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tipologia: Analitici; Id: 1543205


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Tipologia Documento di Convegno
Titolo [I Documenti del convegno. Appunti per le relazioni e Comunicazioni] G. Trevisani, Gramsci e il teatro italiano
Responsabilità
Trevisani, Giulio+++
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Giulio Trevisani
GRAMSCI E IL TEATRO ITALIANO.
L'attività del giovane Gramsci come critico teatrale comincia il 16 gennaio 1916 quando l'Avanti! inizia nell'edizione piemontese la pagina di cronaca di Torino, e finisce il 16 dicembre 1920, quindici giorni prima dell'apparizione dell'Ordine Nuovo quotidiano. Dal suo ventiseiesimo al suo trentesimo anno — l'intenso quinquennio della segreteria della sezione socialista, dell'Ordine Nuovo rivista e della latta per la fondazione del partito comunista — Gramsci riesce ad intercalare una costante attività giornalistica, alternando ai caustici commenti della rubrica « Sotto la mole » la critica teatrale. Gobetti, che si compiacque di posizioni paradossali contro la critica teatrale, scrisse: « Si può compiere con utilità anche l'esperienza di critico teatrale; ma se la si smette presto » : e Gramsci, infatti, sotto il peso, d'altronde, di ben piú gravi responsabilità, sembra aver dato ragione a Gobetti, lasciando la rubrica dell'Ordine Nuovo, ed affidandola a lui. Il contributo, comunque, che Gramsci dette al teatro italiano dal 1916 al 1920 fu di importanza notevole, non tanto, crediamo, per la validità critica, pur notevole, delle singole recensioni — quelle note che nascono nelle ore piccole della notte, da una frettolosa fusione fra critica e cronaca — quanto per la visione completa che, in quelle recensioni ed in vari articoli, egli mostrò di avere del fenomeno teatrale, considerato sia sotto l'aspetto artistico, sia sotto quello economico.
Quale era la particolare fisionomia del teatro europeo e, in ispecie, del teatro italiano, in quel periodo che va dalla fase drammatica culminante della guerra all'inizio della parabola rivoluzionaria discendente del dopoguerra?
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È importante, a questo proposito, uno scorcio che ritrovo in uno scritto di Alvaro: « A vederlo di lontano, il teatro borghese di quel tempo è dominato da un'inquietudine pratica basata sul ruolo del danaro e delle conquiste materiali; della posizione, dell'arrivare; lo si confronti col mondo di Ibsen, che è il padre di quasi tutto il repertorio europeo dei primi anni del Novecento, mondo della borghesia ascendente, per avere i1 quadro in tutta la sua meschinità. In Ibsen è l'individuo che lotta per conquistarsi e raggiungersi, conquistare la propria individualità e la massima espressione di se stesso, la propria moralità, che furono caratteri splendenti della borghesia al suo sorgere, quale Ibsen la trovò. Negli epigoni, quelle inquietudini si stemperano in fastidi e appetiti, la conquista interiore della piena espressione individuale diventa avidità di conquiste di segni esteriori. Basta osservare la differenza che passa fra l'ibseniano Solners e il Sansone di Bernstein, fra Edda Gabler e la Marcia nuziale. A questo punto la borghesia, come classe, è incapace di sostenere ormai la parte che s'era assunta e che aveva assolto. Il dramma, come ogni altra forma di letteratura, si frantumava ai medesimi scogli; non è piú che questione di appetiti e di indigestioni ».
In quel tempo, in Italia, il teatro ottocentesco non dà che un suono lontano e sordo: quello sentimentale-romantico, infatti, è ormai anacronistico, quello d'intreccio non ha piú mordente, e galleggiano sulle acque del teatro i relitti di quel verismo che aveva cominciato a denunziare la corruzione e la decadenza della società borghese, e si era rivelato troppo povera ed ingenua cosa — borghese esso stesso — di fronte a1 travaglio della umanità e allo smarrimento della borghesia che caratterizzavano l'angoscioso e sconvolgitore tempo della guerra e i tormentati anni del dopoguerra. Quanto al teatro di D'Annunzio, esso era franato ormai sotto il peso della sua retorica. La scena italiana, lenta e sospettosa nell'accogliere Ibsen e Shaw — sorda soprattutto ad accogliere il messaggio di Ibsen che tendeva alla ricerca ed alla valorizzazione della personalità umana — si lasciava invadere dal teatro francese, con Bernstein e Bataille da una parte e la pochade dall'altra. Bernstein, « abile alchimista di parole » fra i creatori « per uso industriale » di « un mondo fittizio di avventurieri, di donnine allegre, di vecchi intriganti e di vecchi satiri »; « riduzione meccanica » e « visione artificiosa del mondo, utilissima ai fini del successo, perché offriva un'inesauribile miniera di spunti, di intrighi, di intrecci, non domandava sforzi di fantasia, non domandava
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elaborazioni faticose ». Tentava, ora, Bernstein, di trarre motivi dalle sofferenze e dalle angosce quotidiane dovute alla guerra: ma « la guerra — osservava Gramsci — non può far diventare poeta un mercante di parole ». Bataille, « scrittore moralisteggiante » , « che annega la vita nel tenerume sentimentale, che esaspera e diluisce due o tre spunti drammatici in un oceano di tenerume poetico ». Egli « sublima le creature della sua fantasia, assegna loro un compito ed un apostolato »; ma i suoi personaggi non sono che « bocche da discorsi ». Fra Bernstein e Bataille, Gramsci preferisce, per absurdum, l'originalità « puramente esteriore » di Sacha Guitry, che è « lieve, vellutata creazione di stati d'animo provvisori » e « non stanca »; ritiene « piú igienica per i nervi » la Dame de Chez Maxim, che, almeno, « non ha pretese e non nasconde il belletto e la sfacciataggine », « tanto piú se l'arte di Dina le toglie la patina piú appariscente di volgarità, e le dà in prestito la sua vita artistica », sovrapponendosi, cosí, per eccezione, al « trimme della produzione comica francese », che rispecchiava quel mondo parigino di tabarin e di separés, di cocottes e viveurs, e di profumate alcove, che dai principi del secolo aveva costituito il Nirvana della provinciale borghesia italiana, e tanto piú oggi, per la guerra, solleticava le velleità dei nuovi ricchi.
