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tipologia: Analitici; Id: 1543215


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Tipologia Documento di Convegno
Titolo [Gli interventi] Gilbert Moget
Responsabilità
Moget, Gilbert+++
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Gilbert Moget

Amici e compagni, parlerò della concezione della cultura in Gramsci, perché è l’aspetto dell’opera di Gramsci che mi è sembrato, sin dalla prima lettura, tra i più interessanti.

Ho cominciato un lavoro intitolato Gramsci e la cultura in Italia., che è stato accettato dall’Università di Parigi come argomento di tesi. Non è tuttavia mia intenzione fare una trattazione completa del concetto di cultura nell’opera di Gramsci, che comunque non sarei in grado di sviluppare. Vorrei solo dire ciò che rappresenta, per un comunista francese, orientato verso l’Italia come verso una seconda patria intellettuale, il grande contributo di Gramsci alFelaborazione di una concezione nuova della cultura, scegliendo, evidentemente, i punti che mi sono apparsi più rilevanti.

Opponendo, cioè, alla concezione tradizionale della cultura, il cui rappresentante più largo e aperto mi pare essere in Francia il filosofo e critico Alain (morto nel 1951), la concezione di Gramsci, vorrei mettere in rilievo il senso nuovo dato alla parola « cultura » da una concezione della filosofia della prassi che pone la dialettica come metodo fondamentale, gnoseologico; il senso di massima estensione e comprensione dato alla cultura, se questa non concerne solo una casta, una élite, ma tutti gli uomini che pensano e operano in una società determinata, che sono elementi di uno stesso « clima culturale », il cui pensare e operare definisce un certo « senso comune », base di qualsiasi inventario e elaborazione culturali; il senso dinamico della cultura che vogliamo storicamente costruire e conquistare. Cioè la cultura, risultante di forze opposte che occorre conoscere chiaramente, presuppone una lotta che si492

Gli interventi

svolge su un terreno particolare, in cui è necessario distinguere tra avversari e alleati, essendo tuttavia consci che, nella prospettiva di uno storicismo assoluto, possono talvolta gli stessi avversari collaborare a quella costruzione, nello stesso modo che senza certe correnti ormai superate, non sarebbe stato possibile giungere a una filosofia della prassi.

La cultura, nel senso tradizionale, assume un significato già abbastanza largo, che non è del tutto negativo, tutt’altro. Ma l’universalità della cultura tradizionale-borghese, o la pretesa di universalità, è infatti teorica, non è senza esclusive, e soprattutto può essere frammentaria, capricciosa, priva cioè di una esigenza intima di coerenza, e non escludere il dilettantismo. E si avverte specialmente il limite della cultura tradizionale, sia nel modo di considerare la storia, la società, che nel modo di concepire l’uomo; e anzitutto nell’escludere, neirignarare praticamente come massa, quasi « infinita turba degli sciocchi », la generalità degli uomini.

Questo non significa però che queste concezioni tradizionali siano tutte strette e meschine. Con Alain, per esempio, abbiamo una concezione della cultura in cui sono penetrate certe esigenze, particolarmente il bisogno generoso di fare partecipare alla cultura il popolo scisso dagli intellettuali, il che vuol pure dire coscienza di tale scissione.

Basti pensare all’attività dedicata da Alain alle Università Popolari, prima del 1914, a Rouen; basti pensare al suo entusiasmo, alla sua simpatia vera e profonda per i proletari. È tuttavia significativo il giudizio dato più tardi su quelle esperienze: «Nous apportions la culture, qui veut loisir, à des hommes sans loisir, et qui méprisaient souvent nos jeux de pensée » \ È il sentimento di una delusione : Alain ha allora coscienza della gratuità della « cultura » per gli operai, della loro convinzione che per loro è impossibile inserirsi in una cultura che non li concerne, perché affatto estranea ai problemi immediati della vita e del lavoro. Tanto è vero che la cultura, per Alain, consiste neU’assimilarsi un « patrimonio » artistico in cui il « bello » è l’unico criterio. La cultura, quasi reli-gionè, mette in relazione l’intimo di ogni essere con gli uomini grandi del

