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tipologia: Analitici; Id: 1472516


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Tipologia Periodico
Titolo Renato Mieli, La constrata evoluzione della sicilia
Responsabilità
Mieli, Renato+++
  • ente ; ente
  autore+++    
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Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA
Se ci fosse un po' di proporzione tra quanto viene diffuso dalla stampa e dalla radio e quanto resta nell'opinione pubblica, a quest'ora si dovrebbe sapere molto di più sulla Sicilia. Viceversa, nonostante iI gran parlare che se ne è fatto in questi ultimi tempi, se ne sa, in fondo, quanto prima. L'isola con i suoi assillanti problemi continua ad essere vista e giudicata, in generale, secondo gli schemi mentali del passato: pittoresca, geniale ma ingovernabile, per chi la guarda dall'esterno, tormentata e incompresa per chi la sente dall'interno. Ed è inutile, a questo punto, alimentare con nuovi miti il dialogo dei sordi tra « siciliani che non si danno pace per le antiche ingiustizie di cui scontano ancora le conseguenze e « settentrionali » che sono stanchi di sentirne parlare. Non c'è più nulla da ricavare da questa sterile contrapposizione. Vogliamo fare uno sforzo per capirci? Allora sarà meglio accantonare per un momento ciò che è opinabile per attenerci a ciò che è certo. Prima di confrontare le conclusioni a cui si è giunti, converrà, cioè, intendersi. sul punto da cui si è partiti, su quella realtà economica-sociale di oggi che è l'inizio obbligato per qualsiasi piano di sviluppo della Regione e, ci sembra, per qualsiasi utile discorso sull'argomento.
E possibile trovarsi d'accordo, almeno, su ciò che si intende per odierna realtà siciliana? Parrebbe di si. Vi sono alcuni dati elementari sullo sviluppo dell'isola che nessuno, a quanto consta, mette in dubbio,, Esiste, dunque, un minimo di certezza su cui si può incominciare a costruire un ragionamento. Una premessa, tuttavia, è necessaria, anche se può sembrare ovvia: i dati a cui si fa riferimento per stabilire il ritardo della Sicilia rispetto alle regioni più progredite del nostro paese presuppongono che si riconosca, senza riserve mentali, che l'isola è parte integrante della nazione, della quale deve dividere non solo la pro sperità di domani, se ci sarà, ma anche le difficoltà e responsabilità di oggi, che purtroppo non mancano. Se no, sarebbe un altro discorso.,
Non vorrei qui essere frainteso. Questa premessa non è fatta per anticipare, né tanto meno predeterminare, un giudizio sui rapporti tra. Stato e Regione; serve unicamente a fissare un criterio omogeneo di valutazione per misurare l'attuale dislivello economico e lo sforzo occor
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 115
rente per colmarlo. Ne deriva perciò una regola: quella di dire, in cifre assolute, il minimo indispensabile sulle condizioni odierne dell'isola, per concentrare invece l'attenzione sui dati relativi allo sviluppo comparato di essa rispetto alla nazione.
Che la Sicilia sia un'area sottosviluppata è un fatto su cui non ci sono dubbi. Bastano a comprovarlo due dati statistici: quello sull'occupazione e quello sul reddito. In base all'indagine effettuata dall'Istat nell'ottobre 1958 il numero degli occupati si elevava a 1.501.000 persone su una popolazione complessiva di 4.748.000 abitanti: cioè, in media, 3 occupati per ogni 10 persone economicamente inattive. Secondo le stesse rilevazioni, il reddito medio per abitante veniva stimato a L. 143.633 all'anno, equivalenti a poco più di 200 dollari U.S.A. che è il termine- di riferimento adottato dall'O.N.U. per classificare precisamente i paesi. e sottosviluppati ». Se si volesse, poi, osservare più attentamente come- è ripartito tra i vari rami di attività il reddito prodotto dai siciliani e-quale è il livello dei consumi della popolazione dell'isola, il grado di depressione da essa raggiunta non potrebbe che apparire più grave (1).
(1) Secondo uno studio del prof. Guglielmo Tagliacarne (« Moneta e credito », IV trimestre 1959) la percentuale del reddito prodotto in Sicilia, durante il 1958, nei vari rami economici, prendendo come termine di riferimento il totale prodotto per ciascun settore in Italia, fatto uguale a cento., sarebbe tosi ripartita:
Agricoltura e foreste 9,49
Pesca 18,61
Fabbricati 5,14
Industria, commercio, credito, assicurazione e trasporti 3,75
Professioni libere e servizi industriali, domestici e vari 5,68
Pubblica amministrazione 8,09
Totale reddito settore privato e pubblica amministra-
zione, dedotte le duplicazioni 5,60
Da queste cifre risulta che la Sicilia, con una popolazione pari a circa il 9.5% di quella italiana, contribuisce in una misura proporzionalmente molto inferiore alla formazione del reddito nazionale e soprattutto al reddito prodotto nel settore dell'industria, commercio, ecc.
In quanto alla media dei consumi per abitante, sempre secondo lo stesso studio del Tagliacarne, prendendo come base i numeri indici consueti (numero radioabbonati, spese annue tabacchi, spese annue spettacoli, consumo annuo energia elettrica per illuminazione, lettori di « Selezione », autovetture private, motociclette e ciclomotori), fatta uguale a cento 1a media nazionale, si avrebbe per il 1958 il seguente quadro per la Sicilia:
Radioabbonati 66
Spesa tabacchi 73
Spesa spettacoli 71
Consumo energia elettrica per illuminazione 58
Lettori « Selezione » 62
116 RENATO MIELI
Ma non è sull'intensità della miseria che si deve fissare lo sguardo, anche se umanamente vien naturale farlo; bensì sull'evoluzione in corso. La domanda a cui dobbiamo sforzarci di dare una risposta è se in questi ultimi anni le condizioni economiche dei siciliani siano andate migliorando o peggiorando. E poiché il concetto di « miglioramento » è di per se stesso relativo, presupponendo un confronto nello spazio e nel tempo, sarà bene dire subito che i termini di paragone ai quali intendiamo richiamarci sono rispettivamente la situazione economica nazionale e il quadriennio (1955-1959), che costituisce una prima parte del periodo previsto per l'attuazione dello « Schema Vanoni ».