Questa borghesia era, del resto, la stessa che, quando mostrava piú casalinghe pretese, faceva buon viso alla facile produzione di Dario Niccodemi, che « pur nel suo convenzionalismo sentimentale, aveva, con l'abilità, acquistata nel suo garzonato di autore rotto a tutte le astuzie della scena », saputo sia « drammatizzare spunti e motivi eminentemente legati all'ideologia popolare » sia accattivarsi lo spettatore piccolo-borghese con la creazione di una contrapposta mitologia aristocratica.
Sbocciavano, cosí, speranzose della fortuna del Niccodemi, sia le prime erbacce forzaniane, che si faranno, poi, alte e soffocanti sotto il fascismo e saranno, or è qualche anno, premiate in blocco con un milione dal parastatale Istituto del Dramma Italiano, sia le « piante di stanza » del salottierismo, « la pochade che vuol essere " commedia comica " » e questa che si adorna di spiritosaggini « come — dice Gramsci — un pellerossa da carnevale si adorna di penne ». Gli uomini spiritosi, egli dice, « sono una parte molto importante della vita sociale moderna e sono molto popolari... ». L'ideale della loro vita elegante sono « la conversazione fatua e brillante del salotto, l'applauso discreto e i1 sorriso velato dei fre-
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quentatori disalotti ». Anche questo genere di commedia, avrà poi suo massimo sviluppo sotto il fascismo.
Una sola opera, maturata in un clima di volontarismo ibseniano, si è, negli ultimi anni (è del 1912), staccata dalla produzione salottiera, oltre che valorizzata da una interpretazione inimitabile. Il Santo è l'opera; Ruggeri l'interprete: per il resto, Bracco rimane anche lui nel salotto, o talvolta — il che non è, certo, artisticamente piú valido — scende in istrada con gli atti unici di tardo verismo.
I futuristi non avevano portato nel teatro che clownesche stramberie; e, d'altronde, non tarderanno a rivelarsi, in tutta la loro attività, quel « gruppo — come Gramsci disse — di scolaretti, che, scappati da un collegio di gesuiti, hanno fatto un po' di baccano nel bosco vicino e sono stati ricondotti sotto la ferula della guardia campestre ».
In contrapposizione al salottierismo erano sorte, sulla scia benelliana, opere intese ad evadere dalla povertà presente, risalendo al passato nella storia e nei miti. Benelli aveva sconfessato D'Annunzio, ma la discendenza era innegabile. Ora la Cena — che Gramsci definisce « castelletto di cartapesta », con personaggi che erano maschere « dalla gioia canora e dall'anima di legno », — Il Beffardo di Nino Berrini, il Glauco di Ercole Morselli hanno momenti di clamorosa fortuna tra le platee, e non solo italiane — « meteore », postilla Gramsci —; ma per queste opere valeva il giudizio già dato da lui sulla letteratura italiana del tempo: « il passato non vive del presente, non è elemento essenziale del presente... non è elemento di vita ma solo di cultura libresca e scolastica ». Perciò esse non erano poesia.
Solo importante tentativo di rinnovamento della scena italiana fu, in quegli anni, il teatro del « grottesco », nel tempo stesso in cui sorgeva l'astro pirandelliano.
Del grottesco dice Gramsci: « Questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la vecchia moda del teatro romantico da appendice » e riescono anche a quello di portare ad un tono piú elevato la recitazione, perché « spoltriscono i facili schemi irrigiditi degli attori ». Della commedia capostipite, La maschera e il volto di Chiarelli, piace a Gramsci, nel 1917, la spregiudicatezza con cui l'autore, costruendo la macchina convenzionale che regge i tre atti, non nasconde la volontà del convenzionale. Il suo lavoro — egli dice — è pertanto opera di sincerità, e ha un grande valore per l'educazione estetica del pubblico, per correg-
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gere il gusto del pubblico, attutito e fatto lapposo dalla falsa grandezza
e dall'artificio abilmente nascosto nel teatro solito »; e loda « l'abilità
e l'elasticità d'ingegno » dell'autore che compone in modo piacevole, deformandola, la vita solita del teatro di maniera. Non meno vivamente, un anno dopo, egli loderà L'uomo che incontrò se stesso del giovane Luigi Antonelli.
