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tipologia: Analitici; Id: 1543248


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Tipologia Periodico
Titolo Maria Teresa Mandalari, Confini tempo esistenza in Ingeborg Bachmann
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CONFINI TEMPO ESISTENZA IN INGEBORG BACHMANN

A ripercorrere la produzione propriamente poetica, folta di poco meno che un centinaio di liriche, della scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann (1926-1973), non si può non notare quanto essa - pur così esile - contras-segni fin dal principio (l’autrice ha esordito con due volumetti di liriche) tutta quanta la sua personalità, la coinvolga e, per così dire, la definisca indelebilmente, nella sua problematica e tematica di fondo. Quantunque oggi - ed è stata, mi pare, questa l’intenzione emersa in particolare al Convegno internazionale a lei dedicato l’ottobre scorso a Roma collegialmente dallTstituto austriaco di cultura, lTstituto di studi germanici e il Goethe-Institut, in occasione del decennale della scomparsa - quantunque, dicevo, si cerchi di sfaccettare gli aspetti della sua personalità artistica con un esame approfondito della narrativa ultima, mi sembra sia inevitabile riconoscere quanto la critica aveva fin dall’inizio individuato in questa scrittrice, e cioè un temperamento essenzialmente « lirico » con connotazione intellettualistica, permeato da studi filosofici e sostenuto da una capacità speculativa, oltre che emozionale, non comune.

Sicché oggi, con ottica corretta, equilibrata e distanziata, lontana tanto da ogni « fragwiirdige Lobrednerei » (Peter Conrady) quanto dalle altrettanto e-quivoche denigrazioni (di un Chotjewitz, ad esempio), credo possa dirsi che il centro focale, il punto vitale di forza di tutta la produzione della Bachmann si manifesti in un « soggettivismo lirico », il cui cardine programmatico centrale sta già nei due volumetti di poesie II tempo dilazionato (1953) e Invocazione alVOrsa Maggiore (1956) che ne segnarono l’esordio. Da questi prende le mosse un non vasto ma preciso ventaglio di temi, d’indirizzi e di atteggiamenti che costituiscono la struttura portante, lo scheletro essenziale di tutta la produzione e contrassegnano il ‘ gesto ’ che distingue Ingeborg Bachmann nel panorama letterario postbellico di lingua tedesca. È opportuno estrapolarne subito i due nuclei più importanti e vitali: tempo e linguaggio.

Poiché ormai si sa che Heidegger da un lato e Wittgenstein dall’altro costituiscono i poli sostanziali entro cui si muove la riflessione conoscitivo-spe-culativa della scrittrice, si può anche dire che la « denkende Dichterin » (come venne chiamata) ne ha fatto i pilastri della propria visione ed espressività poetica. Tempo e linguaggio, dunque; ma per quanto connessi e interdipendenti tra loro, diverso è l’atteggiamento della scrittrice nei loro confronti: di ricerca, di rispetto indagante e adorante fino a sfiorare il misticismo di fronte alCONFINI TEMPO ESISTENZA IN INGEBORG BACHMANN

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linguaggio (definito già nel primo volumetto, nel Monologo del principe Myskin, come « quella nuvola / che dal cielo cadde e dentro di noi affondò », che tanto da vicino richiama « das gottliche Fùnkchen », la piccola scintilla divina di Meister Eckhart affondata dentro di noi!); di aspra e mai stanca contesa, invece, di fronte al tempo. Ora, la grande combattività di cui ha dato prova, nella sua scrittura, la Bachmann e di cui si veste e si caratterizza fin dagli esordi la sua personalità, si appunta attraverso il linguaggio proprio sul tempo.