Il perché di questa scelta è abbastanza evidente. Non si può comprendere l'evoluzione economica della Sicilia, isolandola dal contesto nazionale. Non si può pensare a un progresso di essa, prescindendo dai legami che l'uniscono al resto del paese. Il deterioramento delle condizioni di vita delle popolazioni meridionali, da un secolo a questa parte, ha insegnato qualcosa. Un tempo si poteva anche credere che bastasse l'unità politica a generare spontaneamente la parità economica, stabilendo per forza di cose un equilibrio tra le regioni arretrate e quelle avanzate, in modo analogo a quanto avviene tra vasi comunicanti. Oggi non lo pensa più nessuno. Oggi si sa che senza un intervento organico, su scala nazionale, da parte dello Stato e dell'iniziativa privata, non si colmano i dislivelli esistenti. Al contrario, a lasciar fare alle leggi, diciamo così, di natura, quei dislivelli tenderebbero ad aumentare anziché a diminuire, poiché la ricchezza tende a moltiplicarsi attorno ai « punti di accumulazione », dove è, cioè, più concentrata. Una politica economica di « non intervento » ormai non è sostenibile. È interesse riconosciuto della nazione correggere gli squilibri tra regione e regione; e dovere dello Stato operare affinché ciò avvenga. Parlare di « miglioramento » delle condizioni in Sicilia, in termini strettamente regionali, sarebbe perciò fuori luogo: sarebbe un'implicita sottovalutazione di quel fattore che ha contribuito in misura così rilevante all'impoverimento dell'isola, dopo lo sbarco di Garibaldi, e che dovrebbe contribuire ora, all'inverso, ad affrettarne lo sviluppo. Meno che mai ciò si giustifiche-
Indice motorizzazione 62
Media dei 6 numeri indici 65
Se si pone in confronto questa media dei 6 indici dei consumi per abitante con il corrispondente indice del reddito prodotto per abitante nel 1958, che è stato calcolato a 58,8 per la Sicilia (media Italia 100) si ha un rapporto pari a 1,11. Ció significa che durante il 1958 si è consumato — relativamente — nell'isola in una proporzione maggiore di quanto si è prodotto.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 117
rebbe dopo la presentazione del « Piano Vanoni » che ha precisamente tra i suoi obbiettivi principali quello dello sviluppo del Mezzogiorno e del pieno impiego: due obbiettivi essenziali per la Sicilia. Per questi motivi ci sembra che il miglior modo per valutare adeguatamente il problema siciliano sia quello di vedere quali progressi si siano eventualmente verificati in relazione allo sviluppo dell'economia italiana, in questi quattro anni di applicazione dello « Schema Vanoni ».
Il primo punto da esaminare è quello riguardante l'occupazione. Secondo le rilevazioni dell'Istituto Centrale di Statistica le forze di lavoro in Sicilia, al 20 aprile 1959, ammontavano a 1589.000 su una popolazione complessiva di 4.767.000 persone. Il livello di occupazione, ossia il rapporto tra popolazione attiva e popolazione residente, era pari al 33,3%. Alla stessa data, le forze di lavoro in Italia ammontavano a 20562.000 su una popolazione di 49.779.000 abitanti. Dunque il livello di occupazione nazionale era pari al 41,3%. Dal confronto di questi due dati risulta un dislivello dell'8%, che rappresenta la frazione di popolazione siciliana che dovrebbe diventare attiva per raggiungere la media nazionale. Naturalmente poiché sulla media italiana incide la minore occupazione delle regioni meridionali, il dislivello sarebbe ancor più accentuato se si paragonasse la Sicilia al Nord. Ma già da questo primo confronto si ha una misura del divario esistente. Per colmarlo occorrerebbe che l'8% dei siciliani, ossia circa 380.000 persone, cessassero di essere « inoccupati ». È una cifra forte, che dà un'idea della mole del problema da risolvere. Per:, non vi é da lasciarsi impressionare. Intanto va detto che il livello di occupazione non può essere preso come un indice assoluto di progresso. In una determinata comunità che avesse raggiunto, un elevato grado di sviluppo potrebbe diminuire la percentuale della popolazione attiva (per una minore partecipazione ad esempio di vecchi o di donne al processo produttivo) con un compensativo incremento della produttività. Non è questo il caso della Sicilia. L'isola è certamente al disotto del livello normale di occupazione. Tuttavia è difficile dire quanto essa sia al disotto perché la stessa media nazionale non può ancora considerarsi, allo stato delle cose, co me normale.
Comunque vi è un eccesso di popolazione che potrebbe lavorare e-non cerca nemmeno lavoro in Sicilia, tanto è convinta che sia inutile cercarlo. E questa tara dell'economia isolana deve essere eliminata. Si
118 RENATO MIELI
tratta ora di vedere se stia scomparendo o no, e con quale velocità e ampiezza si modifichi la percentuale delle forze di lavoro. Se si prende in esame il periodo 1955-1959 si ha il seguente quadro delle variazioni rilevate:
Anno Forze di lavoro (migliaia) Popolazione residente Percentuale
(migliaia) f. lav./p. res.
1955 (8 maggio) 1.493 4.616 32,3%
1956 (21 aprile) 1.506 4.658 32,3%
1957 (8 maggio) 1.555 ' 4.695 33,1%
1958 (20 ottobre) 1.623 4.748 34,2%
1959 (20 aprile) 1.589 4.767 33,3%
Il rapporto tra popolazione attiva e popolazione totale è andato lentamente crescendo in questi cinque anni. Nello stesso periodo si é avuto su scala nazionale un analogo aumento della percentuale come risulta dalla seguente tabella :
Anno Forze di lavoro (migliaia) Popolazione residente Percentuale
(migliaia) f. lav./p. res.
1955 (8 maggio) 19.661 48.308 40,7%
1956 (21 aprile) 19.761 48.714 40,6%
1957 (8 maggio) 20.170 49.063 41,1%
1958 (20 ottobre) 20.761 49.617 41,8%
1959 (20 aprile) 20.562 49.779 41,3%
Se si misura ora lo scarto tra la percentuale nazionale e quella siciliana si rileva una tendenza ad una lenta diminuzione. Il divario che era di 8,4% nel 1955 si é ridotto all'8% nel 1959. Si pu? quindi desumerne che, sebbene la popolazione siciliana aumenti in proporzione un po' più della media italiana (2) 1'« inoccupazione » tende invece a decre-
(2) In base al censimento effettuato il 4 novembre 1951, la popolazione residente in Sicilia, ammontava a 4.486.749, mentre la popolazione totale italiana si elevava a 47.515.537. Ossia la popolazione dell'isola rappresentava il 9,44% della popolazione nazionale. Successivamente si sono registrate le seguenti variazioni:
Data Sicilia Italia Percentuale
31.XII.1956 4.721.457 49.554.990 9,52%
31.XII.1957 4.756.271 49.895.283 9,532%,
31.XII.1958 4.794.362 50.270.665 9,537%
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 119
scere molto lentamente: troppo lentamente perché si possa pensare che, di questo passo, la soluzione sia in vista, entro un ragionevole periodo di tempo (3).
