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tipologia: Analitici; Id: 1527734


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Titolo Angelo Muscetta, Memorie del cavaliere Angelo Muscetta
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MEMORIE DEL CAV. ANGELO MUSCETTA
Nacqui ad Avellino (Puntarola) il 24 settembre 1877 da genitori lavoratori, ma onesti. Mio padre, guardia di finanza, si sposò a Sa-viano (Nola) e dopo di essersi congedato, esercitava il mestiere di venditore oggetti di vetro, guadagnando benino. Da Avellino, dopo dieci mesi dalla mia nascita, i miei genitori (1) si trasferirono a Benevento, Vico Carrozzieri, e con i risparmi onesti del proprio lavoro impiantarono un piccolo negozio di terraglie e cristalli, che in quell'epoca, credo, bastavano poche centinaia di lire. Questo negozio, vuoi per la bontà e il saper fare del povero padre mio, vuoi per l'abilità eccezionale di mia madre, progrediva in modo invidiabile, e siccome mia madre era figlia di caffettiere, pensarono] fittarsi un basso attiguo al negozio di terraglie, ed impiantarono un piccolo civettuolo caffè che per l'abilità di mia madre, il successo fu superiore ad ogni aspettativa. Tanto furono gli affari, che fu necessario prendere una cameriera di Saviano con lire 3 mensili e un garzone con lire 8 mensili, naturalmente con tutti i trattamenti. La cameriera era di Saviano ed il garzone di
(1) Nel ms. questo soggetto precede i1 successivo verbo " impiantarono „
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Avellino, e di quest'ultimo vi sono tutt'ora i nipoti che vivono alla ferrovia di Avellino. Nel 1880 nacque la prima sorella Maria, e nel 1883 nacque la seconda sorella Carolina. Si cresceva nell'abbondanza e mio padre gioiva del progresso, ripeto frutto del suo onesto lavoro, tanto da consentirgli ritirare vagoni di merce dalla Germania, e segnatamente articoli di vetro argentato e dorato, che in quell'epoca erano molto ricercati e andavano a ruba. Fu tale lo sviluppo che mio padre fu costretto fittane due depositi, uno presso la Posta Vecchia, e un altro via Porta Rufina, depositi che servivano per lo smistamento, per la distribuzione all'ingrosso, sia al capoluogo, sia in provincia, e fu necessario prendere un altro garzone, e comprare un carretto ed un asinello. L'unica difficoltà era l'organizzazione che mancava, perché mio padre era analfabeta, e la merce nei depositi era messa alla rinfusa, senza scaffali.
D'altra parte, il caffè gestito da mia madre (donna astuta, lavoratrice, e piena di volontà) non era meno remunerativo dell'altro negozio, perché lei preparava i liquori correnti dell'epoca e cioè rosolio, anice e rhum, ed aveva sviluppato una clientela invidiabile. Io avevo cinque anni (incredibile ma vero), di Natale, con l'aiuto della serva e di qualche garzone, confezionavo applicando le etichette e capsule, scrivendo su ogn'uno di esse (perché erano anonime) il contenuto del liquore. L'alcool, ricordo benissimo, costava lire 1.15 al litro. Sentivo in me già l'orgoglio di essere un grande fabricante di liquori e papà un grande grossista di terraglie e cristalli. L'incassi giornalieri erano favolosi, pur non superando mai le cento lire, e quasi tutto bronza, monete grandi che io mi dilettavo a fare coppi (1) da 5 lire. Le mie sorelle crescevano bene, tranne Carolina che, per aver preso latte cattivo da una nutrice, era un poco malandata.
I progetti dei miei genitori erano grandiosi, si progettava la prima chiusura a me in un collegio, e poi la sorella Maria, ma purtroppo, il destino per me non doveva essere tanto benigno, come in seguito narrerò. Comunque io e mia sorella Maria incominciammo a frequentare una scuola privata (perché in quell'epoca non esistevano asili infantili) e la serva ci accompagnava, e poi ad ora di pranzo veniva a rilevarci.
La mattina del 17 settembre 1884 ore undici, che ricordo benissimo pur avendo sette anni, Benevento fu colpito da una forte scossa di terremoto, e quel garzone di Avellino senza pensare alle cose più necessarie, andò in cucina, prese la pentola dove bollivano due piedi di smarrimento, mandò a rilevare noi alla scuola, e tutti prendemmo di vitello e scappò in campagna.. Mia madre, passato il primo momento
(1) Cartocci
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la via della campagna, restando sotto un pagliaio quaranta giorni, sotto il terrore di centinaia di scosse, di cui parecchie violentissime, tanto da distruggere moltissime case, compreso i due nostri depositi pieni (ché di recente si erano scaricati due vagoni di vetrerie e cristallerie), distruggendo ogni cosa.
Apro una parentesi, per ricordare la data fatidica:
17 settembre 1884, ore undici: distruzione del patrimonio di mio padre col terremoto.
17 settembre 1943, ore undici: distruzione della nostra casa in via Littorio, col seguito, con i bombardamenti.
Durante la permanenza in campagna a Benevento, mio padre apprendendo la notizia della distruzione dei depositi, si ammalò dal dispiacere, ed accoppiato ai disagi della campagna, sopravvenne bronchite — polmonite — pleurite. Dopo trentacinque giorni si guarì dei primi due mali, rimanendo la sola pleurite, per oltre sei mesi -- molto malandato —. Mia madre pur di salvarlo, e nulla curando del disastro, cercò fargli cambiare aria. Si ricordò che a Lìveri (Nola) vi era un frate, fratello (1) di suo cognato, al santuario di S. Maria a Parete, e con una vettura chiusa lo portò a tale santuario, dove rimase in permanenza. quattro mesi, rimanendo lei al capezzale, dove finalmente si guarì. Intanto per non chiudere il negozio di vendita a minuta e il caffettuccio, fece venire due sorelle sue da Saviano, (e da questo proposito ricordo a tutti che i migliori nemici sono i parenti) ed insieme alla serva e [al] garzone,. fecero man bassa di quello che era rimasto, così fu completato quasi la distruzione della casa, che il mio povero padre, e perché no? anche. mia madre, con sudore di sangue avevano acquistato.
Tirando avanti alla meglio, e per la lunga convalescenza di mio padre, e per la tenacia di mia madre fino al mese (non ricordo) dell'anno 1886 rimanemmo a Benevento. Però ai miei genitori sopraven-nero (malgrado fossero giovani) due cose. Mio padre divenne apatico, e poveretto non aveva torto, e a mia madre la mania di cambiar casa e paese, che completò il disastro. Ci trasferimmo ad Avellino, io pieno d'intelligenza, e desiderio vivo di entrare in convitto, sogno che svanì, rimanendo coll'aver frequentato pochi mesi la terza elementare e Basta — niente più scuola —. Ad Avellino trasferimmo con due carrette una piena di mobilia e che, ricordo, era bellissima, s'intende di quei. tempi, e l'altro carretto ben carico di merce, cioè terraglie e cristalli.
Ad Avellino fittammo la casa Via Umberto 1°, e precisamente dove è ora il negozio di scarpe di Arturo Petracca: avanti la vendita e dietro l'abitazione. Ma gli affari scemavano giorno per giorno. Stando
(2) Nel ms. : « un fratello frate u.
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così le cose, a mia madre oltre la mania di cambiar casa, gli sopravvenne la nostalgia del paese suo natio (Saviano) e quella delle sorelle (molto affettuose per il saccheggio fatto) e nell'anno 1887 ci trasferimmo a Saviano. Tale trasferimento era contrario a mio padre, ma mia madre 10 convinse con uno stratagemma: quella casa era piena di spiriti, spiriti che, neanche farlo apposta, apparivano durante l'assenza di mio padre. A questo proposito, chiedo perdono alla mia povera mamma, di queste accuse necessarie per la narrazione esatta, e non vorrei mi maledicesse, dall'altro mondo, perché l'ho amato e venerato can quell'affetto che si deve ad una madre, che ve n'é una sola. Mio padre, buono, onesto e lavoratore, acconsentì a questo altro trasloco (e molti altri dolorosi ne seguirono). A Saviano fittammo una casetta modesta per dormire, un piccolo deposito per la merce, con una stalla annessa: perché, dimenticavo dire che era rimasto, per fortuna, l'asinello e il carretto.
Il paese non consentiva la vendita a minuta, e mio padre iniziò la vendita nei paesi limitrofi e nei mercati. Naturalmente niente serve, niente garzoni: per quest'ultimo, a malincuore, lo confesso, lo rimpiazzai io, curando e governando, strigliando il somarello, a cui mi ero affezionato molto, unico forse superstite di una triste famiglia agiata. Si usciva quasi tutte le notti per trovarci presto sui mercati, e il sabato sera (vuoi sabato inglese, vuoi sabato fascista) si usciva alle venti di sera caminando tutta la notte, per trovarci al mercato di domenica -mattina a Caiazzo, vicino a Piedimonte d'Alife, e questo mercato non si poteva trascurare, perché il più redditizio. Venivo su grandicello, ero un pochino invidioso di qualche mio compagno che vestiva molto meglio di me, ed a furia di insistenza, ottenni, per la prima volta, un vestito nuovo, che mia madre comprò a credito da una sua sorella che aveva negozio di tessuti e siccome questa sorella di mia madre non aveva figli, pensò bene mia madre non pagarglielo più: pagò,, s'intende, solo al sarto, pochi soldi. Descrivervi la moda della confezione è inutile, ricordo solo questo, che le mani si affaticavano per trovare le tasche, e dimenticavo dirvi che la stoffa [non era] di marca Made Englis ma semplicemente cotone cécere, qualche cosa come le tute dei muratori moderni. Però ero felice, la sera frequentavo la casa di un lontano parente di mia madre, calzolaio, e con suo figlio mio cugino, imparai qualche cosa, però ero retribuito bene, avevo 12 soldi. La domenica al giorno (1) quando tornavo dal mercato di Caiazzo ed insieme a mio cugino si usciva a fare qualche passeggiata, ed in tempo di stagione estiva, prendevamo lo spumone dell'epoca, e cioè 1 soldo quattro
(1) Di pomeriggio
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giarrette di neve zuccherato, con colori variopinti, anche se non nocivi (I), e dalla sera, specie d'inverno, al Teatro dell'Opera ossia l'Opera dei pupi. Quando avevamo il borsellino pieno, prendevamo i primi posti, 2 soldi. Ero felice.
Le cose andavano maluccio, il capitale di mio padre andava assottigliandosi, e ricordandosi che a Marsiglia vi era un fratello di zio Sabino (che in seguito conoscerete), scrisse mio padre a lui, se emigrando a Marsiglia, potesse trovare lavoro. La risposta fu favorevole, e se non erro, verso la fine dell'anno, pare nell'agosto 1888 (sono in questo momento un poco smemorato), mio padre partí per Marsiglia, ove fu accolto da questo zio, fratello di Sabino suo cognato, molto fraternamente; scrisse a noi che aveva fatto buon viaggio, e che aveva trovato lavoro presso una raffineria di zucchero, situata Gran Chai-men d'Aix (2) guadagnando lire 2,60 al giorno, portando da un punto all'altro molti sacchi sulle spalle (lavoro che non aveva mai fatto) e spesso faceva dello straordinario, e cosí la sua mercede si arrotondava a lire 3 e anche 3,30 al giorno. Pagava 1,20 di pensione presso una buona famiglia sarda, il di cui titolare era chef (ossia capo del reparto in cui lavorava) che prese tanto a ben volere il mio povero padre, che gli cambiò adibendolo ad un lavoro piú leggier°. E mio padre buono, ma molto buono (e lo dico fino alla noia) scriveva, 'o meglio faceva scrivere delle lettere pieno di entusiasmo, esprimendo il desiderio di essere raggiunto da noi: non poteva restare piú solo, era troppo preso dalla nostalgia della famiglia. Ed infatti dopo pochi mesi, e precisamente l'11 novembre 1888 (ricordo questa data perché S. Martino, onomastico di un parente che ci accompagnò a Napoli all'Immacolatella Vecchia) e dopo di aver provveduto tutte le carte necessarie e i biglietti (tre interi, lire 12 cadauno, e lire 6 mezzo biglietto per mia sorella Carolina), c'imbarcammo su un vaporetto francese della Compagnia Fraissinet. La prima impressione fu di mia sorella Maria, che appena messo piede nella barca, credendo di affondare lanciò un forte grido, poveretta non aveva mai visto il mare. Ci installammo sul vapore in la classe (senza gabine, e cioè sopra coverta, per terra). Mia madre aveva provveduto di tutto: pane, vino, salame, formaggio, frittate di maccheroni, uova sode, frutta della stagione, limoni, insomma provvista per due giorni, che il vapore per cattivo tempo ne impiegò tre.
Partimmo da Napoli alle ore diciassette, e la prima notte non fu tanto cattiva, tanto piú che avevamo fatto amicizia con diverse donne
(1) hiel ms. : «anche se non inocui«.
(2) Grand chemin d'Aix.
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atripaldesi, che come noi raggiungevano i loro cari. Erano passate circa venti ore che stavamo a bordo e nessuno aveva toccato cibo. Facevamo a gara, a chi piú rovesciava (per il mal di mare) non abituati, e credo che a stento rimasero gl'intestini: i limoni furono la nostra salvezza, e ci trovammo una buona provvista, perché quel parente Martino ce lo aveva consigliato. Sopravvenne la notte, e verso le ventuno arrivammo al golfo di Genova, golfo pericoloso, come diceva il personale del vapore. Fu tale una tempesta, che tutti credevamo fosse vicino la nostra fine. Le grida maggiori furono degli atripaldesi che invocavano S. Sabino, e tutti gli altri invocavano il loro protettore.
Fu tale lo spavento e la compassione, che il capitano diede ordine di farci passare tutti dalla coverta ai saloni di prima e seconda classe. Non l'avesse mai fatto: riducemmo quei tappeti e quei mobili un porcile, da tutta la biancheria che buttavamo dalla finestra (per non dire altro). Venne l'indomani, avevamo passato il terribile golfo, e il mare si calmò, e sopravvenne anche la fame. Solamente, una triste sorpresa ci aspettava. Durante la tempesta i cavalloni di acqua dal mare andavano a finire in coperta, e tutta la provvista, con la biancheria inzuppata di acqua salata, [era] impossibile mangiarsi, ma qualche marinaio ci venne in soccorso con qualche galletta. Arrivammo come Dio volle a Marsiglia alle ore diciannove e trenta con diverse ore di ritardo. Il vapore approdò quasi alla banchina, e nell'affacciarmi riconobbi, malgrado la modesta luce del gas che illuminava il porto, il povero papà che ad alta voce chiamai, e mi rispose. Credetemi, scrivo e sento il tremito di quella voce di circa cinquantacinque anni or sono. Però data l'ora tarda, non poteva aver luogo la visita sanitaria, ma una commissione di donne si recò dalle autorità, e con l'attenuante di aver fatto un disastroso viaggio, ottennero eccezionalmente, dopo una visita sommaria, di sbarcare.
L'incontro fra noi e il povero papà fu commoventissimo. Un piccolo carretto a mano ci aspettava per caricare le nostre masserizie e i nostri bagagli, consistenti di quattro materassi ottimi che la povera mamma prima di partire ebbe cura di rifare la lana, insieme ai cuscini, e diverse valigie di pura pelle (no, erano sacchi vuoti, puliti però, pieni di tutta la biancheria necessaria). I genitori noleggiarono una carrozza, ed io fedele al posto lasciato in Italia, seguii a piedi il carretto, però senza il mio somarello, che avevamo venduto in Italia. A piedi, seguendo il carretto, e facendo buona guardia alle masserizie, feci circa quattro chilometri. La distanza, e la fame sopraggiunta, pareva quella strada che non finiva mai. Mio padre aveva avuto cura di fittare una bella casetta di due stanze e una bella cucina al primo piano, senza balconi, con due finestre, e propriamente in una traversa, sul Gran
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Chaimin d'Aix, Rue Pherafins n. 6, poco lontano, dalla casa dello zio; e cosí, dopo averci pulito alla meglio, ci recammo a pranzo da questo zio. Mio padre ebbe cura di comprare una gallina per farci un ottima tazza di brodo (tanto necessaria a mettere a posto il nostro intestino rimasto privo di alimento per quattro giorni) malgrado la mancanza di suppellettili, che man mano venivano comprati, con qualche piccolo risparmio: tantoppiú che mio padre, per il suo carattere buono, e per la sua onestà e attaccamento al lavoro, dal Capo reparto, (che Doi divenne nostro compare, perché un figlio suo fu tenuto a battesimo da mio padre) ebbe un posto di fiducia, e la paga salì a lire 4,30 giornaliera, e con 10 straordinario spesse volte toccava le lire 5, somma favolosa per quei tempi.
Eravamo felici, raccolti nella nostra famiglia, senza rimpianto della vita beata di Benevento, insomma eravamo allegri nella nostra miseria. Dimenticavo raccontarvi la funzione del battesimo di un figlio del Capo reparto. Esso venne celebrato in una piccola chiesetta di campagna, perché noi vivevamo quasi alla periferia, e il nostro rione abbondava, o meglio era una colonia di atripaldesi e salernitani, quest'ultimi ogn'uno possedeva un carretto, e faceva il commercio di frutta e verdura. Uscito dalla chiesa, mio padre ebbe cura (dopo il suggerimento di qualche paesano) cambiare un cinque franchi d'argento in soldini piccoli, e buttarli dietro al corteo di piccoli ragazzi, che rotolando nella polvere facevano a gomiti per raccoglierli. A casa del compare Capo reparto vi fu un pranzo di gala. Debbo confessarlo, fu il primo pranzo di lusso che incominciai a vedere. Non ricordo le portate che furono numerose, ne ricordo solo due, un antipasto assortito, compreso burro (che non avevo mai mangiato), ravanelli, che tante volte avevo mangiato per companatico nelle taverne, quando andavo con mio padre, e polli. Ripeto non ricordo il resto, ricordo solo che fu un pranzo che non finiva mai, e che noi non potevamo ricambiare con la famiglia del compare, perché mancava il necessario, i piatti e i bichieri. Avevamo un bel tavolo da pranzo comprato per pochi soldi ossia un tavolinetto con tre piedi, e il quarto fu messo da mio padre con un'assicella di legno rubata da me in un attiguo giardino. Eppure eravamo tanto felici. Solamente io non potevo rimanere indifferente, volevo in certo qual modo venire in aiuto al mio povero padre, ma ero piccolo di età, vecchio e procace in esperienza, e pieno di volontà. Un giorno passai per una piazza caratteristica, chiamata Piazza Pantagone, poco distante da noi (che potrei uguagliare a Piazza Francese di Napoli), dove accoppiato alle bancarelle di tutti gli articoli diversi usati, e rubati da vagabondi. vi era un gran commercio di abiti usati. L'occhio fu attratto da una forma di ferro, che appli-
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candosi nella scarpa e posato sulle ginocchia, potevo lavorare applicando mezze suole e sopratacchi inchiodati anziché cuciti, e [da] qualche altro arnese utile per un ciabattino. E ricordandomi che a Sa-
viano avevo con un ,mio cugino imparato a fare qualche cosa, avrei
potuto sfruttare il vicinato per la riparazione delle scarpe. Mi avvicinai alle diverse bancarelle, e da un calcolo esatto o approssimativo,
occorrevano 10-12 lire. A mio padre non osavo chiederle, per non guastare il già modesto bilancio, e come sempre si fà, mi rivolsi a mia madre, non perché lei avesse dei risparmii, ma per avere qualche consiglio. Difatti mi consigliò di farne richiesta all'unico parente, mi rivolsi a lui, ed a titolo di prestito mi feci anticipare lire 15 che spesi per tutto l'occorrente, con una cassetta vecchia che mia madre si fece dare [d]al droghiere dove facevamo la spesa, e così con quella cassetta costruii alla meglio il famoso bancariello di ciabattino. Ebbe inizio il lavoro, il mio propagandista fu il nostro portiere, un vecchio, con la moglie piú vecchia di lui: poveretto, viveva anche lui nella piú squallida miseria, spesse volte mia madre gli scendeva qualche residuo, e così facemmo che o rutto porta o sano (1).