1 Propos sur l’éducation, Paris, P.U.F., p. LXXXV, 1956.Gilbert Moget

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passato, con l’« humanité », «le plus réel, le plus vivant des ètres connus » \ « Quand je lis Homère, je fais société ave" 1o société avec Ulysse et avec Achille, société aussi avec la foule de ceux qui ont seulement entendu le nom du poète. En eux tous et en moi je fais sonner l’humain, j’entends le pas de l’homme. Le commun langage désigne par le beau nom d’humanités cette quète de l’homme, cette recherche et cette contemplation des signes de l’homme. Devant ces signes, poèmes, musiques, peintures, monuments, la réconciliation n’est pas à faire, elle est faite... Ce n’est pas parce que l’homme hérite de l’homme quii fait société avec l’homme; c’est parce qu’il commémore rhomme. Commémorer cest faire revivre ce qu’il y a de grand dans les morts, et les plus grands morts. C’est se conformer autant que lon peut à ses images purifiées... Les grandes oeuvres, poèmes, monuments, statues, sont les objets de(ce culte... Et cest par ce culte que l’homme est homme ». x

Si vede che la cultura diventa essenzialmente culto, non per giocare sulla (radice comune delle due parole, ma perché attraverso il passato che illumina il presente, si tratta di ritrovare l’« uomo ». Concezione astorica, asociale, individualistica, la cultura, quale la intende Alain, è, in ultima analisi, una meditazione sul « bello » che è il segno del « vero », 'che dà la possibilità di avvicinare, di conoscere l’uomo in generale, cioè l’uomo ideale non da costruire storicamente ma da suscitare in sé attraverso il contatto immediato con l’opera d’arte (senza lo schermo della critica) e anche con la scienza vera (e non la tecnica).

A tale cultura concepita come ricerca dell’uomo e dell’umanità, è legata una morale che è anzitutto rispetto deiruomo, della persona umana: «La morale consiste à se savoir esprit et, à ce titre, obligé absolument; car noblesse oblige. Il n’y a rien d’autre dans la morale, que le sentiment de la dignité. Tout dérive du respect que j’ai pour moi-mème, pour i'Ésprit absolu et pur mes semblables, en qui je recon-nais le mème esprit... L’immoralité n’est autre chose que la soumission à lexistence, aux circonstances, aux choses de peu dont dépend notre durée et que le vulgaire appelle notre destin. Le destin, pour un esprit qui se sait esprit, est tout autre. C’est d’interroger, comme on dit, la

1 Ibidem, p. LXX.494

Gli interventi

volonté de Dieu, qui n’est autre que notre propre ètre. Fa ire ce qu’on veut est le bien, pourvu quon sache vouloir... La loi morale est la loi dictée par une profonde volonté da la personne; elle n’a point d egard aux choses, mais seulement aux personnes » 1. E quindi una morale a cui non è estraneo il senso degli altri, il senso della solidarietà delle « persone » umane, ma in cui domina anche un criterio estetico, quello del'lordine, dell’armonia interna dell uomo, cioè accordo con se stesso, disciplina imposta dalla testa agli animali che sono i muscoli.

È una morale che ha molti aspetti positivi, ma di cui scorgiamo i limiti: essa sfugge a una norma di vita precisa, perché fondamentalmente legata alla libertà dello spirito « qui ne doit jamais obéissance » ; sfugge agli esseri collettivi « qui perdent l’esprit pour chercher l’union ». L’uomo singolo deve cercare raccordo colla propria coscienza morale e, anche quando cittadino « educato », non si sente responsabile di fronte all’uomo collettivo, responsabile di una storia da costruire insieme con tutti gli uomini, di una cultura che unifichi tutti gli uomini di una società, trasformando la loro vita, il loro pensare, il loro operare. Tale concezione della cultura, benché sia quella di un umanesimo tradizionale aperto quanto è possibile, non ha abbandonato il miraggio di quell’uomo da ritrovare, di quella permanenza di una natura umana o dell’uomo, già tipica della concezione rinascimentale. L’ambiguità che c’era nel Rinascimento, paganesimo-cristianesimo, è scomparsa, ma la concezione della cultura, in un radicale come Alain, è praticamente rimasta la stessa.

A questa concezione umanistica tradizionale, Gramsci oppone la concezione della cultura quale può impostarla, appunto, la filosofia della prassi. È una concezione totale, universale, la quale non può essere scissa dalla stessa filosofia della prassi, quindi dalla storia, dalla pratica. La concezione di Gramsci mi pare tipica di una sua volontà di cogliere la realtà nel suo complesso, dando alla filosofia della prassi un nuovo sviluppo, e il carattere particolare di una ricerca che opera sul terreno nazionale. La concezione di Gramsci apre prospettive nuove, pur rimanendo sempre legata a una concezione del mondo e dell’uomo. Gramsci ingrandisce fino all’universale la comprensione della cultura.