Fin qui si é considerato quello che potrebbe essere il potenziale umano tuttora improduttivo e si é constatato quanto resta da fare in Sicilia per raggiungere il livello italiano in tema di occupazione. Ma se si considera l'attuale stato di cose, per quanto si riferisce all'offerta di lavoro nell'isola, la situazione appare un po' meno preoccupante. Tuttavia non c'è per ora da compiacersene troppo. Oltre ai siciliani « inoc-cupati », che attualmente non hanno speranza di trovare lavoro, vi sono anche i « disoccupati », ossia i licenziati in cerca di nuova occupazione e le ultime leve in cerca di prima occupazione. Secondo le liste di collocamento, gli iscritti in queste due classi erano passati da circa 200.000 alla fine del 1956 a meno di 130.000 nella primavera del 1959. Stando invece alle stime dell'Istituto Centrale di Statistica, il loro numero corn-
(3) Dalle due tabelle di cui sopra, risulta che lo scoperto tra la percentuale delle forze di lavoro in rapporto alla popolazione residente in Sicilia rispetto all'Italia, ha seguito dal 1955 al 1959 questa evoluzione:
1955 8,4%
1956 8,3%
1957 8%
1958 7,6%
1959 8%
In base ai dati relativi al Centro-Nord si avrebbe avuto, invece, il seguente quadro:
Anno Forze di lavoro Popolaz. res. Percentuale Scarto pert. Sicilia
(migliaia) (migliaia) f.l.,p.r. pere. Nord
1956 11.937 27.224 43,8% 11,5%
1957 12.247 27.376 44,7% 11,6%
1958 12.625 27.644 45,6% 11,4%
Ne deriva che l'inoccupazione siciliana poteva essere stimata a 388.000 persone nel 1956 e a 380.000 persone nel 1958, calcolando in base alla media italiana, mentre sarebbe stata di 535.000 persone nel 1956 e di 541.000 persone nel 1958, rispetto ai dati del Centro-Nord. Praticamente si può dire che le variazioni registrate in questo periodo non hanno contribuito in misura apprezzabile a coprire il deficit di occupazione in Sicilia rispetto al livello nazionale.
120 RENATO MIELI
plessivo sarebbe passato da 130.000 nel maggio del 1955 a 78.000 nell'aprile dell'anno scorso (4). In entrambi i casi risulta che vi è stata una diminuzione sensibile del numero dei disoccupati siciliani, negli ultimi due anni: una diminuzione. che sembrerebbe, proporzionalmente, molto superiore a quella registrata, durante lo stesso periodo, su scala nazionale, se il calcolo venisse fatto in base ai dati degli Uffici di Collocamento (5). Comunque, una controprova dei miglioramento verificatosi al riguardo in Sicilia, durante gli ultimi anni, ci è data dal rapporto fra occupati e forze di lavoro. Questo rapporto che era del 91,3% nel 1955 è salito nell'isola al 95% nel 1959, mentre contempora-
(4) I dati riguardanti la disoccupazione in Sicilia possono essere compendiati nella seguente tabella in cui sono state riportate le cifre degli iscritti nelle liste di collocamento (I e II classe) e delle rilevazioni effettuate dall'ISTAT:
Data Iscritti liste collocamento Rilevazioni ISTAT
(migliaia)

I classe II classe Totale Disoccupati hip, Totale
occup.cerca 1
1
1955 maggio 89 41 130 1
1956 aprile
dicembre 133.458 67.813 201.271 107 44 151
1957 maggio
dicembre 114.085 45.031 159.116 101 44 145
1958 ottobre 97.410 43.297 140.707 80 42 122
1959 marzo
aprile 87.929 41.610 129.539 47 31 78
Come si vede esiste una sostanziale differenza tra le cifre degli Uffici di Collocamento e quelle dell'ISTAT (a prescindere dalla diversità delle date mensili a cui si riferiscono). Ma poiché a noi interessano le variazioni annuali più che gli ammontari assoluti, si può osservare che secondo i dati delle liste di collocamento gli iscritti alle prime due classi sarebbero diminuiti in media di 30.000 unità all'anno (dal dic. 1956 al marzo 1959) mentre, stando alle rilevazioni dell'Istituto Centrale di Statistica, il numero dei disoccupati e dei siciliani in cerca di una prima occupazione sarebbe diminuito in media di 13.000 unità all'anno (dal maggio 1955 all'aprile 1959) ovvero di circa 30.000 all'anno, se riferito al periodo 1957-1959. Da ciò si potrebbe desumere, con relativa approssimazione, che dall'inizio del 1957 alla primavera del 1959, la disoccupazione siciliana sia andata diminuendo in media del 15% all'anno, dopo aver seguito una curva ascendente negli anni precedenti.
(5) Analogamente a quanto si è fatto per la Sicilia, si può così compendiare l'andamento del fenomeno della disoccupazione in Italia, in base al numero degli iscritti alle prime due classi delle liste di collocamento e alle rilevazioni campionarie dell'ISTAT
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 121
neamente sul piano nazionale è passato dal 92,4% al 94,7% (6). Trova così conferma l'impressione che il progresso compiuto dalla Sicilia in questi quattro anni sia stato relativamente più accentuato di quello avutosi in Italia.
Ciò non deve indurre, però, a un compiacente ottimismo. E vero: la disoccupazione che fino al 1957 era in continuo aumento, da due anni sta diminuendo. Non bisogna dimenticare tuttavia che vi sono alcuni fattori che possono aver contribuito in misura sensibile a determinare questo miglioramento in Sicilia. Due di essi, soprattutto, van-
relative ai licenziati in cerca di nuova occupazione o ai giovani in cerca di prima occupazione:
Data Iscritti liste collocamento Rilevazioni ISTAT
(migliaia) (migliaia)

I classe II classe Totale Dis. In cerca la occup. Totale
1955 maggio
giugno 1.224 590 1.814 880 611 1.491
1956 aprile
giugtìo 1.238 600 1.838 1.170 697 1.867
1957 maggio
giugno 1.148 510 ' 1.658 1.054 608 1.662
1958 ottobre 1.151 501 1.652 845 495 1.340
1959 luglio 1.078 467 1.545 539 327 866
In percentuale la diminuzione annua della disoccupazione, dall'estate del 1957 all'estate del 1959, sarebbe dunque stata del 3,5% secondo il numero degli iscritti alle liste di collocamento e di circa il 30% secondo le rilevazioni dell'ISTAT. La considerevole sproporzione di questi due dati non consente di stabilire confronti; induce, semmai, a ricercare le ragioni di tale scarto di cifre, che non trova riscontro, come si è visto, su scala regionale siciliana. Va tuttavia osservato che i dati degli iscritti alle liste di collocamento, nel semestre successivo, tendono ad avvicinarsi a quelli dell'ISTAT, pur restando in valore assoluto, alquanto superiori.
(6) Le rivelazioni dell'ISTAT relative al numero degli occupati e alla loro percentuale in rapporto alle forze di lavoro, in Sicilia e in Italia, consentono di tracciare 11 seguente quadro dell'evoluzione verificatasi durante il periodo in esame:
Anno Sicilia Italia
(migliaia) (migliaia)
Occ. Forze lay. Perc. Occ. Forze lay. Perc.