Ma dal tentativo non nascono nuovi e sostanziali sviluppi né per virtú degli iniziatori, né per quella di altri giovani che battono, con maggiore
o minore ingegno ed abilità tenace, la loro stessa via. E Gramsci non tarderà, nello spazio di qualche anno, a dare atto, con severe critiche, della sua delusione. Appare chiaro che il rinnovamento si limita alla forma; è del tutto esteriore, nonostante le pretese introspettive. « L'intrigo è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà d'intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito, ovverossia della psiche umana » . L'originalità degli aspiranti rinnovatori non nasce dalla fantasia ma dall'artificio. $, infatti, dice Gramsci, recensendo L'uccello del paradiso di Cavacchioli, « una fantasia legnosamente arida, che scoppietta e frigge per una goccetta d'olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia matematica, una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una fantasia da curiosi di sapere come la fantasia era fatta, i quali pertanto l'hanno recisa per notomizzarla
e veder com'era fatta ». Non è originalità, quindi, ma solo bizzarria; la quale è solo un sottoprodotto della originalità. E l'involucro della bizzarria avvolgerà o il vuoto o della vecchia merce scadente. Il primo è, per esempio, il caso del pur quotatissimo Rosso di San Secondo, ii cui ingegno, dice Gramsci, gli permette con Marionette, che passione! di « portare sui teatro la formula famosa: per fare un cannone si prende un buco e lo si avvolge di bronzo: egli prende il vuoto, lo avvolge di parole ». Siamo costretti, oggi, a controllare l'esattezza di questo giudizio tutte le volte che assistiamo a riesumazioni di Rosso. Il secondo caso riguarda la innumerevole produzione di Carlo Veneziani.
Occorre ben altro: occorrono grandi spalle e forti braccia ed un impegno largo e totale per proporsi di ripulire le stalle d'Augia del teatro borghese. E Gramsci, ascoltato il 29 novembre da Ruggeri Il piacere dell'onestà, cosí vi presentò Pirandello: « Luigi Pirandello è un " ardito " del teatro. Le sue commedie sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, ravine di
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sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono fuori dagli schemi soliti, della tradizione e che però non possono iniziare una nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché di moda. C'è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a concretarsi sempre in rappresentazione, e, quando riesce, dà frutti insoliti nel teatro italiano, d'una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile ».
A questo punto, evidentemente, si prospetterebbe il tema « Gramsci e Pirandello », tema fortemente impegnativo, specie dopo gli accenni tenuti nel saggio di Carlo Salinaci pubblicato, nel 1957, in Società, e che, investendo il tema generale della poetica pirandelliana, esula dai confini di questa comunicazione.
Qui, restando nel campo delle critiche teatrali, bisogna anzitutto precisare che nel quinquennio 1916-1920, Gramsci conobbe di Pirandello: ha ragione degli altri, che è del 1915, Pensaci Giacomino, Liold e Il berretto a sonagli, che sono del 1916, Il piacere dell'onestd, del 1917, Cosí è (se vi pare) e Il giuoco delle parti del 1918, L'innesto, del 1919, Tutto per bene e Come prima, meglio di prima del 1920; conobbe, cioè, il Pirandello che precedette i Sei personaggi e l'Enrico IV, che sono del 1922; il Pirandello, cioè, non ancora completamente riconosciuto nella sua grandezza da gran parte della critica maggiore; ed è noto che Gramsci ricorderà piú tardi, con compiacimento (lettera alla cognata del 19 marzo 1927) come in quel tempo in cui Pirandello era « amabilmente sopportato o apertamente deriso » , egli, dal 1915 al 1920, avesse scritto tanto (e lo ricorderà nei Quaderni del carcere) « da mettere insieme un volumetto da 200 pagine ». In quella lettera famosa di opere da compiere, egli includeva tra queste, come è noto, « uno studio sul teatro di Pirandello e sulla trasformazione del gusto teatrale italiano che il Pirandello ha rappresentato ed ha contribuito a determinare».
Il capolavoro del periodo precedente ai Sei personaggi, è, indubbiamente, Liolà, che egli giudica « una delle piú belle commedie moderne » : il contadino siciliano in cui Gramsci vede « l'uomo della vita pagana, pieno di robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità vigorosa », « efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe da tutta la materia organica », l'opera che non po-
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teva non ferire profondamente la mentalità cattolica; e Gramsci ricorderà piú tardi le chiassate degli studenti clericali torinesi alla prima di Liolà, quando — nei tempi dell'accanimento della Civiltà cattolica e dei critici teatrali cattolici contro Pirandello — osserverà che, in effetti, il grande scrittore siciliano si stacca dal verismo borghese e piccolo-borghese del teatro tradizionale perché la concezione umanitaria e positivistica del verismo non era anticattolica; e, invece, la tendenza filosofica pirandel-liana, qualunque ne siano il contenuto, i limiti, la coerenza, è sempre
indubbiamente anticattolica ».
Nel chiudere la prima parte di questa comunicazione riguardante le recensioni teatrali, mi si permetta di osservare che ai critici d'oggi Gramsci offre lezioni di costume e di stile.
