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tipologia: Analitici; Id: 1527733


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Carlo Muscetta, [Saggio introduttivo a] Angelo Muscetta, Memorie di un commerciante
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
MEMORIE DI UN COMMERCIANTE
Queste che leggerete sono le memorie di mio padre, il cav. Angelo Muscetta, morto ad Avellino a ottant'anni il 4 ottobre 1957. Le cominciò a scrivere sulla fine del 1943 e le interruppe qualche tempo dopo, forse nel '45.
Vorrei subito levarmi di mezzo, e dirvi solo che sono stato incoraggiato a stampare queste pagine dopo il collaudo di due lettori disinteressati, e di gusto e cultura diversissimi, come Eduardo De Filippo e Alberto Carocci. Ma è lecito fare appello al troppo comodo principio di autorità? Un critico, un professore deve pur spiegare per quale interesse oggettivo sia stato indotto a stampare queste cronache domestiche, riservate dall'autore alla ristretta cerchia dei suoi congiunti, «figlie, nuore, nipoti ecct. ». (Ma voi, andandovele subito a leggere, vi renderete conto da voi che non hanno bisogno di nessuna introduzione, così vitale é la presenza del protagonista e tanta è l'immediatezza delle cose che racconta, offrendoci il felice ritratto di una famiglia di commercianti meridionali durante l'età giolittiana).
Prima di spiegare perché le pubblico (dando a questo eccetera un'interpretazione estensiva, che forse, non sarebbe dispiaciuta al genitore) già mi sento chiedere come le pubblico, cioè se ci ho messo le mani io. Eccomi dunque impegnato ad un esercizio professionale in corpore carissimo. Cercherò di espletarlo con minima pendanteria, cioè col massimo rispetto per i lettori, per mio padre e per me stesso.
Queste memorie (il cui autografo sarà depositato presso la pedanteria, cioè col massimo rispetto per i lettori, per mio padre e pagine bianche di un bollettario del CONACER (Consorzio Nazionale Cereagricole) occupano 67 fogli non numerati. Solo in due
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luoghi, tra le carte 29-30 e 64-65, v'è traccia di fogli strappati: strappati dall'autore, perché è evidente la continuità del dettato, l'assenza di ogni raccordo posteriore. Sono i soli segni notevoli di ripensamenti. Rarissime correzioni o aggiunte di qualche parola spiccano nella scrittura chiara, posata, sicura. Ma se sono di scarsa importanza dal punto di vista stilistico, interessano per lo scrupolo di esattezza (corne certe rettifiche al numero dei « viaggi » di un trasloco o al numero dei giorni di una traversata, o alcuni spazi bianchi da colmare con una data accertata). Altre volte il narratore vuol rimediare allo scorso penna, o adeguar meglio l'espressione al contenuto, nell'intento di conseguire una maggior proprietà linguistica, talvolta è soltanto una sintomatica pretensione di forme cartacee preferite a quelle vive. Pochi son gli esempi tra quelli che mette canto di citare. Il « modesto lavoro » del padre è corretto in cc onesto » (c. 1); « ero stufo di qualche mio compagno» diventa «ero un pochino invidioso» (c. 4); «mettendolo» (c. 5) è sostituito da « adibendolo » (a un lavoro piú leggero); « rimase » (che in dialetto vale 'restò di Sasso') diventa « si commosse» (c. 14). Si tratta in gran parte di correzioni contestuali e immediate. Ma non mancano posteriori ravvedimenti ortografici (per es.: su traslogo, conge-deva, mangò, orologgio, ipotegata), che messi insieme a innumerevoli oscillazioni, talvolta nella stessa riga (come i progetti e si proggettava) mi hanno autorizzato a eliminare un distraente (e credo, non solo per me) fastidioso colorito grafico, dove molto spesso si riflettono tipici errori di pronuncia meridionale, e incertezze di terminazioni, lasciate indefinitamente alla buona grazia (come si dice da noi) dell'orecchio di chi ascolta.
Vi dirò, in un orecchio, che avrei dovuto intervenire in forme come incomingiammo e dimendicavo, perché nessuna oscillazione mi consentiva di uniformare correttamente. I difficillimi (per i quali decet philologum pedanticum non videri, sed esse) me ne biasimeranno. Peggio per loro.
Colui che scriveva era in ritardo di molti decenni per imporsi una disciplina ortografica. Mi sia risparmiato un bilancio della
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sua scrittura. A suo attivo è già tanto registrare che non «dimen-dica » mai le impeccabili uscite di certi plurali come « risparmii «principii » e simili. Se « terribile » per lui é terribbile, in compenso « visibile » è visibile. «Mensili » è sempre mensili; le cambiali sono qualche volta le cambiale. Se una volta gli scappa anal f abeto, poi sempre analfabeta. E non é detto che i vocaboli meno comuni siano scritti più scorrettamente. Dice i «paesi viciniori » e ironizza. su «i preliminari di pace» di un burbero benefico zio. Segni di buona volontà si notano perfino nei nomi italiani e stranieri, sicché Iclesias é raddrizzato in Iglesias, ad Ex, qualche pagina dopo, felicemente contraddice Aix, e la Bonne Mère de la Garde di Marsiglia due volte gli sovviene, anche se un'altra volta lo abbandona a un Bonne Maire.
Per commerciante di provincia, mio padre era un uomo tutt'altro che incolto (come vedremo): senza di che non avrebbe potuto neppur concepire e comporre la sua «narrazione » (come la chiama). Sui lontanissimi rudimenti di una terza elementare interrotta al secondo mese di scuola in Italia e di un «certificat d'instruction primaire », conseguito di volo in Fran- cia a tredici anni, si erano accumulate nella maturità decennali letture di tre e anche quattro quotidiani. Abbastanza per fargli scrivere correttamente «riparazione, disperazione, informa- zione, soddisfazione », salvo a sbagliare nella pagina prima o nelle pagine dopo narrazzione, a f f ezzionato, eccezzionalmente. Molte di queste disattenzioni son da addebitare più alla sua foga che alla sua ignoranza: tipico, (( le mie gioviale trovati ». Altre volte invece non si trattava né di scorsi di penna né di forme influenzate dalla pronuncia. Epperò, quando avevano tutta l'aria di una sorta di ipercorrettismi, li ho lasciati intatti: fabrica (e derivati), bichieri, satolammo, nelleggiammo, labra, camino (e derivati), inaf Tiare. Alcuni son da notare a parte, e mi inteneriscono quanto il latino o l'italiano aulico e coprimiseria di una famosa lettera di Machiavelli: «Qualche vicino ci soccorreva, ma non su f cagava ». E più innanzi, nullatenendo per ' nullatenente '.
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Le parole straniere, salvo casi di oscillazione, sono state corrette in nota (dove ne valeva la pena).