1955 maggio 1.363 1.493 91,3% 18.170 19.661 92,4%
1956 aprile 1.355 1.506 89,9% 17.894 19.761 90,6%
1957 maggio 1.410 1.555 90,6% 18.508 20.170 91,8%
1958 ottobre 1.501 1.623 92,4% 19.421 20.761 93,5%
1959 aprile 1.511 1.589 95,0% 19.476 20.562 94,7%
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no tenuti in conto: l'afflusso delle a classi vuote » del periodo bellico e l'emigrazione verso il Nord. Che le nuove leve di lavoro tendano a diminuire in questi anni é un fatto su cui non ci sono dubbi (7). In Sicilia per il modo particolare in cui si svolsero le operazioni militari nel corso dell'ultima guerra, é probabile che la riduzione del tasso di natalità sia stata meno avvertibile che in altre regioni. Comunque, poiché il novanta per cento delle leve di lavoro é costituito da giovani dai 14 ai 25 anni d'età, il periodo in cui si registrerà il minor afflusso di nuove forze sul mercato di lavoro é quello che va dal 1954 al 1970. Durante questo periodo il minimo sarà raggiunto, prevedibilmente, nel biennio 1961-1963 corrispondente al 18' anno d'età dei nati nel 19431945. Si pue, quindi avanzare l'ipotesi che anche per la Sicilia i prossimi anni produrranno un alleggerimento della offerta di lavoro. Del secondo fattore, ossia della tendenza ad emigrare nelle regioni settentrionali, c'é da ritenere che, dopo essere stato per alcuni anni un fenomeno di notevoli proporzioni, possa, in un avvenire non lontano, attenuarsi considerevolmente. Man mano che si andrà sviluppando il trend delineatosi negli ultimi anni, anche questo esodo di popolazioni dalle zone sottosviluppate in cerca di lavoro andrà presumibilmente assestandosi con un insediamento economicamente piú razionale.
Ad ogni modo, non vi é motivo per prevedere un peggioramento della situazione, nell'immediato avvenire. Né si può negare che vi sia stato in Sicilia un progresso che, tutto sommato, resta un fatto positivo e incoraggiante.
Se poi si esamina piú attentamente come si é sviluppato questo processo di parziale assorbimento della disoccupazione siciliana si riscontra una sostanziale disuguaglianza a seconda dei rami di attività.
Dal 1955 al 1959, secondo le indagini dell'Istat, si è registrata la seguente variazione:
Anno Agricoltura (migliaia) Occ. Disocc. Industria (migliaia) Occ. Disocc. Altre attività
(migliaia)
Occ. Disocc
1955 (maggio) 595 27 359 48 409 14
1956 (aprile) 597 36 333 55 425 16
1957 (maggio) 567 33 387 52 456 16
1958 (ottobre) 581 24 427 39 493 17
1959 (aprile) 580 7 443 31 488 9
(7) I nati in Italia durante il periodo bellico sono caduti da 1.046.479 nel 1940 a 937.546 nel 1941 e poi fino a un minimo di 814.746 nel 1944 per risalire a 1.036.098 nel 1946.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 123
Durante questo periodo, nell'agricoltura il numero degli addetti è dunque diminuito di 15.000 unità (in media 3.750 all'anno) mentre nell'industria è aumentato di 84.000 unità (in media 21.000 all'anno) e nelle altre attività di 79.000 (in media 19.750 all'anno). In altri termini si può stimare che vi sia stato un assorbimento netto di circa 37.000 persone all'anno, ossia che le attività industriali e terziarie abbiano non solo assorbito un'aliquota equivalente a quella espulsa dall'agricoltura, ma anche una quota non irrilevante di disoccupati e di inoccupati. Per quanto si riferisce ai licenziati o ai giovani in cerca di una prima occupazione, dai dati statistici, sembra di poter dedurre che soltanto una frazione di essi è riuscita a trovar lavoro. Ciò fa pensare, a conferma di quanto si diceva prima, che vi sia anche un certo numero di inoccupati e di sottoccupati che vengono lentamente ammessi nel ciclo produttivo. Senza voler qui approfondire l'analisi di questo fenomeno, che meriterebbe uno studio molto attenta e documentato, si può con ragionevole approssimazione stimare che la situazione economica-sociale dell'isola stia evolvendo nel senso di un costante abbandono delle campagne da parte della manodopera maschile, parzialmente sostituita da quella femminile, e di un avviamento verso le attività industriali e terziarie, in prevalenza, da parte non solo di braccianti o contadini poveri, bensì di disoccupati, sottoccupati e inoccupati che oltre alle nuove leve di lavoro si dirigono verso i centri industriali e amministrativi per trovarvi occupazione (8).
Prima di ricavare da questa analisi sommaria alcune deduzioni, sarà bene accennare all'altra faccia del sottosviluppo siciliano: quella del reddito. Si è già detto come la media del reddito per abitante sia molto bassa in Sicilia, al livello cioè dei paesi sottosviluppati. L'isola la cui popolazione rappresenta il 9,5% del totale nazionale, ha un reddito globale che è appena il 5,6% di quello nazionale. Si capisce quindi che, ogni siciliano contribuisce in media meno di quanto dovrebbe alla formazione del reddito nazionale. Ma ciò potrebbe imputarsi al minor grado di occupazione rilevato nell'isola in confronto alla media nazionale. In realtà non è soltanto questo che determina il divario nei
(8) Occorre avvertire che, data la ristrettezza dei campioni, le cifre totali su cui 'si basano queste osservazioni, non possono considerarsi precise, né completamente attendibili. Tuttavia la contrazione nel ramo dell'agricoltura e l'espansione in quello dell'industria e delle altre attività, insieme con l'assorbimento sia pur limitato della disoccupa- zione in - tutti e tre i rami possono, senz'altro, considerarsi come indici di una variazione nella struttura delle forze di lavoro siciliane, più ampia di quella registrata nell'in--tero paese, durante questo periodo.
124 RENATO MIELI
redditi pro-capite. Vi è anche da tener presente un altro fattore che spiega perché l'isola contribuisca alla formazione del reddito italiano in misura inferiore alla media delle altre regioni. Se si calcola infatti il rapporto tra il prodotto netto della Sicilia nel 1957 e il numero degli occupati si ha una media di 460.000 lire per ciascuno, contro la media di circa 620.000 lire, calcolata in base ai corrispondenti dati nazionali. Ciò significa che la produttività media del lavoro in Sicilia arriva appena al 75% di quella italiana. Bisogna dunque riconoscere che lo sviluppo economico-sociale dell'isola è condizionato non solo da un graduale incremento dell'occupazione, ma anche della produttività. Quanto poi a vedere se il divario di redditi rispetto alle regioni più progredite stia aumentando o diminuendo, è difficile pronunciarsi in base ai dati di cui si dispone. La seguente tabella può darne un'idea:
Reddito prodotto dal settore privato e pubblico
(dedotte le duplicazioni)
Totale Media per abitante
(milioni di lire) (lire)
Sicilia Italia Percent. Sicilia Italia
1955 533.486 3.954.000 5,36% 113.957 202.386
1956 583.741 19.790.000 5,41% 123.635 217.725
1957 657.137 11.469.000 5,73% 138.164 229.862
1958 688.627 12.288.000 5,60% 143.633 244.437
Da questi dati, raccolti ed elaborati dal Tagliacarne, sembra doversi desumere che il divario dei redditi pro-capite tra la Sicilia e l'Italia sia andato aumentando in valore assoluto, sebbene l'incremento medio siciliano sia stato ogni anno proporzionalmente piú elevato di quello italiano (26,3% contro 17,2%). Ossia dovremmo ritenere che, mentre il contributo medio della Sicilia alla formazione del reddito nazionale si mantiene basso, come risulta dalla percentuale variante dal 5,36% al 5,6%, si sono in qualche modo allungate le distanze tra il reddito medio dei siciliani e quello italiano, nonostante il più intenso ritmo di progresso registrato nell'isola. Ad ogni buon conto, non si può negare che vi sia stato in Sicilia, in questi ultimi quattro anni, un aumento del reddito molto maggiore che nel passato, anche se il divario con le regioni più sviluppate del nostro paese, non si è contemporaneamente
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attenuato, per effetto dei progressi registrati nel Centro-Nord in conseguenza della favorevole congiuntura.