Caratteristica della sua critica teatrale è il suo anti-intellettualismo. Il linguaggio di Gramsci è semplice: familiare il tono; chiara l'esposizione del fatto e limitata all'essenziale. I giudizi non cadono dall'alto ma emergono spontanei dal discorso come naturale conseguenza di senso comune. Cosí quando stronca, mancano la malignità e il gusto dello stroncamento: egli non fa che parlare franco; ed è tutto. E poiché l'idea è chiara e la parola è tagliente, peggio per chi ci capita. Non conosce la perversità della punzecchiatura né il sadismo letterario della frustata: ma nemmeno l'untuosità ipocrita della riserva, non giulebba i noccioli, secondo una sua frase, per farli meglio inghiottire. Dice il bene, quando ha da dir bene, il male, quando ha da dir male, e il male e il bene quando ha da dire insieme male e bene.
Gramsci pone su un piano della massima importanza sia il fattore del complesso artistico sia quello della singola interpretazione. Egli vede il primo solo nella perfetta struttura ed armonica completezza. Della. compagnia comica Galli-Guasti-Bracci, di cui nomina nel tempo stesso i migliori fra i cooperatori secondari, scrisse che essa è « l'unica compagnia italiana che meriti veramente questo nome, poiché presenta organicità. di ruoli e graduazioni di capacità che, pur lasciando agio ai principes di. mettere in rilievo le loro doti speciali, non nuoce all'insieme e dà risalto anche alle parti secondarie » : dice, anzi, che queste, se alacri ed intelligenti, non solo non fanno diminuire la personalità dei maggiori, ma la mettono, forse, maggiormente in risalto. (Si pensi come tutto questo possa apparirci lontano e sfocato nel tempo, innanzi alle varie striminzite e sbilenche compagnie che oggi si formano lavoro per lavoro!).
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La compagnia è, per Gramsci, un collettivo di lavoro anche se tutti gli elementi si riannodano, e debbono riannodarsi, intorno ai protagonisti. La sua battaglia su questo terreno precede di oltre un decennio la nota crociata damichiana per la regia. A proposito della compagnia di Ruggeri, il 5 febbraio 1916, egli lamenta: « ormai è invalso, nella organizzazione delle nostre migliori compagnie, l'uso di circondare gli elementi ottimi con altri molto scadenti, se non addirittura pessimi, che servono solo per il chiaroscuro, per dare maggiore risalto ai primi, con quanto scapito dell'effetto generale di una recita, è facile a chiunque capire ».
Alla completezza della compagnia deve, per Gramsci, rispondere l'integrità dell'opera d'arte. Qualche mese dopo, loda lo sforzo di Ruggeri « per dare di Amleto una raffigurazione pienamente umana »; ma censura l'interpretazione dell'opera « perché nelle opere del tragico inglese non c'è solo il protagonista, e la tragedia non è solo la tragedia di questo. La caratteristica del capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella saturazione di poesia di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona del dramma; niente c'è di inutile, niente da trascurare, ogni anche piccolo accenno concorre alla catastrofe ed è indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di diventare uri dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale. Tutti i personaggi sono grandi nella concezione shakespeariana: fortemente messi in rilievo, e presi nel turbine di fatalità che ha in Amleto la vittima principale ».
La stessa critica a Ruggeri è mossa, durante la stessa «stagione » per l'interpretazione del Macbeth, per aver cercato di ridurre, in quanto gli fosse stato possibile, la tragedia alla sua persona. Ma nel tempo stesso la sua parola ammonitrice sembra precorrere quelli che un giorno saranno i non rari arbitrii registici; e scrive: « Ogni urto brutale con tutto ciò che è convenzione, mezzo, costrizione violenta, adattamento alle esigenze dell'ora e delle possibilità interpretative, produce squarci dolorosi, mortificazioni umilianti. L'arbitrio direttoriale che toglie e riduce non può non essere sacrilego. L'opera deve rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita, dalla fantasia dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni atteggiamento fisico e spirituale deriva necessariamente da una personalità che è stata concepita in quel dato modo e in nessun altro ».
Nella larga letteratura, comunque siano definiti i suoi testi, di inse-
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gnamento per gli attori, da Diderot a Jouvet, Gramsci innesta elementi notevoli.
Il definir grande un attore, egli dice, « vorrebbe dire stabilire una scala di valori, ricorrere a dei confronti, classificare. E invece l'artista non è grande o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio può essere rivolto solo all'osservazione del come lo sia, può essere rivolto a stabilire come si svolge questa sua particolare attività, che è tutta lui, che è ciò che ci interessa. Cogliere l'attimo vivo, abbandonarsi al fluire di questa vita, e risentirla in sé come qualcosa di solidamente compatto, che si impone all'ammirazione, che ci domina in quel momento, come fosse tutto il mondo, il solo mondo esistente ».
Ed ancora, altrove: « Trattandosi di un attore drammatico, ciò che importa è accertare se egli da attore è diventato artista, se veramente la sua umanità si distingue da quella degli infiniti altri mortali per la capacità di ricreare gli individui concreti che la fantasia degli scrittori crea, per la capacità di dimenticare in questa ricreazione se stesso come tal dei tali, per assorbire, assimilare ed esprimere integralmente tutti quegli elementi di individuazione concreta coi quali lo scrittore ha realizzato la sua intuizione drammatica ».