1 Lettres à S. Solmi sur la philosophie de Kant, Paris, Hartmann, 1956, p. 63.Gilbert Moget

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La cultura assume il suo vero significato dalla stessa definizione della filosofia della prassi concepita come storicismo assoluto, come umanesimo assoluto, legata quindi ad una concezione della storia e dell’uomo che Gramsci ribatte come principio fondamentale, opponendola a quella delle filosofie che postulano implicitamente o esplicitamente una « natura umana ». Gramsci infatti, fa questa domanda : « cos e l’uomo?» e risponde: «L’uomo è un processo e precisamente il processo dei suoi atti. E vogliamo sapere cosa siamo oggi e non in qualsiasi tempo e non in qualsiasi vita, ma in funzione di ciò che abbiamo visto, in funzione di ciò che abbiamo fatto, che abbiamo riflettuto ». La cultura, definita in rapporto con l’uomo storicamente definito « il processo dei suoi atti », si oppone quindi ad una concezione statica di un uomo permanente, di una -faccia dell’uomo o di un certo « umano » da ritrovare attraverso l’arte, ciò che appunto tentava l’umanesimo tradizionale; la cultura assume tutta l’umanità, tutto l’umano, è assoluta anch’essa, è anch’essa un processo obiettivo e non è solo legata alila particolare ricchezza e sensibilità di una persona eccezionale.

La concezione di Gramsci è una concezione audace, è una concezione difficile. Egli vuol dare alla filosofia della prassi il suo pieno carattere di filosofia nuova, autonoma, liberata sia dai residui di materialismo tradizionale che dall’idealismo. Colpisce, in tutta l’opera di Gramsci, la sua costante esigenza di fare del metodo dialettico un mezzo realmente efficiente per conoscere certi nessi fondamentali, e render conto insieme di tutti gli aspetti della realtà e dell’unità di essa, per comprendere il reale e esser capaci di modificarlo. Per chi vuol studiare l’importante contributo di Gramsci al concetto stesso di cultura, è necessario capire il valore gnoseologico della dialettica, la quale non può essere dialettica pura di concetti come nell’idealismo d’ispirazione hegeliana, ma non deve neppure diventare « capitolo di logica formale » aggiunto a un materialismo tradizionale. La critica fatta al Saggio di Bukharin, acuta e spietata, talvolta severa e appassionata, testimonia della necessità urgente per Gramsci che la filosofia della prassi superi il materialismo tradizionale (volgare), sia pur questo rinnovato da una dialettica formale./Cosi, la cultura non si potrà definire se non attraverso rapporti dialettici, fra i quali il rapporto fondamentale è quello496

Gli interventi

di teoria-pratica, che può assumere forme diverse: filosofia-politica, intellettuali-massa, dirigenti-diretti ecc...

In questa concezione della cultura inscindibile da un metodo dialettico, la cultura stessa assume una funzione pratica, una funzione di unificazione, per cui Gramsci sottolinea «l'importanza che ha il “momento culturale ” anche nell’attività pratica (collettiva) : ogni atto storico non può non essere compiuto dall’ 44 uomo collettivo ”, cioè presuppone il raggiungimento di una unità 44 culturale-sociale ” per cui una molteplicità di voleri disgregati, con eterogeneità di fini, si saldano insieme per uno stesso fine, sulla base di un’uguale e comune concezione del mondo (generale e particolare, transitoriamente operante — per via emozionale — o permanente, per cui la base intellettuale è cosi radicata, assimilata, vissuta, che può diventare passione). Poiché così avviane, appare l’importanza della questione linguistica generale, cioè del raggiungimento collettivo di uno stesso 44 dima ” culturale » 1.

Cosi, chi dice cultura dice nello stesso tempo1 linguaggio comune, e il problema della lingua, cioè del contatto espressivo degli uomini, riveste una importanza particolare. Importanti pure tutti gli aspetti del « rapporto pedagogico », cioè il nesso dialettico tra maestro e scolaro, tra ceti intellettuali e non intellettuali, tra governanti e governati, tra élites e seguaci, tra dirigenti e diretti ecc...