Ma, a chiarire ogni dubbio sui limiti dei miei interventi, ecco in trascrizione diplomatica le prime due pagine:
Nacqui ad Avellino (Puntarola) il 24 settembre 1877, da genitori lavoratori, ma onesti, mio padre Guardia di Finanza si sposò a Sa-viano (Nola) e dopo di essersi congedato, esercitava il mestiere di venditore oggetti di vetro, guadagnando benino, da Avellino, dopo 10 mesi dalla mia nascita, si trasferirono a Benevento, Vico Carrozzieri, è con i risparmi onesti del proprio lavoro, i miei genitori impiantarono un piccolo negozio di terraglie e cristalli, che in quell'epoca credo, bastavano poco centinaia di lire, questo negozio, vuoi per la bontà, e saper fare del povero padre mio, vuoi per l'abilità eccezzionale di mia madre, progrediva, in modo invidiabile, e sicome mia madre era figlia di caffettiere, pensarti fittarsi, un basso attiguo al negozio di terraglie, ed impiantarono un piccolo civettuolo caffè che per l'abilità di mia madre, il successo fu superiore ad ogni aspettativa, tanto furono gli affari, che fù necessario prendere una cameriera di Saviano con lire 3 mensili è un garzone con lire 8 mensili, naturalmente, con tutti i trattamenti, la cameriera era di Saviano, ed il garzone di Avellino, di quest'ultimo, vi sono tutt'ora i nipoti che vivono alla ferrovia di Avellino, nel 1880 nacque la prima sorella Maria, è nel 1883 nacque la seconda sorella Carolina, si cresceva nell'abbondanza e mio padre gioiva del progresso, ripeto frutto del suo onesto lavoro, tanto da consentirgli ritirare vagoni di merce dalla Germania, e segnatamente articoli di vetro argentato e dorato che in quell'epoca erano molto ricercati, e andavano a ruba. Fu tale lo sviluppo che mio padre fu costretto, fittare due deposito, uno presso la Posta Vecchia, e un altro, via Porta Rufina, depositi che servivano per lo . smistamento, per la distribuzione all'ingrosso sia al capoluogo, sia in Provincia, è fu necessario, prendere un altro garzone, è comprare un carretto ed un asinello, l'unica difficoltà era l'organizzazione che mancava, perché mio padre era analfabeto, e la merce nei depositi era messa alla rinfusa, senza scaffali.
D'altra parte, il caffè gestito da mia madre (donna astuta) lavoratrice, è piena di volontà, non era meno remunerativo dell'altro negozio, perché Lei preparava i liquori correnti dell'epoca e cioè Rosolo, Anice, e Rhum, ed aveva sviluppato una clientela invidiabile, io avevo 5 anni (incredibile ma vero) di Natale, con l'aiuto della serva è di qualche garzone, confezionavo applicando le etichette è le capsule scri
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vendo su ogni uno di esse (perché erano anonime) il contenuto del liquore, l'alcol ricordo benissimo costava lire 1,15 il litro, sentivo in me, già l'orgoglio di essere un grande fabricante di liquori, e papà un grande grossista di Terraglie e cristalli, l'incassi giornalieri erano favolosi pur non superando mai le cento lire, è quasi tutto bronzo, monete grandi che io mi dilettavo a fare coppi da 5 lire — le mie sorelle crescevano bene, tranne Carolina che per aver preso latte cat- tivo da una nutrice, era un poco malandata.
I progetti dei miei genitori erano grandiosi, si proggettava la prima chiusura a me in un Colleggio, e poi la sorella Maria, ma purtroppo, il destino per me non doveva essere tanto benigno, come in seguito narrerò. Comunque io è mia sorella Maria incomingiammo a frequentare una scola privata (perché in quellepoca) non esistevano asili infantili, e la serva ci accompagnava, e poi ad ora di pranzo veniva a rilevarci.
Che cosa ho fatto perché questa povera prosa potesse essere letta nella sua autenticità?
Innanzi tutto, integrità assoluta. Nessun taglio é stato necessario, per nessun motivo. Nessuna aggiunta. Le pochiSsime integrazioni o rettifiche sono quelle indicate con le parentesi quadre o nelle note, che sono mie. Nessun restauro sintattico, e il lettore se ne accorgerà: parecchi periodi son male assestati e abbondano alcune tipiche impuntature sui relativi. Del resto, qualche anacoluto e qualche audacia ha persino un suo pregio di stile.
Frequenti invece i miei ritocchi all'interpunzione, alle maiuscole e alle cifre. Portato dalla foga, specie all'inizio il caro auto-biografo abbonda in virgole: il punto fermo lo colloca solo dopo una nutrita serie di periodi o negli accapo. Andando avanti, ci fa la mano, è più sorvegliato, e i punti e i trattini segnano abbastanza accuratamente la giusta coordinazione dei pensieri, il ritmo del racconto, il debito rilievo alle battute indimenticabili e alle parole testuali. Compaiono (due o tre volte) anche i due punti e qualche arrischiato punto e virgola. Che si tratti, in complesso, di una interpunzione approssimativa e diseguale ma non rozza, e peccante più per eccesso o per velleità che per ignoranza, lo provano malte virgole e sottolineature, destinate a sfumare, a distinguere, a ironiz-
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zare, a sorprendere. Alcune di queste virgole erano da cambiare in. segni più convenienti; altre solo dislocate, e dunque da rimettere a posto. Solo il corsivo di qualche parola straniera é mio (come buffet, chef). Ma tranne un solo caso (rilevato in nota) le innumerevoli parentesi sono tutte dell'autore, che le adoperava con una disinvoltura degna di Benedetto Croce (anche se ogni tanto dimenticava di aprirle o di chiuderle).
Impossibile é stato conservare le infinite maiuscole. Donde sono venute fuori? Solo in parte è da farne carico all'abuso che se ne faceva nell'Era Fascista. Si tratta a volte di maiuscole abitudinarie (per es. Rosolio, Anice e Rhum, come in una fattura commerciale). Moltissime son di natura affettiva, di amore per i congiunti che va fino a certi Lei, riferiti alla madre o al « primo amore », e per i vari Zii, che vegliarono sul destino dell'autore e gli combinarono due matrimoni, come usava anni fa, con costume da vecchia Cina. Altre volte son segni di riguardo per i notabili, dal Caporeparto al Console Generale, dal Canonico al Notaio, ai Dottori (più o mena abusivi). Ne ho tenuto conto, perché il protagonista li colloca al loro posto sulla scala sociale che fu ben deciso ad ascendere e ciò valeva anche e innanzi tutto per il Capo Treno delle FF. SS., Carlo Recine, cognato e poi suocero, col quale egli fu orgoglioso di « apparentare » due volte (era una famiglia di piccoli proprietari terrieri, più indigenti che agiati, ma « apparentati » a loro volta a « veri signori », cioè a gente avvezza a vivere di rendita o sul lavoro dei contadini).
Spesso queste maiuscole brillano come l'equivalente grafico di una impostazione enfatica della voce. Io la risento, mi risuonano profondamente care. Credo di intenderne quasi sempre il motivo. Ma non posso pretendere che il lettore le apprezzi e se ne giovi per seguire l'« odissea» dell'autore, varcando il tempo e lo spazio sulla cresta della sua ondosa calligrafia, dalla « Bronchite-Polmonite-Pleurite » di mio nonno Amato, sino alla costruzione del nuovo «fabricato », dove mio padre nei primi anni dell'altro dopoguerra investi i suoi profitti di congiuntura, sistemando i primi
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due figli sposati che chiamò con gli altri a far parte della sua ditta, mentre il secondo piano « fu esibito tutto per Albergo ». Questa maiuscola che rappresenta il supremo fastigio dell'edificazione aziendale, l'ho lasciata. E lo stesso ho fatto per malte altre, quando erano evidenti le intenzioni espressive di cui erano cariche. Così il lettore troverà «la Terza Elementare Francese» di cui mio padre era orgoglioso quanta una «Laurea Universitaria »; e i segni di sbeffeggiamento per l'avarizia dell'« Ebreo padrone di casa ». o d'un sentimento di rivalsa, di tipo nazionalproletario, nel ricordo delle povere « famiglie Algerine » e delle « famiglie Italiane » che a Marsiglia abitavano accanto alle «famiglie francesi ». Non mi pareva giusto soffocare il brivido estetico dell'« esagerata Bellezza » ammirata al San Carlo, o rimpicciolire il narcisismo del giovane mercante (« ero diventato l'Idolo di tutta la clientela eletta»), o contenere un moto di storica indignazione per la «Barbaria Tedesca» ai tempi della prima Guerra Mondiale. Con lo stesso criterio di rispetto per i sentimenti religiosi dell'autore, ho restituito a qualche buon «dio» fraseologico e a qualche trascurata «provvidenza» la maiuscola che di solito non manca e che é caduta in. mezzo a tanto spreco di iniziali, e a tanta ottimistica fiducia nei poteri magnificanti di questo simbolo grafico.