Loda l'attore, che non si dà a « montare le situazioni fortemente impressionanti » per « raggiungere gli acuti e spasmodici culmini della drammaticità. Ma da artista che sente la dignità dell'arte sua, non abusa di queste droghe piccanti. E si tiene nei limiti dell'umanità normale, riuscendo lo stesso, e anzi più efficacemente, a far risentire l'angoscia piú profonda e la gioia piú spirituale ».
Talvolta egli censura l'eccesso di quella ricca dote che è cosí tipica e tradizionale dell'attore italiano, lo spirito di improvvisazione, stimolato dalle ragioni particolari, soprattutto diremmo geografiche, della scena italiana. « Le rappresentazioni solite, di ogni giorno, — egli scrive nel 1917 — non dànno mai occasione a una espressione di sé completa. Sono frammentarie, incerte, provvisorie: le abitudini del teatro italiano obbligano gli attori ad una varietà di interpretazione che non può non es- sere a danno della profondità, della compiutezza. C'è sempre un po' di dilettantismo, di nomadismo, di improvvisato nei nostri attori. Le elaborazioni minuziose, capillari, sono ignorate. L'intuizione può supplire in parte, ma non riesce mai a dare quella pastosità intensa di luci che dà la preparazione, il lavoro critico ».
20.
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Per i nostri attori, in genere, Gramsci ha simpatia, senza padreternismi né paternalismi; ammira il loro sforzo quando esso è dedicato a compiti ingrati. Quando si tratta di attori che profondamente stima (Virgilio Talli, per esempio, da lui definito, per la sua opera di direttore, « forse il piú acuto critico letterario che oggi esiste in Italia »; Emma Gramatica, Tina Di Lorenzo, Luigi Carini, Ruggero Ruggeri, Dina Galli), si accosta ad essi con rispetto, anche se non esita, quando gli par necessario, ad accoppiare alla lode riserve o critiche.
Gramsci enuncia le esigenze delle masse nei tempi nuovi. « I lavori capaci — scrive — di emozionare il nostro pubblico sono quelli che mettono a contatto il presente con l'avvenire, i dominatori con gli oppressi, il sistema sociale dell'oggi con le ardite speranze del domani ».
E qui è da notare che egli non istalla nella rubrica teatrale dell'Avantil una cattedra staccata dalla vita teatrale. Egli si rivela uomo di teatro; e cioè consapevole delle necessità pratiche a cui la vita del teatro è sotto:-posta e dei mezzi che devono non ostacolare ma favorirne lo sviluppo. Sarebbe stato da ricordare il suo insegnamento l'anno scorso, in occasione di una polemica che fu intitolata « Arte e cultura » e che piú esattamente sarebbe stata intitolata « Arte e Teatro ». Gramsci sostenne che i diritti e i valori dell'arte dovevano essere rispettati in teatro come essenziali ai suoi fini nel tempo stesso ideali e pratici, perché senza di questi ultimi non esisterebbe teatro e la sua opera rimarrebbe nell'ambita della letteratura. Battendosi contro « l'insincerità psicologica, la bolsa espressione artistica », la forma « crassamente sguaiata » o « romantico-sentimentale » della vita sessuale, Gramsci denunzia l'impresa teatrale Ghiarella che, a Torino, sta « lentamente abituando » il pubblico « a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a quello che rappresenta una necessità buona dello spirito » . Scrive: « Non è vero che il pubblico diserti i teatri; abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni, riempirsi, affollarsi, all'improvviso per una serata straordinaria in cui si esumava un capolavoro, o anche piú modestamente un'opera tipica di una moda passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale. Shakespeare, Goldoni, Beaumarchais, se vogliono lavoro e attività per essere degnamente rappresentati, sono anche al di fuori di ogni banale concorrenza ». Ma nello stesso tempo afferma che « il teatro non si nutre solo di capolavori »; e, parlando del successo di quegli artisti che
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si son fatta una maschera della comicità, onde il loro successo è semplicemente un fatto commerciale, aggiunge che esso è anche un fatto « necessario, in quanto anche la produzione drammatica è in grandissima parte un fatto commerciale e perciò rispettabile ». Questa produzione di ordinaria amministrazione, cioè, sempre che abbia un minimo di dignità e di buon gusto, ha lo scopo di assicurare la funzionalità ininterrotta degli spettacoli; a tener « caldo », come si dice in gergo, « il locale », condizione prima perché i capolavori possano giungere al pubblico; Gramsci, nel suo realismo, ne aveva la perfetta comprensione.
La seconda parte di questa comunicazione riguarda l'atteggiamento di Gramsci di fronte al teatro considerato come fatto economico, con contributi ancora validi nell'attuale fase della vita teatrale italiana. Piú particolarmente ci riferiamo ad un gruppo di articoli che, scritti in occasione di una agitazione della categoria capocomicale contro gli esercenti di teatro, considera l'organizzazione pratica, cioè economica, del teatro come fatto avente fine in se stesso e per la sua influenza sull'espressione artistica.