A questo punto é opportuno fare una prima tappa, al termine della ricognizione effettuata. In sintesi ci sembra che si possa dire che durante questi ultimi cinque anni la Sicilia ha fatto qualche passo avanti, sia per quanto si riferisce all'occupazione che per quanto si riferisce al reddito, ma non sufficiente né a stabilire l'equilibrio con le regioni più sviluppate del paese, né a superare decisamente il confine delle zone depresse. Qualcosa si è mosso in Sicilia, ma non abbastanza per mutarne la fisionomia. Occorre spingere più a fondo la trasformazione economico-sociale perché l'isola diventi un'area di sviluppo moderno. In quale senso e con quali mezzi? Questo é il problema.
Qui termina il campo di ció che é certo e incomincia quello dell'opinabile. Ma non é detto che non ci si possa intendere anche su questo terreno, aperto oltreché alle correnti di interessi, spesso contrastanti, a quell'elemento di natura che é il buonsenso. Intanto la stessa evoluzione di questi anni contiene delle indicazioni che non si possono ignorare. Che vi sia un esodo dalla campagna siciliana verso i centri più produttivi e che, in misura diversa, affluiscano verso le attività industriali e terziarie non solo le nuove leve, ma anche aliquote di persone che avevano perduto il lavoro o che non l'avevano mai avuto, sono fatti sui quali si deve riflettere. Anzitutto c'é da osservare che essi rispecchiano una tendenza diffusa in tutto il paese. In Sicilia il fenomeno é forse più accentuato che altrove; ma ha la stessa origine. Lo sviluppo delle tecnologie produttive moderne spinge il potenziale umano a dirigersi verso le zone più sviluppate dove si vanno maggiormente concentrando gli investimenti. Così, istintivamente, per cercare di salvarsi dalla marea della miseria, i meridionali tendono a emigrare al Nord e i contadini poveri ad abbandonare l'agricoltura per l'industria. Contro questa tendenza la passività non è certo un rimedio. Occorre avere una politica che operi in modo da ristabilire l'equilibrio, favorendo una diversa composizione e distribuzione degli investimenti allo scopo di dar luogo a una migliore ripartizione del reddito nazionale. E questa politica, per essere efficace, deve tener conto dei motivi che provocano l'attuale disfunzione dell'economia italiana. Per impedire ai contadini poveri di abbandonare la terra, a meno di non volerli costringere con la forza, bisogna effettuare trasformazioni tali da ren-
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dere per essi più conveniente restarvi. Si tratta di migliorare i terreni, le tecniche e gli strumenti di coltura e lo stesso indirizzo produttivo, in base ad una conoscenza dei mercati di sbocco e delle possibilità di concorrenza. Altrimenti le riforme fondiarie rischiano di diventare una distribuzione di miseria. Ma quanto costa rimodernare l'agricoltura in modo da invogliare i contadini a non abbandonarla? E fino a qual punto - é conveniente farlo?
A questi interrogativi non si pub rispondere in modo vago o approssimativo. Si tratta di una scelta che comporta una spesa molto elevata, in rapporto alle risorse disponibili e che, per essere fruttuosa, va fatta intelligentemente con una chiara visione della prospettiva di sviluppo generale. Per la Sicilia ciò significa ragionare in termini non più di una economia di consumo locale,-bensì di un'economia di scambio entro un'area di mercato molto più ampia, un'area che tende a diventare sempre più ampia. Sarebbe più che mai avventato non guardarsi attorno prima di decidere in quale senso dovrebbe essere indirizzato un rimodernamento dell'agricoltura siciliana, ossia in funzione di quale mercato dovrebbe essere impostata.
Ma é bene non equivocare su questo punto. Si è parlato di « convenienza », a proposito dei miliardi che verrebbe a costare l'ammodernamento dell'agricoltura. Convenienza per chi? P. ovvio che non si debba pensare ai vantaggi e ai profitti che potrebbe ricavarne qualche azienda privata. Lo scopo che ci si deve prefiggere é quello di assorbire il massimo numero di disoccupati nelle attività produttive; la convenienza va quindi intesa nel senso più largo di utilità pubblica e non di vantaggio aziendale. Ciò non implica affatto che non si debba badare a spese né prendere in considerazione altre scelte che non siano quelle suggerite da un'immediata esigenza sociale. Non è detto cioè, nel caso nostro, che sia socialmente più conveniente, in una prospettiva di sviluppo moderno, di investire senza limiti nell'agricoltura per trattenere un numero superiore di siciliani nelle campagne, dove la redditività, nonostante tutti gli sforzi, resterebbe bassa. Può darsi benissimo che sia più conveniente assorbire una parte degli inoccupati e sottoccupati in attività industriali e terziarie. Per deciderlo, non giova richiamarsi a schemi ideali; meglio affidarsi al calcolo economico del maggior vantaggio collettivo.