Il primo mio lavoro fu di riparare gratis un paio di ciabatte vecchie della portiera, che non sapevo da che punto incominciare, però la propaganda fece il suo effetto, ed i clienti aumentavano giorno per giorno, e i guadagni con soddisfazione venivano consegnati a mia madre, che mi baciava con tanta effusione, e si rallegrava di aver un figlio d'oro, come lei diceva. Alla domenica non mancava mai un bel pezzo di carne in abbondanza e un buon ragù. Restituii al parente le lire 15, e gli anticipai lire 20, perché mi accompagnasse dal suo sarto (perché lui vestiva molto elegante) per farmi fare un bel vestito ma di buona stoffa, pagandolo ratealmente. Ed infatti fu il primo vestito di lusso che indossai. Feci delle amicizie, con degli amici facevamo qualche merenda al mare che distava poco da noi. Ero un bel ragazzo, avevo una bella vocina, e una sera eravamo seduti vicino ad un tavolo dove sorbivamo una birra poco distante da uno dei tanti ristoranti sul mare, che noi frequentavamo solo di passaggio, ed incominciai a cantare qualche canzonetta napoletana. A questa ne seguirono delle altre, dopo pochi minuti si alzò un signore dal tavolo (che era seduto poco lontano, con la famiglia) e si avvicinò a me, parlando be-nino l'italiano. Mi accarezzò dicendomi: — Molto bravo —; mi chiese il mio indirizzo, e mi diede il suo. Era un insegnante di scuole elementari francese, seppi poi che il padre era di origine piemontese, mi pregò di andare a casa sua qualche volta, specie la domenica. Mi
(1) L'invalido, il ferito porta chi é valido.
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accorsi che era un patito di Rittardo (I) per le canzoni napoletane, e promisi di andarci la domenica prossima, tantoppiú che abitava alla Caposelle, Boulevard St. André poco distante da noi; e ritirandomi a casa raccontai in famiglia tale incontro.
Le cose mie andavano benino, lo sviluppo cresceva giorno per giorno ma il mestiere scelto di ciabattino non era adatto per me, giovanotto svelto, 'e perché rio? di alte vedute, era un mestiere adatto per un vecchio. Una mattina nel recarmi a fare delle compere di certi articoli per il mio lavoro, passando per il corso della strada principale che da Marsiglia portava a Aix, lessi nella vetrina di un grande negozio di scarpe (non potevo uscire dalle scarpe) due cartellini uno in italiano e l'altro in francese: « Cercasi ragazzo, per commissioni dai dieci-quindici anni ». Entrai nel negozio, ma di francese non conoscevo che buon giorno, buona sera; grazie, arrivederci. Chiesi del proprietario il quale era oriundo genovese, e capiva e parlava bene l'italiano, perché come ho detto innanzi, quel rione era abitato da migliaia d'Italiani: un simpatico uomo sulla trentina, al quale riuscii molto simpatico. Ma mi fece comprendere che non poteva assumermi in servizio, senza il libretto di lavoro, e che per avere questo era necessario il certificato di terza classe elementare francese, però poteva, in via provvisoria, assumermi in qualità di apprendista, naturalmente senza stipendio. Io accettai per le sole ore del mattino, e si rimase cosí di accordo, ed il lunedì successivo alle otto del mattino, [andai] a prendere servizio.
La domenica alle ore diciassette ricordo pioveva dirottamente, ed io non avevo ombrello, mi rincresceva sciupare il vestito nuovo e bello che avevo indossato. Aspettai, pochi minuti, smise di piovere e in fretta mi recai in casa del maestro, con un poco di ritardo, e feci le mie scuse. Mi ricevette nel suo studietto piccolo, ma pulito ed elegante, cosí come il resto della casa. Fece a me diverse domande, e volle sapere che cosa facevo, e chi erano i miei genitori. Gli raccontai in breve la mia posizione, ed i guai passati della mia famiglia, gli raccontai anche che l'indomani sarei andato core apprendista da quella grande calzoleria, il di cui name era Battista Sassone, che per fortuna il maestro conosceva perché cliente. Dissi che sarebbe stato mio desiderio prendere servizio come commissionario, ma non avevo il libretto di lavoro. Il maestro mi ascoltò benevolmente, e mi promise farmi avere il certificato di terza classe Elementare Francese (necessario per avere questo libretto di lavoro), se io avessi con buona volontà frequentato
(1) Si dicevano cosí gli appassionati dei cantastorie e dell'eroe popolare dei romanzi cavallereschi, Rinaldo.
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.uiti .i giorni alle ore sedici la sua casa, per aver lezione gratis da lui. Lascio immaginare la gioia che provai a questa generosa offerta. Volle che cantassi anche senza accompagnamento qualche canzonetta offrendomi dei dolci (che da molto non mangiavo), dandomi un pacchetto che portai a casa, con gran festa delle mie sorelle.
La mattina successiva presi servizio alle otto, facendomi indicare le mie mansioni, cioè spazzare il grande negozio, spolverare, mettere in ordine i diversi scaffali. Dimenticavo dirvi che questo proprietario, era sposato da due anni con una francese e da pochi mesi era padre di una bella bambina, a cui aveva messo nome Luisa, e che i genitori chiamavano « petit'Isa ». Sempre volentieroso ed ossequiente, acquistai la simpatia dei coniugi Sassone, tanto che oltre il compito di apprendista mi era serbato il compito di cameriera, perché tenevo buona parte della mattinata in braccia la piccola Isa che finivo anche per addormentarla, cantandole la strofetta in francese, che dalla madre avevo finito per imparare a memoria:
Dor, dor, bel-lange d'amour
Jusqua tombò jei te sairè fidele (').
Povera frase francese, ma dopo cinquantaquattro anni è ancora troppo!
La clientela del giovane ciabattino cresceva giorno per giorno, ma dovetti mio malgrado rinunziare. Ero molto occupato la mattina per fare l'apprendista; ma che apprendevo? solo di fare la balia, e cantare la ninna-nanna, e nel pomeriggio a fare scuola con una passione violenta, e spesse volte il canzonettista di fortuna. Passarono i tre mesi, ed il maestro era molto soddisfatto di me, e dopo pochi giorni ricevetti il certificato di terza classe elementare francese, che conservavo gelosamente ma dopo il bombardamento del 17 settembre 1943 ho trovato e conservo il libretto del lavoro (2). Era tanto felice come se avessi conseguito una Laurea Universitaria. Conversando con i padroni, con i clienti, e cal maestro tatt cui frequentavo spesso la sua casa, in poco tempo imparai a parlare la lingua francese, mista col pattuà, ossia il dialetto marsigliese. Dimenticavo dire che la passione e la pazienza del maestro verso di me era piú che paterna, mi metteva fra le sue ginocchia, e nei primi giorni m'imparava gradatamente le cose piú ele-
(1) Dors, dors, bel ange d'amour,
Jusqu'au tombeau je te serai fidèle
(21 Il Certificat d'instruction primaire élémentaire prescritto dall'art. 9 della legge 19
maggio 1874 reca la data del 28 settembre 1890. Il Livret No 20511 reca la data del
giorno successivo.
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mentari per esempio, il viso, gli occhi, il naso, le orecchie, le scarpe, i capelli ecct. ecct.
Lasciai il posto di balia e apprendista, per occupare (sempre da Sassone) il posto di commissionario. Vi furono i primi giorni di difficoltà, per le strade che non conoscevo ancora, ed il tratto abbastanza lungo. La posizione era questa. Fate conto che noi abitavamo come [a] S. Giovanni o Portici, e per espletare le commissioni dovevo andare verso Toledo, il Museo, Piazza dei Martiri. Avevo dal principale 4 soldi, oppure 8 soldi, quando vi era doppia corsa del tram con i cavalli, e quando ero diventato molto pratico e padrone della città, per risparmiare quei 4 o 8 soldi, la facevo a piedi, e credetemi non esagero, arrivavo prima del tram, che era a trazione animale.
Il mio principale era molto contento di me, e mi pagava lautamente, 3.80 per settimana, che dopo due mesi mi arrotondò la paga a lire 6 per settimana (in quell'epoca si pagava per settimana) e con i lucri delle mancie e l'economia dei tram, incominciavo a sentirmi un impiegato di concetto. Avevo finito di pagare il sarto e ordinai un altro vestito: ero diventato un giovanottino bello ed elegante (non mi tacciate di immodestia). Non vi nascondo, che seguitavo a fare qualche riparazione per arrotondare il bilancio domestico.
Alla povera mamma mia non era passata la mania di cambiare casa, però questa volta aveva ragione). Aveva trovato una casa più bella, con un pezzetto di giardino e con un risparmio di qualche liretta mensile in meno, in una strada meno centrale, ma questo non aveva importanza (I). Vi erano in quel palazzetto altri quattro inquilini, due famiglie francesi una famiglia Algerina, e una famiglia Italiana. Sul medesimo pianerottolo, di fronte a noi, vi era la famiglia francese: due figlie, marito e moglie, operaio anche lui come mio padre. Debbo raccontare a questo proposito un episodio curioso.
Una domenica, come sempre, mia madre era tutta intenta a cucinare il rituale ragù, era specialista per questo ragù che emanava un odore meraviglioso, e su di un tavolinetto in cucina vi erano pronti i maccheroni di zita. La signora francese entrò per chiedere a mia madre una qualche cosa che non ricordo, sentendo quella fraganza che dalla pentola veniva fuori, domandò confidenzialmente a mia madre che cosa stava preparando, e mia madre rispose che stava preparando il ragù, ossia la salsa per condire i maccheroni. Ringraziò ed usci. Mia madre, orgogliosa per il complimento, al momento del pranzo, preparò un piatto di maccheroni, e lo portò alla francese vicina di casa. Non
(1) Il domicile indicato sul libretto di lavoro è Traverse des Moulins, 8
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l'avesse mai fatto. Questa francese avrebbe voluto quel piatto tutte le domeniche, anche perché la loro cucina è orribile.
La vita era gaia e felice, nella nostra miseria. Qualche volta si faceva anche qualche scampagnata al mare: mia madre curava portare qualche cosa, e si inaffiava con qualche bichiere di birra. Avevo incontrato altri amici, e qualche domenica andavamo a fare delle passeggiate nel giardino zoologico, molto bello, e ricco di moltissimi animali di tutte le specie. Si era arrivato al 15 agosto del 1889. Detto giorno si festeggiava su una collina, come se fosse il Vamero di Napoli, e vi era un santuario dedicato alla Bonne Mère de la Garde, ed ognuno portava una merenda, e sopra questa montagna si mangiava sull'erba, ed andammo con tutta la famiglia, ci divertimmo tanto.
Mia madre sempre giuliva, aveva imparato bene il francese: « Bon jour » e « Bon soir ». Io con le piccole sorelle si parlava sempre il francese; ma anche per noi il destino volgeva al male. Si era [al]la fine di. ottobre di quell'anno, si ammalò di tifo mia sorella Carolina, e per piú di un mese lottò fra la vita e la morte, e per far fronte alle spese di medico e medicina si dovette vendere quel poco di oro rimasto in casa, e qualche piccolo risparmio accumulato. Verso il 10 dicembre, sempre di quell'anno, si ammalò mio padre di bronco-polmonite, e dopo pochi giorni lo stesso male colpi anche mia madre. Intanto per far fronte alle spese di medici e medicina, incominciai a vendere qualche poco di biancheria di tela nuova (che faceva parte del corredo di mia madre), né sapevamo a chi rivolgerci. L'unico parente che avevamo a Marsiglia si era diviso dalla moglie, e l'aveva obbligata imbarcarsi per l'Italia, e lui con due figlie se ne partì per Nev Jorch. Fu tale lo squallore, le mie piccole sorelle piangevano per i genitori ammalati a cui mancava il necessario. Qualche vicino ci soccorreva, ma non sufragava. Credetemi, non esagero, il 24 dicembre dell'anno 1889, vigilia di Natale, non fu acceso il fuoco. Il 25 dicembre, giorno di Natale, preso dalla disperazione, presi un coltello (non mancando raccomandare le sorelline di vigilare i genitori), presi una cesta ed andai in campagna, tagliando e raccogliendo della cicoria selvatica e altra verdura. Di corsa lo portai a casa, lo feci pulire e lavare dalla sorella Maria piú grande, e lo portai a vendere, ricavando una bella som-metta che comprai qualche cosa di somma urgenza per i genitori ammalati. Avevo avuto cura di portare a vendere tale verdura in altro rione per non umiliarmi, però per caso mi riconobbe una donna vicino di casa, e rimase talmente stupita del mio atto (uomo, giovanotto, andare a vendere la verdura il giorno di Natale) che si commosse, che sparse la voce in tutto il vicinato che la sera facevano a gara, a chi. portare piú roba, dal pane ai dolci rituali di Natale. Le mie sorelle man
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giarono con avidità ogni cosa, ma io piangevo ed ero tanto umiliato, che non mi veniva la voglia di assaggiare cibo. Insieme con me piangevano i genitori, però alla sera, dietro loro insistenza, dovetti mangiare qualche cosa.
I giorni dopo il Natale, mia madre si guarí completamente, e nei. primi giorni dell'anno 1890 seguí anche la guarigione di mio padre. Io intanto avevo scritto in Italia allo zio Sabatino, e [a] zia Angelaro-sa, e ricevetti dopo pochi giorni da entrambi lire 50, che sparirono per incanto, per alimentare i poveri genitori durante la convalescenza. Io intanto al mia principale avevo nascosto ogni cosa, e per la mia assenza giustificai che ero ammalato. Ripigliai il mio servizio, ' ed a furia d'in. vestigazioni, seppe ogni cosa, e mi rimproverò aspramente, mi aumentò del doppio la settimana, e a mezzo giorno mi faceva rimanere a pranzo con loro. Il mio atto di coraggio ed abnegazione verso i genitori ispirò in lui tale simpatia, da ispirarmi fiducia illimitata: incassavo, rendevo la resta ai clienti, facevo operazioni in banca, insomma ero diventato un suo figliuolo.
Mio padre aveva ripreso il suo lavoro, e si tirò avanti fino al mese di giugno di quell'anno. Ero diventato l'idolo del mio rione, dopo quello che avevo fatto in silenzio per la mia famiglia, ed a testimoniare tale narrazione (che potrebbe essere ai lettori miei superstiti,. figli, nipoti ecct. esagerazioni) sarebbero il primo Antonio Spaccamon-te, attualmente spedizioniere sulla Piccola Velocità di Avellino, e gli eredi di Elena Pappacena di Sarno, ma che avevano dei parenti sulla strada di Pianodardine-Atripalda. Ho nominato lo Spaccamonte, perché in quell'epoca era mio compagno a Marsiglia, ed una domenica girammo diverse case, non ci riuscí trovare un mazzo di carte italiane per farci una partita, e finimmo in un caffè dove vi era un ballo pubblico (e di questi ne abbondava Marsiglia) e si ballò fino a sera tardi.
Ai principii di luglio, sempre di quell'anno, mia madre fu presa di nuovo dalla nostalgia dell'Italia, ma non avevamo mezzi, il nostro padrone di casa, un Ebreo fino al midollo, minacciava metterci fuori di casa, e mia madre lo tacitava (perché mio padre non sarebbe stato capace) di aspettare qualche giorno, perché da un momento all'altro Cl doveva arrivare un vaglia dall'Italia: vaglia che non doveva arrivare, perché la vera intenzione, (confesso la verità) di mia madre, era quello
-di non pagarlo, perché milionario, e si era rifiutato di farci un piccolo-accomodo in cucina.
Espressi al mio principale la decisione dei miei genitori, che volevano rimpatriare, e si rammaricò tanto. Volle vedere i miei genitori per disuaserli da tale decisione, ma non ci fu verso. Voleva per forza.
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farmi rimanere con lui, come un figlio, assumendo qualunque responsabilità, ma specie mio padre non ne volle sapere.
Decisi allora di darmi da fare, per le dovute pratiche. Avevo saputo che per le famiglie bisognose vi era una disposizione del console italiano a Marsiglia: concedeva il viaggio gratis, però senza vitto, naturalmente dopo le burocratiche pratiche di accertamento di famiglia povera. Intanto il tempo stringeva, il padrone di casa minacciava lo sfratto. Io conoscevo Marsiglia palmo per palmo, e tutte le mattine alle nove mi recavo al palazzo del console alla Rue Canebière per vede re se la pratica nostra era ultimata. L'usciere capo, un tipo nervoso, non mi dava neanche il tempo di domandare, e mi mandava fuori dalle scatole. A furia di andare, a furia d'insistere tutti i giorni, una mattina non vi era quell'usciere capo, che tanto aveva preso ad odiarmi, e con buoni modi cercai persuadere quello di servizio, perché mi avesse annunziato al Console Generale. Questo si mise a ridere e mi rispose: — Ma siete pazzo, volete essere ricevuto dal Console? Se mai, al suo segretario —. Fui contento lo stesso, e difatti fui introdotto al suo cospetto, narrando ogni cosa, e mi ascoltò col massimo interesse. Dopo di che, chiamò un impiegato per sapere a che punto stava la mia pratica, ma la mia domanda era sul tavolo e nessuna informazione ancora era stata chiesta. Il segretario diede ordine, in mia presenza, che le dette informazioni il giorno dopo dovevano essere pronte. Fui licenziato ed avvertito di ritornare dopo tre giorni, che puntualmente ritornai, trovando, però; di servizio l'usciere capo, di cui ero l'odio suo. Di questo non mi potevo rendere ragione: mentre tutti mi volevano
bene, costui mi odiava. Come mi vide: Ebbene, ragazzaccio sempre
insistente, oggi non potete essere ricevuto —. Però feci presente che ero atteso dal segretario generale del Console, e così finalmente, si degnò introdurmi da lui. Ricordo che fui ricevuto molto benevolmente col sorriso sulle labra, compiacendosi della mia sveltezza, dicendomi che la pratica rispondeva esattamente alla verità, e che avrei potuto ritirare, fra qualche giorno, da un ufficio (che non ricordo) i biglietti d'imbarco, e che la partenza era fissata per il 12 agosto, con una vapore francese. Vi era una sola difficoltà, che questo vapore impiegava cinque giorni, perché vapore misto, e che doveva fermarsi a Genova e Livorno per carico e scarico di merce, e che avrei dovuto provvedere per il cibo, per tutti questi cinque giorni.
Andai a casa tutto contento e ci preparammo ogni cosa. Ricevetti dal mio principale come premio un orologio d'argento, grande, fuori moda, con una chiavetta per dargli la corda, senza catena, e al posto di essa misi un cordoncino colorato, orologio che conservavo come ricordo, ma che poi dopo tanti anni, non trovai piú, e lire 100, che
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consegnai a mia madre, che negli ultimi giorni preparò il necessario per alimentarci durante il viaggio. Salutai tutti gli amici, non escluso il maestro elementare, a cui esternai tutta la mia riconoscenza, e volle essere cantato per l'ultima volta una canzonetta napoletana a lui tanto cara (peccato che non ricordo il titolo). Mi diede il suo indirizzo, che ricordo benissimo (perché per cinque sei anni gli scrivevo: Doctor Luis Lecouvré, Rue della Paix, 34 - Marseille). Non era professore, ma gli piaceva essere chiamato Doctor. Salutai con mia madre la signora francese (dei maccheroni) con grande soddisfazione di mia madre, che se ne era liberata. Dimenticai di dirvi che negli ultimi tempi mi ero fidanzato con una signorina di pari età, Lauretta Marengo, figlia di un italiano della riviera Ligure, allevatore di maiali (molto ricco), maiali che andava a caricare in Algeria, e mi voleva molto bene. Naturalmente il primo amoretto innocuo en passan, ma che la Lauretta nel suo cuore aveva preso ipoteca. Salutammo quella famiglia con cordialità
e la signora mi regalò un salame, dicendomi: Piccolo Angelo, lo
mangerai in viaggio.