La prefazione posta alla pubblicazione di Letteratura e vita nazionale avverte, per quanto riguarda le cronache e critiche teatrali, che esse offrono un quadro pressocché completo della vita teatrale torinese di quel periodo. In verità, data, come vedremo, la particolare organizzazione del teatro italiano in quel tempo, la vita teatrale di Torino era strettamente legata a quella di Milano, di Genova, di Bologna e di Roma: e quindi era parte integrante della vita teatrale italiana. Possiamo dire, senza preoccupazioni, che le note di Gramsci hanno un valore di testimonianza e di giudizio su piano nazionale.
Fu, come è noto, quello della guerra e dell'immediato dopoguerra, un periodo di grande prosperità economica per qualsiasi genere di spettacolo. Certo, i locali piú affollati erano i caffè-concerto, dove si river-
sava la gente favorita dalle nuove e facili fortune di guerra e, durante la guerra, i privilegiati sottrattisi al servizio militare, spettacolo poco
edificante per i combattenti che venivano in licenza dal fronte (tanto che, dopo Caporetto, intervennero limitazioni e chiusure); ciò non pertanto restava ancora pubblico in abbondanza per gremire i teatri di prosa.
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In questo periodo si erano fatti piú frequenti e piú notevoli gli investimenti capitalistici nella formazione di compagnie drammatiche.
« Il teatro — si legge a p. 365 di Letteratura e vita nazionale — come organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle spire del maelström capitalistico... l'industrialismo ha determinato le sue necessarie conseguenze. La compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti che intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si è dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente dal lavoro in comune — lavoro di natura particolare, perché tendente a fini di creazione artistica — sono successi i " vincoli " che legano l'intraprenditore ai salariad, i vincoli della forca e dell'impiccato ».
Piccoli impresari locali, in verità, non erano mai mancati; erano sorti già dopo il crollo del mecenatismo principesco ed aristocratico; ma, come fenomeno generale, il mondo dei comici era costituito da compagnie girovaghe, piú o meno zingaresche, di tipo paternalistico, sotto una direzione nel tempo stesso artistica ed amministrativa. A queste compagnie si erano andate sostituendo, dalla fine dell'Ottocento, vere e proprie aziende capocomicali, per lo piú di proprietà dell'attor principale o di alcuni attori principali associatisi; piú tardi la società capocomicale era stata formata dall'attore o dagli attori anzidetti che davano alla società l'apporto del loro lavoro e da un finanziatore che investiva i suoi capitali. Piú tardi apparvero compagnie in cui anche gli attori principali erano scritturati e la compagnia era proprietà di un capitalista.
Il fatto recente, piú importante, era stato rappresentato dallo sviluppo dell'« esercizio » teatrale, e cioè dalla gestione dei locali, e ciò soprattutto per la costruzione, nelle grandi città, di nuovi teatri liberi dalla soggezione del « palchismo » e cioè dal condominio: e lo sviluppo era stato tale, da portare, nel tempo in cui Gramsci scriveva le sue note, alla creazione di un potente trust. I piú importanti teatri d'Italia, e cioè quelli di Milano, di Torino, di Genova, di Bologna, erano nelle mani della Società Suvini-Zerboni di Milano, dei fratelli Chiarella, genovesi, (con locali a Genova e Torino), del comm. Paradossi di Bologna; e questo trust sindacava anche quasi tutti i teatri di Roma.
Si era venuta, cosí, formando in Italia, dai principi del secolo, l'industria capocomicale, timida e subalterna a quella dell'« esercizio »
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teatrale, a quella cioè dei gestori dei teatri, generalmente chiamati proprietari, sia che fossero proprietari sia che fossero fittuari dei relativi edifizi. La soggezione era diventata enormemente piú grave negli ultimi anni. Ed è con evidente riferimento a questa situazione che Gramsci, nella pagina già citata, vede il capocomico ridotio, sostanzialmente, alla funzione di « mediatore » tra « l'impresario del teatro associato in un trust» e « i comici soggiogati alla schiavitú del salario ».
Dai principi del secolo, si eran venuti, a loro volta, corporativistica-mente organizzando le varie attività lavoratrici dello spettacolo: e già nel 1902 il suggeritore Domenico Gismano aveva fondato una Lega degli Attori Drammatici e un settimanale, l'Argante, e dirigeva l'una e l'altro con molta probità personale e con criteri assolutamente paternalistici, attraverso i quali — bisogna riconoscerlo — era riuscito a strappare non pochi miglioramenti.
In quel tempo di guerra in cui si andava rafforzando, per l'eccezionale stato di floridezza, la struttura economica del teatro italiano, essa si trovava ad aver raggiunto già da tempo una solidità che è spesso giustamente ricordata nell'attuale fase di fluidità, come il lontano paradiso perduto. Le compagnie drammatiche duravano tre anni; per tale durata si stipulavano i contratti fra attori e capocomico; e questi, nell'atto stesso in cui formava la sua compagnia, provvedeva a preparare il « giro » del triennio presso i teatri: preparazione, l'una e l'altra, che cominciavano assai prima dell'inizio del triennio.