Per la Sicilia non ci consta che tale calcolo sia stato fatto finora. Si è accennato a varie soluzioni di massima; ma senza specificare, con
r
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cifre precise, che cosa si proporrebbe di fare. Da tutti è riconosciuto che tosi non si può continuare: ed é comprensibile. La cerealicoltura occupa attualmente più di un terzo della superficie agraria dell'isola; proporzione eccessivamente elevata se si tien conto delle necessarie rotazioni che sono infatti ovunque troppo brevi. Il rendimento quantitativo è molto basso: 11,5 q/ha in media contro circa 35 nella Valle Padana. È vero che il grano duro siciliano é qualitivamente superiore a quello tenero del Nord. Ma a conti fatti il bilancio granario dell'isola è largamente deficitario, giacché le sue esportazioni di « duro » non bastano a compensare le importazioni di « tenero ». Occorre migliorare le tecniche di coltura, riducendo l'area investita a cereali sia per effettuare rotazioni più lunghe sia per far posto a colture più redditizie. Per passare dall'agricoltura estensiva, che si sviluppa sulla maggior parte della superficie dell'isola, soprattutto all'interno, a quella intensiva, che viene praticata lungo la fascia costiera (con un maggiore assorbimento di manodopera sebbene non ancora con un livello di produttività pari a quello della concorrenza straniera), bisognerebbe investire ingenti capitali, allo scopo di modificare non solo le condizioni di lavoro ma anche quelle di vita della popolazione agricola. Si tratta di costruire vie di comunicazione, di sistemare i corsi d'acqua, di procurare acqua potabile e per irrigazione, di bonificare il terreno, di costruire case, stalle, scuole, farmacie, ecc. Un'impresa gigantesca, in poche parole. Fino a qual punto conviene, nell'interesse dei siciliani, impegnarvisi? L'opinione dei rappresentanti più autorevoli è controversa. Tutti concordano nel ritenere che si debba investire una cifra considerevole per trasformare l'agricoltura regionale in modo da porla su un piano di redditività competitiva nei confronti dell'Italia centro-settentrionale e di altri paesi europei. Ma tutti sembrano sottintendere che oltre ad un certo limite, di cui non viene precisata l'elevatezza, é meglio non spingersi, per convogliare piuttosto gli investimenti in altra direzione.
L'ex Presidente della Regione, Milazzo, pensa che ci siano già troppe bocche da sfamare nella campagna siciliana e che la terra sfruttata da secoli e coltivata male offra sempre minori possibilità di viverci. Torna a ripetere, a chi lo interroga su questo argomento che gli sta particolarmente a cuore, che ogni giorno nascono in Sicilia 135 nuovi candidati alla fame e che i contadini disperati non ne vogliono più sapere di sprecare la loro fatica quotidiana per quella terra ingrata. Come uscirne? Milazzo non é ottimista; e non lo nasconde. Da conoscitore
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qual è, vede la situazione molto scura, sempre più scura. Che la campagna siciliana si spopoli un po', per lui, è una necessità penosa ma forse salutare: non lo dice, ma dà l'impressione di pensarlo. L'unica via di salvezza che intravvede è nella trasformazione della coltura. Il clima della regione e la richiesta del mercato, a suo giudizio, consiglierebbero di sviluppare al massimo la coltura del cotone e del lino, che sono state finora trascurate. Per farlo, occorrerebbe per() che ci fosse la certezza di un collocamento del prodotto. Ora questa certezza non ci sarà — egli sostiene da convinto autonomista — fino a quando non sorgeranno in Sicilia i cotonifici e i linifici °che lavoreranno sul posto il prodotto stesso. Sull'industria del Nord' non ci si può contare; anzi non c'è da fidarsene. Occorre che i siciliani stessi costruiscano un certo numero di stabilimenti (25 o 30 al massimo) di media grandezza per la trasformazione della produzione agricola; soltanto allora sarà possibile procedere a una riconversione dalla coltura cerealicola estentiva, ormai insostenibile, ad una coltura più redditizia, che alimenti una sana attività industriale.
Il suo predecessore, La Loggia, dice che si deve procedere a una trasformazione radicale dell'economia agraria dell'isola, condannata inesorabilmente a decadere se si continua cosi. La trasformazione alla quale pensa non va confusa con la riforma fondiaria : si tratta di cosa ben diversa. Che certe modifiche della struttura sociale nella campagna siciliana, possano essere utili e perfino necessarie non lo mette in dubbio. Ma una ridistribuzione della proprietà terriera si risolverebbe in una rovina per gli assegnatari se -non fosse inquadrata in un piano organico di rinnovamento della agricoltura isolana. Quello che occorre, in primo luogo, è una chiara idea di ciò che si può e si vuol fare. Bisogna studiare anzitutto quali siano le colture più adatte alla Sicilia e più convenienti in termini di sviluppo economico; poi esaminare i metodi di coltura più moderni che dovrebbero essere applicati per elevare al massimo la produttività; e infine adottare le misure necessarie per l'attuazione del programma di rimodernamento agrario. La Loggia non ritiene che si possa, allo stato attuale, dire quali riconversioni si impongano nell'indirizzo delle colture; è argomento, questo, che va studiato con la massima serietà. Ritiene invece che vi sia qualcosa da dire sul metodo. Il suo pensiero è che per liberare l'agricoltura siciliana dalla secolare arretratezza sia indispensabile liberarla dalla sua insufficiente produttività. dovuta alla mancanza di spirito associativo. Bisogna introdurre e applicare gli stessi criteri che stanno alla base di
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ogni altra forma di attività economica moderna. E finita l'epoca dell'individualismo anarchico e inconcludente. Oggi per avere un alto rendimento si deve e verticalizzare » il processo di produzione agricola, coordinando e organizzando non solo la lavorazione dei campi, ma anche la raccolta, conservazione, distribuzione e trasformazione del prodotto. Ma per farlo occorre prima di tutto consorziare i produttori. Questa é la conclusione a cui é giunto La Loggia: conclusione che ci sembrerebbe più convincente se non dubitassimo della volontà di consorziarsi dei produttori siciliani.
Per i comunisti e socialisti il problema non è tanto di un rimodernamento delle tecniche produttive quanto di una maggiore occupazione agricola attraverso una più rigorosa applicazione ed eventuale revisione della legge di Riforma allo scopo di elevare il numero degli assegnatari. Macaluso, 'che é indubbiamente la figura di maggior rilievo tra i dirigenti comunisti siciliani, ritiene che la politica di incre- mento della bonifica, di trasformazione e conversione colturale, debba poggiare su tre pilastri:
1° — Ente di Riforma agraria;
2° — Consorzi di bonifica;
3° — Consorzi agrari. Questi tre strumenti, a suo avviso, vanno
completamente rinnovati, se si vuol fare una politica di sviluppo del-
l'agricoltura.
Il P.C.I., più che far questione di indirizzo produttivistico o di metodo nuovo, pone la sua candidatura al controllo degli strumenti operativi; e basta. Nessuno può contestare il buon diritto dei comunisti di rivendicare la loro parte di responsabilità nella direzione dell'economia agricola isolana, quando era evidente che senza di essi sarebbe venuta meno la maggioranza su cui si reggeva la Giunta Milazzo. Né si può negare che un funzionamento più democratico degli Enti di Riforma, dei consorzi di bonifica e dei consorzi agrari o una più ampia partecipazione ad essi dei contadini, che finora sono stati esclusi, potrebbe aumentarne l'efficienza. Ma il problema non é di un semplice per- fezionamento . degli strumenti esistenti: il problema é dell'uso che si intende farne. In mano ai comunisti certi organi di direzione della politica agraria possono servire ad imprimere un determinato indirizzo; in mano ai monarchici possono servire all'opposto. E in mano ad en-
trambi diciamo la verità —. servono solo a generare confusione e
contrasti che hanno come unica risultante l'immobilismo.