Per finire, un cenno sulle cifre dei numeri, che abbondano e non sono certo superflue in questa prosa. Quasi mai sono ridotte a lettere. Salvo la correzione di qualche data e fatte le debite concessioni alle consuetudini grafiche e tipografiche, le ho scrupolosamente collazionate. Salari, prezzi, somme di ipoteche, pegni, prestiti, cambiali, vincite, percentuali coStellano questo piccolo mondo mercantile: son cifre che brillano remote nei cielo mutevole e avventuroso che lo sovrasta.
Ma come mai a quest'uomo di poche lettere e di molti numeri venne in mente di scrivere la sua autobiografia ? E perché se ne svogliò, affrettandone la conclusione?
«Queste noiose mie memorie» (dice a un certo punto con uno dei suoi più colti stilemi). Era sul serio sospetto senile d'esser con-
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siderato un uomo ormai d'altri tempi? O più probabilmente civettava, affettando il dubbio che gli stessi familiari potessero leggerle con interesse?
In verità ce le aveva raccontate già molte volte a pezzi e bocconi, per intrattenimento conviviale. Ma noiose non ci erano parse affatto, nonostante fossero condite dagli inevitabili ammonimenti pedagogici d'occasione (che qua e là poi si ritrovano anche nello scritto). Ma quando me le diede a leggere (non saprei dire se nell'estate del ' 45 o nella primavera del ' 46) mi riuscirono sorprendenti e lo esortai a continuarle. E credo di aver fatto benissimo a non avergli detto parola sulle mende ortografiche. A parte che non avrei mai osato sdottorare e ricordargli che fu non si accenta mai e ricordargli la differenza fra e congiunzione ed è verbo, gli avrei messo innanzi delle preoccupazioni inutili, che egli aveva superato di botto, proprio perché non aveva nessun complesso d'inferiorità, e tanto meno nei confronti di un figlio, sia pur letterato. Ho scartato senza esitazioni l'ipotesi che egli avesse pensato a scrivere perché sollecitato dalla mia attività o, quale che fosse, notorietà, del resto divenuta apprezzabile solo dopo la Liberazione. Le supposizioni più fondate sono ricavabili dal testo: altre notizie possono integrarle e convalidarle.
Ripensiamo alla situazione storica in cui queste memorie vennero incominciate. Nel settembre del 1943 Avellino (che è a qualche decina di chilometri da Napoli e da Salerno) é in piena zona di guerra. Coi bombardamenti, col saccheggio dei negozi e dei magazzini dove, accanto alla povera gente affamata si distinsero anche rapaci u galantuomini », un vecchio si trova davanti alle rovine di una grossa azienda di coloniali e liquori, che era stata il sogno ambizioso della sua vita ed assicurava l'agiatezza e il prestigio alla sua famiglia e a quelle dei suoi figli. Appena la tempesta si allontana e il fronte si sposta verso il Nord, riesce ad avere di nuovo un'abitazione, ospite del suo primo figliolo, ma non più in quella via Littorio, dall'infausto e disastroso nome, e non più in quella casa che in parte aveva costruito lui e che dopo
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il suicidio di mia madre, nel 1941, era stata disertata da tutti. Ma i depositi e gli scaffali son vuoti. Gli scarsissimi capitali sono inviliti dall'inflazione. La ripresa del commercio è lenta e caotica. I borsari neri spuntano da ogni parte, la concorrenza di nuove ditte ben presto incalzerà. In questa situazione difficile gli acquisti, appena saranno possibili, diventeranno oggetto di ricerche avventurose. Angelo Muscetta non è un uomo da perdersi d'animo, riprenderà i suoi traffici, riuscirà a dare un impulso decisivo alla ricostruzione dell'azienda: «ho sessantasette anni e ancora vivo e ancora lavora» (scrive nel corso della autobiografia).
Ma nei primi tempi di questa ripresa le ore di inattività sono lunghe e malinconiche per un vecchio rimasto vedovo per la seconda volta e afflitto dal diabete. Accanto a lui i due figli non sposati sono una preoccupazione e un tormento, che supera il conforto del loro affetto. E ci si aggiunga l'assillo di altri due figli: il mio fratello minore, ufficiale a Rodi e prigioniero, se vivo, chissà dove; io a Roma, di là dal fronte che ha spezzato l'Italia in due, mentre i Tedeschi e i fascisti contendono il passo agli Alleati e alla Liberazione. Nelle noiose sere di guerra ben poco gli offre da leggere la sola carta stampata a cui era avvezzo e che predilegeva. Dinnanzi a un futuro incerto, in un presente vuoto e angoscioso, le sue superstiti energie non tardano a trovare come applicarsi. Ha sempre un'immensa fiducia in se stesso. Ma che cos'è il se stesso di un vecchio ? E' innanzi tutto la sua vita, il suo passato. E cosí egli scopre che la sua più grande ricchezza è ora nella memoria: nella capacità di ricordare e nel cumulo dei ricordi. Potrà ricostruirsi coi suoi figli un'altra azienda, ma sarà più loro che sua, per forza di cose. E' il suo passato che è ancora tutto suo, e nessuno potrà portarglielo via. Sue sono le sventure che ha saputo superare, Sue le fortune che ha saputo cogliere con prontezza, la fiducia che ha saputo meritarsi, il credito che si è saputo conquistare, i clienti che é riuscito ad avere: lui, il « figlio d'oro », Angelina, Angiolillo, don Angelo, il cav. Mu-scetta. E non ha altro modo di essere felice se non ricordando come era stato felice anche allora che era « nullatenendo » e aveva dei pa-
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droni a cui render conto. E così si mette a scrivere ponendo in azione il suo io, che già al quinto rigo schizza fuori con una vitalità inarrestabile: « dopo dieci mesi dalla mia nascita... » sta per scrivere cc ci » ma poi corregge « si trasferirono ». A stento trattiene per le dande l'impazientissimo protagonista.
Il piacere di ricordare, di recuperare intatta questa sua ricchezza é tanto più intenso perché tra il presente ed il passato si stabiliscono dei rapporti tanto più romanzeschi, perché veri: « 17 settembre 1884, ore undici: distruzione del patrimonio di mio padre col terremoto. 17 Settembre 1943, ore undici distruzione della nostra casa in via Littorio, con i bombardamenti ». Il seguito é quello che vi ho detto io (saccheggio, distruzione dell'azienda) ma nelle memorie non c'è scritto, non se ne parla mai. Ciò che più lo tormenta gli si sprofonda dentro, ci allude di passata ma rimanda il racconto a suo tempo. E invece, una volta indicato l'aspetto meraviglioso di questa coincidenza (« la data fatidica »), la memoria vuol godere a raccontare tutto ciò che é «incredibile ma vero» (come lui dice e non si stanca di ripetere più volte). E così questo lettore immalinconito dagli squallidi giornali di guerra, per appendice quotidiana si mette a narrare a se stesso il suo romanzo di intrattenimento. E dove avrebbe potuto trovare una più bella materia?