Nel secondo e terzo anno della prima guerra, e cioè nel periodo di maggiore floridezza mai raggiunta dal teatro in Italia, lo strato capitalistico dominante, costituito dai tre proprietari di teatro già nominati, si era consolidato con un accordo monopolistico, il cui primo e immediato programma, in previsione del triennio 1918-21, doveva esser quello di consolidare con un contratto tipo il dominio dei loro interessi sulle aziende capocomicali. Contro il trust Suvini-Zerboni-Chiarelli-Paradossi costituitosi sotto forma di Consorzio, la Lega dell'Arte Drammatica dette il grido d'allarme ai capocomici; e questi, appoggiati anche dalla Società degli Autori, trovarono il piú battagliero rappresentante dei loro interessi in Ermete Zacconi, proprietario della compagnia a lui intitolata.
Sull'Avanti! di Torino, prima ancora che questa lotta fosse impostata sul terreno economico, Gramsci aveva rilevato i pericoli del trust sul terreno culturale. « Torino — egli aveva scritto il 25 maggio 1916,
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sotto il titolo « Sfogo necessario » — è diventata una buona piazza per il trust che regola il mercato artistico italiano »; e quel che diceva era valido per quasi tutta Italia. « Il trust ha ammazzato la concorrenza, ha rotto la molla che costringeva a dare il meglio se si voleva molto pubblico, si è formata la palude, la marcita che favorisce prosperità ai girini e alle erbacce ». E qui, nel successivo articolo del 18 giugno, « Malinconia », la dimostrazione della sempre maggiore scarsezza di spettacoli teatrali sostituiti da « un pullulare malsano di varietà e di canzonet-tisterie ».
Un anno dopo, il male si aggrava: gli spettacoli di varietà, operette, vaudevilles si sono allargati, hanno preso posto in tutti i teatri di prosa. Sotto il titolo « L'industria teatrale », il 28 aprile 1917, Gramsci scrive: « Torino è diventata una fiera, Barnum è diventato il dio tutelare della attività estetica e del gusto dei torinesi. Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust dei fratelli Chiarella ».
Qui Gramsci denunzia lo spirito animatore dell'industria teatrale, tal quale esso si rivelava allora di fronte al caffè-concerto (e tal quale si rivela oggi di fronte alla rivista): « lo spirito dell'accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú che conveniente adibire i teatri a rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati, l'industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l'aggettivo " teatrale " ».
Dei danni che certamente deriveranno, e già cominciano a derivare, al teatro drammatico, l'industria teatrale, osserva Gramsci, non si preoccupa poiché, a causa del monopolio e della perversione del gusto, i suoi affari prosperano ugualmente. Perché dovrebbero, infatti, preoccuparsi i proprietari teatrali? Le compagnie, scrive Gramsci, « se vogliono vivere e lavorare devono passare sotto le forche caudine dei patti, dell'ingerenze, dei repertori, che il Consorzio impone ».
Fissiamo subito la nostra attenzione su questi tre temi proposti da Gramsci: patti, ingerenze, repertori; poiché si tratta di una tematica quanto mai attuale per porre in discussione le ragioni che impedivano allora e tanto piú impediscono oggi — in una situazione nuova ma analoga — quella libertà del teatro che è condizione assoluta per la sua esistenza.
Quanto ai patti, salvo alcune clausole addirittura leonine da tempo
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superate, essi sono oggi ancora, sostanzialmente, quegli stessi del contratto tipo preparato a quel tempo dal trust degli esercenti e che costituiscono l'impalcatura della struttura economica del teatro italiano; il quale ha una delle sue principali cause di rovina nel regime contrattuale fra teatri e compagnie, fondato su due predisposti scompartimenti stagni dell'utile; che non va diviso, volta per volta, fra teatro e compagnia in ragione della loro partecipazione al costo del prodotto spettacolo, ma secondo una proporzione fissa fra teatro e compagnia, che mette, in ogni caso, il teatro al sicuro dei rischi, e tutti li addossa alla compagnia. La quale si difende attuando il criterio del minor rischio e del minor costo possibili: periodi sempre piú brevi, complessi sempre minori, occasionalità, provvisorietà sempre maggiori, e sempre maggiore decadenza artistica: fondamentale causa ed immediato effetto, questa, della crisi del teatro.
Quanto alle ingerenze, e cioè alle possibili limitazioni della libertà del capocomico nella formazione delle compagnie, ingerenze di cui Gramsci vedeva il pericolo nel rapporto di forze fra i due contraenti, basti pensare come esse si siano allargate ed approfondite, e come da eventuale pericolo siano diventate danno costante in un regime nel quale, dal 1936 ad oggi, la sovvenzione ministeriale è condizione di vita della compagnia.
Quanto, in definitiva, alla scelta del repertorio (per la quale l'ingerenza degli esercenti era solo potenziale nel momento in cui Gramsci scriveva, e che diventò reale due anni dopo, quando al trust degli esercenti fu abbinata la « Sitedrama », società accaparratrice di repertorio nazionale e straniero) l'ingerenza ministeriale ha, come è noto, sotto il governo fascista e quello democristiano, raggiunto il piú alto grado, rappresentando essa la ragione basilare del regime delle sovvenzioni, predisposto appunto in modo da soffocare ogni libertà del teatro. La censura fa il resto, sopprimendo tutto quello che al sovvenzionatore sia sfuggito di sopprimere.
