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tipologia: Analitici; Id: 1543252


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Tipologia Periodico
Titolo Recensione di Giuseppe Grilli a Joaquim Molas, La literatura catalana d'avantguarda. 1916-1938
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RECENSIONI

Joaquim Molas, La literatura catalana d’avantguarda. 1916-1938, selecció,

edició i estudi, Barcelona, Antoni Bosch, 1983, pp. 458.

L’avanguardia storica attraversa tutta la letteratura catalana del Novecento, ma non ne svela l’enigma, anzi l’accresce. È presente in tutte, o quasi tutte, le sfaccettature del movimento (futurismo, cubismo, dada, surrealismo, ecc.), ma nessuna delle grandi correnti internazionali adotta fino in fondo, omologa e si fa cassa di risonanza di un poeta catalano. Con i pittori accade, invece, esattamente l’opposto: Torres Garcia, Dalì, Miro, Renau, e poi i giovani del gruppo Dau al set, sono tra i massimi rappresentanti delle nuove tendenze. Alcuni, come Dalì e Miro, espressero la caratteristica oscillazione, propria del secolo, tra affermazione parigina e mercato newyorkese. Altri, come Torres Garcia o Renau, scelsero il mercato parallelo, quello dell’ideologia, e una committenza pubblica o collettiva. Tuttavia nei movimenti d’avanguardia è impossibile separare il lavoro di scrittura da quello delle immagini visive, cosi come la produzione dal successo commerciale. Ciò ha reso l’avanguardia catalana il solo ridotto ancora inesplorato che possa offrire delle sorprese. Pretesa esplicita del volume di Joaquim Molas è appunto di attirare l’attenzione, e allo stesso tempo far luce, sull’ultimo segmento importante dell’avanguardia europea che restava in ombra. Il proposito è perfettamente raggiunto.

Il libro si divide in due parti. La prima ci offre uno studio sistematico dei movimenti di avanguardia catalana e una cronologia minuziosissima, ma dà anche tutte le informazioni sulle interferenze bi- o multinazionali: Borges poeta avanguardista a Mallorca, Torres Garcia costruttivista a Montevideo, Miro poeta parigino, ecc. La seconda parte, invece, è un’ampia antologia di manifesti, scritti teorici, testi poetici e visivi, selezionati secondo il criterio esclusivo di appartenenza alla serie di lingua catalana. Questa impostazione selettiva, di impianto nazionale, impone anche il taglio cronologico, che va dal 1916 al 1938. Anche se le motivazioni non sono tutte esplicite, non è difficile capire quali siano i criteri adottati da Molas. La data terminale è del tutto esterna: indica la fine della guerra dei Tre anni (1936-1939) e l’anticipazione al 1938, cioè agli accordi di Monaco, è di ovvia necessità. Più ambigua è la data 1916. Alcuni indizi tenderebbero a identificarla con una predilezione dadaista da intendersi come interesse di dada per la Catalogna, e in particolare per Barcellona, e dei catalani per dada. Altri, più banalmente, fanno pensare che si registri, attorno al marchant Dalmau, una piccola concentrazione di esiliati e fuggiaschi dalle calamità della guerra; tra essi fu decisivo Picabia. Altri ancora tenderebbero a indicare, in coincidenza con la guerra, nella crisi di identità degli intellettuali (filotedeschi o filofrancesi?), i primi sintomi della crisi del noucentisme. E sarebbe ipotesi suggestiva leggere nelle Lettere a Tina (1915) di Eugeni d’Ors le radici della rivolta dei suoi seguaci che non intendevano seguirlo in un neutralismo che poteva parere loro abbandono della causa parigina. Una rivolta che portò alla rottura di lì a qualche anno, non appena il presidente Prat de la Riba, germanofilo notorio, passò a miglior vita. Ad ogni modo un rilassamento della militanza, noucentista o modernista, potrebbe essere anch’essa tra leRECENSIONI

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cause dell'insorgere, intorno al 1916, delle prime manifestazioni di cosmopolitismo letterario. (Sul contesto di quegli anni: G. Grilli, Realtà e avventura nella letteratura catalana del Novecento, « Belfagor », xxvn, 1972, pp. 121-136).

