tramasse con Porzio. Ma invece, ridisponendo le carte in mezzo al tavolo, volevo essere certo che fra Wanda e lui non corresse alcun rapporto; e che non si fossero mai parlati al telefono. Intanto, non avrei saputo bene quale condotta tenere il [...]
[...] folle.
Mi sono detto « basta » nel momento stesso in cui mi sono accorto di non essere guarito. La vita con Wanda mi aveva ravvivato, ma era vernice debole, facile a scrostarsi: nel fondo ero rimasto com'ero quando vivevo con mia madre.
Era tardi, mi sono alzato e mi sono diretto verso la stanza di Porzio. Nel corridoio badavo a non pestare le righe scure che dividevano le mattonelle. Ero nello scompiglio, ma nello stesso tempo legato ai fili come una marionetta; mi pareva che il baratro mi richiamasse. Non ho distinto due che incontrandomi si sono disgiunti per cedermi il passo, e mi hanno detto « ossequi, dottore ». Dalle stanze con la pörta aperta, insieme al rumore di macchine che battevano verbali, mi veniva un si
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lenzio insostenibile. Se quella era la vita, quando sarei riuscito a starci dentro? Quando sarei stato anch'io come Porzio? A cinquant'anni? O, non piuttosto, mai?
Porzio mi ha informato con garbo e competenza, assai concreto nella definizione dei lavori, del tutto scevro dal timore di poco prima. Ed io sono riuscito a parlargli serenamente, reprimendo bene il fondo tempestoso; gli ho offerto una sigaretta, e forse ho ecceduto nella cordialità : come il maestro che a scuola interroga il ragazzo che giudica malvagio, e si sforza di essere imparziale, e magari gli alza il voto perché non si sospetti prevenzione.
In uno dei giorni successivi ho ricevuto in ufficio una lettera di mia madre. Riconoscendo sulla busta la sua calligrafia, ho pensato ad una possibile conferma dell'ipotesi del suo complotto con Porzio. Ma il tenore della lettera non era cos' liberatorio. Su un foglio abbondantemente bordato di nero (giacché frattanto sua cugina era morta) era scritto: «Quanti anni credi che possa vivere ancora tua madre? Lo sai come vivi? Pensa a [...]
[...]ché non si sospetti prevenzione.
In uno dei giorni successivi ho ricevuto in ufficio una lettera di mia madre. Riconoscendo sulla busta la sua calligrafia, ho pensato ad una possibile conferma dell'ipotesi del suo complotto con Porzio. Ma il tenore della lettera non era cos' liberatorio. Su un foglio abbondantemente bordato di nero (giacché frattanto sua cugina era morta) era scritto: «Quanti anni credi che possa vivere ancora tua madre? Lo sai come vivi? Pensa a tuo padre che é morto, e torna ». Non c'era firma.
Mi sono messo a pensare. Certo, regalando un po' di soldi a Wanda e tornando da mia madre, potevo liberarmi dall'impiccio che mi aveva fatto passare un'intera serata ad analizzare le mosse possibili di Porzio. Del resto, avevo ormai capito che quella specie di gioia continuata era stata da me decisa, piú che raggiunta. Era infatti bastata quella telefonata per farmi ricadere nel pozzo. Ma il ritorno avrebbe dovuto essere di specie morale: voglio dire che in questo caso avrei dovuto lasciar decidere a mia madre tutta la mia vita[...]
[...]vedere se stessi per fargli più male. Aveva un profilo viscido, bruno. Sul pianerottolo gli ho dato un altro calcio, e una
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spinta. È stato per cadere a faccia avanti sugli scalini, ma ha ripreso equilibrio ed è scappato.
Sono tornato in casa avendo già deciso, nell'attimo in cui Lucio si riprendeva per fuggire, di spezzare a Wanda tutt'e due le braccia. Nel soggiorno una nebbia fitta mi ha offuscato la vista: vedevo Wanda come una lunga macchia scura. L'ho raggiunta. Si era rimessa il vestito e non piangeva piú. L'ho afferrata ai polsi. Lei s'è divincolata, s'è voltata e rapida ha aperto la finestra. Con uno strattone l'ho allontanata, e sono riuscito a chiudere la finestra prima che lei strillasse. Poi mi sono lasciato andare su una sedia. Wanda è corsa nel bagno, e vi si è chiusa. Con la voce roca per la gola secca le ho strillato: « Ti dò un quarto d'ora di tempo per farti la valigia e andartene ». Poi sono uscito.
Con un tassi ho raggiunto l'ufficio. Ne ho guardato le finestre, ma nessuno vi era affacciato. Ho[...]
[...] mi sono lasciato andare su una sedia. Wanda è corsa nel bagno, e vi si è chiusa. Con la voce roca per la gola secca le ho strillato: « Ti dò un quarto d'ora di tempo per farti la valigia e andartene ». Poi sono uscito.
Con un tassi ho raggiunto l'ufficio. Ne ho guardato le finestre, ma nessuno vi era affacciato. Ho preso la mia macchina e sono andato poco lontano, in una strada solitaria. Mi sono fermato all'ombra di un albero. Il cervello era come coperto dall'ovatta: la grande tensione partiva dal corpo, a lunghe linee, e si propagava per tutta la strada. La concatenazione possibile dei fatti mi pareva di averla nello stomaco. Mia madre aveva fatto sorvegliare Wanda e la casa, era chiaro. Era sapiente, lei. S'era informata su Wanda e aveva dedotto che non avrebbe potuto non tradirmi, e proprio in casa mia. E l'esecutore era stato certamente Porzio. Porzio conosceva Lucio, ed era bravo. Così, tutti mi avevano giocato poche settimane dopo la mia ribellione. La ribellione non mi era congeniale. Non aveva senso dire « mi sono mosso tardi [...]
[...] le hai telefonato ».
« Sissignore, secondo gli accordi ». S'è inchinato e ha fatto per andarsene.
« Aspetta un momento » l'ho fermato. « Lo sai com'è finita la cosa? ».
« Lo immagino... Ho visto prima uscire quel giovinastro, conciato male... Poi lei, e poi la signorina, che è salita su un tassi con la valigia ».
« E ti rendi conto di quello che hai fatto?... Quel giovanotto può andare a dire... ».
« Non si preoccupi... Quello lo schiaccio come un verme quando voglio... Dottore, mi prendo io tutta la responsabilità... Non volevo, ho resistito per tanti giorni... Poi sa com'è quando le vecchie piangono... Oh, scusi, volevo dire le signore anziane... Sua madre ha insistito, ha parlato con mia moglie... Ci ha invitati anche a pranzo, una volta... C'era un suo parente di Napoli.. ».
«Zio Alfonso » l'ho interrotto.
« Il nome non lo so... Era un signore distinto, magro; un fratello di suo padre, mi pare... Il piano l'ha fatto lui ».
« Quindi mia madre ti telefonava spesso, qui ».
« Sissignore ».
« E la signorina, non ti ha telefonato[...]