Nel conflitto scoppiato fra il consorzio monopolistico degli esercenti ed i capocomici, Gramsci prese posizione contro il Consorzio, pur mettendo in evidenza il rapporto di forca ed impiccato, fra capocomico e scritturato. Su tutta una serie di sfruttamenti, infatti, quello del capocomico, quello dell'esercente, e — diventato oggi sempre piú grave — quello del proprietario delle mura (che ha cominciato ad imporre la sua partecipazione agli incassi lordi dello spettacolo) poggia la struttura economica del teatro italiano; sfruttamenti tutti che aggravano la crisi del teatro, ele-
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vando il costo dello spettacolo e del biglietto d'ingresso, e che possono essere eliminati soltanto dai teatri comunali.
Gramsci muove contro la gretta politica degli « accumulatori di quattrini » , che, avendo in programma l'accondiscendere ai gusti degli amatori di banalità, contribuisce all'abbassamento di livello del gusto generale.
Alla reazione della ditta Chiarella, che aveva id monopolio dei teatri torinesi e genovesi e che protestava contro le note dell'Avanti! egli risponde informando i lettori dell'Avanti!: «II trust del Consorzio teatrale ha già escluso dai teatri di Torino Ermete Zacconi; ora anche Emma Gramatica è caduta in ostracismo ». E poiché questa nobilissima artista, che Gramsci loderà per un tentativo di lotta per l'arte, non accettava le forche caudine del trust, l'organo milanese del Consorzio attaccò volgarmente l'artista, rimproverandole di « non fare interesse », di non rendere, cioè, tanto in quattrini, quanto ne rendevano le compagnie di pochades.
Per completare l'accenno al conflitto fra il trust degli esercenti ed i capocomici, che impegnò Gramsci a favore di questi ultimi, ricorderemo che, dopo un inutile convegno del luglio a Milano, di cui Gramsci parla negli articoli « Ancora i fratelli Chiarella », e « L'industria teatrale », fra esercenti capocomici ed attori, si formò, 1'11 ottobre 1917, presieduta da Zacconi, l'Associazione dei capocomici. La Lega degli Attori Drammatici, e cioè dei salariati dell'industria capocomicale, dette ai suoi datori di lavoro tutta la sua solidarietà nella lotta da essi impegnata contro il Consorzio: l'Argante fu per molto tempo l'organo ufficioso di Zacconi e per molto tempo fu tessuto l'idillio della collaborazione fra attori e capocomici, salariati e padroni. Sulla validità e continuità di tale collaborazione, gli attori ebbero possibilità di meditare lungamente, allorché, un paio d'anni dopo, nel 1919, gli attori si fecero a chiedere all'Associazione dei capocomici miglioramenti economici. Zacconi disconobbe la Lega el'ingiuriò, ma dové piegarsi innanzi ad uno sciopero compatto.
Ad altro sciopero gli attori furono costretti in Milano nel gennaio 1922: durò circa un mese e fu sorretto dalla solidarietà di tutti i lavoratori del teatro della città; ma fini con la sconfitta degli attori, perché i capocomici si allearono, questa volta, con i proprietari di teatro; i quali erogarono i fondi per la costituzione della prima corporazione fascista e crumira. Fu, in questa occasione, scoperto dai lavoratori del teatro un documento quanto mai significativo: una sottoscrizione promossa dall'Associazione
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Proprietari ed Esercenti di teatro, iniziata da Chiarella, con L. 5.000, ed altrettante da Zerboni, « per arginare le continue pretese delle leghe rosse ».
Credo che il contributo dato da Gramsci fra il 1917 e il 1919 allo studio del teatro come fatto economico sia di notevole importanza e che, nell'attuale naufragio della vita teatrale italiana, le sue intuizioni possano servire da bussola.
Il fatto economico è da lui sempre considerato nella sua inscindibilità dal fatto culturale ed artistico; e molti suoi passi vanno meditati.
Là dove egli dice che il teatro, come organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro non ha potuto sfuggire dalle spire del maelström capitalistico, aggiunge: « Ma l'organizzazione pratica del teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può •turbarla senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza sterilire l'organo " linguistico " della rappresentazione teatrale ».
Ed anche l'attore dovrà trarre insegnamenti.
« Le leggi della concorrenza — scrive Gramsci — hanno rapidamente condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il comico è diventato un individuo, in lotta coi suoi compagni di lavoro, col "maestro" divenuto mediatore, e con l'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione sordida, essa non ha conosciuto piú confini. Il carattere spesso peculiare del lavoro da svolgere è diventato reagente corrosivo » . « Primeggiare nel guadagno va di pari passo col primeggiare nella compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella libertà di scegliere per sé le parti di successo e spiccare, monumento funerario, in un cimitero di fosse comuni ».
È questa una condanna del « grande attore » (nel senso di D'Amico), del « mattatore », ed una lungimirante affermazione del principio regi-stico? Certo. Ma non è solo questo: è anche, e molto, di piú; è l'indicazione del teatro come fatto di costume, di morale, di cultura: come opera a servizio della collettività e che, quindi, solo dalla collettività — dallo Stato che la esprime — può essere organizzata e diretta.
 
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  • Primo convegno Internazionale di Studi Gramsciani tenuto a Roma nei giorni 11-13 gennaio 1958
 
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