Si era agli sgoccioli per la partenza, e mia padre pensò di caricare le poche suppellettili su un carrettino, di notte, perché avevamo paura che l'Ebreo padrone di casa ci avesse fatto sequestrare i materassi, unici oggetti di valore. Ed infatti, alle ore tre di notte partimmo alla volta del porto, scaricammo le masserizie in un angolo, verso le dieci passammo la visita in breve per la sola formalità, ed alle undici del giorno 12 [correggi: 2] agosto del [1891] sul vapore r« Marco Minghetti » di Palermo] c'imbarcammo, prendendo posto (unito ad altri emigranti, forse pili poveri di noi) in coverta (1). Alle tredici incominciammo a bordo il primo pasto, e si partì alle ore sedici, tempo bellissimo. Salutammo Marsiglia col suo grande porto, e anche il santuario della Bonne Mère (2) della Garde, a cui rivolgemmo una preghiera, perché ci facesse arrivare sani e salvi. Alla sera facemmo il secondo pasto con appetito e tutta la notte fu deliziosa, mare bellissimo, contrariamente a quello burrascoso dell'andata. Col mare bellissimo e con la paura passata del padron di casa di Marsiglia ci sviluppò tale un appetito, che in meno di ventiquattr'ore avevamo esaurito la scorta che avrebbe dovuto bastare cinque giorni. Arrivammo a Genova alle ore tredici del giorno dopo. Fummo avvisati che potevamo scendere per sole quattro ore, e che alle ore diciassette dovevamo trovarci tutti a bordo. Sbarcammo io e mia madre per comprare qualche cosa, ma ci avvedemmo che i generi
(1) Ho ritrovato i dati esatti, segnati a matita, sul libretto di lavoro.
(2) La chiesa di Notre-Dame-de la-Garde (o della Bonne Mère ), che domina il porto: la statua della Madonna è collocata in cima al campanile. Quest'opera dell'architetto Espérandieu era stata terminata nel 1864.
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per noi erano cari, ed il denaro era poco, ricordo benissimo (E volli [poi] (1) rivedere quei vecchi portici, dopo circa cinquant'anni che erano
rimasti tali e quali, e facevo questa riflessione. Avevo visto Genova in veste da povero immigrante, ed ora la rivedevo, in qualità di grande
commerciante, che aveva preso alloggio all'Hotel Columbia, vicino alla stazione Principe, prendendo i pasti nei migliori ristoranti. Ho vissuto tutta la vita (tanto necessaria) dal pane duro e salacche, al burro-the, e marmellata, dalla taverna dormire sulla paglia, al vagone letto, a Genova).
Salimmo a bordo, ma i viveri erano per esaurirsi. Mio padre era timido per chiedere qualche cosa, mia madre era audace, ma era sempre donna. Avevamo passato quella notte il golfo di Genova con un mare tranquillo. Avevo fatto amicizia con un marinaio di bordo, siciliano come tutto l'equipaggio, e quella mattina domandai al marinaio chi era il comandante. Ero ragazzo, e non sapevo distinguere il grado: me lo indicò da lontano. Mi avvicinai, e nel chiedergli scusa, lo pregai di ascoltarmi. Mi porto nella sua gabina, ed io gli raccontai tutta l'odissea della mia famiglia: dato il bel tempo di mare avevamo esaurito la scorta di viveri ed il denaro. Pregandolo che ci avesse aiutato, dandoci un piatto di minestra e siccome aveva visto per caso fare il trasbordo (da un ambiente all'altro), offrii in cambio qualunque lavoro, e segnatamente quello del trasporto delle gallette da un punto all 'altro.
Il Capitano si commosse della mia proposta, chiamò un ufficiale addetto alla cucina, e fece aggiungere alla nota [le] cinque persone della mia famiglia. E cosí alle ore dodici io andai a ritirare la minestra in un gran recipiente di latta, la carne, la gallette, e mezzo litro di vino. La sera alle ore diciannove e trenta il medesimo pasto, al mattino caffè per tutti e dieci gallette. La Provvidenza nella sventura veniva ad aiutarci. Occupai il mio posto di lavoro con una sveltezza che solo alla mia età si poteva ottenere, ero ben voluto dal capo-reparto, che relazionava a lcomandante il mio zelo e attaccamento al lavoro. Se fossero vivi i miei genitori, potrebbero attestare quanto sto narrando.
La traversata fu bellissima, sviluppando un appetito formidabile; il mare era calmo, tanto che parecchi passeggieri giocavano a tombola. La mattina del 17 [correggi: 6] agosto alle ore nove eravamo per arrivare a Napoli. Non posso descrivervi la tristezza quando si lascia Napoli, allontanandosi di sera dalla bella città, e la gioia che si prova quando nelle prime ore del mattino, da diversi chilometri, si vede la Città.
(1) Nel ms. :« , e che volli rivedere ». Qui e alla fine della " riflessione " Ho introdotto mie parentesi.
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Salutai con mio padre il Capitano ringraziandolo per quanto aveva fatto per noi, e lui accarezzandomi, mi propose di seguirlo, facendo la vita di bordo. Mio padre lo ringraziò, ma gli fece comprendere che cid era impossibile, e che io rappresentavo per lui l'unica spalla forte.
Alle ore dodici del 17 [6] agosto del [1891] dopo una breve visita. sbarcammo all'Immacolatella Vecchia, fuori vi era un carretto venuto insieme con un mio cugino avvisato a tempo e caricammo le poche masserizie e noi, partendo alla volta di Saviano. I parenti ci accolsero con gioia, ci istallammo in casa di due sorelle di mia madre, suore zia Peppa e zia Filomena, in attesa di stabilirci, forse ad Avellino. Ed infatti dopo quattro-cinque giorni, partimmo io e mio padre alla volta di Avellino, pregando la sorella di mio padre, zia Angelarosa, il marito zio Sabino e zio Sabatino (che abitava alla casa del Notaio Titoman-lio padre in via Beneventana) pregando questi parenti venirci in aiuto, anche a titolo di prestito, per iniziare il lavoro. Ma intanto, un poco perché le loro case non andavano bene, un poco per farci assumere una certa responsabilità, pregarono il compare Fusco perché c'improntasse qualche cosa, per iniziare il lavoro.
Qui entriamo nella terza fase, e potrei dire « dall'ago - al milione »..
Verso la fine di agosto, sempre del medesimo anno, il compare Fusco consegnò a mio padre 8 coppi da lire 5 cadauno di bronzo, cioè in tutto lire 40 (ed a questo proposito, in cuor mio non è mancata la riconoscenza verso i1 compare Fusco) che furono le prime fondamenta,
e l'inizio basillare del mio lavoro.
Con lire 40, che avevano quel valore a quell'epoca, comprammo un carrettino e un somarello, mezzo malandato, non vispo come il somarello che avevamo prima di emigrare in Francia. Fittammo un basso di due vani, una piccola cucina, il vano di entrata serviva per mettere quel poco di merce, e l'altro vano per dormire; vi era il letto grande, ed un letto ad una piazza e mezza, che dormivo io e le sorelle;
e questa casa è quella dove abita attualmento lo spazzino Erricuccio, di fronte alla casa dove abitava Mariuccia alla ferrovia. Fu pattuito lire 12 mensili, compreso una stalluccia che si accendeva dal portone vicino a Santomauro. Col nostro piccolo carretto facemmo tre viaggi, per portare i letti, materassi, un comò e una colonnetta, residui della mobilia di Benevento, perché il resto fu tutto venduto. Questa residua di mobilia la rimanemmo a Saviano, quando partimmo per Marsiglia,
e finalmente mia madre fu sodisfatta per questo trasloco e che tu l'ultimo.
Fuori i Platani, e propriamente di fronte al nuovo Ospedale, vi era una fabbrica di vetro soffiato, ossia vetro ordinario chiamato comunemente niretti e carrafoni. Questa fabrica [era] gestita da Luigi
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Masullo, vecchia conoscenza di mio padre, il quale ci accordò un credito che non doveva superare le lire 100, credito che veniva estinto appena venduta la merce, ripigliando l'altro. Il lavoro procedeva be-nino, e si arrivava fino alla provincia di Foggia. Io mi sentivo umiliato guidare quel carretto, ché quando era carico mi toccavo seguirlo a piedi. Non solo. Ma per le salite mi toccavo a tirare, perché il povero so-marello non ce la faceva. Eppure ero felice. Per le discese, salivo a cavallo e cantavo sempre, specie quando si avvicinava l'ora del pasto alla sera. In quell'epoca in tutte le taverne si mangiava a pasto, il mezzogiorno e la sera, e si aveva per ogni pasto insalata verde, maccheroni, o pasta e fagioli, baccalà o carne, formaggio, pane e vino senza limiti. Ogni pasto costava soltanto soldi 13. Però io e mio padre, non consumavamo che solo il pasto della sera, saltando quello di mezzogiorno, perché il bilancio non consentiva, e mio padre si era prefisso di farsi qualche capitaluccio proprio, e non essere schiavo di un solo fornitore, il quale ne incominciava a profittare. Si tirò avanti cosí per due anni e piú, lavorando notte e giorno, e il mio compagno di lavoro era Sabino Venezia, il di cui padre era il nostro padrone di casa, e usciva una sera si e una sera no, col carretto carico di verdura che portava a vendere sui mercati, camminando tutte le notti per fare arrivare fresca la verdura sui mercati. Quello che era insopportabile era il sabato sera che si doveva partire, per trovarci a Mirabella Eclano, un mercato piú importante di Atripalda. Si era arrivato al 1892 e al principio del 1893 mori Venezia padre, nostro padrone di casa. Il figlio non era tagliato per fare quella vita, aveva un mulo e un cavallo bilancino, che voleva alienare insieme al carretto piú grande del nostro, io incominciai a sondare i1_ terreno, per comprarci il solo mulo e il carretto. Eravamo amici intimi, acquistammo il mulo per lire 75 (un bel mulo),
e il carretto 70 lire, pagando metà anticipato e l'altra metà alla fine del 1893. Per me fu di grande sollievo, perché non ne potevo piú: quel somaretto andava cosí lento, da non fare neanche un chilometro all'ora. Col mulo andavamo benino, facevano diversi paesi in un giorno,
e gli affari progredivano sensibilmente. Mi ritiravo a casa, mi lavavo,
e andavo da zio Sabino, il quale gestiva una bella trattoria, con sala da pranzo e giardino, e molti clienti ferrovieri, che venivano da Napoli a mangiare. E facevo il cameriere insieme ad una serva, ed avevo cosí a tavola con loro una buona cena.
Mio padre aveva restituito al compare Fusco le lire quaranta ed aveva messo da parte qualche cosa. Vi era in quell'epoca il nonno dell'attuale Acone, il quale aveva il negozio, dov'è attualmente la Rustica, e i depositi nel portone di Lanzara, di terraglie, porcellane e cristalli, e cosí accoppiato al commercio di vetri ordinaria, aggiungemmo
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i generi piú fini, terraglie, porcellane e cristalli, e poco per volta, con questi nuovi articoli gli affari andavano molto bene. Diventammo im-portantucci, s'incominciava a girare per .i paesi grandi: Ariano, S. Angelo dei Lombardi. Fittavamo un basso, facendo bella esposizione di tutto, e le migliori famiglie acquistavano dei servizii completi. Io andavo in giro, con un grosso paniere, pieno di articoli piú eccentrici, che il popolino acquistavano con piacere. Per mangiare bene (perché mio padre mi manteneva a stecchetto) escogitai un bel mezzo: mi fidanzavo con tutte le figlie di tavernaie e di bettoliere. Ero diventato un bel giovanotto, mettevo in armonia quella gente di paese che vivevano vegetando, cantavo qualche canzonetta ed avevo in cambio le migliori pietanze, con contorno di qualche bacio. Ero sempre felice, ma qualche volta pensavo anche la vita zingaresca che facevo. La cosa tragica era la sera. Si arrivava in una taverna, quando vi era qualche lettino disponibile, lo riservavo a lui, ed io mi riempivo il sacco pieno di paglia, e lo piazzavo fra le due stanghe del carretto, facendo anche da guardiano alla merce. Quando per la strada eravamo colpiti da una pioggia, e le taverne erano piccole, ci toccava mettere il sacco di paglia sullo sterco degli animali e il mattino quando ci si alzava da quel gia- cillo, emanava il fumo dei calore, con profumi poco igienici. E Umberto « 'a Secchia », carrettiere vivente ad Atripalda, e che è stato parecchi anni con noi, potrebbe testimoniare e affermare quanto asserisco. Una volta, tornando da Montella (dove avevamo fatti affaroni, vendendo tutta la merce), digiuni, volevamo ritirarci a casa a mangiare. Si fece tardi, e per paura dei ladri, che [sul]la via del Malepasso aggredivano di sovente i carrettieri derubandoli, pensammo di fermarci alla taverna di Volturara, in piena campagna. Con una fame da lupi, chiedemmo alla padrona che ci avesse subito cucinato un chilo di maccheroni, anche aglio ed olio, ma ci sentimmo rispondere che, non solo non avevano niente, ma che non avevano neanche il pane. Sapete come ci satolammo? Mangiando cinque sei chili di patate lesse. Potrei continuare ancora per molto tempo, altri episodii tristi, di disagi e di privazioni, ma vedo di correre il rischio di essere tacciato di esagerazione.
Incominciammo a ritirare tutti gli articoli fini, da Ginori e Fri-gerio a S. Giovanni a Teduccio, e dalla ditta Cappadonna di Partici, scartando quelli di vetro corrente, e negli acquisti che facevamo, ero diventato cosí provetto che, appena facevo un'esposizione, le migliori famiglie facevano a gara per acquistarli. Avevamo acquistato la fiducia dei suddetti fornitori, tanto che essi largheggiavano a farci credito di mille lire e piú, somma favolosissima per quei tempi.
Si faceva la fiera a S. Egidio (Montefusco), [un] convento, dove
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affluivano tutti i paesi viciniori, a fare la provvista per un anno di tutti gli articoli, e segnatamente i nostri. Avevo saputo che a questa fiera faceva un'esposizione una ditta barese residente a Benevento. Si era al luglio del 1895. Passando per il convento, fittammo per otto giorni tutto il cortile interno, con due stalle pulite per il ricovero nostro, andai a Napoli per fare delle spese, ed oltre il contanti ottenemmo lire 2.500 di credito, firmando 5 cambiali da lire 500 cadauna a breve scadenza.
La fiera incominciava il 29 agosto di ogni anno, ed aveva la durata di sei giorni.
Incominciammo a portare i primi carichi il 22 agosto, e, con l'aiuto di un garzone, preparai con delle casse vuotate della merce un lungo tavolo di oltre dieci metri a sinistra e di cinque metri a destra, perché lo spazio di quest'ultimo era ostacolato da colonne. Fu tale la preparazione, e tali gli articoli nuovi, che tutti i signori di quei paesetti venivano con le loro serve o colone con grandi ceste, che riempivano di tutti gli articoli (specie i fini).
Non vi descrivo la fiducia che da questi clienti avevo acquistata, che non facevano patto. Facevo il conto su un pezzo di carta, tagliavano qualche lira dispara, non per contestare il prezzo, ma per avere la soddisfazione, troppo nota, in quelle donne, di risparmiare. In quell'anno vendemmo quasi tutto, rimanendo qualche poco di merce dispari che vendevamo l'ultimo giorno a qualche rivenditore locale. Dimenticavo, che la caratteristica della fiera era la sera, ed in una di-quelle sere, quando la folla sostava per ammirare non per comprare, perché compravano o di mattina o nel pomeriggio, ne feci una delle mie. Feci cucinare mezzo chilo di maccheroni, e mettendolo in un vaso da notte (nuovo però) gridavo ad alta voce: — La mia porcellana è perfetta, liscia, che si può utilizzare anche un vaso da notte usato —. (Ma il mio era nuovo).
I1 mio concorrente barese, che si era messo fuori del convento, credendo che la clientela a prima vista comprasse da lui, ma fece pochissimi affari. Prima di lasciare S. Egidio, volle farmi delle proposte per l'anno prossimo, fare una società. Avevo diciotto anni ed avevo una certa esperienza, e gli risposi che non avevo difficoltà a fare tale società, solamente gli articoli che rimanevano invenduti doveva ritirarli chi li aveva portati, (perché io ero sicuro di vendere gli articoli che acquistavo con gusto, e difficilmente ne rimanevano invenduti). Rimanemmo cosí d'accordo. A noi conveniva tale società, per due ragioni. La prima, non vi era concorrenza, e vendevamo esattamente con un guadagno abbastanza forte, e la seconda perché il barese portava degli articoli correnti, ma ricercati, per esempio delle grosse lan-
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gelle di terra cotta di Grottaglie (Taranto) per conservare olio, vino, peperoni in aceto, i piatti per contadini, e tante altre cose, in modo che il cliente da noi trovava tutto. Ai miei articoli avevo aggiunto coltellerie e posaterie di alpacca e falso alpacca.
Il capitale era cresciuto abbastanza. Avevo l'aria di grossista, incominciavo a fornire dei piccoli rivenditori, ad Atripalda ed Avellino. Si rese necessario fittarsi un locale per mettere un magazzino e deposito, e fittammo precisamente quei bassi che attualmente è il ma-gazinetto di Santomauro alla Ferrovia. Preparai dei bei scaffali, con un vetrinone che si girava (unico superstite del magazzino di Benevento). Avevo visto nei grandi depositi di Ginori e Frigerio tutti i campioni degli articoli, col prezzo incollato su ogni articolo. Avevo la mania nel mio piccolo di fare altrettanto, e per ogni articolo che compravo, ne compravo un pezzo in piú, ed appiccicavo il prezzo, spesse volte la merce finiva e il campione rimaneva. Il cliente protestava, io dicevo prontamente che tale articolo era finito quella mattina.
Eravamo al maggio del 1896, e piú che io, il mio povero padre era soddisfatto di aver ripigliato il suo mestiere, e che rendeva abbastanza. Questo rendimento fece balenare l'idea a mio zio Sabino, marito di zia Angelarosa, sorella di papà, di mettersi in socio con noi; società, se cosí vogliamo chiamarla, che mio padre non potette rifiu. tarsi, perché i primi soccorsi l'avevamo avuto da lui. Il guaio lo passai io, perché questo zio era anche analfabeta, e non del mestiere, essendo lui proprietario e gestore di trattoria e di una piccola camera per uso di albergo. Ci preparammo per l'altra fiera di S. Egidio a Mon-tefusco, lavorando come un cane per la contabilità, perché anche questo barese, era analfabeta. Insomma io che avevo frequentato la seconda classe elementare e due mesi della terza, ero un padreterno. Ma solamente alla divisione dei lucri e della merce, incominciarono a sorgere delle dificoltà, ed allora mi convinsi che nessuna società potevamo fare.
Occorre tornare qualche anno indietro, e precisamente nel settembre del 1890.