Ora, se si vuole portare avanti le masse, se si vuole rispondere a quel concetto della 'Cultura posta come universale, si deve prendere le mosse dal livello di cultura delle masse, cioè dal senso comune. Gramsci ha dato al senso comune tutta la sua importanza, ricordando le formule di Marx sulla « saldezza » (simile a quella delle forze materiali) delle credenze popolari, ribattendo la forza dei proverbi, dei modi di dire, ma denunciando nello stesso tempo gli atteggiamenti ambigui del Croce rispetto al senso comune, il « civettare » del Gentile ecc... Ma se Gramsci con Marx si riferisce, quando afferma la saldezza delle credenze popolari, alla « validità del contenuto di tali credenze », quindi alla « loro iimperatività quando producono norme di condotta » 2, Croce e Gentile,

1 M. S., p. 26.

2 M. Sp. 123.Gilbert Moget

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e si potrebbe in un certo senso aggiungere Alain, considerano il senso comune come punto di riferimento, pietra di paragone; oppure il senso comune è giusto, basta prenderne coscienza, esplicitare le sue intuizioni e questa è la parte del filosofo.

Per Gramsci, invece, il senso comune non è quella «naturale » disposizione a pensar giusto. Possiamo fare la critica del senso comune di oggi, e in questa critica sarà implicita l’« affermazione della necessità di nuove credenze popolari, cioè di un nuovo senso comune, e quindi di una nuova cultura e di una nuova filosofia che si radichino nella coscienza popolare con la stessa saldezza e imperatività delle credenze tradizionali ». Cioè il senso comune definisce « il livello di cultura della moltitudine, esso è la filosofia dei non filosofi, la concezione del mondo assorbita acriticamente dai vari ambienti sociali e culturali in cui si sviluppa l’individualità morale dell’uomo medio ». Quindi, il senso comune non è una concezione unica, una « sapienza » immobile connaturata all’uomo, identica nel tempo e nello spazio, ma è il « folklore » della filosofia. Concezione disgregata, incoerente, inconseguente, conforme alla posizione sociale e culturale delle moltitudini di cui esso, cioè il senso comune, è la filosofia. È proprio da questa base che deve partire la filosofia della prassi, e prima grave critica fatta da Gramsci a Bukharin è appunto che l’autore non abbia ritenuta necessaria tale critica all’inizio del suo Saggio popolare.

A questa critica del senso comune sono legate due necessità che a Gramsci premono e che il partito come organizzatore della cultura deve tener presenti, se vuol realizzare l’unità di una massa per portarla a nuove conquiste, se vuol sostituire alle vecchie concezioni del mondo, concezioni nuove:

1) « di non stancarsi mai dal ripetere i propri argomenti (variandone letterariamente la forma): la ripetizione è il mezzo didattico più efficace per operare sulla mentalità popolare».

2) «di lavorare incessantemente per elevare intellettualmente sempre più vasti strati popolari, cioè per dare personalità all’amorfo elemento di massa, ciò che significa, di lavorare per suscitare élites di intellettuali di un tipo nuovo che sorgano direttamente dalla massa pur rimanendo a contatto con essa» \

1 M. S., p. 17.498

Gli interventi

Non è possibile, entro i limiti di questo intervento, sviluppare a lungo tutti gli aspetti del problema degli intellettuali, tanto importante per Gramsci, e che lui stesso pone proprio al centro del problema della cultura.. Basti precisare che la critica degli intellettuali italiani, o di altri paesi, è sempre fatta attraverso la loro funzione effettiva, in rapporto con la « filosofia » (cioè la politica) del gruppo dirigente e il senso comune e la vita della massa. Si dovrebbe anche sviluppare il « principio teorico-pratico dell’egemonia», come consiglia Gramsci, l’« apporto teorico massimo di Lenin alla filosofia della prassi ». « Anche l’unità di teoria e pratica non è quindi un dato di fatto meccanico, ma un divenire storico, che ha la sua fase elementare e primitiva nel senso di “ distinzione ”, di “ distacco ”, di indipendenza appena instintivo, e progredisce fino al possesso reale e completo di una concezione del mondo coerente e unitaria. Ecco perché è da mettere in rilievo come lo sviluppo politico del concetto di egemonia rappresenta un grande progresso filosofico oltre che politico-pratico, perché necessariamente coinvolge e suppone una unità intellettuale e una etica conforme a una concezione del reale che ha superato il senso comune ed è diventata, sia pure entro limiti ancora ristretti, critica » 1. All’« egemonia » si ricollega tutta l’impostazione dell’« indipendenza » degli intellettuali o della loro « organicità », impostazione che assume un’importanza fondamentale, per cui è possibile una critica acuta della cultura del passato e anche di quella di oggi, e la definizione delle linee necessarie di una nuova cultura.