«L'alcool, ricordo benissimo, costava L. 1.15 ». Sembra una favola rispetto ai vertiginosi prezzi raggiunti da questo «articolo » con l'arrivo degli Alleati. Civili e militari avevano rubato migliaia di bottiglie idi liquori dai suoi depositi e magazzini. Che sarebbe sta-sta una ricchezza enorme, rapportata all'inflazione. Ma il cav. Mu-scetta non ne parla, vive altrove. Ha solo cinque anni, quando applicava le etichette alle bottiglie di rosolio prodotto dalla madre per il suo « civettuolo caffè », e già sentiva « l'orgoglio di essere un grande fabricante di liquori ». Ha tutta una vita da rivivere. Il ricordo delle dolcezze coniugali gli riempirà la solitudine, i ricchi pranzi lo consoleranno della dieta che gli impone il suo male, la costruzione della sua azienda, ora che é ritornato all'anno zero, può ricominciare sulla carta, in attesa che si sviluppi nella realtà. E così
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racconta la sua « odissea », il suo. lungo viaggio tra Ottocento e Novecento, cc dall'ago al milione », tenendo ben alta la bandiera delle virtù borghesi che dal Risorgimento l'età umbertina aveva trasmesso all'età giolittiana: « volere é potere ».
E' assai improbabile che mio padre abbia letto il famoso libro di Michele Lessona, il cui titolo cita per locuzione proverbiale. E sicuramente ignorava Omero. Le stesse Mille e una notte, cui accenna a proposito di spettacoliammirati al San Carlo, son da mettere accanto ad altri riecheggiamenti antonomastici e fraseologici. Coi libri non dovette mai avere molta familiarità. Ricordo che quando ero ragazzo a casa mia c'erano I Miserabili in edizione illustrata, La Madre di Gorki, che ancora conservo (Era un libro carissimo a mia madre. Lo leggeva con tanta passione, struggendosi al pensiero del fratello socialista, cacciato dalle ferrovie come sciope- rante protervo e riparato a Bengasi, dove faceva il macchinista). Di mio padre erano sicuramente una voluminosa pubblicazione popolare sul processo Cuocolo (ricca di incisioni, dai colori simili alle pellicole del tempo, in seppia, in rosa, in verde), e la traduzione di un manuale americano di ipnotismo, inviatogli da un suo amico di Broccolino. Una volta gli sentii dire che aveva letto le Ultime lettere di Jacopo Ortis, e non era stato il dramma patriottico ad impressionarlo, ma quello sociale, perché anche lui, «nullatenendo» era stato tentato dal suicidio per non poter realizzare il suo sogno d'amore (e ne troverete un cenno di conferma nelle memorie). C'erano anche .i Promessi Sposi, nell'edizione che recava interlineate le correzioni del 1840. Ma trovai questo libro, più di studio che di lettura, « in stato di nuovo » (come dicono i librai). Era infatti un libro scolastico che il mio primo fratello dovette subito metter da parte a 17 anni, e quando tornò dalla guerra lo sostituì con letture molto più amene, tipiche del tenentino Don Giovanni 1919 (dai romanzi di Zuccoli, Guglielminetti, Oriani, Da Verona, Pitigrilli alle prose ideologiche di D'Annunzio e di Mario Mariani). Mio padre restò fedele ai suoi gusti se non più sani, più ingenui. Romanzi d'appendice e letteratura a dispense, di questo certamente si nutri. E i suoi
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classici li lesse sul popolare giornale napoletano che ai suoi inizi recava le lezioni del De Sanctis, il « Roma ».
Ma la materia del suo piccolo romanzo autobiografico era originale e tutta vera, anche se forse da bambino potè aver letto la celeberrima, esemplare pagina di Jacques Laffitte, il giovane che fu visto raccogliere uno spillo e perciò divenne impiegato e poi erede universale di un banchiere, e banchiere lui stesso. Se mai lesse tra i libri dei figli il Cuore deamicisiano, avrebbe potuto ritrovarsi in questo o in quel personaggio, volitivo e generoso, capace di dedicarsi con « una passione violenta» (come lui scrive) allo studio e al lavoro, alla famiglia e al commercio. Che a tredici anni facesse il fattorino (o come dice lui il «commissionario ») di un negoziante di scarpe, e a quaranta il mediatore, questo era per lui sempre un « lavoro ».
E' uno schietto borghese senza spocchia ma anche senza servilismo, che si sente sempre popolo, senza distinzioni di classe. Egli ha perfettamente assimilato la mitologia radicale del lavoro che «nobilita l'uomo », nonostante le differenze e magari gli abissi che separano chi vive di salario e chi vive di traffici. Una volta gli scappa una parola sintomatica: « avrei potuto sfruttare il vicinato per la riparazione delle scarpe ». E' una parola altrettanto impropria per un giovane ciabattino come il «lavoro» per un commerciante. E sono significativi spropositi, spie di tutta una concezione borghese della vita che si esalta in balzacchiana mistica della volontà, ma al tempo stesso sente il bisogno di giustificarsi moralmente al cospetto della nuova classe in ascesa, il proletariato, e si fa pusilla, e pone volentieri l'accento sulle umiltà delle origini, con superlativo orgoglio (« dimenticavo dirvi che l'inizio fu meschinissimo »...). Siamo tutti lavoratori e tutti possiamo essere in qualche modo sfruttatori, in una ben oleata fluidità dei rapporti di classe. Altrettale buffo scambio e contaminazione di termini vien fuori quando parla di « francescana rassegnazione », e si tratta di una solida capaciti d'incassare i colpi bassi del destino: dove non direi che si rivelino le qualità del figlio di Pietro Bernardone, ma quelle del padre. Più convincente mi sembra quando scrive con orgoglio puritano:
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« però di contro a tanto lavoro e tanti sagrificii vi era l'incoraggiamento del guadagno ».
Questa unzione con la quale mio padre così spesso parla del « travaglio continuo » di una vita « sempre piena di sagrificii, di lavoro, di privazioni » e che non « concepiva il lusso », è sincerissima e veridica, ed egli non si stanca mai d'insisterci, anche perché nelle sue pagine ci sono esplicite intenzioni educative. I suoi sono ricordi e « documento », come quelli dei toscani vissuti nell'età d'oro della borghesia. Riflettono un costume di austerità, più vicino a quello dell'età comunale che a quello dei nostri tempi, e che ormai si sarà estinto anche in molte zone arretrate. Mi torna alla mente un'immagine emblematica di siffatto costume, un anello di metallo bianco, che mio padre amava più di qualsiasi altro oggetto prezioso. Recava un piccolo ferro di cavallo, era il suo blasone e il suo amuleto. E (panda leggo nelle sue memorie «fidavo nel destino e nella Provvidenza », «affidai il mio destino alle preghiere » lo vedo aggrappato a una fede quale si era caratterizzata già da molti secoli, quando sui primi mercanti del nostro Paese fortuna e sfortuna, destino e Providenza incombevano in un nuvoloso miscuglio di superstizioni stoiche e fideismo cristiano.