Nella Germania occidentale, dopo il ’45, il problema del linguaggio è stato

- come ben si sa - alla base della ripresa letterario-artistica postbellica, all’insegna del Kahlschlag. La scottante ‘ realtà’ tedesca, ma soprattutto le tassative disposizioni degli Alleati sulla rieducazione e l’anticomunismo, assegnavano ben precise direzioni al compito di ‘ rigenerare ’ la letteratura tedesca, fatto proprio dal Gruppo 47 in quanto unico * luogo ’ letterario di spicco in un paese privo d’una capitale culturale. Da qualche anno, promotore il « Litera-tur-magazin » (Rowohlt, 1977), è in atto una revisione disincantata della letteratura di quel periodo: essa ha fatto cadere molte esaltazioni, ridimensionando la validità di nomi ed opere, derivate, approvate e spesso premiate dal Gruppo 47. La situazione letteraria dell’epoca - salvo qualche eccezione - era ancorata a riprese di vecchi moduli rispolverati, alla evasività di svincolati magismi metaforici, a lemuriche e rassegnate campane a morto, oppure a laconici ‘ inventari ’ del rimasto, in una evanescente genericità rivolta anzitutto a ricerche formalistico-sperimentali. Si delineava la tendenza, divenuta poi onnivora, all’alienazione e all’incomunicabilità, favorita dagli equivoci della situazione socio-politica. È quindi spiegabile la grande sorpresa quando dalla piattaforma di lettura del Gruppo 47 a Magonza, fu udita nel ’53 la voce perentoria e indignata di una ragazza di 27 anni proveniente da una estrema provincia orientale di lingua tedesca: i riflettori che di colpo si accesero, non lasciarono più la poetessa di Klagenfurt. E aveva inizio, per Ingeborg Bachmann, il combattimento col suo tempo.

Tempo di mercato e di esibizionismo, tempo di mercificazione e di mistificazione, tempo infine di brutale competizione dentro un preciso ‘ sistema ’: lei lo sapeva bene. Tempo di « Gaunersprache », di linguaggio cialtronesco (un’espressione coniata da lei, come ha osservato Hans Bender); tempo in cui la letteratura è « una borsa-valori » (come lei dichiarerà qualche anno dopo pubblicamente e avrà nella penna il ben noto verso che scriverà poi negli anni Sessanta: « Col mio assassino, il Tempo, io sono sola »). Qui, è ovvio, non si tratta tanto del tempo biologico quanto piuttosto del tempo epocale ch’è il suo, e del tempo cosmico cui spesso farà appello; e infine del tempo-storia, che lei paventa, che esita ad affrontare soprattutto nel passato prossimo e che rifiuta con amara indignazione globalmente (« La nostra / divinità, la Storia, ci ha riservato un sepolcro / da cui non vi è risurrezione »: così nella lirica Messaggio).

È importante a questo punto, io credo, vagliare bene le varie prospettive temporali della Bachmann, la cui lirica è addirittura intrisa di riferimenti al tempo, fin dalle primissime prove giovanili. All’inizio degli anni Cinquanta, è206

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vero, l’atmosfera letteraria - seguendo il verbo heideggeriano - era indirizzata verso indagini ontologico-temporali, un po’ tutta quanta la poesia (non solo di lingua tedesca) se ne alimentava, se si escludono i poeti del naturalismo 4 magico ’ (un Krolow, un Piontek, un Bobrowski, in parte anche un Peter Huchel) e poi a modo loro i surrealisti, tra cui il conterraneo della Bachmann, Paul Celan. Anche le due poetesse austriache contemporanee, Christine Lavant e Christine Busta, da lei certo conosciute, trattavano quel tema. Ma l’approccio, la prospettiva, il ‘gesto ’ impetuoso e talora sconvolgente di affrontare il tempo, nella Bachmann, si distacca tuttavia dai modelli correnti. È il suo un modulo assai più complesso, un modulo di ‘ battaglia ’ oltretutto, che contrassegna con protervia la sua scrittura. Esiste una lirica giovanile, del periodo 1948/53, non contenuta nel volumetto premiato dal Gruppo 47, dal titolo Entfremdung (Estraneità); due versi di questa lirica dicono: « Ich bin satt vor der Zeit / und hungre nach ihr », che tradurrei: « Sono sazia prima del tempo / eppure ho fame (sono assetata) di esso » (dove quel vor ha un intraducibile valore di deciso fronteggiamento). In un’altra lirica giovanile di questo periodo è detto: « Wir, in die Zeit verbannt / und aus dem Raum gestossen », cioè: «nói, esiliati nel tempo / e scacciati dallo spazio » (si tratta della lirica intitolata Menschenlos [Sorte umana]). Più tardi, nel contesto delle lezioni francofortesi, esaminando la posizione e la giustificazione esistenziale del poeta nel proprio tempo, formula distesamente questo pensiero: « Le realtà di spazio e tempo si sono dissolte, il reale è in continua attesa di una definizione, perché la scienza

lo ha totalmente ridotto in formule »: verformelt, il che significa anche che lo ha sconsacrato, travisato, distorto, e quindi vanificato. Si precisa così entro quali termini di riflessione speculativa e di sensibilità emozionale insieme abbia preso sostanza l’avvìo, la partenza, « der Aufbruch » (un vocabolo caro all’espressionismo e ben frequentato nella sua lirica) di Ingeborg Bachmann.