Frà i moltissimi clienti di mio zio Sabino, vi era il Capotreno Recine di Montefusco, che poi doveva diventare prima cognato e poi suocero mio, ed un giorno raccontò a mio zio che la moglie a Napoli si era partorito di una bellissima ragazza, ed aveva bisogno di una nutrice urgentemente. Mio zio voleva un gran bene a questo Capotreno; e perché assiduo suo cliente, e perché della nostra provincia, gli promise il suo interessamento. Lo zio Sabino aveva una sorella che si chiamava Lena, moglie di un operario di Sarno, Luciano Pappacena, che lavorava a Pianodardine, dove vi era una fabrica inglese di filati,
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il di cui proprietario si chiamava Turner. Questa zia Lena da poco si era partorito di una terza figlia, che fatalità volle dopo quindici giorni gli mori. Rimasta così la madre piena di salute e latte buono abbondante, lo zio Sabino telegrafò al Capotreno Recine che portasse la bambina perché aveva pronto la nutrice. Infatti il giorno dopo arrivarono ad Avellino, il Capotreno, la moglie e la bambina che si chiamava Amelia. Si aggiustarono per il prezzo, e altre modalità, e fu affidata alle cure di questa zia Lena, che era una bella e simpatica donna.
Tutte le domeniche (io avevo tredici anni) e per la cupa (1) di S. Lorenzo (perché questa nutrice zia abitava al bivio della cupa, sulla strada che da Pianodardine porta ad Atripalda: abitazione caratteristica, perché aveva esternamente una scalinata) andavo da questa zia, perché aveva cura di conservarmi sempre un piatto di maccheroni di zita che io nell'ora di merenda, mangiavo con avidità. Spesse volte per riscaldarmi i maccheroni, mi affibiava in braccia questa piccola Amelia, che cresceva bellissima e che io divoravo con baci innocenti. Passato il periodo di allattamento, il padre ritirò questa bambina, con gran dispiacere di mia zia, vuoi per la morte della figlia, vuoi perché gli aveva dato latte, tanto si era affezionata.
I rapporti tra il Capotreno Recine e mio zio Sabino non solo rimasero cordiali, ma si cementarono fraternamente. Si era alla fine di giugno del 1896. Mio zio Sabino, malgrado i miei diciannove anni, voleva che io sposassi, sapendo che questo Capotreno aveva una sorella signorina a Montefusco, e lo sapeva perché la trattoria di mio zio era il punto d'appoggio di lettere e pacchi, sia da Napoli per Montefusco che da Montefusco a Napoli. Un giorno mio zio abbordò questo Capotreno che era in vena, e gli disse queste testuali parole: — Don Carlo, mi è venuta un'Idea. Perché non facciamo sposare Angelino con vostra sorella? — Il Capotreno su due piedi non sapeva che cosa rispondere, e disse: — Poi vedremo.
Stavano così le cose. Io senza approfondire troppo a questa proposta, seguitavo a lavorare con passione. E si avvicinava l'epoca della fiera di S. Egidio e siccome avevo ricevuto da questa fiera delle belle soddisfazioni e incoraggiamenti, aumentavo con maggiore esperienza, e l'esposizione diventava sempre interessantissima. Ero diventato l'idolo di tutta la clientela eletta, di tutte le signore: aspettavano con pazienza delle ore, perché loro dovevano contrattare solamente con Angelino. I successi crescevano senza misura fino al marzo 1897. un fatto nuovo sopravvenne e fatalità volle che dovevo cambiare mestiere.
(1) Via di campagna, delimitata da siepi.
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Il padre di Maioli, appaltatore, propose a mio zio Sabino la gestione del buffet alla stazione di Avellino; e mio zio, per l'avidité di diventare proprietario di un buffet, accettò senz'altro, e si stipulò, tramite il compare Fusco, il contratto di cessione tra il vecchio gestore Amedeo Fontana di Brescia, ottimo organizzatore, che per ragioni di famiglia doveva trasferirsi al suo paese, e mio zio Sabino Tom-masetta. E la gestione fu affidata a me, naturalmente sotto il controllo di mio zio Sabino, e così il 21 aprile 1897 avvennero le consegne.
Si era trasferita. da Saviano ad Avellino (andando ad abitare nella casa attualmente di Sabino Venezia, confinando con la casa che avevamo presa in fitto dallo stesso) una sorella di mia madre di nome Matilde, col marito Gavino Martinetti di Iglesias (Sardegna) maresciallo di finanza a riposo, con cinque figli; il primo Peppin, che tutti conoscete, il secondo Giovanni, Domenichina, Tilde, e Palmira, tipo allegro, di cuore e lavoratore. La moglie, zia Matilde, tipo diverso dalle sorelle, bella, elegante, insomma signorile, terribile come mia madre (poteva dalla signorilità passare alla donna del popolo), aveva la stessa mania di mia madre, di effettuare spesso traslochi. Di fatti dopo quattro anni si trasferirono a Saviano, poi a Napoli, a Cagliari, Iglesias, e poi a Palermo dove mori: i figli intelligenti, con educazione benina, però sciuponi, (come la madre), e sfortunati.
Presi le consegne del buffet, alla Stazione, e siccome questo mio zio, sardo cucinava molto bene, pregai mio zio Sabino di prenderlo in servizio, in qualità di cuoco, per lire 10 mensili. Ebbe inizio il mio nuovo lavoro, di cui ero profano, sia perché non avevo mai frequentato caffé (per mancanza di denaro), sia perché non avevo nessuna cognizione di liquori e di ristorante. Avevo un poco di pratica della trattoria di mio zio Sabino, ma era una cosa diversa. Sempre tenace e sempre passione nel lavoro, tutto ciò che iniziavo lo portavo a buon fine. Una sola volta feci una brutta figura, ed era il terzo giorno della mia gestione. Si presentarono al banco un signore ed una signora, chiedendo due coca. Li pregai d'attendere un minuto, e chiesi aiuto a questo zio cuoco, perché non aveva interpretato bene la richiesta, e tanto io che questo zio sardo ci lam-picchevamo il cervello, ma poi mi decisi tornare al banco, e con molte scuse feci intendere che eravamo sprovvisti di quello che chiedevano. Ed il signore un poco irritato mi disse: — Ma come dite di non averne, mentre li in quello scaffale ce ne sono diverse bottiglie? — Ed infatti la richiesta sua si riferiva ad un liquore chiamato Elixir Coca. Feci le mie scuse di nuovo, giustificando che da soli tre giorni avevo preso servizio.
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Avevo preso buona cognizione del mio compito, che espletai (come sempre) superando ogni difficoltà, con grande soddisfazione di mío zio Sabino (proprietario) e con soddisfazione della clientela, che accresceva giorno per giorno, sia ferrovieri che privati, e viaggiatori di transito. Tutti volevano Angiolillo, tutti cercavano Angio-lillo. Chiamai con me le mie due sorelle poiché avevo bisogno di aiuto, oltre la serva, qualche piccolo garzone, per riempire bottiglie e fiaschi di vino. Mio zio era tale la soddisfazione che forni quel buffet dei migliori liquori esteri e nazionali, biscotti, cioccolato e caramelle,
e malgrado mio zio avesse incontrato dei forti debiti, sia per il riscatto del locale pagando una lauta buonuscita, sia per attrezzarlo bene, continuava a spendere a larghe mani, ritirando da Modena i migliori salami e zamboni, da Codogno, Parma e Milano le forme intere di formaggi di tutte le specie.
Tralascio per i1 momento l'andamento dell'esercizio del buffet. Malgrado le mie nuove occupazioni, vi era la gestione amministrativa dello sviluppato e crescente lavoro dei cristalli e porcellane,
e danaro di questa azienda spesse volte veniva impiegato per otturare le falle della trattoria, che con l'apertura del buffet, era diventata passiva. Di questo caos ne avevano tratto profitto i clienti ferrovieri che erano centinaia al giorno, e che venivano da Napoli (perché ad Avellino allora non vi era nessun deposito). E costoro mangiavano a credito, ordinando dei pranzi luculliani, e per la bontà di mio zio, che andava a Napoli per riscuotere tutti i mesi, erano piú quelli che non pagavano, che quelli che pagavano, ed i morosi ritornavano a venire a mangiare ed alle rimostranze di mia zia Angelarosa, sua moglie, che lavorava giorno e notte in cucina, lui rispondeva che era senza camicia, mentre ora ne aveva diverse. Si era arrivato al luglio del 1896, epoca che dovevo preparare gli acquisti per la prossima fiera del 29 agosto ed io tanto ci tenevo, perché i migliori frutti
e le maggiori soddisfazioni li avevo ricevuto da quella fiera. Durante la mia assenza la gestione del buffet veniva assunta da mio zio proprietario, ma tutti volevano Angiolillo, tutti cercavano Angelino, e non posso nascondervi, che su questo lui era un poco invidioso. Vennero i giorni che precedevano la fiera, e con un carico di sei carretti grandi trasportammo su quella fiera di campagna della merce di primizia moda e di gusti indovinati, che -i migliori negozii di tutta Napoli non possedevano.
Fu un successone. Le migliori famiglie dei paesi viciniori si fermavano ad ammirare tutti gli articoli, aspettando delle ore per essere servite. Il primo a felicitarsi con mio padre e con me, fu l'agrimensore Don Ciccio Bocchino, nonno del povero Dottor Francesco Bocchino, e
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sua moglie la signora Luisella Recine, sorella al padre del Capotreno Recine, donna di rare virtú domestiche. Questa si avvicinò a mia ma
dre, ed all'orecchio gli disse: — Eppure, è cosí abile e simpatico tuo figlio, che gli dobbiamo far sposare una nostra nipote. — Vi era un
gran negoziante di articoli svariati e bene assortiti di merceria, confezioni dell'epoca per signore, signorine e contadine, molto ricco, il quale avanzò con mio padre proposte di matrimonio di una sua figlia. Ed un altra proposta del genere [fu quella] di un forte negoziante in tessuti di Monteforte Irpino. E quando fu la sera mia madre a tavola ne parlò, tutti ci mettemmo a ridere, perché avrei dovuto sposarmi con quattro. Solamente dopo seppi che la sorella del Capotreno Recine e la nipote di Don Ciccio Bocchino era la stessa cosa. Finí la cosa cosí, imballammo quel poco di residuo della merce, e tornammo ad Avellino, soddisfatto anche quell'anno del risultato.
Ricominciavo la mia vita di cameriere, gestore, sguattero, padrone del buffet, nonché amministratore dell'azienda di cristalli e porcellane, e nel fare qualche sommario, grossolano, chiamiamolo bilancio, a modo mio, mi avvidi che in tutte le aziende vi erano passività, o meglio i guadagni venivano assorbiti dalle tratte, che mensilmente scadevano, e che purtroppo bisognava pagarle, per acquisti sia di generi per il buffet sia per quelli di porcellana etc., nonché le cambiali ancora rimaste per il riscatto del buffet. Cercai parlare con buoni modi a mio io Sabino perché, mentre era irruento e violento, aveva un cuore d'oro. Aveva la mania di continuare a fare credito ai ferrovieri che non pagavano, ed alla fine del mese che andava a Napoli per riscuotere, non riscuoteva neanche la terza parte. Tirammo ancora avanti fino alla fine del 1896, e nel marzo del 1897 mio zio Sabino ebbe un attacco di gotta che a stento era immobbilizzato, e sopra uno dei due divani che avevamo nella sala da pranzo del buffet guardava gl'incassi. A fine marzo si doveva andare a Napoli per la solita riscossione mensile, e fu la prima volta che delegò a me. Non conoscevo Napoli, che, [solo] qualche volta mio padre mi aveva condotto per qualche giorno. Fittai la medesima camera che mensilmente fittava lui — Albergo Wachinton — (lato partenze) e che pagavo lire 1.25 per sera, e lire 2 al giorno per mangiare. In queste 2 lire erano comprese le sigarette e qualche divertimento. Saltavo il pasto di mezzogiorno, rimpiazzandolo con una pizza (calzone) imbottita di ricotta, qualche soldo di frutta, ed alla sera dopo la chiusura della cassa sotto l'orologio esterno della ferrovia, andavamo al pranzo dalla trattoria della Fortuna (tutt'ora esistente) alle spalle della statua di Garibaldi, ove spendevamo 85-90 centesimi, massimo 1 lira. I miei compagni, per lo stesso servizio, erano tre: Cioffi Gaetano, calzolaio di Solofra, Fiumara Pietro, esercente una trattoria di Salerno, e Saturno
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Antonio di Cassino. Era la seconda sera che stavo in loro compagnia, dopo di aver mangiato, facemmo una passeggiata a piedi dalla ferrovia alla Galleria. Lessi un manifesto che al S. Carlo si rappresentava La Forza del Destino, con dopo il Ballo Excielsior, e al loggione di quinta fila (non numerato a quei tempi) si pagava lire 1.25 a persona. Proposi ai miei amici di andare: tutti profani di opere liriche. Ma per convincerli, ce ne volle, perché loro preferivano farsi una partita con qualche litro di vino. Io tenevo lire 2.40, somma che potevo disporre, loro invece erano diretti padroni e potevano spendere senza parsimonia. Facemmo i biglietti, e salimmo i cinque ordini di posti. Vi garantisco che senza avere inizio ancora il primo atto, ero contento di aver speso 1.25 fosse anche per vedere il solo teatro illuminato che per me rappresentava la prima entrata in paradiso.
Capitai a sedermi vicino ad una signora francese, che, solo oggi concepisco, doveva essere qualche governante, perché era munita di un bellissimo binocolo, che forse doveva appartenere ai suoi padroni, e tra un atto e l'altro, la pregavo di farmelo tenere qualche minuto. Ebbe inizio il primo atto, e solo allora compresi come si vivesse in un grande centro, con tutto quel paradiso terrestre, e con le ricchezze in mostra, della prima e seconda fila dei palchi, dove si ammiravano i gioielli piú fini, accoppiato ai decolté della noblès napoletana. Quei zoticoni dei miei amici caddero in braccia a Morfeo per tutta la durata dello spettacolo. Quale fu il mio stupore, quando incominciò il Ballo Escelsior, che si componeva di 500 coppie. Avevo la visione esatta di essere nel mondo della Luna: non potetti fare a meno, con un forte spintone, svegliare quella gente che osava dormire in tanta esagerata Bellezza.
Rientrato ad Avellino, consegnai esattamente a mio zio Sabino l'esazione fatta, con una nota di morosi, che non dovevano piú mangiare, a meno che non avessero pagato per contanti. La cosa non era di gradimento a mio zio, ma poco per volta con le buone maniere fini per convincersi, e la baracca incominciò, con altre direttive piú o meno caotiche.
Per l'esazione a Napoli continuai ad essere io delegato per i mesi di aprile, maggio, giugno sempre dell'anno 1897. Si era in luglio, e si approssimava la fiera a Montefusco, e dovetti darmi da fare per l'ap-provviggionamento e fare, come sempre, piú buona figura. La solita affluenza di clienti; però la prima sera e cioè il 29 agosto 1897 vedemmo entrare in una cameretta del convento, adibita da noi a sala da pranzo e camera da letto, due formose contadine con delle grosse ceste piene di ogni bene di Dio, dicendo a mia madre che venivano da parte di Don Ciccio Bocchino, e che erano sue colone. Le ceste contenevano gnocchi, carne di vitello, polli arrosto, pane, vino e frutta in abbondanza. Ave-
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vano fatto questo atto di cortesia, perché la nuora di Don Ciccio, Donna Mariannina, madre di Manfredo e -del Dott. Bocchino, ci teneva far rimanere per sé (segnandoci Venduto) ancora in esposizione un servizio di piatti che era una meraviglia: però ci teneva, un poco vanitosa, perché le altre famiglie lo vedessero. Il terzo giorno, nel pomeriggio (vi erano pochi clienti) vedo avvicinare una donna anziana ed una signorina, per scegliere un bichiere col manico. La signorina, nel chiedermi il prezzo, s'incontrò col mio sguardo, e siccome aveva un dente avanti piú grande, come suo fratello, gli domandai: — Scusate signorina, siete forse sorella al Capotreno Recine? — E lei mi rispose di sí, chiedendomi il perché di questa domanda, e come conoscessi suo fratello. Dissi che per caso l'avevo conosciuto ad Avellino, e che gli rassomigliava moltissimo, e il nostro discorso fini cosí. Gli dissi il prezzo del bichiere, è lei di rimando mi disse: — Però siete molto caresto-so (1). Acquistò lo stesso il bichiere, salutarono e andarono via, chiamai a mia madre (ché essa veniva sempre alla fiera) e gli raccontai questo episodio.
Io non potetti pronunciarmi dippiú, perché ignoravo se il Capotreno ne avesse fatto qualche .accenno alla sorella.
Finí la fiera, sempre con ottimi risultati, e tornammo ad Avellino ed a mio zio raccontai il piccolo episodio, dicendogli che ne avevo ricevuto buona impressione. Pregai mio zio Sabino di parlarne di nuovo al fratello Capotreno perché a sua volta ne avesse parlato a Don Ciccio Bocchino suo tutore, alla zio Canonico e a zio Francischiello, e poi saremmo andati a Montefusco, a parlare di ogni cosa. Passarono due mesi dalla fiera, ed il fratello Capotreno Carlo Recine era stato a Montefusco e ne aveva parlato alla sorella, ed agli zii, e cosí id 15 novembre 1897 nolleggiammo una carrozza chiusa e partimmo alla volta di Montefusco, io, lo zio Sabino, e il compare Fusco — ed eravamo diretti alla casa dello zio Don Ciccio Bocchino. Però il compare Ciro propose di andare prima alla casa della sposa, e cosí facemmo. Per quanto preavvisati della nostra visita, la futura sposa rimase sorpresa, e dopo di averci lo stesso ricevuti ci disse gentilmente che la richiesta doveva essere fatta in casa dello zio Bocchino, giusto come si era rimasto stabilito, si parlò del piú e del ;meno, e bastò questo perché i nostri cuori incominciassero a battere -all'unisono, e bastò fra noi due .un furtivo sguardo (che è il primo linguaggio dell'amore) per intenderci. Preceduti da un buon tratto, da una strada diversa lei si diresse dallo zio Bocchino suo tutore, e dopo poco anche noi raggiungemmo l palazzo, che era in fondo al paese. Ci presentammo, ed arrivato al mio turno, lo zio Bocchino disse: — Ma
(1) Caro
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io conosco bene Angelino, figlio di Amato — Diventai rosso come un gambero, perché ricordavo che in quella casa, negli anni precedenti, dalla
piazza del mercato portavo dei cesti di roba, che lo zio Bocchino acquistava da mio padre, ed io come misero ,garzoncello andavo in quella casa, perché la zia Luisella Recine Bocchino mi riempiva le tasche piene di frutta a secondo la stagione, oltre un bel pezzo di pane, con salame o formaggio, e altro ben di Dio. Lascio a voi lettori, figli nuore nipoti, la mia grande umiliazione, entrare in qualità di futuro sposo, in quella casa, che diversi anni prima avevo vergogna e paura di sporcare i pavimenti, con le scarpe piene di chiodi.
S'intavolarono le discussioni, e superate quelle piú essenziali, cioè le simpatie suscitate reciprocamente, fra me e la sposa, si parlò della posizione reciproca, non per farne un mercato, ma perché bisognava dar conto allo zio Canonico, allo zio Francischiello e al fratello Capotreno di residenza a Napoli. Quindi lo zio Bocchino si riservò dare una risposta entro quindici-venti giorni. Ci offrirono del vino perché s'era fatto tardi, per quanto il compare Fusco ripetute volte fece comprendere che eravamo digiuni, e su questo fecero orecchie da mercanti, e per questo fatto rimase un detto, fino alla morte del povero compare Fusco, il quale diceva: — Alla richiesta della mano della signorina Recine a Montefusco, bevetti a digiuno tre bichieri di vino.
Rimasti cosí d'accordo ci salutammo, e verso la fine del paese comprai del pane, prosciutto e vino, e facemmo ritorno a casa, ove i fami-gliari domandarono l'impressione ricevuta della sposa e dei parenti. E cosí si doveva aspettare la risposta.