Punto di incrocio di ragioni diverse, il ritardo con cui nasce l’avanguardia catalana determina la sua storia successiva: quel certo eclettismo un po’ dandy, un po’ provinciale di Junoy e Folguera; quel continuo impegnarsi, e poi svicolare, di Foix; quell’epigonismo così passatista di Sànchez-Juan; quel radicalismo troppo declamatorio dei surrealisti Dalì, Gasch, Montanyà e dei loro emuli di sinistra (Mira-vitlles) o di destra (Diaz-Plaja, Massoliver); ecc. Parimenti il prolungarsi negli anni Trenta dei movimenti, quando il futurismo salvatiano si converte in letteratura popolare, o addirittura in paraletteratura, e il surrealismo passa da una gestione di sinistra, filotrozkista, a un tentativo di strumentalizzazione filofascista, determina la strana condizione dei gruppi del dopoguerra, sospesi tra legami utopici con la tradizione delle avanguardie storiche e la prefigurazione della neoavanguardia. Tutto sommato, però, le difficoltà che scaturiscono dalla fissazione della cronologia proposta da Molas non credo che possano diminuire il vantaggio rappresentato da una definizione del quadro di riferimento. Questo alla fine risulta capiente e unitario insieme; è infatti capace di comprendere le manifestazioni più significative: dalla pubblicazione nel 1916 della prima rivista catalana d’avanguardia, il primo quaderno di Trogos di Junoy, fino a quella dell’ultimo libro relazionato con la sommossa surrealista, Imitació del foc di Bartolomeu Rosselló-Pòrcel, proprio nel 1938.

Scontati i problemi di datazione, altri affascinanti fenomeni si presentano all’attenzione dello studioso della cultura contemporanea. I catalani, consapevoli dell’ambito ridotto e precario offerto dalla propria condizione nazionale, puntarono decisamente sull’avanguardia come un mezzo di comunicazione internazionale e antiprovinciale. Questa apertura, di cui fu instancabile mentore Dalmau, trovò però un limite invalicabile nell’azione di normalizzazione e di normativizzazione della lingua intrapresa, proprio negli anni iniziali del secolo, dallTnstitut d’Estudis Catalans e da Pompeu Fabra. Un’azione il cui significato nazionalista era inequivocabile e che richiedeva, da una parte, la solidarietà di tutti e, dall’altra, uno sforzo centripeto importante. Era esattamente il contrario di quanto affermavano tutti i movimenti di avanguardia che reclamavano la rottura delle solidarietà e il massimo di impegno centrifugo. Da questa contraddizione derivò la tentazione calligrafica che tanto affascinò figure, per altro suggestive, come Vicen$ Sole de Sojo, Carles Sindreu, o Àngel Planells e Carles Claveria. Ma di lì nacque anche il timore per ogni uso edonistico del linguaggio, un timore che condusse il valenciano Carles Salvador a una sintesi futurista-nazionalista tanto moderata che alcuni dei suoi « opositors, com Duran de València, manejaren, anava a dir sense ànim de paradoxa, més motius d’Avantguarda que no Salvador » (p. 65). Si trattava di una reticenza direttamente legata alla condizione linguistica: c’è una frecciata polemica in uno dei manifesti di C. Salvador rivolto al gruppo de « L’Amic de les Arts », giornale su cui si davano appuntamento tutti i surrealisti catalani tra il 1926 e il 1930, in cui si fa sintomaticamente riferimento all’occitanismo come nota ideologica di fondo del gruppo stesso. E forse non è un caso che quello straordinario pasticcio linguistico e ideologico che è il Jusep Torres Campalans di Max Aub sia opera di un valenciano di adozione, scrittore di lingua spagnola ma apolide. Il suo romanzo, che è tra le poche cose di rilievo nate dall’esilio dei repubblicani spagnoli dopo il 1939, è infatti espostissimo nei confronti della tematica che stiamo trattando, solo che questa volta il paradosso è reale. Una biografia apocrifa di un pittore-scrittore catalano amico di Picasso riproduce le ossessioni delle avanguardie storiche catalane a più di trent’anni di distanza, inseguendone le tracce sino nelle sue appendici sudamericane e populiste, in una242

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forma della scrittura che ricorda la singolare identificazione linguistica del ciclo valenciano di Blasco Ibanez.