Il volumetto iniziale, del resto, è dedicato al tempo, e prende il titolo da una delle sue liriche più note e citate, II tempo dilazionato (Die gestundete Zeit): un tempo espropriato, concesso a ore (gestundet), a stille, si direbbe in prova o a credito, come sospeso, malcerto e malfido nella sua immagine, consistenza ma soprattutto evoluzione. È un tempo che incalza e minaccia (« S’avanzano giorni più duri», è il verso d’inizio e di chiusura), è il tempo-storia ristretto alla veste epocale che fa spavento e orrore, che insieme attrae e respinge la Bachmann e contro cui fin dagli inizi si rivolta, si inalbera, protesta. Nella incertezza buia e nel sofferto rovello di tale visione ontologico-temporale sta forse racchiusa la principale motivazione dell’esordio sorprendente, con sapore di novità e originalità, di Ingeborg Bachmann: in un ambiente ove tra lo squisitamente letterario e lo snobistico si coltivavano, in prevalenza, esiti di semplice ‘ facciata ’ e di rivalsa da (pur comprensibili) frustrazioni, qual è quello del Gruppo 47.

Nel recensire l’edizione italiana uscita nel 1978 di gran parte delle poesie bachmanniane (in « Quaderni Piacentini », n. 72/73, 1979), Alfonso Berardinel-li, dopo aver deplorato che essa sia passata « quasi inosservata, senza rumore eCONFINI TEMPO ESISTENZA IN INGEBORG BACHMANN

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scalpore », scrive quanto segue: « Che una poesia come quella della Bachmann ci passi accanto inavvertitamente, non smuova acque né sollevi polvere, aggirandosi tra noi con tanta discrezione, non può meravigliare », poiché non essendo «un pretesto o un puro effetto di sociodinamica culturale (...) proprio grazie al suo spasmodico, disperato impegno sui dati del presente, resiste in essa qualcosa di grandiosamente inattuale »: ove questo aggettivo, ovviamente, ha significato positivo perché intende stabilire un confronto con certo disinvolto e spesso esibizionistico ‘ far poesia ’ dei nostri giorni. Ma implicitamente è lecito enuclearne anche il significato specifico che la poesia della Bachmann è davvero affondata come un cuneo nel « presente », nel suo presente, nel suo tempo. E si tratta, si, di un tempo 4 storico ’, ma bloccato tuttavia - quasi a volerlo arrestare e definire - da continue valenze mitiche, fiabesche e talora cosmiche. La Bachmann, in altri termini, intende dilatare il proprio tempo nello spazio (immaginativo o concreto che sia), facendo confluire l’una nelPaltra le due realtà, di cui dirà (come abbiamo visto) che si erano « dissolte » e necessitavano di ridefinizione da parte del linguaggio. Questo amalgama - tempo spazio linguaggio - è il ‘ luogo ’ specifico della sua poetica, e Purto, il conflitto tra essi rappresenta forse una delle ragioni intime del singolare fascino della sua scrittura. La « unsichere Sicherheit » notata nel suo 4 gesto ’ poetico, il quale spesso si serve di forme classiche agganciate a epoche letterarie ben definite e sicure e ad una tradizione a lei congeniale, oltre che nelPurto tra intelletto ed emotività, ha radice anche in tale perenne altalenare e lievitare di quei diversi elementi, con esiti differenti, ma spesso molto alti.