Io intanto impaziente per l'attesa di una risposta, e facendomi forte della buona impressione suscitata sulla sposa, a cui l'occhio mio indagatore non era sfuggito, scrissi a lei, ringraziando, per la gentile accoglienza ricevuta, e della buona impressione ricevuta di lei, augurandomi che presto avrei ricevuto una risposta affermativa, che mi avrebbe consentito di frequentare la sua casa, non come timido collegiale, ma in veste di fidanzato ufficiale. Per risposta ebbi da lei che aveva ricevuto di me buona impressione: poche riservate parole, e che mi davano adito ad una buona speranza.
Dopo circa un mese, e dopo tutte le informazioni sul mio conto, che in sostanza erano ottime, tranne naturalmente quelle finanziarie, lo zio Bocchino ci invitò di nuovo a Montefusco per vedere eventualmente superare qualche difficoltà incontrata nel consiglio di famiglia. Un giorno che non ricordo, partimmo con la stessa carrozza chiusa, però munita di un cesto con polli salame formaggio e vino (tutta questa roba rimase nella carrozza, e che avremmo dovuto mangiare dopo). Ci recammo in casa dello zio Bocchino, il quale ci riferí del consiglio di famiglia da lui
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presieduto, in qualità di tutore, e che tutti erano rimasti soddisfatti per le buone informazioni morali sui mio conto, ma non si trovavano d'ac-
dordo per la posizione finanziaria. E non avevano tutti i torti: io non
possedevo nulla, la sposa portava in dote circa 6 mila lire, in contanti 3.800 e 2.200 una casa e terra, ancora in comune col fratello Carlo
Capotreno. Però mio zio Sabina e mia zia Angelarosa mi donavano lire 1.000 ciascuno alla rispettiva loro morte, e ,il contante della sposa veniva ipotecata su una loro casa, e quindi .garentita; lo zio Sabino s'impegnava fare tutte le spese del matrimonio, mobilio, vestiti per me e per la sposa, quel poco di oro, ecct. ecct.
I zii della sposa quasi non volevano aderire a questo matrimonio, perché non avevano voluto accettare due .matrimoni, uno di un ricco orefice di Gesualdo, e un altro in quell'epoca esattore di Montefusco, tutti e due ricchi, di buona famiglia, ma di pessimi precedenti giovanili. Lo zio Bocchino si alzò, e disse ai famigliari tutti: — Io per conto mio e ne assumo piena responsabilità, son del parere di dare in sposa mia nipote Vincenzina ad Angelo Muscetta, povero, come voi volete, ma ricco di esperienza, e sopratutto onesto lavoratore. — E credetemi (disse a loro) la nostra Vincenzina, non gli mancherà mai nulla —. A queste parole, tutti si pronunziarono consenzienti, e fu superata ogni cosa.
Lo zio Bocchino volle festeggiare il fidanzamento ufficiale, con un banchetto (che il compare Fusco non l'ha mai dimenticato) con dolci e vino rarissimo, brindando alla salute dei sposi, e che il destino crudele volle spezzarlo (come in seguito vi dirò) dopo solo undici anni di matrimonio.
Dopo il pranzo solenne, ci recammo in casa dello zio Canonico e zio Franceschiello, per salutarli e ringraziarli per il loro autorevole consenso, — e partimmo alla volta di Avellino, riportando indietro il cesto con tutta la roba, dopo di aver fatto mangiare al vetturino Mi-niello, padre del vetturino attuale Angelo Venezia. A casa con i nostri alla sera finimmo di festeggiare tale evento.
Ebbe inizio il nostro fidanzamento ufficiale, e fu stabilito di andare ogni mese a Montefusco, e trattenermi tre giorni per ogni mese. Il primo viaggio fu da me effettuato il 6 gennaio del 1898, con una sgangherata carrozza postale che partiva tutti i giorni alle quattordici, e arrivava a Montefusco alle ore diciassette. La prima sera cenai dalla fidanzata, e a dormire andiedi dalla zia Teresa, sorella di zia Cristina, però all'indoma-ni andammo a salutare un altro zio in secondo grado, Giacomino Recine, ammogliato senza figli, ed abbastanza ricco, e costui volle assolutamente che fossi andato a dormire da lui tutte le sere che mi trattenevo a Montefusco, per tutto il periodo di fidanzamento, e per quest'altro zio,
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diventai piú di un figlio. E quindi la seconda sera fui suo ospite: la sua abitazione era poco lontana dalla casa della fidanzata, e dal balcone della mia camera da letto alla finestra della camera da letto della fidanzata ci divideva un piccolo vicolo stretto. Io dormivo in un letto grande insieme a questo zio, letto con quattro materassi di lana, che io non ne avevo la massima idea: di una sofficità che, per me, quei tre o quattro giorni di permanenza a Montefusco rappresentavano un paradiso, perché ad Avellino id mio letto era un piccolo materasso su un tavolo da pranzo, e il riposo era solo di tre-quattro ore. A questo proposito, voglio raccontarvi un piccolo episodio. Una sera faceva un freddo terribile, per l'abbondante neve caduta, e quando mi ritirai all'ora solita, le ventuno circa, mi aspettavano raccolti lo zio Giacomino e la zia vicino ad un grande camino ben acceso, con delle frittelle calde e del vino speciale, e malgrado da poco avessi cenato, non potetti esimermi a fare loro compagnia. Dopo mi disse la zia: — Angelo, si vede che hai sonno, tu sai la camera dove sta, puoi andare senza complimenti —. Diedi la buona sera, e mi ritirai, ma quale fu la mia sorpresa, quando vidi che il posto mio era occupato da uno che dormiva. Ritornai, e dissi allo zio Giaco-mino, che il posto mio era occupato, e lui, di rimando: — Sciocco, vai a dormire: quello è il monaco —. Allora dissi: — Ma quel monaco, è un altro parente? — Allora marito e moglie non si potevano contenere dalle risa e così loro chiarirono, che quello era uno scaldaletto di legno piú lungo di una sedia, con dentro due recipienti che contenevano il fuoco, e questo apparecchio lo chiamavano il monaco.
Al. mattino vicino al caffè, vi era un pacchetto di sigarette: insomma io non spendevo nulla. Ricardo a questa proposito, che questo mio fidanzamento aveva destato invidia a molti del rione, tanto che parecchi erano andati ad insinuare a zio Sabino che io rubavo a lui, e portavo a Montefusco tutto dalla fidanzata. Un giorno mi ero già vestito, la carrozza mi aspettava vicino alla porta, salutai a tutti, e salii in carrozza. Stavamo per partire, e mio zio mi chiamò, e mi pregò di scendere un minuto, entrammo in una camera, e mi disse che cosa tenevo in quella picocla valigetta, che feci scendere, e gli dissi: — Qualche fazzoletto, e qualche camicia da notte (a quell'epoca non si usava il pigiama). Mi domandò che denaro avevo, allora incominciai a comprendere, che qualcuno lo aveva insinuato. Mi spogliai nudo, rivoltando tutte le tasche, e non uscirono che lire: 1,15, — dico ventitrè soldi, ed un pacchetto di sigarette, e una scatola di cerini. Io rimasi male, ma piú male e umiliato rimase mio zio Sabino, il quale mi disse queste testuali parole: —Dapo il tuo fidanzamento, ti sei circondato di invidia e gelosia, però questo risultato negativo non ha fatto altro che cementare il mio bene e la mia fiducia, per quanto quest'ultima, mai perduta —. Voleva darmi
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del danaro, ma rifiutai energicamente, dicendogli: — Non mi serve, perché a Montefusco non mi fanno mancare neanche le sigarette. — Mi vestii in fretta, presi la mia piccola valigetta, presi pasto nella carrozza, facendo le mie scuse ai miei compagni di viaggio, chè per un contrattempo li avevo fatti attendere venti minuti, e partimmo.
Posso assicurarvi che furono tre ore di tortura per me, avrei voluto ritornare in Francia perché ero sempre in corrispondenza col mio antico principale Sassone Battista, odiavo mio zio Sabina, odiavo il mio vicinato e volevo andar via lontano da quella gente malvagia. Erano due le cose che m2 trattenevano, i miei genitori (e debbo confessarlo, piú segnatamente mio padre) e la mia Vincenzina, che amavo piú di me stesso, ed ero riamato ugualmente. Certo era i1 primo amore vero, sentito, ed ingoiai quest'altra pillola abbastanza amara. Questi furono i pensieri che in me stesso fantasticai durante le tre ore idi viaggio, avevo una voglia matta di piangere, ero buono di animo, tenero ancora di età, ma vecchio di esperienza, di lavoro, di sagrif2cii, e nei miei venti anni nulla avevo goduto, e fidavo nel destino e nella Provvidenza, in giorni migliori.
Stavamo per arrivare a Montefusco e cercai dominarmi, svegliandomi dal torpore di amarezze in cui ero innocentemente caduto, e mi avviai .alla casa, dove una creatura umana mi aspettava piena di amore e piena di passione, salutai, lei che sulla soglia della porta mi aspettava, salii in fretta quei sei scalini esterni, tenuti da una inferriata, ed entrai salutando e baciando la mano alla zia Filomena, seconda madre di Vin-cenzina, poiché rimasta orfana lei e il fratello Carlo. Questa zia di anima buona, mezzo devota, fu per lei una vera seconda madre. Con una forza di volontà cercai dominare il mio turbamento, portando i saluti di tutti i miei, ma a Vincenzina non era sfuggito che io non era il tipo allegro delle altre volte, a cui raccontavo specie alla zia Filomena dente barzellette, che tanto la facevano ridere, e per giustificarmi dicevo di avere un leggiero mal di testa. Ma vi erano delle buone salziccie per cena, e con supremo sforzo feci venire il buon umore.
Passò la serata alquanto allegra, passarono ancora giorni e mesi, l'amore s'ingigantiva sempreppiú, si arrivò al 18 luglio del 1898. Al ritorno dal mio abituale viaggio mensile da Montefusco, trovai a casa una brutta notizia: durante la mia assenza, i miei, cioè mia madre e le mie sorelle Maria e Carolina, che anche loro lavoravano nel buffet (che aveva preso un buon sviluppo) avevano fatto quistione con zio. Sabina, e da due giorni non erano andati nel buffet. Indagai la ragione, e mia madre era solita ingrandire le cose ed era sempre quella che inventava delle cose inutili, a volte gravi, inesistenti, e mi trascinò per qualche giorno anche a me a scioperare. Intanto per due giorni feci lo sciopero
Al
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della fame e piangevo amaramente la mia sorte, pensando che il matrimonio potesse andare a monte, e l'amare era cosí potente, balenandomi nel cervello di commettere qualche sciocchezza. Però fidavo sempre nella preghiera, e di cui non mi sono mai staccato, e nella mia vita ho trovato sempre conforto. Un giorno mia zia Angelarosa, [di] nascosto del marito Sabino, venne a trovarmi e si rammaricò per quello che era successo, e lo stato mio compassionevole e disperato. Mi mandò subito dalla trattoria da mangiare, e venne di nuovo ad assicurarsi, se io avessi mangiato, perché quasi da tre giorni non avevo toccata cibo. Intanto Vin-cenzina mi scrisse da Montefusco, che aveva saputo che erano sorte delle questioni serie, tra noi e zio Sabino: i soliti amici e invidiosi s'erano preso la briga di scriverle una lettera anonima informandola di tutto, aggiungendo perfino che il matrimonio sarebbe andato a monte. Supplicandomi di scriverle tutta la verità, e conoscendo il mio tipo affettuoso, non mancò d'incoraggiarmi, di avere fede in Dio per il nostro destino. Un giorno, profittando che lo zio Sabina era a Napoli, ed analizzando bene le cose, riconobbi che il torto era da parte dei miei, e incoraggiato dalle buone parole della zia Angelarosa, di cui portavo il nome del padre, e mi voleva molto bene, andiedi a prendere servizio, giustificandomi verso i clienti che ero stato poco bene. La sera tornò lo zio Sabino da Napoli con l'ultimo treno di mezzanotte, disse: — Buona sera —, a cui risposi; ma non mi disse altro. Diede alcune disposizioni ,a mio zio Gavino, che funzionava sempre da cuoco, e si ritirò. Fui quella sera un poco contrariato per .il suo atteggiamento ancora severo, e pensando che il lavoro di pacificazione l'avrebbe preparato la zia Angelarosa sua moglie, andiedi a riposare per qualche ora nella stanzetta su una tavola, l'unica camera mia da letto, per diversi anni; camera da letto che da giorno funzionava da sala da pranzo, e la sera la tavola funzionava da letto: stanzetta umida, perché terra piena, e il sole si vedeva a scacchi. Quella vita durò per circa tre anni, e tutta quell'umidità fu la causa farmi perdere in pochi anni uno per uno tutti í denti. Passarono dei giorni, mi riappaciai (e con me, anche i miei) con zio Sabina. Lettere dalla fidanzata Vicenzina venivano tutti i giorni, chiedendomi spiegazione del dissidio, ed io rispondevo che tutto era finito. Si era arrivato alla fine di luglio ed alla prima domenica di agosto si celebrava a Montefusco la festa di M.M.S.S. del Carmelo. Un giorno chiamai in disparte mia zia Angelarosa, e gli dissi che quello era il momento per far dissipare ogni voce messa in giro, circa il nostro dissidio, e che lei e mia sorella Maria dovevano andare a Montefusco in occasione della festa. La zia Angelarosa, non solo acconsenti di buon grado, e disse che avrebbe convinto anche zio Sabina suo marito, ma che avrebbe portato alla fidanzata un regalo di un bracciale d'oro. Infatti il venerdì
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che precedeva la festa di domenica, zia e mia sorella Maria partirono per Montefusco, senza nessun preavviso. Lascio a voi immaginare la sorpresa e la gioia della mia fidanzata, con la zia, nel vederle arrivare: questa era per loro la conferma di quanto io gli avevo scritto, cioè l'avvenuta pacificazione. Naturalmente la gioia non era completa, perché mancavo io, però la mia mancanza . era giustificata, perché tutti in una volta non potevamo lasciare il buffet.
La mia tortura era quella di vedere la festa da Avellino e non poterci andare. Mi spiego in che modo io vedevo la festa da Avellino. La chiesa del Carmelo a Montefusco era situata al principio del paese e proprio sul fronte del paese verso Avellino, .e su una piazzetta vicino alla chiesa venivano addobbate delle bellissime luminarie, che erano ben visibile dalla nostra stazione ferroviaria di Avellino, quindi il sabato, vigila della festa, fu per me una tortura, vedere da lontano quella festa, e non poterci andare. Non riposai tutta la notte e né anche la domenica fino alla sera, e senza pensarci due volte, dissi a mio zio Sabina, se mi permetteva alle undici di andare a Montefusco, con l'impegno di trovarmi il lunedì mattina alle sette per aprire (anche con qualche ora di ritardo) il buffet. Mio zio in un primo momento non era consenziente, dicendo che avrei dovuto fare sette-otto chilometri a piedi in salita, di notte, e altrettanto al mattino; ma poi fini per accontentarmi.
Alle ventitrè vi era l'ultimo treno che, proveniente da Napoli, passava per Avellino, e proseguiva per Benevento. Feci in cinque minuti suc-cintemente la mia toiletta, presi il treno fino alla prima stazione di Prata-Pratola e, casa strana, arrivai in perfetto orario e cioè alle ventitré e dodici alla stazione di Prata-Pratola. La natte era piuttosto oscura, la strada rotabile era :per le sue curve molto piú lunga, mentre la strada accorciatura era piena di ciottoli e fossati, ma preferii questa per arrivare al più presto, e possibilmente prima che si chiudesse la festa. Le difficoltà non erana lievi, sia per l'oscurità, sia per attraversare montagne dissabitate, ma a quell'età non si conoscono ostacoli. Diventai una lepre, superai la distanza di circa otto chilometri tutto in salita in un'ora e venti minuti (però abbastanza sudato), scorsi da lontano che la mia fidanzata, e i miei [e] i suoi zii e zie erano seduti innanzi ad uno dei caffè improvvisati, ascoltando la musica di fronte che eseguiva l'ultimo pezzo, e cioè il canzoniere, perché dopo questo avevano inizio i fuochi artificiali. Non posso descrivervi l'impressione che tutti provarono, nel vedermi arrivare a quell'ora a piedi dalla stazione di Prata, e alquanto sudato. Bevetti due birre, ci godemmo i fuochi artificiaili, ed a casa ci aspettava una bella cena, residuo di un pranzo cucinato dalla zia Angelarosa, provettissima, ed espertissima nell'arte culinaria; gnocchi, carne, polli insalata, ecct., inaffiata con ottimo vino. Quale gioia fu per noi fidanzati, può descri-
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verlo solo chi ha sofferto di simili mali: con grande soddisfazione dei parenti tutti, e specie dello zio Canonico, che vedevano dissipate quelle voci messe in giro da invidiosi, i. quali avrebbero visto con piacere andare in fumo questo matrimonio. La cena fini alle tre e mezzo del mattino, e dopo di aver bevuto due tazze di caffè miscelato con la cicoria (surrogato in voga e che costava due soldi il pacchetto, e il caffè puro costava, bello e tostato, 4 soldi l'oncia: come dire 3 lire e centesimi il chilo), presi commiato dal mio tesoro, distacco doloroso, ma necessario, perché ho conosciuto da che ero piccolo solo il senso del dovere, e poi eventualmente il senso (se pure) del diritto, e in compagnia dell'alba che si schiudeva mi incaminai a piedi (perché in quell'epoca non si aveva neanche lontanamente l'idea dell'automobile) e raggiunsi la stazione di Prata: che dopo pochi minuti arrivò i!1 primo treno da Benevento, e giunsi puntualmente alle sette del mattino, giusto come avevo promesso a mio zio. Ero felice, ogni frainteso era scomparso, lavoravo notte e giorno, e vedevo avvicinare il giorno tanto da me sperato e coronato dopo sacrificii, il mio sogno.
Il 21 novembre 1898 partimmo da Avellino in carrozza, io, lo zio Sabino, il compare Fusco, il Notar Capriolo, e il suo segretario, e ci recammo a Montefusco in casa di Don Cuccio Bocchino zio della sposa, e tutore, nonno del Dort. Francesco Bocchino, per redarre i capitoli matrimoniali, con un cerimoniale molto lussuoso, e irto di malte difficoltà per la sistemazione ipotecaria della dote: ché in quell'epoca lire 6.000 era una dote fastosa. Come Dio voile, fu appianato ogni cosa per il meglio, e per la prima vdlta, debbo confessarlo, ebbi l'onore di sedere a mensa in un banchetto di lusso e signorilità, che mi pareva di sognare qualche pagina del libro di Mille e una notte. Non debbo nascondere la mia emozione, quando in quella stessa casa entravo da ragazzo a portare degli oggetti che mio padre gli vendeva in piazza, e che in cambio la signora Bocchino, zia in primo grado della sposa; mi porgeva per regalo della frutta e colazione, e quel giorno sedevo a mensa in qualità di futuro sposo al posto d'onore. Credetemi, nella vita ho subito delle umiliazioni, dei sacrifici, delle privazioni, del lavoro snervante, e perché no? della fame, cosa che non auguro al mio piú acerrimo nemico, ma in compenso ho avuto delle poche, ma belle soddisfazioni, che mi sono state di sprono a tutte le difficoltà che nel sentiero della mia vita ho sopportato con francescana rassegnazione.