In realtà la preoccupazione per la lingua, una lingua che ha vissuto in pieno secolo xx la sua riforma classica, o neoclassica, sembra infatti che avrebbe dovuto bloccare ogni congrua manifestazione testuale di sovversione (cfr. al riguardo il saggio di J. V. Foix, Algunes consideracions sobre la literatura d’avantguarda, del 1925, riprodotto alle pp. 193-198). Oppure provocare sensi di colpa e regressioni. In parte ciò accadde, anche se con eccezioni, alcune delle quali furono programmatiche e rumorose, come nel caso di Dall che si scatenò in trasgressioni adolescenziali: dagli errori d’ortografia più incredibili, alla denigrazione degli idoli del Parnaso catalano rinascente. Probabilmente proprio a questa condizione nazionale o provinciale della letteratura catalana, una condizione che Maragall all’inizio del secolo (1906) aveva sintetizzato nell’immagine del « crit de renaixen^a entre perills », è da ascrivere il mancato ingresso dei catalani nei gruppi organizzati internazionalmente, con la sola eccezione appunto di Dall. Ma anche in questo caso fu un’adesione con molte riserve, mediazioni e coperture: Gala, Bunuel, Garda Lorca, ecc. Un’adesione che culminò, per altro, nel 1934 nella richiesta, da parte di Breton, di espulsione di Dalì a causa delle sue dichiarazioni filonaziste (p. 108). Ma se del rapporto politico tra il surrealismo catalano e il leader riconosciuto dell’internazionale, è ormai noto se non tutto, almeno buona parte, ancora troppo poco sappiamo degli incontri e degli scontri avvenuti tra Marinetti e Salvat-Papasseit, o tra i massimi esponenti di dada e Foix. Ci sono indizi consistenti per affermare che questi rapporti ci furono; come mai sono rimasti occulti? L’aver posto questo interrogativo è un altro dei meriti del libro che stiamo commentando. C’è forse una superdirezione che travalica gli stessi gruppi dirigenti dei movimenti organizzati e che decide a chi dare la parola e a chi toglierla? Certo non è la prima volta che l’ipoteca cortigiana si affaccia all’orizzonte dell’avanguardia storica.

In fondo, però, il problema catalano resta quello indicato all’inizio, come coniugare le poetiche proprie del Novecento, modernismo e novecentismo, con i tre grandi filoni dell’avanguardia: futurismo, dada, surrealismo. Molas dedica al problema i primi due capitoli del suo studio, ma forse la questione non si esaurisce in una spartizione quantitativa. In vero tutti, o quasi tutti i gruppi e i gruppetti catalani hanno finito per rendere omaggio, più o meno sentito, alla simbologia di questo o quel movimento d’avanguardia, persino gli oppositori più accaniti, come il pittore-scrittore Santiago Russinyol, modernista, localista e colorista. C’è una sua bella tavola parolibera, ad esempio, nel giornale satirico « L’Equella della Torratxa » del 13.4.1917 che si intitola Retrat futurista', in essa le parole, disposte secondo la tecnica calligrammatica, disegnano il volto di un uomo-robot. È il fantoccio filo tedesco contro il quale si rivolge lo strale satirico-grottesco del poeta, del pittore e del polemista politico. D’altra parte, in termini generali, proprio il capitolo della poesia visiva per l’ampiezza dell’arco temporale occupato, il numero degli autori che ne sono stati suggestionati, l’ecumenismo delle tecniche impiegate, risulta quello che maggior consistenza dimostra. Può servire, a questo punto, ricordare la ricca tradizione metametrica catalana del barocco, espressione di autocompiacimenti, sterilità e accademici-smo, ma anche di sensibilità e attenzione alle correnti letterarie di moda. Sin dai primi anni del Novecento infatti è possibile reperire calligrammi alla Apol-linaire e tavole parolibere, composizioni dada e ultimi esempi di tipografia barocca, mentre avanzano, come si è visto, le prime manifestazioni parodiche eRECENSIONI

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si apprestano le utilizzazioni commerciali, pubblicitarie, delle nuove tecniche di collage. Molas mette ben in risalto la continuità dell’uso della poesia visiva, un uso in cui confluisce anche il gusto popolareggiante di un certo modernismo. Nogueras Oller, per esempio, già nel 1905 riprendeva il motivo del canto del beone di ascendenza goliardica - e nel metro della tradizione catalana del grottesco, il quadrisillabo di Jacme Roig! - in una disposizione tipografica a zig zag che riproduce l’incedere incerto dell’ubriaco. Analogamente è all’autore del primo saggio di critica militante novecentista, Joaquim Folguera (il suo Les noves valors de la poesia catalana è del 1919), che si devono esempi di poesia macchinista (Ambició), calligrammatica (Mùsics cecs al carrer), parolibere (Ve-tUa de desembre plujós) e, infine, tavole-calligrammi (En avió) in una esperienza di sintesi che fu anche di Junoy e che, invece, non sedusse mai il più puro Salvat, fedele alle formule futuriste ortodosse della parolibera e della tavola parolibera.