Dice ancora Berardinelli, che in lei « poesia e storia non si oppongono polemicamente, non si fronteggiano né si riconciliano. La loro estraneità è radicale ». Mi sembra qui còlta la qualità del rapporto bachmanniano tra se stessa e la storia, o meglio il tempo-storia in genere, il quale - aggiunge Berardinelli - è in lei « una piaga aperta cui nessuna scelta ideologica riesce a rimediare ». Ora, è chiaro che il poeta, come lo scrittore in genere, opera sempre dentro una situazione storica, che gli riesce di esorcizzare più o meno tramite una istanza verticale, quella della propria potenza e consistenza fantastico-creativa; altra cosa è, tuttavia, se il poeta, o lo scrittore, abbia per suo conto risolto intellettivamente il problema del passato storico, ch’è poi tutt’uno con quello ontologico della propria identità individuale, nel senso di matura elaborazione conoscitiva della situazione storica entro cui si trova ad operare. Il tempo storico, in altri termini, è una categoria, una dimensione di incidenza necessariamente < interiore ’, è un’orma trasformatrice della coscienza attraverso il giudizio ed implica una consapevolezza del ‘ mutamento ’, se non vuol ridursi a constatazione negativa di trascorrimento e rovina, a puro scenario di fossili inerti: e che tale sia, invece, per la Bachmann (stranamente, data la sua ben nota consistenza intellettuale) è chiaramente dimostrato in due liriche, cioè Grande paesaggio nei dintorni di Vienna (ultima del primo volumetto) e Corrente (scritta negli anni Sessanta). Qui il passato come concatenazione di eventi, come ‘ costruzione 9 da cui lei proviene, è per la Bachmann solo ‘ lamento ’, allo208

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stesso modo come il suo passato personale attraverso la vicenda recente dei paesi tedeschi è soltanto un incubo emotivo, da lei palesemente concentrato tutto nel ricordo del trauma adolescenziale subito all’entrata dei nazisti in Austria (uno dei pochissimi dati autobiografici rivelati più tardi).

Il rifiuto del passato prossimo come di una malattia immonda abbattutasi dall’alto o scaturita dal profondo per generazione anomala, che si constata incombere nei suoi esiti ma che non va analizzata, è netto nella Bachmann: come lo è stato allora e per molti anni in tutto l’Occidente tedesco, non soltanto letterario. È la unbewàltigte Vergangenheit, il passato rimosso e non superato. Di tale caratteristica specifica, la Bachmann - al di là e al di sopra del suo ‘ impegno ’ - è buon portavoce poetico, per gli anni Cinquanta e Sessanta. Il drammatico passato tedesco trova spazio solo nel ripercuotersi riflesso, filtrato dal suo io lirico, spesso con immagini o risonanze fiabesche, come rivolta luttuosa, come indignazione e dolore autentici di fronte al presente in atto. Il suo metaphoréin riguarda il risultato nell’oggi, denuncia e condanna il presente, ch’è tuttavia precisa conseguenza di un passato, ma non giunge a indagarlo, questo passato, nelle sue cause. Dagli inizi poetici, che sono trampolino di lancio per la Bachmann, tale atteggiamento si propaga e perdura lungo tutta la produzione successiva: i radiodrammi, i racconti, le sparse e rade liriche degli « anni di piombo », fino al macabro ciclo Todesarten (Modi di morire) di cui è compiuto solo il romanzo Malina (1971), che decreta la sparizione dell’io lirico. Dei tre volti inscindibili della storia, passato presente futuro, è solo il presente in atto, mostro misterioso e cangiante, di origine oscura e sinistra (come l’Orsa Maggiore, der Grosse Bar, della lirica omonima), a scatenare con l’orrore la ribellione della Bachmann: una ribellione ‘ sospesa ’, aggrappata ad un’unica risorsa, il linguaggio, la parola, arma e scudo insieme:

lo dimostra ancora una volta nella lirica (degli anni Sessanta) Ihr Worte, certo la sua più drammatica, in cui con disperata speranza e non domato orgoglio, mentre anela al silenzio, incita alla lotta, vietandosi ogni parola di morte (« Kein Sterbenswort, / Ihr Worte! »).

La ‘ sospensione ’ nel tempo presente potrebbe - o dovrebbe — trovar sbocco nella terza faccia della storia, il futuro. Ma cosi non è, o lo è assai debolmente, il che trova conferma nella produzione successiva, radiodrammi e narrativa, che « ricordano le poesie » (Bender) e dove con crescente incidenza prende forma il problema dell’io liricamente inteso. E qui s’inserisce il discorso sulla dimensione utopica nella produzione poetica bachmanniana.