Parlare di una nuova cultura vuol dire affermare implicitamente la necessità di una lotta culturale. È necessario lottare per innalzare il livello di coscienza degli uomini, della massa che dispone, dal punto di vista culturale, del senso comune. Tale lotta è inscindibile dalla lotta di classe, e ogni progresso culturale delle masse è legato a un progresso della coscienza dei conflitti fondamentali della società. Ma dove avviene questa presa di coscienza? Su che terreno? Per giudicare dell’importanza della risposta che Gramsci dà, rifacendosi a Marx, basta ricordare quan
1 M. Sp. 11,Gilbert Moget

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te volte egli rimanda il lettore alle celebri righe della prefazione al Contributo alla critica dell'Economia politica, secondo le quali le forme ideologiche sono il terreno su cui gli uomini prendono coscienza dei conflitti di struttura, il terreno della lotta. Cosi si capisce l’urgente necessità dell’inventario della cultura e della cultura delle masse, delle forze e componenti di un « clima culturale » determinato. Proprio questa elaborazione culturale tentata da Gramsci, può permettere di condurre sul terreno nazionale (ma con prospettive universali) una lotta concreta in cui sarà necessario conoscere chiaramente chi è il nemico maggiore, dove sono i nemici che non contano, e discernere, tra coloro che hanno un pensiero diverso, chi può essere alleato, portare un contributo effettivo alla costruzione comune.

Nella lotta culturale, c’è dapprima la considerazione per l’avversario. Questa pare una evidenza, ma io non me sono tanto convinto. Senza fare un’assimilazione tra campo culturale e campo militare, sconsigliata da Gramsci, direi che non dobbiamo mai fare come i governi colonialisti: durante la guerra d'Indocina, la parola d’ordine del Movimento della Pace era « trattare con il nemico contro cui combattiamo » ; pare una pazzia come formula, ma in realtà il governo francese non voleva Considerare il Vietmin come nemico, cioè esso non era il nemico ufficiale.

Combattere l’avversario significa dunque non negarlo, rispettarlo, quindi conoscerlo e non cadere nelle forme di critica loriana, cioè di anti-cultura, vale a dire parlare di ciò che non si conosce, o di cui non si è capito nulla; significa poi, questo rispetto, non ritenere il nemico deficiente perché non marxista, significa inoltre considerare che la ricerca dcH'avversario non è necessariamente gratuita, che è possibile talvolta qualche posizione comune, sia pure limitata, significa che gli avversari possono avere una parte non del tutto negativa nel processo del pensiero e porre, anzi, problemi i quali, spogliati dalla loro ganga speculativa, sono passibili di venir presi in considerazione dalla stessa filosofia della prassi1.

Combattere l’avversario non significa distruggerlo per potere ripartire da zero. Infatti il fronte ideologico — dice Gramsci — non si può assimilare ad un fronte politico-militare in cui vince chi distrugge l’avversario, perché la cultura si deve costruire, ed è pertanto l’opera di tutti; cioè anche gli avversari idealisti possono contribuire, iin certi casi,500

Gli interventi

a tale costruzione. Si tratta infatti, a lungo andare, di costruire — come dice Gramsci — lo « spirito umano », dando aU’espressione un senso positivo; cioè laddove l’idealismo avvezzo a camminare sulla testa concepisce lo spirito umano come punto di partenza, la filosofia della prassi lo concepisce come una conquista e un punto di arrivo.

In Gramsci dunque, l’avversario non è negato, non è annientato, ma deve essere superato. Non si distruggono le filosofie del passato che costituiscono la storia del pensiero, la storia della cultura, e quando Bukharin chiama Platone « il maggiore filosofo fautore della schiavitù, reazionario ad oltranza », oppure Seneca « filosofo riccone », è come se non avesse detto nulla, anzi peggio. Non si devono negare le filosofie o i filosofi, nello stesso modo che non si possono distruggere le idee che si sono fatte senso comune, occorre superarle: Marx ha superato Hegel, il che vuol dire che Marx non è possibile se non con Hegel, cosi come Gramsci non è possibile senza Croce, il quale quasi « monopolizzava » la cultura italiana.