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Purtroppo c'era poco da fare. L'ex-Presidente Milazzo aveva bisogno dei voti dell'ala sinistra e dell'ala destra della sua striminzita maggioranza all'Assemblea Regionale e non avrebbe potuto concedersi il lusso di scontentare né Macaluso né Majorana della Nicchiara. Ma non poteva nemmeno accontentarli entrambi con un programma di rinnovamento dell'economia agraria perché le concezioni e soprattutto gli interessi, di cui sono gli esponenti, stavano agli antipodi. Ognuno sarebbe rimasto, per quanto é possibile, sulle sue posizioni, cercando di ottenere il massimo beneficio dalle circostanze occasionali. E cosí é andata. Parlare di un piano, in queste condizioni, sarebbe stato pura ipocrisia o demagogia. Al massimo, si sarebbe potuto parlare di intenzioni, lodevoli ma non impegnative.
In questo stato di necessità, il P.C.I., e analogamente il P.S.I., non volendo far naufragare l'esperimento Milazzo, avevano poco da scegliere. Non potevano varare quel piano di rimodernamento dell'agricoltura che, fino a quando erano stati all'opposizione avevano additato come una lontana speranza, ma che, essendo sia pure indirettamente al potere, avrebbero dovuto formulare con impegni e scadenze precise. Dovevano quindi, per forza di cose, accontentarsi di 'esercitare quel tanto di autorità che avrebbe consentito di esaudire almeno in parte ciò che il loro elettorato si attendeva da essi. Ma non era molto; e soprattutto non era sufficiente a produrre quella trasformazione delle condizioni di vita dei contadini siciliani che è una necessità improrogabile per l'isola.
Visto che con quella maggioranza si è dimostrato impossibile impostare un piano, tecnicamente preciso e politicamente realizzabile, vien da chiedersi se ce ne sarebbe un'altra più omogenea per un programma di rinnovamnto dell'economia agraria. L'impressione, finché si rimane nel campo delle ipotesi, è positiva; in sostanza i dirigenti dei principali partiti — D.C., P.C.I. e P.S.I. — non hanno un orientamento inconciliabile per quanto si riferisce allo sviluppo dell'agricoltura isolana. Anzi c'é da ritenere che se dai propositi di massima si passasse allo studio delle trasformazioni e riconversioni colturali, dell'incremento e miglioramenti della zootecnia e della riforma del credito agrario, si intenderebbero piú facilmente. Sono i rapporti tra i partiti che ostacolano, per altre ragioni, l'elaborazione e l'accordo su un programma di rimodernamento agrario e non viceversa.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 131
Sta di fatto, però, che tale programma è ancora nel limbo. Né i democristiani né i socialisti, né i comunisti hanno dimostrato finora di essere pronti a formulare uno schema di sviluppo agricolo moderno, che sia qualcosa di più che un catalogo di rivendicazioni e di aspirazioni. Insensibilità? Incompetenza? Forse anche questi motivi possono aver influito. Per:, dietro questa apparenza di inerzia si nasconde una convinzione diffusa anche se inconfessata: la convinzione che per liberare la Sicilia dalla sua arretratezza economica convenga concentrare l'attenzione e lo sforzo principale in un'altra direzione. Questa è la verità.
Studiosi e uomini politici sono ormai tutti concordi nel ritenere che l'agricoltura non basti a risolvere da sola il problema della massima occupazione in un'area sottosviluppata. Sono soprattutto le attività industriali e terziarie che contribuiscono a risolverlo. Queste ultime, tuttavia, se non s'innestano su un'economia caratterizzata da un forte sviluppo dell'agricoltura e dell'industria, possono dar luogo ad un processo patologico, anziché fisiologico. Un accrescimento sproporzionato delle attività terziarie, quanto non corrisponde ad un aumento parallelo di quelle primarie e secondarie, finisce con essere una forma larvata di ridistribuzione delle ricchezze attraverso diaframmi artificiali.
Il metodo migliore per guarire dalla depressione strutturale é l'industrializzazione. Ciò vale per tutte le aree sottosviluppate; e i siciliani lo sanno. Su questo infatti sono d'accordo. D'accordo — intendiamoci — sull'idea, ma non su ciò che si dovrebbe fare per realizzarla.
Qui si entra nel vivo della questione. Tutti dicono di essere per l'industrializzazione in Sicilia; non costa niente affermarlo. E chi non lo vorrebbe? Per:, guardiamoci dalle esagerazioni. Industrializzare: va bene. È giusto che sia, questo, l'indirizzo principale dello sfarzo per lo sviluppo dell'isola. Principale ma non esclusivo. Non passiamo da un eccesso all'altro. Lo sforzo, per essere fruttuoso, va distribuito giudiziosamente. Va concentrato soprattutto nel progresso industriale, senza trascurare tuttavia le attività agricole e terziarie che in un'economia moderna, in pieno sviluppo, hanno la loro parte tutt'altro che irrilevante.
Ma prima di parlare di industrializzazione, come componente fondamentale di un processo anti-depressivo, c'é da vedere a che punto si é. Siamo ancora molto indietro in Sicilia: questa é la realtà. I.e infrastrutture esistenti sono tuttora largamente inadeguate. Mancano,
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in senso assoluto, una serie di dotazioni ambientali e di servizi che sarebbero indispensabili al sorgere di moderni complessi produttivi. In senso relativo, poi, la situazione é peggiore. Troppo scarso é il capitale fisso sociale dell'isola in confronto a quello di altre regioni per non costituire in partenza uno svantaggio per gli operatori economici che ragionano in termini di calcolo privato di convenienza. Di progressi ce ne sono stati molti, in questi anni; nessuno lo nega. Ma non bastano. Ci vuol molto di piú. Occorre una vasta opera di creazione e ampliamento delle infrastrutture, che contribuisca a ridurre quella insufficienza di economie esterne che ostacola lo sviluppo di nuove attività produttive in Sicilia. E per far questo occorre un'azione pubblica di ampio respiro, non più ristretta nell'ambito tradizionale delle opere indispensabili in una società civile (e purtroppo ancora scarse nell'isola), ma atta a creare certe premesse, in mancanza delle quali l'iniziativa privata non avrebbe alcuna convenienza a manifestarsi. Questa fase di preindustrializzazione non può dirsi conclusa; molto resta ancora da fare.
Molto, si; perché non basta vedere quello che manca oggi e prevedere quello che occorre per creare le condizioni necessarie al sorgere di nuove imprese domani. Man mano che si va avanti, si manifestano nuove esigenze, che non potevano essere preventivate prima. Né c'è motivo di scandalo se i grandi complessi che sono stati impiantati di recente incominciano a chiedere che si faccia qualcosa per agevolarne l'attività e lo sviluppo. A parte ogni considerazione su chi debba pagarne le spese, é naturale che si avvertano, oggi, necessità che ieri non si avvertivano. Le opere infrastrutturali non possono essere concepite in astratto, secondo uno schema valido per qualsiasi ipotesi. Devono integrarsi in una dinamica di sviluppo ben definita; devono quindi essere programmate in modo da anticipare non un qualsiasi progresso, ma un ben determinato sviluppo. Rientrano, insomma, in un piano economico, con quella funzione propulsiva che possono esplicare sol- tanto se congegnate apposta per tale scopo.