Con la speranza che il giorno tanto desiato presto si avverasse, si era arrivato al 10 gennaio del 1899, giorno che si fissò la data del matrimonio per .i'1 9 febbraio 1899. Infatti tale giorno, di giovedì, S. Sabino, partimmo da Avellino con quattro. carrozze di gala, alle ore sei del mattino, e andammo a Montefusco, ed in casa sempre di
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Don Ciccio Bocchino alle ore 10 ebbe luogo il matrimonio civile officiato personalmente dal Sindaco, e quello religioso officiato dallo zio della sposa, Canonico Recine. Cerimonia austera, bellissima, signorile, a cui intervennero le piú spiccate personalità del paese. Furono distribuiti dolci confetti e liquori, e gli onori di casa furono fatti impeccabilmente dalla signora Donna Mariannina Bocchino, nuora di Don Ciccio Bocchino e madre del Dottor Bocchino. Il cerimoniale sarebbe riuscito superiore ad ogni aspettativa, se non fosse stato funestato da un contrattempo, e cioè il mancato intervento allo sposalizio dell'unico fratello della sposa Carlo, Capotreno a Napoli delle F.F. dello Stato: coincidenza da tener presente. Iil fratello Carlo (unico fratello) non potette intervenire allo sposalizio perché la figlia Amelia (di cui è una protagonista di queste memorie, come rileverete nei primi capitoli, e che poi divenne mia seconda moglie) era in quel periodo in fin di vita, ammalata di tifo, che in seguito fortunatamente superò.
Dopo la cerimonia, si partí alla volta di Avellino, accompagnati da quasi tutti i parenti intimi e fioccava la neve piacevolmente. Ad Avellino nella casa dove abita adesso Siani Vincenzo, ci aspettava un lauto banchetto. A questo proposito debbo precisare una cosa. Mio zio Sabino aveva i suoi gravi difetti, ma aveva anche i suoi meriti, e cioè ci teneva a fare bella figura, un poco perché aveva assistito a due lauti e lussuosi banchetti, un poco anche per riguardo ai parenti venuti da Montefusco, tutti parenti 'rispettabili e perché no? dei veri signori.
Noi avevamo un cuoco abruzzese al 'buffet, che era qualche cosa di speciale, ed a lui lo zio Sabina affidò l'incarico di un menù speciale, dall'antipasto alla lasagna imibottita (perché era carnevale) alla galantina di pollo, al gattò di mariaggio ed ogni ben di Dio. Per non esagerare, il cuoco e un aiutante, altre le donne di famiglia, lavorarono tre giorni. Fu un elogio di tutti i commensali, e segnatamente della zia Carmela che dimenticavo dirvi intervenne allo sposalizio con zio Sabatino vestito in lungo con redingote, e lei con un cappellino eccentrico (che costava pochissime lire per la sua rimontatura). I regali (per quanto in quell'epoca poco si usassero) pur tuttavia i'l piú di valore era il biglietto di lire 25 dello zio Franceschiello. Però il regala di zia Carmela (non lo posso mai dimenticare) fu di un portabiglietto di seta, costruito, forse, con le sue mani.
Dopo il pranzo, ripartirono alla volta di Montefusco, con due carrozze di gala, i parenti della sposa, ed alla sera grande trattenimento in famiglia, con qualche invitato, il Capo Stazione titolare e qualche impiegato, o amici di famiglia, si ballò fino all'una del mattino, con distribuzioni, di dolci, liquori, spumanti, tutto a profusione.
Dopo tre giorni facemmo il nostro viaggio di nozze. Incredibile ma
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vero, con lire 25, dico venticinque in tasca, oltre il biglietto Avellino-Napoli-Saviano (paese di mia madre) e ritorno, naturalmente ospite di parenti. Ero tanto felice nella mia miseria.
Tornai a casa, presi il mio posto di lavoro, e che lavoro. Nessuna umiliazione, ero padrone, cameriere, sguattero, facchino, venditore di acqua ai treni ecc.: credetemi, non esagero, dalle quattro del mattino a mezzanotte. L'unico conforto era mia moglie, che passato qualche mese incominciò a coadiuvarmi, acquistando pratica, e [a] stare al banco. Eravamo tanto felici, da invidiarci vicendevolmente.
Dimenticavo dire che mio zio Sabino nei primi tempi della gestione del buffet a me affidata, esercitava un'antica trattoria con giardino, e una camera con quattro letti per uso di albergo. Trattoria che per ventisei anni lavorava benino con i ferrovieri ed anche privati, e che poi si decisero lasciare, per esercitare insieme a me il buffet per economie di spese. Passarono cosí tre anni di matrimonio, ed ero già padre di due figli Amato e Sabino, lavoravo come non avevo mai lavorato in vita mia, notte e giorno, coadiuvato da mia moglie Vinoenzina, che era animata di tanta volontà, e spesse volte per forza maggiore in cucina toccava lavare anche i piatti (perché delle volte in poche ore dovevano essere servite centinaia di persone). Io che servivo a tavola insieme ad una cameriera col sudare che mi colava sulla fronte, guardavo con umiliazione mia moglie Vincenzina, la quale, poveretta, a prescindere di essere di buona famiglia, non aveva in casa sua mai mossa una sedia da un punto all'altro, ed ora la vedevo lavare i piatti. Credetemi, non esagero, correvo nella latrina della ferrovia, e sfocavo a pianto tutta l'umiliazione: avrei voluto centuplicare il mio lavoro, pur di non assistere ad un simile spettacolo, eppure credetemi eravamo felici.
San costretto ripetere ancora una volta, che per il cuore di mio zio, le cose finanziarie andavano da male in peggio, si era arrivato al punto che tutti i fornitori non volevano farci più credito, centinaia di ferrovieri mangiavano e non pagavano, cambiali che andavano iñ protesto, interessi che si accumulavano, le banche ci chiudevano i sportelli, perché [sul] l'unica casetta vicino a1 Ponte dell'acquedotto di Serino, era ipotecata la dote di mia moglie; ed io vedevo aprire un baratro innanzi a me spaventoso.
Una mattina nel buffet mio zio Sabino con gli occhi fuori dell'or-bite e con una rivoltella spianata verso di me, pretendeva una mia firma ad una cambiale, che io non volevo mettere. Per fortuna mio zio fu chiamato dal Capo stazione, ché doveva pagare il canone del buffet scaduto da parecchio tempo. Spaventato presi mia moglie, e mia so- rella Mariuccia e scappai in casa, col preciso proposito di non tornare mai più al buffet e piansi amaramente il mio destino. Scrissi allo zio
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Francesco Bocchino a Montefusco mettendolo al corrente, pregandolo che mi facesse un prestito di 500 lire, cosa che fece subito, rilasciandogli una cambiale firmata da me e mia moglie.
Intanto mio zio Sabino, per far fronte ai suoi impegni, precipitò la vendita del residuo di merce cristalli e porcellane, gestione tenuta con capitali suoi, e venduta da mio padre.
Intanto col prestito delle 500 lire fattemi improntare dallo zio Bocchino pensai aprire un negozio sempre di cristalli e porcellane, fiatai quel basso, dove tutt'ora esiste la trattoria di Brigida, di fronte alla ferrovia, e mi decisi andare a Napoli o meglio a S. Giovanni a Teduccio da Richard-Ginori per fare degli acquisti: naturalmente lire 500 in contanti, ed il resto di un vagone di merce (che costava lire 3000 circa) in cambiale.
Mio zio Sabino vomitava fiele, e non sapendo che dispetto farmi, mi precedette di qualche giorno, ed andiede a S. Giovanni a Teduccio da Richard-Ginori, insinuando a questa ditta di non farmi credito, perché ero un nullatenendo e imbroglione. Non ebbi nessuna sorpresa quando mi recai a S. Giovanni, e la ditta suddetta mi disse che era spiacente non potermi accontentare col farmi credito, come aveva fatto le altre volte con mio zio Sabino, perché la Direzione di Milano cosí aveva dato disposizioni. Però io fui previggente, perché mi avevo portato la copia dei capitoli matrimoniali, e che tutte le cambiali venivano firmate anche da mía moglie Che disponeva della sua dote di oltre 6 mila lire.
Convinsi con le buone maniere 11 Dirigente del deposito della S. A. Riehard-Ginori di S. Giovanni a Teduccio, anche in omaggio che ero figlio di un vecchio loro cliente, e che per tanti anni (modestia a parte) era il modello di onestà.
Ritornai a casa pieno di gioia, e dopo due giorni, come stabilito, tornai a S. Giovanni con mia moglie per caricare il carro ferroviario, e firmando gli effetti per lire 3.600 oltre l'anticipo di lire 500. Quel giorno si fece tardi e dopo di averci mangiato due belle pizze e due bichieri di vino, spendendo lire 1,20 in tutto, compreso la frutta [e] 2 soldi di mancia, partimmo alla volta di Avellino alle ore diciannove per arrivare alle ore ventiquattro circa, con una fame da lupi. La mia povera madre ci aspettava, e ci cucinò alla svelta dei maccheroni e un uovo. Preparai le mie cose, e dopo due giorni arrivò il vagone di merce nuova e bellissima, malgrado la sicurezza di mio zio Sabino che io non avrei avuto mai il piacere di avere un vagone di merce con un credito (a quei tempi colossali) di lire 3.600.
Il lavoro ebbe inizio, mio padre lavorava giorno e notte per i mercati viciniori, Atripalda compreso, avrei voluto accompagnare mio padre col carretto, ma non volli farlo, non per il lavoro, né per ver-
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gogna di farlo, (perché il lavoro onesto, qualunque specie di lavoro, anche umiliante non mi aveva fatto mai impressione); ma per non dare adito alle persone che mi avevano sempre invidiato, dopo il mio matrimonio, perché non potevano rendersene ragione come io ero stato capace di apparentare con una delle prime famiglie di Montefusco. Presi un garzone e lo misi al servizio di mio padre.
Si lavorava benino, e si sbarcava alla men peggio il lunario. Fu venduto primo vagone di merce, molto prima del previsto. I'l mio capitale iniziale, al netto di interessi e delle spese generali, da lire 500 sali a lire 900, le cambiali con la società Richard-Ginori furono pagate con puntualità, a questo fece seguito il secondo e terzo vagone, i miei due figli Amato e Sabina crescevano un amore, ed eravamo felici e invidiati. Lo zio Bocchino di Montefusco (che Iddio lo abbia in gloria), alle rimostranze e richiami da parte dello zio Canonico e di un'altro zio Franceschiello, per questo matrimonio fatto, dopo quanto era successo rispondeva: — Aspettate, e vedrete che quel giovane, (si alludeva a me) per la sua abilità nella vita, farà progresso e non gli mancherà mai nulla. Passarono 7 mesi, e già i preliminari di pace da parte di zio Sabino (segnatamente l'amico suo intimo Compare Fusco) si avvicinarono a me per persuadermi a fare la pace, toccando il mio debole, la moglie di zio Sabino, la buona zia Angelarosa, sorella di mio padre. Ma io non volevo più saperne. Avevo saputo che il lavoro del buffet era fortemente aumentato, e malgrado avessero preso servizio due camerieri una cameriera, una sguattera, oltre il cuoco, non potevano arrivare, e tutti rubavano. Ebbi pietà di loro e pensando anche quanto avevano fatto per me, creandomi una famiglia, finii per accettare, e tranne mio padre che seguitava il suo mestiere, e mia madre che con la cameriera vigilava cinque camere mobiliate nel palazzo Alvino, che avevano nove ferrovieri a pensione, io, mia moglie e le mie sorelle, ci riunimmo con zio Sabino e zia Angelarosa. Per ragioni di economia, cambiammo casa. Io e mia moglie due camere al secondo piano, alla casa di Giordano (Melella); e dove sta ora la trattoria di Melena presero alloggio mio padre, mia madre e mia sorella.
Mio zio Sabina e mia zia Angelarosa fiatarono la casa al secondo piano dove sta ora il bar di Umberto Avagliano, compreso di tre camerette e cucina. Le tre camerette furono utilizzate per piccolo albergo, mentre la piccola cucina fu adibita per camera da letto di mio zio e mia zia, cucina umida, che a stento conteneva i1 letto. Avevo pietà dei miei zii nel .modo come si erano potuto adattarsi, ma intanto andava in certo qual modo pareggiare il bilancio molto passivo. Quanti sacrificii, quante privazioni, è inutile descriverlo, eppure ringraziavo sempre la provvidenza. Eravamo arrivati a1 gennaio del 1903 e sembrava che le cose
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si appianavano per il meglio, ma il lato finanziario era sempre ristretto. Il 20 aprile 1903 un'altra tegola mi doveva ancora cadere sul capo. Mia moglie Vincenzina si ammalò di tifo, dibattendosi fra la vita e la morte per tre mesi. Fui costretto far venire sua zia Filomena da Montefusco, colei che per tanti anni gli aveva fatto da madre, e dovetti allontanare i bambini Amato e Sabino, inviandoli a casa di mia madre, perché il medico curante aveva proibito in modo assoluto che fossero rimasti nella medesima casa, anzi proibirono anche a me di coricarmi nel medesimo letto. Ma questo era assurdo, perché non avevo la forza di allontanarmi, anche a costo di morire insieme a lei, tanto più che il suo desiderio era quello di essere fatto ogni cosa da me, iniezioni, disinfezioni, somministrazioni di medicinali ecct., e salivo e scendevo centinaia di volte le scale, sia per attendere il mio lavoro al buffet, sia assistere amorevolmente a lei, notte e giorno. Questo è niente: la cosa più ;tragica, mancavano i saldi per comprare i medicinali, i miei modesti capitali, nel commercio di porcellane e cristalli erano esauriti, a mio zio non potevo chiedere dippiú, perché sapevo le sue condizioni, ed allora pregai un fornitore di vino, certo Iandiorio di Montefredane, di mettermi una firma ad una cambiale di lire 200 e passarla a una banca chiamata « Credito Irpino », firma che mi accontentò, per non rifiutarsi, però ebbe cura di avvisare segretamente il Direttore di quella banca di non far passare quella cambiale allo sconto. Io intanto tutti i giorni facevo la via crucis da Avellino alla ferrovia per incassare quelle lire 200, e mi portavano in giro: oggi, domani. Finalmente un mio amico, impiegato su quella banca, mi disse segretamente tranello, che quell'amico a cui avevo pregato per la firma, mi aveva fatto. Non sapendo a chi Santo dovessi rivolgermi, presi di nascosto tutto l'oro di mia moglie (dico di nascosto, perché sapevo che lei era contrario a farlo pignorare) e lo pignorai ricavandone lire 350, giurando a me stesso che a qualunque costo prima che lei si fosse alzata, avrei messo a pasta il suo oro. Erano passati due mesi, e per fortuna era passata fuori pericolo, però era diventata uno scheletro perfetto. Ero felice che il pericolo era scomparso, quando venne a supporazione una iniezione fatta, e dovette avere un taglio, taglio che fu una fortuna (malgrado prorogasse di molto la sua convalescenza), perché da quel taglio usci tanta materia d'infezione da riempire due catinelle. Occorsero delle forti cure ricostituenti perché cinquanta giorni dovette alimentarsi di acqua del Serino e latte d'asina. Per i cibi a lei adatti durante la convalescenza non me ne mancarono al buffet.
Fortuna, nella sfortuna, sognai un sogno, e siccome non ero stato mai amante del giuoco del lotto, giuocai quattro numeri, che non ricordo, e ne usci fuori un terno, che data la modesta giocata di 30 cen-
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tesimi presi lire 275. Fu la mia salvezza: raggranellai il resto della somma, e riscattai ii pegno mettendo a posto l'oro prezioso, che avevo come un ladro prudentemente trafugato. Credetemi, non esagero, vi sono stati momenti molto umiliativi nella mia vita, ma in compenso la Provvidenza, mi ha dato come contropartita, delle grandi soddisfazioni, mi sono sempre forzato a mantenere quel prestigio che ad ogni uomo onesto s'impone, sobbarcandomi ad ogni specie di lavoro, pur di avere l'orgoglio, che col mio sudore, dovevo portare avanti la famiglia. Purtroppo però per tante difficoltà, avevo bisogno di essere coadiuvato da mia madre, dalle mie sorelle e dalla moglie: queste erano per me delle grandi umiliazioni, perché avrei voluto lavorare solo, ed avere la soddisfazione di dire: Ho io il dovere di portare a casa il necessario. Ma tante cose nella vita non si possono avere, però ricordo ai miei figli (se qualc'uno è ancora scapolo) all'epoca che leggeranno, se pure leggeranno, queste noiose mie memorie, di scegliere bene la compagna della loro vita, una donna che abbia delle doti, non importa se non ha dote, perché solo la buona compagna è capace a farci progredire ed a guidarci, ed a sopportare con rassegnazione il travaglio continuo della nostra vita, piena di dolori, di sagrificio, di privazioni.
Si era arrivato al 1904 e le cose del buffet si avviavano ad un lieve miglioramento, e in quell'anno mio zio Sabino ricevette dal Brasile da un suo cognato, marito della sorella, una rimessa di lire 2.800 con preghiera di comprarci una casetta, perché il loro progetto era quello di vdlersi rimpatriare con la famiglia. Questa rimessa fu di un gran sollievo, perché mio zio Sabino, profittando ohe vi era una pianta disponibile (l'attuale fabricato) alla ferrovia, pensò di iniziare il lavoro, e costruire un fabricato, composto di dodici vani, oltre i scantinati. Si iniziarono i lavori, vennero altre rimesse dal Brasile fino a raggiungere la somma di lire 8.500. La casa fu ultimata, e con l'appaltatore Maiali padre fu stabilito che la resta dell'importo del fabricato venisse pagata in tre annualità. Mio zio Sabino e mia zia Angelarosa si stabilirono nel nuovo fabricato, e segnatamente nella camera attuale n. 8 col balcone prospiciente sul piazzale della stazione, ed il resto delle camere per uso di albergo. Io, Vincenzina mia moglie e i due bambini Amato e Sabino ci trasferimmo al palazzo di Ciro Alvino al primo piano. Si lavorava, e s'intravedeva un futuro miglioramento finanziario. -
In quell'epoca, non so per quale ragione, ci fu una grande immigrazione, e tutte le sere arrivavano con i due ultimi treni da Napoli venti-trenta-quaranta immigranti della nostra provincia, che dovevano ripartire l'indomani, e quindi costretti a mangiare, e pernottare alla stazione di Avellino. Io avvalendomi del buffet, internamente mi rimorchiavo a fila indiana quest'immigrarti, (come un facchino accaparratore) e con una
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valigia pesante li precedevo, e tutti mi seguivano attraversando la sala da pranzo del buffet, dove erano raccolti amici ferrovieri. Ed a proposito, quando mi vedevano passare, cantavano la canzone:
Ma nun songo li bellizzi
songh'e tratti ca tu tiene (I).
Li facevo sedere, ordinavo dei maccheroni, carne e vino, gli mettevo una bottiglia di vino di tre quarti per ogni persona, avendo cura di mettere ad ogni uno dei bichieri grandi, ed alle loro proteste, che il vino era troppo, una bottiglia per ciascuno, io gli rispondevo: — Si paga a consumazione —. Ma intanto, le bottiglie erano di tre quarti, i bi-éhieri erano grandi, le bottiglie si vuotavano presto, e facevano i bis diverse volte. Per me era un lavoro enorme, perché quelli che arrivavano col treno di mezzanotte, bisognava lavorare fino alle due di notte. Alle quattro dovevo riaprire il buffet, quindi il mio riposo era di due ore su di un materasso messo sopra un tavolo, in quella piccola stanzetta umida, che a quarant'anni fu la causa della perdita di tutti i miei denti. Però di contro a tanto lavoro e tanti sagrifizii, vi era l'incoraggiamento del guadagno. Io facevo il fattorino accaparratore di albergo, io il f acchi-no, io il cameriere, io il padrone: mi trasformavo a secondo del bisogno. Ti guadagno era soddisfacente, perché mentre noi si lavorava con centesimi, questi immigranti pagavano con dollari, che in quell'epoca i'l dollaro quotava lire 4,20 italiane. Il bello era, portavo le valigie internamente dalla stazione al buffet e mi regalavano; li servivo a tavola, ed avevo la mancia; li accompagnavo in camera (portando le valigie), ed avevo altre regalie. e mia zia Angelarosa, mia moglie Vincenzina, mio zio Sabino in cucina ridevano a crepapelle, per tante mie trovate, per tante mie barzellette. Una sera arrivarono trentadue immigranti, che dal loro vestire avevano l'apparenza di essere molto ricchi (sempre cafoni). Tutti allegri mangiarono e bevevano a profusione, regalavano senza parsimonia. Ebbi uno dei momenti miei, che alla mia età (malgrado i disagi) tanto ini distinguevano.