Comunque la lotta per l’egemonia cultura non è unilaterale, è un rapporto^ dialettico fra filosofia della prassi e avversari, nello stesso modo che ce un rapporto dialettico fra educatore e ambiente educato, il quale è a sua volta educatore. Questo non deve mai significare abbandono o concessioni agli avversari; è un fatto che la filosofia della prassi ha dato luogo a combinazioni, che cioè le filosofie tradizionali le hanno preso certi elementi che hanno rinvigorito e ringiovanito queste filosofie. Ma la filosofia della prassi che è necessariamente immersa nell’ambiente culturale nazionale può, come forza egemonica, sicura dei suoi criteri, assimilare nel corso della lotta gli elementi positivi delle correnti avverse e, superandoli, dar loro un nuovo significato.

Ce anche un punto importante della cultura, come la concepisce Gramsci, a cui vorrei fare un accenno: è l’aspetto morale. E ritroviamo qui ciò che abbiamo detto degli umanisti moderni, scegliendo Alain come esempio tipico.

Si è già insistito sull’alta moralità di Gramsci; diremo solo che in lui la morale viene considerata proprio in funzione di una concezione assoluta dell’umanesimo, di una concezione universale della cultura: seGilbert Moget

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l’uomo è il processo dei suoi atti, se l’uomo è responsabile, tale concezione progressiva dell’uomo, che non dipende da una « natura umana », ma che pone l’uomo signore del proprio destino, non può non legare alla cultura una norma di vita. Anzi la filosofia della prassi è l’unica concezione che possa sistemare questa perfetta adesione della filosofia alla vita, alla pratica, alla morale vissuta. Tutti devono sentire questo impegno culturale, partecipare a questa volontà collettiva di creare l’uomo e di sviluppare tutte le possibilità umane del genere umano. La responsabilità di questa « creazione » tocca al partito, il quale è l’unico « principe collettivo » capace di dirigere organicamente « tutta la massa economicamente attiva », di dirigerla, « non secondo vecchi schemi, ma innovando » ; dove Gramsci ci ricorda che l’« innovazione non può diventare di massa, inei suoi primi stadi, se non per il tramite di una élite in cui la concezione implicita nella umana attività sia già diventata in una certa misura coscienza attuale coerente e sistematica e volontà precisa e decisa ». Quindi la grande responsabilità degli intellettuali, anche e soprattutto se si pensa che, nel periodo in cui la classe operaia assume una funzione subalterna, sarà sempre difficile un loro legame organico colle masse; ma essi dovranno almeno tener presente che, se rinunzia-no a questo legame, cioè a operare per il « raggiungimento collettivo » di uno « stesso clima culturale », tradiscono la cultura, diventano un gruppo « autonomo », fuori della realtà sociale, fuori della, vita.

In Francia, come voi forse sapete, l’Italia è di moda; non l’Italia di Gramsci, ma quell'Italia che appare attraverso diversi romanzi, e anche attraverso brevi viaggi turistici: l’Italia vera, quella delle lotte,, quella che si sta edificando, erede di una storia originale, con una sua. problematica nazionale diversa da quella francese, è ancora poco conosciuta. Un certo pubblico comunque si compiace nella descrizione di una Italia ferma nel tempo, paese fortunato cui basta una prima donna a fare scomparire tutti i problemi (cosi lo speaker della radio francese per i fatti della Callas che fecero anche in Francia un certo rumore). Da tale visione, non è escluso un certo senso della propria superiorità riguardo a un paese seducente per il turista, ma di cui si isola l’aspetto arretrato tanto da sentirsi in confronto « progrediti ». A questa visione indulgono talvolta gli scrittori per cui il paese di Di Vittorio offrirebbe facile rinfresco a un libertinaggio già appassito. Perciò consideriamo che502

Gli interventi

presentando al pubblico francese il pensiero forte di Gramsci, temprato nelle lotte e nelle sofferenze della prigione, daremo una eco diretta della cultura italiana di ventanni fa, non solo, ma della cultura del mezzo secolo e della cultura di tutti i secoli passati. A chi avrà il coraggio di leggere questi testi spesso difficili, verrà prospettata anche la cultura dell’Italia nuova.
 


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Titolo della pubblicazione Studi gramsciani
Titoli e responsabilità
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  • Primo convegno Internazionale di Studi Gramsciani tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958
 
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Pubblicazione Roma+++ | Editori Riuniti+++ | Anno: 1958
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