Richiamandosi ad Adorno e ad Ernst Bloch (Das Prinzip Hoffnung, soprattutto), Theo Mechtenberg (in Utopie als aesthetische Kategorie. Eine Untersu-chung der Lyrik I. Bachmanris, Stuttgart 1978) individua in taluni ricorrenti motivi e atteggiamenti poetici della Bachmann la tendenza, l’indirizzo verso l’utopia. È l’utopia del sogno, del « Tagtraum » di cui parla Bloch, cioè del sogno a occhi aperti. Scrive Mechtenberg, citando Bloch: « Das mit dem Tagtraum Gemeinte hat seinen Erfullungsort nie anders als in der Zukunft gesucht » (Ciò che s’intende per sogno a occhi aperti non ha cercato mai altro luogoCONFINI TEMPO ESISTENZA IN INGEBORG BACHMANN

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di compimento se non nel futuro): nel futuro o in paesi lontani, di preferenza nel soleggiato sud, com’è appunto della Bachmann - si può aggiungere — i cui soggiorni frequentissimi (fino alla definitiva residenza a Roma) nei paesi mediterranei sono argomento di molte liriche; di volta in volta, soggiorni-rifu-gio o soggiorni in cerca del sogno...

I principali motivi bachmanniani ricorrenti dell’utopia sono la « notte » come luogo della negatività del mondo, il passaggio dalla notte al « giorno » come luogo della ‘ svolta ’ (die Wende) dalla negatività al « sogno », e finalmente l’insistente comparire del « Blau », il colore azzurro, tipico dell’illimitato, dell’infinito e quindi del sogno utopico (esiste addirittura una lirica intitolata Die blaue Stunde, nel secondo volumetto). Nota ancora Mechtenberg che il motivo della « notte » (di tradizione prettamente romantica) non è mai usato dalla Bachmann come semplice 4 immagine ’, « bensì implica - in collegamento col sogno - l’intero campo di tensione tra negatività e utopia. Il che ancora una volta conferma che la sensibilità utopica di I. Bachmann rimane legata alla esperienza della negatività del mondo. Questa stessa rappresenta un’esperienza basilare del ‘ nichilismo europeo ’, entro il cui àmbito deve considerarsi la poesia di I. Bachmann» (p. 119).

Qui c’è da osservare che l’affermazione dell’appartenenza al 4 nichilismo europeo ’ sarebbe comunque da approfondire e verificare ulteriormente, sebbene esso risulti ampiamente rappresentato nell’area asburgico-mitteleuropea cui la Bachmann appartiene e cui, specie nella narrativa, dimostrerà di essere molto legata. Inoltre, Mechtenberg trascura il fatto che il carattere dell’utopia in Bloch racchiude una forte carica storica positiva, che non può certo accordarsi né col pessimismo esistenziale della Bachmann né con la sua - come si è visto

- riluttanza sostanziale ad una visione storica positiva. Piuttosto, le indagini di Mechtenberg aiutano non solo a illuminare meglio l’esistenza (anche debole) di una spinta utopica nella concezione del tempo da parte della Bachmann, ma sottolineano altresì l’indubbia tendenza ad una 4 fuga nel futuro ’, che a me sembra direttamente proporzionale alla sua tendenza di ‘ fuga dal passato ’ (in quanto storia e quindi memoria) con l’insistente metafora della « notte », cioè di una catastrofe da lasciare oscura alle spalle. Ecco che, in definitiva, si viene sempre meglio a delineare la consistenza della sua condizione ‘ assiale ’, * verticale ’, oltre che 4 sospesa ’, in quel tempo epocale che le è destinato e che tanto le fa orrore. Tale condizione esistenziale appare inesorabilmente legata ad una interiore sensazione di 4 confini ’ da infrangere, di ‘ limiti ’ costrittivi (così anche nei radiodrammi II buon Dio di Manhattan e Le cicale, da Bender designati come « poesie a più voci »), ai quali di continuo ella s’adopera a sfuggire, spostandosi anche geograficamente ora al nord ora (assai più spesso) al sud. Gran parte delle sue liriche hanno, del resto, per contenuto la descrizione di luoghi visitati o di viaggi compiuti. Il suo ubi consistami in cui molte volte le riesce di focalizzare visioni equilibrate, lucide, sovrastanti, con immagini e accostamenti davvero felici, si trova appunto nello spazio atemporale, fiabesco o mitologico. Assai frequentemente, poi, è chiara in lei la ricerca delPillimitato,210

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del senza-misura, e in tali casi si rivela la sua grande passione di vivere, da cui trae un orgoglio dell’io che arriva alla sentenziosità e talora alla veggenza (tutte le molte allusioni al « fuoco » di cui e per cui morirà, alla sua purezza e ineluttabilità, ad esempio).