Credente, ma non bigotto (anzi, misurato anticlericale come i borghesi più intelligenti del tempo), egli trovava nel libro mastro della vita la partita doppia di una sommaria teodicea, dove i conti tornavano perfettamente: « ho conosciuto momenti molto umiliativi, ma in compenso, la Provvidenza mi ha dato come contropartita delle grandi soddisfazioni ». La prima Guerra Mondiale « sentita dal tutto il popolo Italiano » gli strappa dal fianco il suo primogenito (e poi glielo restituirà irrequieto, instancabile va-gheggiatore di « mammiferi di lusso », e comodo marciatore su. Roma nei vagoni di terza classe messi a disposizione dei fascisti dal governo Facta). Ma d'altra parte ottiene l'esonero, glielo riconfermano, ed egli non solo ha « l'agio di guardare » la sua azienda, ma, incaricato degli acquisti per l'Ente Autonomo Consumi, riscuote l'elogio del prefetto perché non fa mancare mai gli ap-
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provvigionamenti alla provincia (o la notte per me non esisteva, la passavo in treno, sui carretti, e pur di fare bella figura, e in parentesi anche redditizia »). Il provvidenzialismo tradizionale ¿ naturalmente la base amplissima sulla quale il nostro borghese edifica la sua esistenza. Ma poiché non vive tra il Tre e il Quat cento, ma sei secoli dopo, é l'ideologia del progresso a confi-figurargli lo schema costruttivo più solido che egli possa pensare. L'immagine della piramide Dio-Patria-Famiglia (dove la famiglia e i suoi interessi e il suo capo si collocano, naturalmente, al vertice) segna il termine ideale concretissimo di questa narrazione che si svolge all'incirca per un trentennio, dagli anni 90 in giù. Gli eventi storici son visti accadere ai margini, se non a pro' del cc particulare» di questo molto positivo eroe, che narra (come dice) la sua a ascesa a gradazione ». E' un epos domestico; pure non vi mancano i riflessi più o meno immediati di quanto caratterizza il volto di quegli anni. S'intravvede l'atmosfera storica della crisi fin di secolo, e poi quella operosa, calda, ottimistica dei primi del Novecento, l'Italia della « buona vita » che raggiungeva il pareggio grazie all'emigrazione, si espandeva a Tripoli bel suol d'amore e sembrava uscir trionfante dopo la guerra vittoriosa. Era il mondo del quale il ballo Excelsior apparve come l'epifania sublime, il preannuncio.
Ma per il nostro autobiografo, che si dimostra uomo di viva immaginazione e pronta sensibilità, l'espressione coreografica e musicale più popolare del liberty era «una esagerata Bellezza », qualcosa di ineffabile che trascende il gusto del reale a cui l'educò la sua esperienza letteraria più continuativa e più intensa: quella (come si è già detto) dei romanzi d'appendice, col loro verismo di epigoni rozzi e retorici, col loro misto di situazioni melodrammatiche e coincidenze mirabolanti, col loro linguaggio fattizio, atteggiato e stereotipato.
cc Quando fu udito lo scoppio della pistola, l'orologio segnava le undici della notte del 2 gennaio 1848, lo stesso giorno e la stessa ora in cui nove anni fa era morto Giorgio Bartoli ». Cosi
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finisce Sotto altro cielo di Francesco Mastriani. La più importante, ma non la sola di analoghe meravigliose coincidenze si legge sul bel principio delle memorie di mio padre, per il quale l'emozione di porre a riscontro gli accadimenti della vita reale si tramutava in piacere letterario quando li accoglieva nella «narrazione » secondo i canoni dei modesti ma per lui classici maestri. Nella sua « odissea » egli vagheggerà la sua immagine al centro di una serie di peripezie, dove abbondano tracce di molti luoghi comuni ricorrenti nei romanzi d'appendice. E non solo le coincidenze, ma le agnizioni singolarissime, i fidanzamenti e le eredità difficili,i consigli di famiglia, le cerimonie «austere» e solennemente « officiate », compari, tutori e notai, viaggi fortunosi per mare e per terra, gli anonimi calunniatori smentiti, la poca fede conftisa, le profezie che si avverano, i detti memorabili, i digiuni e i pranzi mai dimenticati, la virtù che risplende ma che non sempre è a riparo dalla sventura, prestiti o vincite provvidenziali, pienezza di soddisfazioni e strazianti crudeltà del destino quando «volge al male ».
Dove più si avverte che il narratore vuol sollevare il tono, é nel racconto del primo amore e del primo matrimonio. Ecco il primo incontro (« e bastò questo perché i nostri cuori incominciassero a battere all'unisono, e bastò fra noi due un furtivo sguardo »...). Ecco il viaggio per il fidanzamento ufficiale (« nolleggiammo una carrozza chiusa e partimmo alla volta di Montefuscò »). Ecco l'intervento deciSivo dello zio, tutore della fanciulla orfana («lo zio Bocchino Si alzò e disse ai famigliari tutti: — Io per conto mio, e ne assumo piena responsabilità, son del parere di dare in sposa mia nipote Vincenzina ad Angelo Muscetta, povero, come voi volete, ma ricco di esperienza, e soprattutto onesto lavoratore »). Ma non voglio anticiparvi altri episodi eroificanti, dove le immagini e il linguaggio son visibilmente atteggiati a poetica dignità e moralità (« presi commiato dal mio tesoro: distacco doloroso, ma necessario, perché ho conosciuto da che era piccolo, solo il senso del dovere, e poi eventualmente il senso (se pure) del diritto, e in
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compagnia dell'alba che si schiudeva mi incaminai a piedi... ». Il contesto da cui tolgo queste espressioni vi mostrerà tuttavia che il nostro caro autobiografo non scade nel sussiego melodrammatico e spocchioso, che è proprio degli scrittori della domenica. Le scene patetiche si avvicendano a piccole comiche, esilarate per candore, come nell'infanzia del cinema. E anche quando egli ha molte ragioni per rappresentarsi turbato dalla sua più amara esperienza (lo zio presso il quale lavorava, in seguito a lettere anonime lo aveva sospettato di furto e costretto a spogliarsi nudo per perquisirlo) prevale un popolaresco lieto fine (« ma c'erano delle buone sal-zicce per cena, e con supremo sforzo feci venire il buonumore »). Una cordiale atmosfera di fortuna-assistimi-invidia-crepa investe nel racconto anche qualche rara figura di impotente « cattivo » che vorrebbe ostacolare il protagonista sulla via del successo. E qui la stessa povertà dei mezzi espressivi gioca a favore del narratore di emergenza. Nel citato romanzo di Mastriani c'è un portinaio che vorrebbe impedire a un ragazzo di parlare alla sua aristocratica padrona. A parte il ritratto orripilante (« era questi un Dalmata di gigantesca statura e aspetto feroce: due lunghi baffi gli scendevano sul mento »...), nulla è risparmiato per farci assistere ad un autentico duello tra il « barbaro » e il o demonietto »:
— Che vuoi tu, monello? chiese a Giovanni con modo irascibile.
— Debbo parlare alla vostra padrona, rispose il fanciullo con
risolutezza.
— Tu! Oh! Oh! com'è curioso!
Il portinaio si pose a ridere sgangheratamente torcendosi le acu-
minate punte dei baffi.
Lascio a voi il confronto con la brevissima scena di mio padre tredicenne alle prese con l'Usciere Capo del Console di Marsiglia (« un tipo nervoso ») e son sicuro che parteggerete senza sforzo per il ragazzo, stupefatto di non essere riuscito a conquistarsi la simpatia del bisbetico personaggio (« di questo non mi potevo rendere ragione: mentre tutti mi volevano bene, costui mi odiava »). E vi lascio il confronto con le macchinose agnizioni dei romanzi d'appen-
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dice, quando leggerete i graziosissimi episodi della promessa sposa riconosciuta fra le clienti di una fiera, e quello di Amelia, la bambina «che cresceva bellissima» e che egli tenne tra le braccia ragazzo, divorandola «con baci innocenti », ben lontano dal presupporre che l'avrebbe sposata giovanissima, dopo che mori la prima moglie.
Il ritmo ottimista di « ascesa a gradazione» che dà impulso a questa autobiografia si porta con sé allegramente anche i relitti letterari, che affiorano nelle considerazioni con le quali l'autore si compiace di gustare l'andante mosso della sua felicità, o si ferma a metà salita, per guardare soddisfatto al cammino percorso.