Nella sala da pranzo vi erano i seguenti ferrovieri, che tutte le sere si divertivano: un capotreno, chiamato Cuomo suonava la chitarra; un macchinista, Durante, suonava il violino; un frenatore, Pirone, cantava con una bella voce delle canzonette napoletane, e un fuochista che aveva la faccia della fame, tutti in abito borghese, con cappelli o berretti civili. Mi presentai a loro ,e dissi: — Questo è il momento di far denari, prendete i vostri strumenti, passate dal piazzale della ferrovia e entrate come suonatori ambulanti —. Al fuochista (che aveva la faccia della fa-
(1) Ma non sono le bellezze, sono i modi che tu hai.
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me) gli diedi un piattino, e dopo pochi minuti entrarono chiedendo il permesso a mio zio Sabino proprietario, di suonare. Credetemi, fu un successone. Quando usci il fuochista col piattino, non lo dimentico mai, raccolse lire 41 che in quell'epoca era una forte somma. La buonanima di Vincenzina, mia moglie, e lo zio Sabino e zia Angelarosa, non potevano fare a meno di commentare le mie gioviali trovate. Quanta ero felice.
Nel gennaio del 1905 rimpatriarono dal Brasile il cognato di mio zio Sabino con la moglie e tre figli, e naturalmente si piazzarono in casa nostra a mangiare e dormire. Ne avevano il diritto, perché mio zio doveva a loro, se si era costruito la casa. Intanto il mio dubbio incominciava a rodermi il cervello, pensando che questi nipoti, due donne e un maschio, giovanotti, potevano farmi dare lo sgambetto, per piazzarsi loro con lo zio, e io con moglie e due figli potevo trovarmi sul lastrico. Affidai il mio destino alle preghiere, ed una forza occulta mi fu di sprone: diventai dinamico, instancabile, e con il lavoro enorme che si era venuto a creare si aveva bisogno di aiuto, di altro personale, e naturalmente mio zio Sabino cercò utilizzare i suoi parenti, che tornati dal Brasile erano diventati tanti parassiti, non sapevano e non volevano far niente. Mio zio Sabino, col suo occhio clinico, guardava la situazione, e lui stesso vedeva la differenza che cassava fra me e loro: io che abbracciavo con passione tutti i disagi, il lavoro, i sagrificii, e loro, apatici, pensavano a mangiare, bere e dormire. E naturalmente, col mio lavoro, con le mie privazioni di sonno, di divertimento, di riposo, e con lo sprone di mia zia An-gelarosa verso il marito (con questo vi è un antico detto, che bisogna essere sempre il parente della Regina e non _del Re), feci breccia nell'animo di zio Sabino, diventando il suo beniamino, e non ebbe lui né il coraggio, né la malvagità di cambiare quell'affetto sincero verso di me.
Intanto però mio zio Sahino cercava una soluzione per liberarsi di cinque persone adulti, che da diversi mesi erano a suo carico, incapaci di mettere, o spostare una sedia da un punto all'altro, ma che in sostanza avevano un certo diritto perché dall'America avevano inviato del denaro, per costruirsi o comprare una casa. E tutto questo non era una cosa facile.
Mio zio Sabino possedeva una casa dopo il palazzo Maioli prima del ponte dell'acquedotto del Serino, composta di quattro vani ed ac-cessorii, e su questa casa era stata ipotecata la dote di mia moglie Vincen-zina. Ed un giorno, profittando della malattia di mio zio Sabina, gli suggerii che la questione dei parenti brasiliani si poteva risolvere nei modi seguenti: cedere a costoro la casa di quattro vani, su cui era gravata l'ipoteca, facendo passare detta ipoteca alla casa fabricata di recente alla ferrovia, naturalmente con una deliberazione del Tribunale, trattandosi di ipoteca dotale.
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Dopo numerose e difficili pratiche, ottenni tale deliberazione: fu ceduta questa casa, dando a contanti la differenza, e con sollievo mio e dello zio Sabino ci liberammo dei parenti parassiti brasiliani, i quali pensarono a vivere per conto loro. Un figlio era barbiere, una figlia sarta, la quale si sposò un sarto di Pianodardine, e dopo poco tempo uno dopo l'altro emigrarono nell'America del Nord.
I1 1906 mio Zio Sabino ebbe un forte attacco di gotta, e i medici gli consigliarono la cura di bagni caldi e stufe a Casamicciola, e per la prima volta mio zio e mia zia affidarono a me casa, albergo, e buffet, partendo entrambi per Casamicciola [il...], restando ventidue giorni fuori.
Debbo la mia fortuna ad una circostanza. La stazione di Avellino e tutto il piazzale, era sfornito di luce elettrica (malgrado che la nostra città fosse stata la prima dopo Napoli avere la luce elettrica), e l'amministrazione ferroviaria venne nella determinazione mettere un impianto colossale di acetilene per la stazione e per tutto il piazzale, e fu stabilito il collaudo e l'inaugurazione il quarto giorno che i miei zii erano partiti per la cura. L'ingegnere capo della società degli impianti acetilene volle offrire un pranzo al Capo compartimento e a diversi pezzi grossi delle ferrovie: un pranzo abbastanza lussuoso. E d'accordo con me e il cuoco (che era di un arte ed una abilità, in cui potevo benissimo affidarmi), mi diedi da fare comprando quanto occorreva, compreso dei vini rari e lo spumante della nostra molto rinnomata (in quell'epoca) R. Scuola Enologica, [e] pesce speciale da Napoli. Ed il pranzo riuscì imponentissimo, dall'antipasto al dolce, dalle numerose portate, ad un gelo speciale: nolleggiai due camerieri per il servizio inappuntabile. Fui chiamato dal Capo compartimento ed a tavola, in presenza di tutte le autorità, volle complimentarsi con me, dicendomi: — Ma come avete potuto fare per mettere insieme tante rare e primizie portate? — Ed io di risposta, con il mio sorriso abbozzato: — Commendatore, sono i piatti del giorno —. Senza sapere che i piatti del giorno si riducevano in fagioli e baccalà, tanto che il Capo stazione titolare, il giorno dopo, prima si congratulò con me e con il cuoco, e poi mi disse: — Caro Angiolino, solamente la faccia tosta tua poteva avere quella spudoratezza di dire: Sono i piatti del giorno, Commendatore!
Dimenticavo dire che per l'occasione avevo fatto stampare su diversi cartoncini il menù stampato a lettere d'oro che feci distribuire ad ogni singolo invitato.
Il pranzo fu pagato dalla società dell'impianti ad acetilene molto profumatamente; ed al cuoco e personale, delle laute mancie. A que- ,st'inipianti, ne seguirono molti altri dove non vi era la luce elettrica e per conto della società, che aveva bisogno di reclame, e indirettamente me ne vantaggiai anche io: fu pubblicato in tutti i giornali di Napoli, e
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qualche giornale di Roma, l'inaugurazione e il menù del pranzo, facendo gli elogi al proprietario mio zio Sabino Tammasetta.
Comprai i diversi giornali e l'inviai a Casamicciola, e in una busta gl'inviai un cartoncino stampato in oro del menù. Sapevo, ed ero certo, dato il temperamento di mio zio analfabeta e molto vanitoso, che avrebbero fatto su lui un piacere, che mai in vita sua aveva ricevuto.
Al ritorno di mio zio e mia zia da Casamicciola, vi fu una festa in famiglia, e di me non poteva soddisfarsi di complimentarmi, ed elogiarsi. E dal giorno che tornarono mi chiamarono in disparte e mi dissero queste testuali parole: — Da questo momento, cediamo a te le redini dell'azienda, vogliamo lavorare lo stesso, ma sarai tu responsabile, direttore —. Perciò nei pochi righi qui avanti vi dicevo che debbo la mia fortuna alle circostanze del pranzo, che cementarono l'affetto tra me e mio zio Sabino, che nel 1907 fece il testamento a mio favore, mercè sempre l'interessamento del compare Ciro Fusco.
Lascio a voi descrivere la mia gioia e quella di Vincenzina mia moglie, che vedevamo sicuro coronato il premio dei nostri sacrificii, del nostro lavoro, e perché no? delle nostre privazioni. E dico privazioni, perché non ho voluto descrivere minuziosamente qualche difetto di mio zio Sabino, difetto sopportato da me e dalla povera mia Vincenzina con francescana rassegnazione, poiché mentre ai clienti che non pagavano gli si dava da mangiare, bere, dormire, sigarette e servitù, a noi veniva lesinato un poco di caffè nél latte per i bambini, Amato e Sabino, e che la madre doveva mandare a comprare 4 soldi per volta, dal padre di Esterina, Nicola Magliaro, che aveva negozio ad Atripalda. E quanti pianti a tavola, perché i piccoli Amato e Sabina non gli piaceva il formaggio (mentre oggi ne vogliono una grattugia) e dovevano mangiarselo per forza. La carne la mia povera zia ce lo doveva dare di nascosto, e tante e tante altre cose, che non vale la pena elencarle.
Prego i miei nipoti di prenderne atto, non esagero...
Si era arrivato nel 1908. E' vero che era pieno di responsabilità, gli affari progredivano giorno per giorno, le cambiali ed altri debiti venivano gradualmente eliminati, avevo anche eliminato i clienti morosi. Chi non pagava alla fine del mese, non aveva più niente, le cose andavano normalizzandosi poco per volta, lavoravo molto dippiù, ma ero tanto felice, perché incominciavo a sentirmi un poco più sicuro del mio avvenire, o meglio dell'avvenire dei miei due figli. Avevo trent'uno anno, con tanto lavoro di vent'anni e con figli grandicelli, non ero ancora proprietario di un pacchetto di sigarette. Avevo estinto il debito dello zio Francesco Bocchino, il residua del mio commercio delle terraglie lo avevo dato al mio povero padre, per farlo continuare a vivere, eppure ero tanto tanto felice. Ricevevo solo dei rimproveri dalla mia povera Vincenzina
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mia moglie, perché lavoravo troppo e tutte le sere mi ritiravo pieno di sudore, anche nei mesi freddi. Pensavo tra me e dicevo a me stesso: — Con questa vita che faccio, morirò presto —. Invece il destino, la Provvidenza non mi abbandonava: al momento che scrivo ho sessantasette anni, seguito a lavorare, seguito a vivere.
Intanto la salute di mio zio Sabino peggiorava giorno per giorno per la malattia di gotta che soffriva, e il 18 febbraio del 1909 morì, lasciando nel dolore la moglie zia Angelarosa, noi tutti e tutti coloro che lo avevano conosciuto, e che a tutti aveva beneficato. Effettuai dei solenni funerali, e ottenni, previo pagamento, il permesso di sotterrarlo in una tomba della famiglia Labruna, e siccome detta tomba era di diversi eredi, il 2 novembre dello stesso anno poco ci mancò di prendere a schiaffi una signora condomina di tale tomba, che non voleva permettere che mettessi fiori e accendessi dei ceri. Non mancai comprare una nicchia che a quell'epoca (date le mie condizioni finanziarie) era già una cosa di lusso, accarezzando sempre un sogno, che poi divenne realtà, di far riposare le sue ossa eternamente in una nicchia di una nostra cappella gentilizia.
Da quell'epoca incominciò una vita nuova per me; piena di sacri-ficii e piena di responsabilità. Fu necessario trasferirmi dal palazzo Alvino alla casa da poco fabricata, e precisamente nella camera n. 8 abitata dal defunto zio Sabino, e alla stanzetta attigua n. 7 si trasferì la zia Angelarosa, con i miei due figli Amato e Sabino, mentre nel basso, dove attualmente esiste la trattoria di Melella Giordano, abitava mio padre, mia madre, e le mie due sorelle, tornate da S. Giorgio del Sannio.
Il lavoro del buffet era di molto aumentato: poco per volta pagai tutti i debiti lasciati dal mio povero zio, fino all'ultimo centesimo, perché non volevo che si parlasse male di mio zio defunto. Posso garantirvi che la mia felicità era completa, lavoravo con la mia povera moglie Vin-cenzina senza limiti.
Nel novembre del 1909 avvenne un forte diluvione nella provincia di Salerno, producendo fortissimi danni, con la caduta di un ponte ferroviario e con la distruzione di parecchi chilometri della ferrovia. E proprio in quell'epoca vi doveva essere un forte passaggio di truppe che dovevano prepararsi per la Libia, e tutte queste truppe dovettero passare per molti giorni per Avellino, finché non fosse riattivata la ferrovia nel Salernitano. Descrivervi il lavoro per noi, giorno e notte è impossibile. Mentre il giorno si lavorava con i pranzi per gli ufficiali ininterrottamente, la notte si doveva lavorare con la truppa, fornendo vino in fiaschi e liquori. Mobilitai diversi ragazzi e, insieme a me, svegliavamo tutti i soldati, e tutti acquistavano vini, liquori e panini imbottiti. Basti dirvi che dopo un anno dalla morte di mio zio, avevo non solo pagato tutti i
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debiti, rifornito abbondantemente il buffet dai migliori salami di Modena ai formaggi di ogni specie, ai vini pregiati di Chianti, ai migliori liquori. Avevo in cassa come riserva lire 6000, somma favolosa per quei tempi, e che al momento che scrivo non si può comprare neanche un paio di scarpe modeste. Eravamo tanto felici, che abbracciavamo il lavoro a piene mani.
L'anno 1910, e precisamente nel mese di maggio, si ammalò il mio povero padre con un forte dolore nelle costale che non gli dava tregua. Fu giuocoforza trasferirlo nella casa nuova al n. 5, per non dare l'impressione che i medici per visitarlo dovevano entrare in quel basso umido, ed intanto diversi medici non sapevano decifrare la natura di quel male. Finalmente dovetti decidermi far venire da Napoli uno specialista che si decise fare qualche puntura, e pare che il 20 giugno migliorava leggermente, e che mi lasciasse intravedere qualche speranza. Come se non bastasse la mia preoccupazione per lui, si ammalò la mia povera Vin-cenzina. Dopo visitata mia moglie, mi disse queste testuali parole: — Per vostro padre uniformatevi che non vi è speranza: la sua miglioria è fittizia. Per vostra moglie, è cosa da nulla: fra pochi giorni lascierà il letto —. Però a questa proposito, con mio sommo rincrescimento, debbo incolpare mia moglie per certe sue stranezze (e credo che dall'altro mondo voglia perdonarmi). Per economia di poche lire volle chiamare il Dottore Alvino di Atripalda, in luogo del Dottore Festa di Avellino, nostro medico curante. E pare che questo Dottore Alvino gli abbia somministrato delle cartine astringenti credendo fosse diarrea, mentre era un emoraggia interna. Certo, o il destino crudele, o la fatalità di un errore, la mia povera Vincenzina alle ore 22 del 1° luglio volò la sua anima al cielo, lasciando nel più duro dolore a me e i poveri figli in età che avevano ancora bisogno della guida amorosa e materna. La cosa più tragica, che dovemmo nascondere al mio povero padre la grande sventura che mi aveva colpito, perché mio padre voleva piú bene a lei, che a me. Ma al mattino seguente, il 2 luglio, i gridi e i pianti dei poveri figli Amato e Sabino (che io la sera prima avevo fatto allontanare, inviandoli a casa di mia madre) e tutti i parenti di Montefusco, fecero intravedere la realtà della sventura al mio povero padre, che mi volle al suo capezzale, e fondere le mie lacrime alle sue. Mio padre che (secondo il Dottore Aufieri) doveva morire, visse ancora ventotto giorni, e quel santo uomo che sopportò con tanta rassegnazione le sue sofferenze, per non arrecarmi altri Mori, tutte le volte, e dieci minuti prima di morire, alla mia domanda, come si sentisse, rispondeva: — Molto meglio, figlio mio —:
Povero padre, povera moglie! Chi può descrivervi il dolore, che cosa può essere una disgrazia simile? Perdere in ventotto giorni di distanza i due esseri più cari, la moglie di un primo amore a 38 anni, e il padre
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bello, roseo più giovane di me a 63 anni. Che anno, 1910, non l'auguro a nessun mortale nemico!
Cercai allontanare i miei figli inviandoli a Montefusco, ma dopo pochi giorni ritornarono, volevano almeno rinfrancarsi dell'affetto paterno dopo di aver perduto quello materno. Sabino si lasciò convincere andare a Solofra da un nostro compare, che eravamo legati come fratelli, ma dopo pochi giorni si ammalò di scarlattina, dibattendosi fra la vita e la morte, tenendomi nascosto ogni cosa. Una domenica volli andare a trovarlo, e quale fu la mia sorpresa vederlo seguire scalzo, con un cero acceso, ad una processione, perché era una festa e la commare di Solofra gli aveva fatto fare un voto se si sarebbe salvato, e came infatti si salvò.
Così si chiuse il primo episodio della mia vita travagliata che non conobbe altro che lavoro sacrificii, privazioni, e che avrebbe dovuto godere qualche poco di felicità. Rimanere privo di un padre che mi coadiuvava, e la moglie che mi seguiva nel lavoro fino all'eroismo! E giuro che al momento che scrivo questi tristi ricordi, e che son passati 36 anni, mi si chiude la gola come se volessi strozzarmi per un rimorso (che mi rimarrà eternamente), se rimorso si può chiamare, per non avere avuto la possibilità, di far godere le due vittime del lavoro dei sacrifici, delle privazioni. E di tanto chiedo perdono a Dio ed ai miei cari scomparsi, se qualche lieve colpa vi sia da parte mia, indipendente dalla mia volontà.
SECONDO EPISODIC DELLA MIA VITA
Dopo l'anno tragico, o meglio il giorno triste due luglio 1910, rimasto solo con mia madre, le due sorelle e i miei figli Amato e Sabino, e la buona zia Angelarosa, con l'azienda (divenuta importante) del buffet e dell'albergo, molte responsabilità si aggravarono su di me. Tirai avanti alla meglio per tredici mesi lavorando con maggior lena, sia materialmente, sia moralmente, ritirandomi a notte alta, cercando riposare due tre ore. Ma era un riposo, senza conforto, senza una persona cara che mi comprendesse, aumentando così il mio morale abbattuto, che non trovava pace. Ed un giorno del mese di agosto di quell'anno venne per quattro giorni da Montefusco zio Franceschiello, il quale voleva molto bene a me ed alla buonanima di Vincenzina sua nipote carnale. E nel trattenersi con me, un giorno mi chiamò in disparte e mi disse: - Caro Angiolino, tu sei giovane, dato la tua azienda, con due piccoli figli, difficilmente potrai rimanere solo, e al solo pensiero che un giorno i miei nipoti dovrebbero
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passare sotto la guida di un matrigna, e questa dovesse maltrattarli, io ne morrei di dolore. Tu devi sposare mia nipote Amelia, se lei acconsente, e se il padre Cariuccio non trovasse difficoltà. — Infatti ne parlò a lei ed al padre, e dopo avere avuto da lei il consenso, il padre rimase li per 11 perplesso, e si riservò dare qualche risposta.