Se per meglio indagare questa tendenza ci rifacciamo alle liriche del primo volumetto, rinveniamo il preciso accenno ad un limes, ad un ‘ confine ’, e ad un Limesgefuhi, ad un 4 senso del confine « e ancora m’assale / ebbro il senso del limes ». Si tratta della già citata lirica Grande paesaggio nei dintorni di Vienna. Qui è il limes romanus, rintracciato durante quello che potrebbe dirsi uno sconsolato pellegrinaggio storico; ma anche una esplicita testimonianza di ciò ch’è il ‘ tempo storico ’, la Storia, per la Bachmann: desolazione, maceria, tragico sconforto. Viene alla mente l’Angelo benjaminiano della Storia, con gli occhi rivolti alla catasta di macerie, nella nona Tesi: ma quell’angelo ha le ali gonfie di futuro, di un futuro che spira dal paradiso, mentre qui poco più in là la Bachmann dichiara apertamente di volersi separare, distaccare dal tempo-storia, che rinnega (« sag ich mich los / von der Zeit »).

L’impressione del ritrovamento del limes è, però, di « ebbrezza »: ebbrezza di appartenere a un antico paese di confine, consacrato tante volte nei secoli come baluardo di civiltà, ma anche orgoglio di trovarsi al posto cui aspira, che le compete, ad un ‘ confine ’ importante, non solo storico-geografico, un ‘ confine ’ che la responsabilizza personalmente. Di lei è stato detto da più parti (si veda anche Christa Wolf, nel saggio dedicatole in Lesen und Schreiben, Berlin 1971) che occupa « una posizione di frontiera », con riferimento al suo ‘ gesto ’ di impegno morale e civile. Ma qui emerge chiaramente anche un lato emozionale (da quel momento iniziale in continuo sviluppo) che, per ribaltamento conseguente, evidenzia una sensazione di * cesura ’, di trovarsi stretta fra precisi 4 confini ’, fra ‘ limiti ’ sempre crescenti, da cui chiaramente deriva la sua ricerca dell’illimitato e il perenne impulso di ‘ fuga (È questa - come ben si sa -una condizione che, da Rilke in poi, ha segnato un’intera generazione di poeti e scrittori mitteleuropei; se nella Bachmann non ha carattere del tutto epigonale, ciò è dovuto al suo caratteristico atteggiamento di resistenza e di lotta da cui, oltretutto, derivano contrasti liricamente fecondi.)

Isole, mari, fiumi e spiagge sono i luoghi cui la Bachmann chiede « liberazione » (Erlósung) da quella sensazione di strettoia, di cerniera, di prigionia, di invalicabili limiti che l’angustia. Se negli anni Sessanta ‘ inventa ’ il mare come apertura infinita per la cara Boemia (nella lirica La Boemia è sul mare) e lei stessa intraprende spostamenti in lungo e in largo nell’Est europeo, ciò avviene forse anche nel tentativo di abbattere * confini ’ (geografici e ideologico-cultura-li). La dinamica iniziale del suo viaggio esistenziale con la ‘ partenza ’ (der Aufbruch, die Ausfahrt), le navi, gli approdi, sempre più va assumendo -negli anni Sessanta - l’aspetto di una vera e propria fuga interiore. È un moto che tende ad accelerarsi.

Sarebbe certo interessante estendere una tale indagine alla narrativa, genere in cui la Bachmann a partire appunto dagli anni Sessanta ha indubbiamenteCONFINI TEMPO ESISTENZA IN INGEBORG BACHMANN