La linea di sviluppo progressivo della sua vita il narratore ce la fa osservare nelle stesse repliche di certi episodi. E anche ciò fa parte del meraviglioso popolare-borghese che si accumula nel racconto. Durante il primo matrimonio la sua condizione economica di subalterno ed erede putativo, anche se probabile e poi effettivo, del terribile zio dal cuore d'oro, gli fa passare ore drammatiche e umilianti, anche per il lavoro a cui è costretta la sua delicata e gentile Vincenzina. Il secondo matrimonio con una ragazza senza dote, ma (requisito importante come egli ammonisce nel corso del racconto), con molte doti di laboriosità, a cominciare dal viaggio di nozze è vissuto « con più agiatezza ». E poi zia Angela Rosa (l'affettuosa vedova di zio Sabina) e la cara Amelia diventano
provette » commercianti accanto a lui, in un'azienda ormai tutta sua, che prospera a gonfie vele. Il senso di questo ritmo narrativo si manifesta anche nell'iterazione di frasi epiche (« eravamo tanto felici da invidiarci vicendevolmente », dice della prima moglie) opportunamente variate (« eravamo tanto felici, che abbracciavamo il lavoro a pieni mani », dice di mia madre). Lo stesso si può osservare per le due traversate Napoli-Marsiglia e viceversa, entro le quali son comprese le pagine più riuscite di questo racconto, dove l'autore si oblia con maggior piacere al suo narcisismo autobiografico.
Ciò che é essenziale di una «odissea» mio padre mostrava di saperlo, non tanto per quella « fortuna nella sfortuna » che torna a
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rifulgere nel suo cielo, quanto per-la posizione centrale dell'« uomo» che irraggia simpatia intorno a sé, oggetto onnipresente d'ispirazione per la Musa, a cominciare dal principio. Chi è questo ragazzo che crediamo di aver già conosciuto nel Cuore e che invece è senza infanzia e senza compagni di scuola? E' forse un misto del Garoffi
e del Garrone di De Amicis, del commerciante nato e del ragazzo più adulto dei suoi anni, prudente e mite, ma generoso negli affetti e nell'adempimento dei suoi doveri ? Non direi. Se la sua vita fosse solo e sempre tesa nel realizzare « l'idea predominante » cioè « diventare grossista », neppure le qualità positive di Garrone sarebbero valse a cancellare certe odiosità caratteristiche nella tensione mistica dei volitivi. «Procace in esperienza» (come dice buffamente di sé : precoce e un po' sfrontato), questo ragazzo nei suoi slanci virili e nei suoi accorgimenti conserverà sempre una civetteria infantile, un desiderio di piacere a tutti, che si fa valere anche nel racconto, con una carica di vitalità degna di un personaggio poetico. E tale sarebbe riuscito, se l'autobiografo avesse potuto conquistarsi la pienezza dei suoi mezzi espressivi, e non si fosse fermata alla prima e sommaria caratterizzazione del piglio, del gesto, della macchietta, dei motti, che pur sono suoi e restano inconfondibili.
Mio padre non risparmia le sue considerazioni e i suoi ammonimenti anche perché ogni autobiografia comporta un proposito educativo. Ma egli, sebbene abbia di sicuro taciuto particolari di sé o di altri, che non considerava edificanti, innanzi tutto e per prima cosa fu portato a narrarli (anche se poi Strappò le pagine). Minuzioso e scrupoloso come un cronista, è anzi preoccupatissimo di non essere creduto, e si affanna a dire « credetemi », e anzi invoca ora questo ed ora quel testimone, con nome cognome e indirizzo. Tuttavia queste ingenuità non cancellano la vivacità dell'idoleggiamento artistica che egli pone nel dipingersi e che gli viene dalla consapevolezza di un suo primitivo dono estetico, un lieto incanto di fronte a se stesso e agli altri, la gioia di mirarsi
e di farsi ammirare. Come potrete vedere, in questa autobiogra-
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fia, dalle prime pagine all'ultima, ciò che mio padre più mostra di pregiare in se stesso e di amare di più nella vita è la sua forza espansiva di « simpatia » premessa sicura di « fiducia ». Il danaro viene dopo, anche se non è poco importante per chi vuol cogliere il frutto del suo lavoro (come salariato o commerciante) e si applica senza soste nella sua « ascesa a gradazione » .
Ciò che rende sugoso e non banale il racconto delle vicende sono le molte « trovate » che egli escogita con infallibile successo e che sono sempre « gioviali » sempre circonfuse di questo candore di buona stella che riluce in ogni circostanza. Sia quella di un tragico natale- di fame, risolto con un furto di verdure; sia la recita delle canzonette improvvisate agli emigranti, nel buffet di zio Sabino, quando con la complicità di allegri amici ferrovieri spilla ancora un po' di quattrini agli avventori, « ricchi (ma sempre cafoni però) » .
Quest'uomo che non ha conosciuto i giochi dell'infanzia (noterete il suo sguardo distaccato sui « piccoli ragazzi, che rotolando nella polvere facevano a gomiti » in una festa di batteSimo, per raccogliere i soldini lanciati dal compare) si porta con Sé una deliziosa verve bouffonne, un piacere di dar spettacolo, di far convergere gli occhi su di lui, fino a quando sarà vecchio (Spirito Santo a parte, somigliava tanto a papa Giovanni). E ne é consapevole abbastanza da controllarsi con misura di attore, si da non abbandonarcisi con la stupidità del vanesio che si pavoneggia (vedrete come è pronto a cogliere e sfruttare la «vanità» altrui!). In tutto quel che riesce a combinare porta sempre una gran passione e una grande serietà, pur col gusto di offrirsi in ispettacolo agli altri. La simpatia si converte in fiducia e la fiducia in denaro, in buoni acquisti e ottime vendite. Quando in una fiera si mette a mangiare spaghetti in un orinale di porcellana, non è solo per aumentare le vendite con questa pubblicità da baraccone: «Mettevo (dice) in armonia quella gente di paese che vivevano vegetando ». In questo saper mettere in armonia gli altri, gioca sempre
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bene la sua parte di borghese giusto mezzo tra signori e contadini, tra padroni ed operai.
Non credo che l'affetto mi faccia velo, se affermo che anche in questa autobiografia egli riesca ad accentrare su di sé l'attenzione del lettore più remoto da lui, a disporlo benevolmente in un musicale circolo di paesana bonomia: « Tutti cercavano An-gelino (dice con un'eco sommessamente compiaciuta d'opera buffa), tutti volevano Angelina».
I ferrovieri del buffet lo canzonavano ammirati:
ma non songo li bellizzi
songh'e tratti ca tu tieni...