La piaga del dolore era sempre ancora aperta (ed a questo proposito debbo chiedere perdono ai miei primi due figli, se mi accingevo a dare questo passo molto [in]tempestivamente, profanando così presto la memoria di colei che fu il primo amore).
Certo però, e questo posso giurarlo, che mai e poi mai mi sarei sposato in seconde nozze, con un'altra donna, al solo pensiero che mi avrebbe maltrattato i due figli, che per lei erano estranei. Passarono ancora tre mesi, e il padre diede il suo consenso, ma sempre con titubanza. Si andò avanti cosí, ma io mi avvedevo che le cose del buffet non andavano troppo bene, e che cuoco, cameriere e persone estranee dovevano sottrarmi della merce, perché vedevo dal mio bilancio anche mensile, che non potevo continuare. Tirai avanti per tredici mesi, e mi decisi lasciare il buffet, vendendo tutti i suppellettili al mio successore Avagliano padre, rimanendo solo l'albergo con l'accordo col nuovo proprietario, che ci saremmo scambiati i clienti da me per dormire e da lui per mangiare. Rimasi per due mesi senza far nulla ma pensai subito, che se avessi continuato cosí, la mia vita sarebbe stata breve, poiché da una attività intensa, non si può passare ad una passività completa. A questo si aggiunge anche la riprovazione del mio futuro suocero per questo secondo matrimonio, perché pensava che sarei rimasto in mezzo a una strada. Mi diedi da fare, chiamai Raffaele Petrillo, padre di Orlando, e feci fare i scaffali alla meglio, per iniziare alla meglio la vendita di coloniali, liquori, riso, pasta e olio. Possedevo un capitale liquido di circa 10 mila lire, somma colossale per quell'epoca, e il mio programma fu quello della pasta alimentare: vendere tale articolo quasi a prezzo di costo, come specchio per le allodole. Mi portai a Gragnano e mi presentai dai fratelli Parlato, uno dei primi pastificii di Gragnano, famoso per esportatore in America in quell'epoca, ed ottenni l'esclusività per Avellino e provincia ordinando q.li 20 per volta, ed ottenendo non solo la medesima qualità per esportazione che Avellino non aveva mai mangiato, ma anche delle piccole cassettine per famiglie assortite di kg. 10. Mi portai a Napoli e feci la prima grande commissione e cioè di kg. 5 di caffè per ogni qualità al prezzo di lire 2.40, a 2.70 il chilo, zucchero a 68 centesimi, riso a 22 centesimi, e altri articoli.
Iniziai la vendita della pasta esportazione di Gragnano a 48 centesimi al chilo, quasi a prezzo di costo, e fu tale un successone che tutti i giorni affluivano dalla città diecine e diecine di carrozzelle
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(che allora si pagava cent. 50 la corsa) e caricava ogni famiglia pasta zucchero, riso, olio, liquori, cioccolato, biscotti, sapone, ecct. Le mie previsioni, come sempre, furono superiori ad ogni mia aspettativa, non ho mai dimenticato il famoso motto Volere è Potere.
L'appetito viene mangiando, pensai di diventare grossista, mi nauseava la vendita a minuta, e mi riuscí, come in seguito vi descriverò.
Dopo 18 mesi circa di vedovanza e precisamente il 11 [corr.: 131 novembre del 1911 passai in seconde nozze, iniziando una vita molto piú lavorativa, ma piú ordinata. Feci il mio secondo viaggio di nozze con piú agiatezza del primo, fermandomi due giorni a Napoli sette giorni a Roma. ove in quel periodo vi era una Esposizione Coloniale, ottenni, tramite il sarto Pietro Bonito di Montefusco, residente a Roma, una. camera (via Lucrezic Caro, 47), per lire 3.30 al giorno: camera da letto, salottino e caffè latte al mattino. Si usciva alle 8 del mattino e ci ritirammo alle 16. Si andava a pranzo alla « Rosetta », ai « Tre Re », dove si era servito con lusso, e i vermicelli o tagliolini in brodo costavano cent. 25 la porzione. Quello che ci faceva da guida era il povero Luigino Spagnuolo. Dimenticavo dire che dopo sposati, partimmo da Avellino diretti a Napoli, in una automobile di lusso appartenente al Duca d'Aosta padre, e che per amicizia di un parente di Amelia avevamo avuto regalando solo lire 100 all'autista. La prima volta che andavo in automobile.
Durante la nostra assenza, il magazzino di vendita fu portato avanti dalla zia Angelarosa e un ragazzo garzone. Dimenticavo dirvi che l'inizio fú meschinissimo: il vano davanti con l'entrata sul piazzale della ferrovia fu diviso in due quello davanti per la vendita, e l'altra metà adibito per cucina e sala da pranzo. Dopo il portoncino, quel vano che dopo fu adibito a studio, piantammo un salottino alla meglio dove fu celebrato con lusso il battesimo del primo figlio del secondo letto, Carlo.
Tornati dal viaggio di nozze, riprendemmo con passione il nostro lavoro. Zia Angelarosa e Amelia erano in poco tempo diventate maestre nel loro compito, ed io facevo il mio giro per gli acquisti. Come tutte le iniziative mie, anche questa fu coronata con molto successo, e gli affari andavano a gonfie vele. Il lavoro intenso era la pasta, e quasi tutte le sere si dovevano vuotare e selezionare quindici-venti casse, ed i tre artefici ero io, la mia povera Amelia e mio figlio Sabino, il quale fin da piccolo aveva una passione per il commercio, e di scuola era poco appassionato; figlio che in questo momento benedico e lo addito ai fratelli tutti, ai figli, ai nipoti, come esempio di lavoratore, onesto ed obbediente, mai un dispiacere, mai un rifiuto ai suoi doveri. Con questo non voglio menomare l'affetto
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per gli altri figli, che per un buon padre rimane sempre uguale per tutti, anche se in momento di narrazione se ne voglia tessere qualche elogio.
Dal principio del secondo matrimonio non fu il solo negozio che fu causa della mia ascesa a gradazione, ma furono molti i sagri-ficii: due sole camere per dormire, una per noi ed un'altra piccola (che fu adibita dopo per salotto) per la zia Angelarosa, e i figli Amato e Sabino, e tutto il resto della casa adibita per albergo, che ci ha sempre fruttato abbastanza, oltre tre quartini al palazzo Alvino di fronte, che fittavamo, a camere mobigliate, che la mia povera mamma e una persona di servizio ne curavano la manutenzione. La nostra vita fu sempre piena di sagrificii, di lavoro, di privazioni, essa non conosceva, nè concepiva il lusso, solo si affacciavano alla mente i primi due rimorsi (se così vogliamo chiamare) per la mia povera Vincen-zina e per il mio povero padre, che solamente quando era venuto il momento che potevano godere la vita, la falce crudele della morte mi vietò tale ambito desiderio.
Il lavoro, e gli affari aumentarono senza sosta. L'idea predominante di diventare grossista non mi dava tregua, interpellai la ditta Ciaburri di Napoli, grossista di coloniali e fabricante di liquori, per avere un poco di credito e fare ad Avellino un mezzo grossista, ma tale credito in un primo momento mi fu cortesemente rifiutato. Ed allora per due anni ancora tirai avanti col fornire a tutti i ferrovieri la merce che disponevo a credito mensile, e malgrado alla fin del mese vi fossero diversi morosi, (che man mano cercavo eliminare) gli affari prosperavano sempre in bene. I miei fornitori, (la ditta Ciaburri compresa, quella che mi aveva rifiutato il credito) vedendo die gli acquisti erano di molto aumentati, volle concedermi il credito di lire 750 con cambiali a 30-60-90 giorni. E quello fu l'inizio di iniziare la vendita all'ingrosso, per modo di dire, cioè qualche chilo per ogni articolo, ai piccoli dettaglianti.
Ero molto soddisfatto, avevo l'aria già di un grande grossista: dall'acquisto di kg. 5 cioccolato, incominciavo a ritirare dalla Svizzera (Compagnie Suisse di Lugano) i primi kg. 50 di cioccolato speciale a lire 2.60 il chilo franco Avellino con pagamento a 60 giorni tratta, e così per lo zucchero, caffè, pepe ecct. Durante questo periodo, la mia povera Amelia, zia Angelarosa si occupavano per la vendita a minuto perché erano diventate molto provette, ed io mi incaricavo per la vendita all'ingrosso, e per gli acquisti. La mia casa si allietò del primo figlio Carlo, poi Vincenzina che insieme a Umberto, e Mario venuti dopo, furono cresciuti su sacchi di pasta, farina, e persino nei tiretti del caffè, senza tante sottigliezze, né bambace, né
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paramenti di seta, merletti ecct., ma solamente con l'affetto materno e paterno: á. quali gioivano, lavorando e cantando. Che bei giorni felici! Si andò avanti fino al 1914, epoca che scoppiò la prima Guerra Mondiale, guerra sentita da tutto il popolo Italiano e verso la fine del 1914 e 1915 incominciò il panico, la mobilitazione generale, in seguito altri richiami ecct., tesseramento pasta, olio e zucchero. Si approssimava la chiamata di altre classi, e prevedendo anche la chiamata della mia classe mi diedi da fare, ed ottenni dall'Ente autonomo fornitore di quell'epoca (una specie di Sepral di oggi) l'incarico di
acquisto dei generi tesserati per detto ente, l'esonero.
Fu verso la fine del 1915 che incominciai a ritirare i primi vagoni di zucchero, riso, sapone ed altra merce in grande quantità: avevo già la veste di grossista, ma mi necessitava lo sbocco della vendita. Che cosa dovevo fare? compilare dei listini, farli stampare? Troppa spesa. Ed allora due tre ore per sera farli a mano, sotto la luce suppletiva di una stearica, compilavo centinaia di listini, piegandoli senza busta, e imbucarli. E gli indirzzi? Con un regalo ai compiacenti guardamerci ferroviari, e nei vagoni di transito, mi segnavo l'indirizzo segnato sui colli provenienti da Napoli, e da altre città, diretti ai rivenditori di provincia, e partivano. Naturalmente occorreva stimolare i nuovi clienti, e su ogni listino settimanale vi era segnato qualche articolo di largo consumo, un prezzo quasi al di sotto del costo: naturalmente tale perdita veniva compensata su altri articoli oscuri, o di lusso.
Ero felice, mi complimentavo con me stesso, lavoravo, smistavo la merce in arrivo, con le spedizioni in partenza, pulivo i vetri, i scaffali, cantando le canzoni dell'epoca, spesse volte la mia povera Amelia mi coadiuvava nelle canzoni e nel lavoro. Come eravamo f e-lici, pareva che tale felicità non dovesse avere mai tramonto. Lavoravo da solo, sempre tenacemente, ma ero pure coadiuvato dal piccolo Sabino, che a quindici anni pare che era piú incline al commercio, che alla studio.
Mi fu ordinato dall'Ente Autonomo di gestire uno spaccio per la vendita dei generi tesserati, cosa che dovetti accettare per forza, per non perdere il diritto di esonero al servizio militare, ma fu un grande guaio ed un forte lavoro, poiché oltre il lavoro della mia azienda già molto bene avviato, dovevo occuparmi della fornitura di quasi 600 famiglie, ed alla sera dovevo prepararmi ogni cosa, e cioè pacchi di pasta da 1-2-3 chili e così per lo zucchero. Però la sera ero aiutato dalle figlie del controllore Venturi, che eravamo più che parenti e spesse volte la sera a mezzanotte si finiva a maccheroni aglio ed olio cucinati sapientemente da mia suocera o, meglio, zia Cristina.
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Si andò avanti cosí fino al 1916, venne il richiamo di mio figlio Amato, e fu per me un grande dispiacere, sia perché esso veniva tolto dagli studii, sia perché aveva solo diciassette anni, e fino a quella età non aveva conosciuto privazione, disagi. Fu destinato al 3° Genio telegrafista con destinazione a Firenze, perché io, prevedendo il suo richiamo, gli avevo fatto apprendere in ferrovia l'esercitazione all'ufficio telegrafico. Dolorosamente la sua partenza capitò verso la fine di giugno arrivando a destinazione il 1° luglio, anniversario della morte di sua madre. E ricordo la prima lettera scritta da lui che mi accennava di aver dormito sulla paglia, la prima volta, e la triste coincidenza di data, e fu per me il primo pianto e lo strazio doloroso di un figlio lontano. Però, sempre diplomatico, cercò tutti i mezzi di evitare fare le prime nozioni della recluta con i suoi disagi. Dopo tre mesi vi fu un corso allievi ufficiali a Caserta e lui, malgrado ch'io fossi contrario, fece domanda e frequentò tale corso, riuscendo ad avere una buona graduatoria. Non ricordo se da soldato o da ufficiale [partecipò] alla ritirata di Caporetto ove per quaranta giorni era disperso, e non ricevevo sue notizie e scrivervi lo strazio di quei giorni, è cosa vana. Un giorno ricevetti un telegramma che lui era su un treno ospedale diretto all'ospedale militare di Nocera Inferiore. Malgrado che facesse un freddo intenso, stabilimmo di partire l'indomani col primo treno, volle accompagnarmi Amelia e Carlo che in quell'epoca aveva cinque-sei anni.
L'incontro nell'atrio dell'ospedale fu commoventissimo quando, dopo di averlo fatto chiamare, ci venne incontro: io che pensavo che fosse ferito, invece era guarito da una lieve infermità (sempre diplomatico) aveva avuto l'astuzia farsi rimorchiare da Voghera in treno ospedale.
Ritornammo ad Avellino col cuore pieno di gioia , per avere abbracciato un figlio che credevamo morto, disperso o prigioniero.
Un'altra sorpresa. A casa era arrivata una cartolina per me, avvisandomi di passare la visita a Cava dei Tirreni. Certo incominciavo a preoccuparmi (malgrado ero sicuro, come innanzi detto, di avere l'esonero). Ma pensavo che se questo esonero andasse a monte, avrei dovuto rimanere l'azienda a due donne con due figli, di cui tre piccoli.
Andai a casa con altri otto della mia classe, di Avellino e provincia, e dopo di aver aspettato quattro ore vidi passare un Maggiore medico, mi avvicinai e dissi — Signor Maggiore, siccome siamo di Avellino, vi saremmo molto grati se ci visitaste al più presto: tanto la visita è inutile, perché se ci fondete tutti nove non riuscireste fare un soldato. — Facendo dello spirito, risultato: tutti abili.
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Comunque ebbi l'esonero, fui subito incaricato per gli acquisti. Da un mese la città era senz'olio, e in due giorni comprai ad Andria q.li 450 olio, dalla Sardegna 250 q.li di formaggio, tanto che ebbi un elogio dal Prefetto, il quale mise a mia disposizione fondi e personale. Ero soddisfatto, sia per l'esonero, che mi dava l'agio di guardare la mia azienda. La notte per me non esisteva, la passavo in treno, sui carretti, e pur di fare bella figura e in parentesi anche redditizia.
Come se non bastassero tutte le occupazioni, non tralasciavo coltivare le altre che si presentavano.
Una sera fioccava la neve a. larghe falde, si presentò un signore sulla cinquantina chiedendomi in francese una camera, e fu molto soddisfatto quando gli risposi anche in francese che potevo ospitarlo. Presi le sue generalità, e gli domandai che cosa fosse venuto a fare,
e con tutta la franchezza mi disse che doveva acquistare 4-5 mila q.li di vino. Allora gli risposi che ero mediatore di vino (cosa che non avevo mai esercitato) e lui tutto contento di essersi imbattuto in me che gli faceva da mediatore, e da interprete, perché non conosceva neanche una parola di italiano. Dal suo vestire dimesso non gli si attribuiva l'aria di un milionario quale effettivamente era, e mi raccontò tutta una storia. Nativo di un paese di confino con la Germania (Epinal) dove aveva due stabilimenti vinicoli, e un altro in Svizzera era stato espulso dalla Francia per tre anni (non gli domandai per delicatezza il motivo) e durante la guerra '14-'18 Epinal fu occupato dalla Barbaria Tedesca, che invase i due stabilimenti, saccheggiando centinaia di migliaia bottiglie di champagne, e centinaia di migliaia [di] ettolitri di vino. Due figli in guerra, e una sola signorina figlia, che ebbe l'astuzia di murare in uno scantinato denaro gioie
e titoli che possedeva. Volle condurmi a cena nel buffet, e mi accorsi che aveva per me già una simpatia. Il mattino seguente ci mettemmo in viaggio per i possibili acquisti di vino. Dimenticavo dire che lui si era diretto ad Avellino perché conosceva le pregiate qualità.
Nolleggiammo una carozza e ci recammo a . Pratola, Tufo, e Alta-villa, ma rimase poco soddisfatto per le qualità, perché voleva un tipo piú leggiero, allora gli consigliai di andare nel Nolano. Il giorno dopo ci recammo a Nola dirigendosi dal- comm.re Giugliano mio amico,
e dopo l'assaggio di diversi campioni, mi disse sottovoce che era ottimo. Prima di stringere l'affare mi riservai dal compratore e dal venditore centesimi 50 per quintale per ciascuno (in quell'epoca la mediazione era di soli 25 centesimi). Conclusero il contratto alla presenza di un avvocato per 5 mila quintali di vino al prezzo di lire 12.50 per q.le, messo in una stazione della Campania in serbatoi
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del compratore. Feci inserire nel contratto la mia spettanza e la gioia di aver guadagnato in tre giorni lire 5.000 mi fece dimenticare di far inserire nel contratto che tale mediazione mi doveva essere corrisposto per tutta la merce . che oltre i 5 mila quintali avrebbe caricato. Seppi dal capostazione di Nola amico mio, che in 19 mesi questo francese aveva caricato circa 70 mila q.li di vino. Certo per tre giorni di lavoro, per aver messo in contatto due persone guadagnando lire 5.000 (che sarebbero 100 mila di oggi) é una bella somma.
Sempre in quel periodo '14-'18, un mio amico da Roma mi scrisse se volevo interessarmi per la fornitura all'annona di Roma, diverse migliaia di quintali di patate, e diversi vagoni di fagioli, corrispondendomi lire due a quintale netto, segnalando telegraficamente il prezzo di acquisto, e spedire dietro conferma, vagoni valuta e sacchi a soddisfazione. Naturalmente col mio saper fare verso i compratori, ogni vagone rimaneva netto per me dalle 600-1000 lire. Dal settembre 1916 al dicembre 1917 caricai 156 vagoni: certo, un lavoro non indifferente, il giorno nelle campagne nostre e nel serinese ed alla sera l'andamento del mio negozio e spaccio comunale. Non conoscevo stanchezza, non conoscevo riposo, conoscevo solo la soddisfazione morale e il conforto che solo una moglie intelligente sa dare.
A titolo di cronaca, queste patate che spedivo a Roma venivano vendute dagli spacci comunali lessate a lire 0.60 il chilo, prezzo politico, perché costavano crude molto di piú. Non - voglio atteggiarmi a vittima del lavoro o del sagrificio, ma vi prego di credermi che se avessi quella età e quel conforto familiare, incomincerei da capo.
Che cosa non ho fatto in vita mia, tutti i mestieri, e tutti riuscivano a meraviglia, perché fatti con passione.
Utilizzai quei guadagni fatti col vino, patate o fagioli, nocciole, mele ecct. fabbricando il seguito a quello vecchio, — prevedendo la sistemazione dei primi figli Amato e Sabino, che si sposarono e furono sistemati. E nelle tre camere al primo piano del nuovo fabricato la prima fu adibita a salottino e passaggio, la seconda a camera da letto di Sabino, e la terza a camera da letto di Amato, mentre tutto il secondo piano fu esibito tutto per Albergo.
ANGELO MUSCETTA
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32405+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1964 Mese: 7 Giorno: 1
Numero 69
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1964 - 7 - 1 - numero 69


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