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riversato tutti gli atteggiamenti e i nodi esistenziali della produzione lirico-poetica (per cui mi sembra improprio ciò che si è tentato nel Convegno commemorativo di Roma di cui si è detto all’inizio, che si possa parlare cioè di una Bachmann epica). Qui si può solo farne cenno di passata. Se infatti i racconti usciti col titolo II trentesimo anno (1961) appaiono come un vero e proprio prolungamento della produzione lirica, il cui culmine è rappresentato dall’ultimo Undine se ne va, grido di vibrante protesta dell’io femminile, gli anni Sessanta si può dire rappresentino quasi un vuoto di scrittura (o almeno di pubblicazioni) per la Bachmann: se si eccettuano le sparse liriche ’64-’67, che seguono quelle ’57-’61 tra cui è la già citata lirica Corrente nel cui ultimo verso, a proposito del tempo assassino, è annunciato un avvoltolarsi in se stessa insieme col suo tempo (« Ebbrezza e azzurro ci imbozzolano insieme »). Le sparse liriche degli anni Sessanta nella loro secchezza o elaborazione letteraria sono segnate da definitiva sfiducia e progressivo silenzio emotivo (la lirica Enigma conclude: « Sonst/sagt/niemand/etwas »). Nel 1971 esce Malina, il primo e l’unico romanzo compiuto del ciclo Todesarten; ma precedono nella composizione (quantunque usciti nel 1972) i racconti Tre sentieri per il lago: cinque episodi, o meglio esemplificazioni, di solitudine femminile e progrediente vuoto emozionale che, pur nella loro concretezza, possono definirsi ‘ resoconti lirici ’. In Malina, il problema dell’io che l’assiduo studio dei suoi « padri » austriaci (soprattutto del concittadino Musil) propone alla scrittrice letterariamente agguerrita e avvertita, non appare obiettivamente sovrastante alla disposizione interiore, squisitamente soggettiva, della Bachmann: piuttosto, invece, sembra soverchiarla e condurla naturaliter all’esplicitazione espressiva di una sintomatica schizofrenia ontologica, in cui - come sappiamo - l’io lirico, l’io femminile soccombe, addirittura scompare. E la narrazione si conclude con un « Es war Mord » (è stato un assassinio) che, date le circostanze ultime della sua vita, può anche sembrare un testamento.

È difficile negare che la parte più valida della produzione poetica di Inge-borg Bachmann nasca dalla estrema conflittualità tra esistenza e storia, tra la sua condizione ontologico-esistenziale e il tempo storico da cui è posseduta, di cui sembra quasi la preda e da cui ha sempre mostrato di cercare nuove vie di scampo. Se alla sua morte, cosi atroce e quasi 4 prevista ’, Heinrich Boll ha creduto - come si sa - lapidariamente definirne la sorte dicendo di lei ch’era stata « intrappolata dal suo mito », la definizione andrebbe, forse, corretta con « intrappolata dal suo tempo ».

Maria Teresa Mandalari

Scritti di Ingeborg Bachmann tradotti in italiano: Il buon Dio di Manhattan, radiocommedia tradotta da Sergio Molinari, Milano, Il Saggiatore, 1961; Tutto, trad. di Silvano Daniele, in « Il Verri », 1961, nr. 1; L'esilio, Va' pensiero, trad. e introd. di Paolo Chiarini, in « L’Europa letteraria », 1962, nr. 15-16; Il trentesimo212

MARIA TERESA MANDALARI

anno. Racconti, trad. di C. Schlick, Milano, Feltrinelli, 1963; Diario in pubblico, trad. di Lia Secci, in « Il Menabò », 1964, nr. 7; In verità, trad. di Giuseppe Scimone, in « L’Europa letteraria », 1965, nr. 33; Le cicale, trad. di Annamaria Carpi, in « Sipario », 1965, nr. 229; Malina, trad. di Maria Grazia Mannucci, Milano, Adelphi, 1973; La Boemia è sul mare, trad. di Nello Saito, in « Nuovi Argomenti », nr. 38-39; Poesie, a cura di Maria Teresa Mandalari, Milano, Guanda, 1978; Tre sentieri per il lago e altri racconti, trad. di Amina Pandolfi e Ippolito Pizzetti, Milano, Adelphi, 1980; Luogo eventuale, trad. di Bruna Bianchi, Milano, Edizioni delle donne, 1981.

Segre continua: continua con quel rigo che era andato perso a gennaio nei suoi Minima personalia, e che non era facilmente congetturabile; leggere dunque a p. 97, 2 « moderni e non solo in lingue romanze? » in luogo di « al nostro solito, ristretto pubblico casalingo »; questo rigo ricorreva già poco sopra.
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 31381+++
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Testata/Serie/Edizione Belfagor | Serie unica | Edizione unica
Riferimento ISBD Belfagor : rassegna di varia umanità [rivista, 1946-2012]+++
Data pubblicazione Anno: 1984 Mese: 3 Giorno: 31
Numero 2
Titolo KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2


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