Ciò vale anche per il narratore. Non sono le bellezze da ricercare in questa prosa. Ma i tratti, i modi avvincenti di questo documentario racconto popolare ci compensano dalla povera forma che non «sufraga ». L'autore stesso l'avverte confusamente: si è visto come s'attacca alle maiuscole, ai procedimenti del romanzo d'appendice a locuzioni o a vocaboli che gli sembrano più elevati. I relitti del parlato affiorano in alcuni dialettismi e nella sintassi approssimativa e frettolosa di qualche periodo. Ma se ignora ogni nozione di purità (e ricorre al relazionare, e a calchi più o meno pesanti come commissionario e gattò di mariaggio) il suo « simpatico » maestro francese gli ha insegnato che cos'è il patois e che cos'è la lingua letteraria. Sicché quando cita parole o detti dialettali li sottolinea per distinguerli dalla sua prosa che non diversamente dagli scrittori più popolari (incluso Mastriani, incluso lo stesso De Amicis), ha sempre un po' il debole di indomenicarsi, di mettersi addosso il vestito migliore a disposizione. Perciò sulla semplicità estrema della forma narrativa risalta un linguaggio pieno di echi non diciamo libreschi, ma cartacei, proprio di chi ci tiene a distinguersi e ad evitare i pericoli dialettali del parlato. Non gli basta dire: « a prenderci », gli sembra meglio « a rilevarci ». E « sedermi a mensa » gli par necessario, per un banchetto imbandito da « veri signori ». L'aspirazione a un più borghese scrivere civile
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lo sollecita verso una continua disposizione a forme di ipercorret-tezza. Non meravigliatevi quindi se cercate la penna di un (( nulla-tenendo» e vi trovate dinanzi quella di un cavaliere, che a parte neologismi e tecnicismi (come cementane, alienare) non diciamo che sfoggia il suo peculio lessicale, ma anche in fatto di lingua vorrebbe dimostrare che non ignora cosa sia la proprietà. Un rimorso lo turba alla fine del racconto del «prima episodio» della sua vita, ma aggiunge: « se rimorso si può chiamare ». E in effetti la parola non è quella giusta. Quando accenna alle manie della sua « astuta » e sempre « giuliva » madre, le chiede di perdonarlo dall'aldilà per le cc accuse necessarie per la narrazione esatta ». Accuse ? Allora perdonami anche tu, padre mio. In verità, detto fra noi mi piacciono tanto anche i tuoi spropositi. Anche di un padre come te, come dicevi tu della nonna, ce n'è uno solo. Ma una critica esatta ha pure i suoi diritti. Non sei il solo a dire «tutti profani » per dire « incompetenti ». Ma ti sei fatta un'idea un po' personale di certe parole: « con l'attenuante di aver fatto un disastroso viaggio »... «feci in cinque minuti succintemente la mia toiletta »... « solo oggi concepisco »...). Si capisce benissimo quel che vuoi dire, ma è im po' buffo, tosi come quando dici: «educazione Benina », « primizia moda » e « primizie portate», che sono certo un po' troppo audaci, anche se meno audaci di «qualcuno lo aveva insinuato» e «momenti umiliativi ». A tuo conforto però devo dirti che a volte si resta rapiti dalle tue « trovate » che riescono a gioviali » per la loro estrosità linguistica. Come quel « forte dilu-vione » e quel « procace in esperienza ». Per non dire di altri luoghi dove si dubita che lo scorso di penna possa essere stato un vero lapsus: come quel « buon padre che rimane sempre uguale per tutti » e volevi dire che i figli sono tutti uguali (ma non é la stessa cosa: a meno che tu non avessi una concezione un po' piramidale del padre e dei figli). Ma qui e altrove forse ci vorrebbe il dottor Freud (come dice il Calvero di Chaplin). E io ho già sdottora-to abbaStanza. E devo scursamene non solo con te, ma col lettore.
Il lettore sarà certo impaziente di conoscere questo personag-
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gio della prima età chapliniana, ingenuo e malizioso, che anche quando scivola sulla mattonella di una parola troppo lustra, o inciampa nella sintassi per evidente emozione, sorride con noi,
e si consola al pensiero che ci ha messo in armonia: « fui ricevuto molto benevolmente col sorriso sulle labra, compiacendosi della mia sveltezza... » Le moi est adorable. Lasciamo pure a Pascal la voglia di moraleggiare il contrario. La natura primesautière di mio padre era venuta fuori da un buon impasto, la grande bontà di suo padre e la « terribilità » di sua madre. Ed egli gode a dipingersi quale fu. Data l'impossibilità (oltre che l'inutilità) di interrogare i suoi testimoni, crediamo che egli sia riuscito a rappresentarsi con verità, giustamente mettendo in primo piano tutto se stesso, con la sua infantile improntitudine e i suoi virili pudori, col suo riso
e col suo pianto: «Credetemi, non esagero, correvo nella latrina della ferrovia, e sfogavo a pianto tutta l'umiliazione »...
Come l'io rappresentato, anche l'io che narra non rinuncia a dissimulare le sue debolezze. Tali sono le dichiarazioni di ineffabilità su quel che vorrebbe e non sa esprimere, come la vista dal porto di Napoli all'emigrante che ritorna in un mattino d'estate, o il suo dolore provato per la duplice morte della moglie e del padre. E tali sono i suoi numerosi appelli al lettore, che interrompono l'oggettività del racconto. Spetta a noi di non pretendere che possa essere venuto fuori uno scrittore, quando si tratta solo di un grossista in provvisoria rovina che eccezionalmente si è messo a fare l'autobiografo dilettante, e alle sue tenerezze di figlio, di marito
e di padre concede qualche rapida postilla « in momento di narrazione ». Divagazioni vere e proprie non ce ne sono mai. E' troppo preso dalla foga degli eventi per abbandonarSi alle pSeudo-descrizioni e alle pseudo-analisi psicologiche dei suai modelli romanzeschi, poveri narratori a cottimo, intereSsati alla prolissità Perciò nessun ritratto fisico dei personaggi, e solo qualche segno delle loro predominanti qualità morali, qualche epiteto (gli aggettivi sono rarissimi) accennato con mano leggera e affettuosa, perché suoni omaggio gentile o veridica precisione, e mostri che l'essenziale di un carattere non è sfuggito al Suo « occhio clinico ».
Tutto e tutti convergono sempre verso il protagonista e la costruzione della sua azienda. E le figure sono più o meno caratterizzate a seconda di ciò che prima d'ogni altra cosa interessa lo autobiografo. Il verismo cronistico dei particolari è compensato dall'intensità degli episodi e dall'evidenza dell'azione, in cui le sagome dei personaggi sono chiaramente individuate. Meglio di ogni altro vien fuori il carattere dello zio Sabino, singolare tipo di borghese velleitario, che vorrebbe fare affari solo per far credito ai clienti ferrovieri della sua trattoria, ma che fallirebbe senza l'aiuto di Angelina, oggetto del suo amore-invidia, delle sue gratuite sopraffazioni di autoritario inconcludente « con gli occhi fuori delle orbite » e perfino « la pistola in pugno »; ma che infine si arrende alle intercessioni della moglie Angela Rosa e al nipote. Il quale diventa suo erede universale, anche perché non ha le sue vanità, non confonde la beneficenza col commercio, riesce a conciliare i suoi affari con i suoi affetti, conoscendo l'arte di tramutare in beni mobili ed immobili i beni che ha avuto in dono dalla sorte, o (se Si vuole) dal buon impasto che riuscirono a mettere insieme il padre e la madre. Forse le fate, come nel celebre poemetto in prosa di Baudelaire, a questi due bottegai chiesero quale dono preferissero quando gli nacque Angelino. Ma poiché erano borghesi veri (e non fantocci polemici di un populismo quarantottesco) si erano contentati che « il dono di piacere » arridesse al destino del « figlio d'oro » (come lo chiamava mia nonna) : « l'unica Spalla forte » (come diceva nonno Amato, che in queste memorie vive solo di riflesso, circonfuso di tenerezza, ma, almeno una volta, in una immagine di lirismo straordinario per una prosa tutta fatti, 'la sera in cui il piroscafo attracca a Marsiglia...).