Naturalmente la quantità della letteratura prodotta non è garanzia di qualità, essa è infatti semmai indicativa della provvisorietà, della superficialità e del provincialismo con cui vengono recepite le nuove mode. Ma ci sono almeno due poeti, due grandi poeti, che tra una prosa di Dall e un dramma minimo di Sànchez-Juan meritano un posto a sé: sono Josep Salvat-Papasseit e Josep Vicens Foix. E sono autori che hanno prodotto un’opera che fuori dal contesto dell’avanguardismo risulterebbe quasi del tutto inintellegibile. Aver fornito il background di questi autori è un altro dei meriti del libro di J. Molas. A Salvat-Papasseit si devono infatti alcune delle più belle tavole del futurismo (una di esse è tradotta in italiano: Poesia sperimentale in Catalogna, « Carte segrete», 36, 1977, pp. 38-79). Ma la sua maggiore originalità è nel tentativo di costruire un vero e proprio poemetto neoclassico, una forma che Salvat riprende da Joan Maragall, integrandovi le innovazioni metrico-tipografiche e i contenuti della poesia futurista: è lo straordinario Poema de la rosa als llavis del 1924.

Foix è autore di una delle più belle composizioni dada (il Poema de Sitges); è l’inventore del realismo magico (Gertrudis, 1927 e KTRU, 1932), che egli introduce separandolo dalla scrittura automatica surrealista (per un confronto si vedano le prose di Dall e Planellas riprodotte da Molas); è il solo poeta d’avanguardia in Europa che riesca a mettere insieme nei sonetti di Sol, i de dol (1936) il sessismo postfreudiano, il medievalismo alla Maurras e il neoumanesimo della poesia pura postsimbolista. La sua influenza sulla letteratura futurista, dada o surrealista, è stata nulla, ma il prezzo pagato per il mancato successo internazionale gli è valso il bottino più ricco in patria. Dal gruppo di Sabadell, che fu la sola 4 avanguardia ’ autoctona e stravagante (Molas ne parla alle pp. 98-99), emerge la prosa narrativa di un Francese Trabai, o di un Cesar August Jordana, che già nei primi anni Trenta rendevano il giusto tributo al realismo foixano: più tardi verranno Calders e Perucho e gli epigoni. Intanto tutta la poesia catalana postribiana è sotto il segno, diretto o indiretto, di Foix: da Pere Quart a Ferrater, da Brossa a Gimferrer. Ma l’opera di Foix è244

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emblematica anche per un altro motivo: essa infatti con ogni probabilità si svolge al riparo di una dominanza dada, eppure ottiene i suoi massimi risultati laddove sono futurismo e surrealismo a dirigere il programma della scrittura. E questo stesso è anche il più generale destino di tutta l’avventura dei movimenti di avanguardia catalani.

In conclusione si può affermare che la contraddizione tra il notevole complesso testuale accumulato e la marginalità del ruolo internazionale rende l’avanguardia catalana particolarmente interessante per una comprensione non superficiale del fenomeno delle avanguardie storiche in Europa, della autoemarginazione in cui hanno sospinto tanta parte di sé, come della sopravvalutazione che hanno indotto. Conoscere l’avanguardia catalana, ora che ne abbiamo una sintesi precisa e globale, servirà perciò anche a capire aspetti ancora controversi nelle interpretazioni critiche dei singoli specialisti. In tal senso credo che Molas abbia fatto bene dalPastenersi dallo sciovinismo di piccolo gruppo rivendicando alla catalana uno spazio decisamente maggiore di quello che può ragionevolmente pretendere l’avanguardia spagnola e ispanoamericana, con l’eccezione ovviamente del Brasile. Cosi come mi pare giusto che insista sugli aspetti generali nel definire l’apporto specifico alla storia dell’avanguardia europea (pp. 15-17 e 19-21), tenendo in minor conto i dati singoli. Tra questi tuttavia meritano un cenno l’invenzione del termine futurismo da parte del maiorchino Gabriel Alo-mar nel 1904, invenzione ripresa qualche anno dopo da Marinetti; la sintesi futurista-dada-Maurras di Carbonell e Foix; il futurismo di sinistra di Salvat, con una netta e inedita impronta libertaria. Ovviamente un ruolo di primo piano è assegnato a Dall e alla sua invenzione del metodo paranoico-critico, mentre un rilievo forse eccessivo ottiene il cosiddetto gruppo Massoliver. Che è poi il gruppetto fascisteggiante degli anni Trenta. Quanta distanza li separò da Céline e Drieu La Rochelle! Per quanti sforzi essi poterono fare, dapprima in catalano poi in spagnolo, da soli o in combutta con altri, alla fine non poterono mettere insieme nulla di presentabile, come con rammarico dovette ammettere l’intramontabile Ors. Questi infatti, convertitosi ormai nel patriarca della cultura del regime franchista, nello scrivere appunto di Céline, faceva intendere tra le righe quanto mediocre fosse la ‘ nuova destra ’ fascista in Spagna, laica o cattolica che fosse la sua ispirazione.