L'ultima pagina del racconto in qualche modo lo compie, can. le gesta del nostro fatato personaggio, in un episodio abbastanza significativo: l'incontro con un grande commerciante di vini che, rovinato dai saccheggi dei tedeschi, sul finire della prima guerra mondiale, aveva ripreso i suoi traffici ed era venuto dalla Francia a fare acquisti in Italia: «volle condurmi a cena nel buffet, e mi
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accorsi che aveva per me già una simpatia » (narra mio padre, che s'improvvisa mediatore, lo accompagna in giro e realizza il più spettacoloso affare della sua vita). Ma (( la gioia di aver guadagnato in tre giorni L. 5.000 » gli fa dimenticare di inserire una clausola nel contratto, in modo che le percentuali potessero riguardare tutti gli acquisti e non solo il primo vagone. Ecco un tratto che dipinge tutto un carattere e dà un suggello al colorito prevalentemente (( comico » di questa autobiografia.
Quando si giunge alle pagine finali, si resta col duplice rammarico che siano tirate via e che s'interrompano. Come mai nel racconto mio padre dimentica tante cose, e certo non trascurabili? Capo-elettore del deputato liberale del luogo, (l'on. Alfonso Rubilli, rimasto poi sempre fedele al suo Giolitti), era divenuto consigliere comunale, nel 1921. E anche il nuovo regime lo corteggiava: il 21 dicembre 1922 il ministro per l'industria e il commercio gli mandava la nomina che avrebbe fregiato ormai la sua ditta: « cav. Angelo Muscetta e figli »...
Perché finiscono queste memorie ? Mi sorprendo a pensare come e se avrebbe raccontato questo o quell'epiSodio. Non potrò mai dimenticare le elezioni del '21, quando vidi mio padre schiaffeggiare un omone che era il doppio di lui, un contadino che, sottoposto come gli altri elettori a diligente perquisizione (nell'uffizio elettorale messo su in un (( basso» di casa nostra), era stato trovato in possesso della scheda di un altro partito. Benché si comportasse slealmente, voleva tentare di esercitare il suo diritto di voto. Ma evidentemente per il nostro borghese e per i suoi leaders i contadini appartenevano all'elettorato da avviare, per dir così, paternalisticamente sulla via liberale alla democrazia. Altra cosa era il diritto degli elettori non subalterni. Ricordo che con non minore energia, durante le elezioni del 1946, a un frate che gli chiedeva in confessione per chi avrebbe votato, mio padre, benché settantenne, ebbe l'animo di rispondere (levatosi in piedi, e da uomo a uomo), che era li per raccontargli i suoi peccati di credente, non per disputare di politica.
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Ma a me non spetta d'integrare queste memorie paterne, che non son certo se siano state interrotte per caso, e se proprio siano da considerare incompiute, quando smise di scrivere.
Mio padre aveva altro da fare. Aveva ripreso i suoi traffici. Aveva anche lui la sua azienda da ricostruire dopo i danni e i saccheggi della seconda Guerra Mondiale, e si era messo a viaggiare come il suo amico di Epinal, da bravo commerciante che non poltrisce. Trattando con lui, aveva fatto fruttare il suo francese, imparato da un maestro al quale era riuscito cc molto simpatico ». Ora metteva a frutto l'esperienza di quell'incontro, e rico- minciava daccapo. La sera, sulla sua scrivania c'erano molti giornali da leggere, e molte am-lire da contare, e la distinta da compilarsi per il versamento alla banca. Valevano meno, tanto meno delle lire dell'altro dopoguerra, e molto meno dei soldoni di bronzo con l'effige di Re Umberto, che bambino si dilettava ad ammucchiare. Ma non erano fuori corso, valevano di più della carta bianca da riempire con i ricordi. Primum vivere, e poi bio-grafarsi.
In agni autobiografia gli anni che arrivano sino alla virilità finiscono per attirare naturalmente di più ogni narratore. Ma nel caso di mio padre c'erano altri motivi, che avrebbero potuto turbare quel sentimento di u ascesa a gradazione» che gli faceva calla-care le sue cronache domestiche in un contesto storico ottimistico. Credo che, come il suicidio di mia madre doveva essergli rimasto un fatto inspiegabile, che contraddiceva atrocemente al gioioso slancio vitale della sua natura, così la catastrofe a cui era stata portata l'Italia doveva sembrare un gesto suicida della borghesia alla consapevolezza approssimativa, rozza, ma vivace che mio padre aveva del suo tempo. Interrotte li quelle memorie serbavano le illusioni più felici dell'età giolittiana, quando tutto sembrava in succhio, e nessuna crisi irreparabile. Di troppe cose del prossimo passato avrebbe dovuto affliggersi continuando a scrivere. E poi, quando si ritirò definitivamente dagli affari, troppe cose lo angustiavano nel presente e nel futuro della sua famiglia,
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della sua azienda, e di se stesso. Aveva cento acciacchi da cui non riuscivano a proteggerlo, non dico i santuari più accorsati (che
nel dopoguerra egli apprezzava tanto, come aziende prospere e in espansione) ma nemmeno il suo valentissimo medico che lo curava con affetto più che filiale, l'ultimo amico conquistato per forza di «simpatia ». A lui rispondeva, spesso, ripetendo il motto che a quattrocchi aveva pronto durante il fascismo, quando gli affari andavano male, e il suo contraddittorio atteggiamento nei confronti del regime era passato dal cauto consenso all'aperta preoccupazione: « Come va, Cavaliere? » « Meglio, molto meglio dell'anno venturo ».
Sopravviveva con grande stento e tenuto su con cento farmaci grazie alle cure della povera figlia Vincenzina, essa stessa immagine di pene immedicabili, e tanto più crudeli, quanto più un uomo é forte, com'era mio padre.
Capii meglio la sua tempra quando lo vidi l'ultima volta sul letto funebre, prima che lo tumulassero nella « cappella gentilizia », al cui ingresso si legge il latino (1942) di una elegiaca protesta: mors iniquo saeclo optima rerum.
Era il giorno che fu lanciato lo Sputnik. E mi parve che tutti i padri se ne fossero andati via, finita per sempre l'età moderna, e cominciata quella cosmica e atomica.
Aveva perduto la pingue floridezza della sua bonomia. Affilato, smunto, col naso un po' adunco, somigliava tanto alla «terribile» nonna che, col pretesto degli spiriti, sfogava il suo folletto interiore, una vera frenesia di moto perpetuo. La bocca non sorrideva più «giuliva », ma era irrigidita da una piega amara, che mi fece ripensare all'impronta laida, vista per l'eternità da Stendhal sul vivo volto del banchiere Torlonia.
Ma mio padre non fu soltanto un uomo d'affari, fu un uomo. E anche a lui, modestamente, sarebbe convenuto, per la sua capacità -di rivolgersi a tutti, l'epiteto che Omero attribuiva al suo « politropos » Ulisse. Una qualità che è fondamento umanistico di ogni umano « commercio ».
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C'è un a ricco vulgo » (come lo chiamava Foscolo), che ha sepoltura, prima di morire, nella sua stessa miserabile banalità. Angelo Muscetta nelle sue memorie vive ancora, ricco della sua raggiante felicità di vivere. E non so di quanti letterati o senza lettere, borghesi o proletari, un figlio possa scrivere quel che si legge sulla sua tomba, dove egli riposa accanto alle donne che amò, e ai suoi genitori, e allo zio Sabino e alla zia Angela Rosa, e al Capo Treno e a nonna Cristina. Tutta gente per la quale l'« onestà animosa» (qualità essenziale di mio padre, ricordata nell'epigrafe) era una virtù, mentre i miracoli economici son riser-bati a certa borghesia del nostro tempo, agli strateghi del parassitismo, agli eroi delle cambiali.
CARLO MUSCETTA
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1964 Mese: 7 Giorno: 1
Numero 69
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1964 - 7 - 1 - numero 69


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