Ma vai la pena ricordare che anche don Eugenio in quegli anni Quaranta indulse al fascino indiscreto del voyeurismo poetico, edificando tavole di incerta filiazione, e di dubbio gusto calligrammatico, che fanno rimpiangere il classicismo tardo barocco dell’Academia Desconfiada di cui sono una, probabilmente involontaria, caricatura (cfr. V. Bozal-T. Llorens, Espaha. Vanguardia artistica y realidad social. 1936-1976. Barcelona 1976, p. 84).

Naturalmente il libro tratta più tematiche di quante io non ne abbia qui segnalato, come è poi giusto che sia in un’opera del genere che, pur senza essere esaustiva, offre senz’altro un’approssimazione sufficiente al fenomeno esaminato, e anche qualcosa in più. Nel volume La literatura catalana d’avantguarda il modernista, sia esso specialista (catalanista o ispanista), oppure comparativista, troverà infatti ampia soddisfazione, ma la lettura del libro risulterà estremamente utile anche allo storico dell’arte e, persino, allo storico dei movimenti politici e sociali. L’avanguarRECENSIONI

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dia, l’avanguardia catalana in questo caso, tra i non pochi risultati innovativi che ottenne può infatti annoverare l’utopica riunificazione della letterarietà squisita, elitista e raffinata, e della pratica paraletteraria, spesso dialettale e consolatoria. Cultura urbana e frustrazione contadina si misero insieme allora per la prima volta e, da allora, non si sono più separate.

Giuseppe Grilli

Daniela Coli, Croce, Laterza e la cultura europea, Bologna, il Mulino, 1983, pp. 237.

Orgoglio e timore sembrano essere alla base di mostre e convegni, di studi e celebrazioni che si addensano con crescente frequenza per sottolineare il ruolo dell’editoria novecentesca. Orgoglio per un lavoro culturale prima che economico; timore per un futuro fatto di forme nuove di trasmissione e fruizione del sapere. Tuttavia, non manca un effetto positivo, anche se, forse, non quello principalmente sperato. Lo studio dei cataloghi, gli scavi negli archivi degli editori non solo vanno abbozzando un capitolo per sé importante della recente storia intellettuale, ma contribuiscono a chiarirne questioni e personalità centrali. Del resto, l’editoria è stata fin dall’inizio del secolo uno dei terreni su cui si sono mossi e scontrati notevoli tentativi di egemonia culturale. Scelte e tendenze, ideologie e mode hanno trovato nella carta stampata e nella sua diffusione un necessario momento di prova; mentre la figura dell’editore è venuta trasformandosi per l’esigenza di trovare un difficile equilibrio tra scelte culturali e necessità di bilancio.

Daniela Coli con questo libro è andata all’origine della nuova funzione dell’editoria. Certo, non è nuova l’attenzione per il rilievo culturale della casa barese, sottolineato in diverse circostanze da Russo, Garin, Gregory e oggetto di un recente libro di Claudia Patuzzi (Laterza, Napoli, Liguori, 1982) ispirato comunque più da intenti informativi che di indagine storica. Nuova è invece l’angolazione scelta dalla Coli per studiare il rapporto tra Croce e Laterza. L’aver basato lo studio sui materiali dell’archivio Laterza (con riscontri in quelli di Croce, Russo e De Ruggiero) ha permesso non solo di incrinare o sfatare consolidate opinioni, ma anche di tracciare un quadro più mosso e ricco degli interessi e delle relazioni intellettuali di Croce; per altro verso ha permesso di dare giusta collocazione alla figura di Giuseppe Laterza, che nel rapporto con un Croce spesso invadente e pignolo volle fin dall’inizio rivendicare la specificità del proprio ruolo. Divenendo « editore di roba grave », secondo il consiglio del filosofo, Laterza si mostrava consapevole che la sua volontà di essere editore di tipo nuovo, moralmente e civilmente impegnato, doveva procedere parallelamente a un’opera di profondo rinnovamento intellettuale.

Da parte sua Croce arrivava a quell’incontro con un’esperienza abbastanza chiara dei limiti dell’editoria tradizionale. Egli stesso aveva fatto tentativi editoriali. Nel 1903 aveva pubblicato Dal Genovesi al Galluppi di Gentile, primo e unico volume di una progettata collana di « Studi di letteratura, storia e
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31381+++
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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1984 Mese: 3 Giorno: 31
Numero 2
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2


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