A questo proposito vi é un problema di competenze che introduce parecchie complicazioni. Una buona parte delle opere infrastrutturali, ritenute necessarie dalla Regione, appartengono alla sfera di competen- za dello Stato: ferrovie, porti, aereoporti, grandi arterie di comuni-cazione, ecc. Per evidenti motivi di interesse nazionale non si può la-
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sciare alla Regione la responsabilità di decidere in materia. Poiché si tratta di opere fondamentali per lo sviluppo dell'economia isolana, bisogna ammettere che nessun piano sarebbe realistico a meno di non tener conto di questo fatto, inquadrandosi razionalmente nello schema di sviluppo nazionale. E già questo pone dei limiti al concetto di autonomia nella programmazione economica.
Ma anche per la parte che é di competenza della Regione non mancano complicazioni, inerenti ai rapporti con lo Stato. Tra le varie controversie, che non é il caso di elencare, quella, diciamo così, di fondo sembra la più ostinata e, per ragioni che vedremo meglio in seguito, la più preoccupante. Lo Stato — si dice — ha non solo diritti ma anche doveri nei confronti della Sicilia. Uno di questi, riconosciuto dalla Costituzione e dallo Statuto regionale, è di contribuire con un fondo di solidarietà a superare lo squilibrio tra l'isola e le regioni più progredite del nostro paese. La politica meridionalistica, intrapresa successivamente dal governo con la Cassa del Mezzogiorno, non pub. annullare questi impegni, conglobando il contributo dovuto alla Sicilia nella quota che le spetterebbe in base ad un criterio di ripartizione proporzionale degli aiuti alle zone sottosviluppate. In linea di diritto è una tesi che si può sostenere. Ma non sarebbe una discrimi- nazione, diretta di fatto contro le altre regioni meridionali, accogliere il principio che alla Sicilia spetti un contributo proporzionalmente superiore, in virtù di obblighi assunti in precedenza dal governo? Comunque, si voglia giudicarla, questa rivendicazione siciliana, sarebbe certamente meno assillante se il contributo dello Stato, indipendentemente dal titolo di legittimazione, fosse più elevato e adeguato alle necessità dell'isola. Il rimodernamento delle infrastrutture siciliane richiede effettivamente di piú. Però, possono i siciliani dire di aver fatto finora il miglior uso possibile dei mezzi, sia pure insufficienti, di cui disponeva la Regione? Onestamente, quando si sente affermare, senza convincenti smentite, che alcune decine di miliardi giacciono inutilizzati da mesi nelle casse della Regione, un certo senso di disagio è difficile non provarlo. L'on. Lanza, che fu Assessore ai Lavori Pubblici nel governo La Loggia, dichiara, a chi gli chiede una spiegazione in proposito, di non essere mai riuscito ad ottenere dai funzionari di quell'Assessorato una cifra precisa delle giacenze. A quanto ammontino quei fondi nessuno lo sa: 110 miliardi? Forse più, forse meno. Pere. — precisa Lanza — solo in parte esigua può trattarsi di fondi disponibili; nella quasi totalità si tratta di fondi bloccati che non possono
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essere toccati. Gli stanziamenti per lavori pubblici hanno un percorso obbligato molto lungo. Prima che un progetto venga approvato e passi poi alla fase di attuazione, trascorrono parecchi mesi: il cosidetto tempo di maturazione. Ora, per disposizione di legge, la Regione è vincolata a non toccare quelle somme iscritte nel capitolo della spesa finché non sia venuto il momento previsto per il loro impiego, anche se questo momento dovesse venire, come spesso accade, molti mesi dopo. Ne deriva che fondi destinati ad essere erogati dopo oltre un anno rimangono inutilizzati per un lungo periodo di tempo.
La stessa spiegazione, sebbene con un po' di risentimento per le accuse mosse da alcuni giornali poco benevoli, dà l'on. Corrao, che fu Assessore ai `Lavori Pubblici nei due successivi governi presieduti da Milazzo. È una campagna — egli dice — che specula sulle difficoltà di ordine tecnico, derivanti dalle leggi esistenti, per screditare gli autonomisti siciliani, presentandoli all'opinione pubblica come amministratori incompetenti, che chiedono miliardi al paese e non si accorgono nemmeno di quelli che hanno in cassa e che non sanno spendere.
Fuori da ogni polemica, resta il fatto che un po' di chiarezza su questo argomento non sarebbe sprecata. Che vi siano decine di miliardi nelle Casse della Regione bloccati per lunghi periodi di tempo è da appurare. Ma se tosi fosse — come sembra probabile — bisognerebbe piuttosto che invocare una legge per giustificarsi, individuare un rimedio per correggere uno stato di cose svantaggioso per l'isola. E sarebbe il modo più persuasivo per dimostrare che l'autonomia non è soltanto necessaria ma anche operante in Sicilia.
***
Tutte queste considerazioni non sono che un preambolo al discorso .che più ci interessa: il discorso sulla industrializzazione. Questa è la spina dorsale del problema siciliano. Argomento, dunque, che va affrontato con la massima chiarezza se si vuol vedere sul serio quali sono gli impedimenti e quali potrebbero essere i rimedi per il progresso economico dell'isola. Ma non è facile. A volerne parlare con assoluta sincerità ci si scontra non solo contro una serie di preconcetti e di opinioni belle e fatte, che rispecchiano interessi di parte, bensì contro una quasi inestricabile rete di informazioni contrastanti e di lacune incomprensibili. Con tutta la buona volontà riesce pressocché impossibile, in queste condizioni, formulare un giudizio conclusivo. Il problema è aperto a tutti i sensi; e bisogna avere l'onestà di riconoscerlo.
135
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA
, L'argomento non é soltanto complicato per le ragioni di cui si è detto; è anche complesso per motivi di carattere tecnico. Per renderlo più accessibile conviene perciò procedere con un certo ordine, esaminando prima il settore relativo alla produzione di beni d'investimento, e poi quello relativo alla produzione di beni di consumo. Questo ordine, che non ha — si capisce — alcuna pretesa scientifica, ci viene suggerito oltre che da una esigenza pratica, di comodità di esposizione, anche da una considerazione che, nel caso della Sicilia, assume un certo rilievo. Si tratta di questo: l'industria di base è costituita da grandi complessi, dove le tecnologie produttive indirizzate sempre più verso l'automazione, sono spinte al massimo e in conseguenza il capitale richiesto per ogni addetto è molto elevato. Le industrie manifatturiere, invece, assorbono maestranze molto più numerose e richiedono investimenti proporzionalmente molto meno elevati; sicché l'intensità di capitale per ogni occupato è di gran lunga inferiore. Tanto per dare un'idea: per un impianto di grandi dimensioni, come una raffineria, si calcola che occorra un investimento medio di 40 milioni per ogni occupato, mentre per una fabbrica di lavorazione di materie plastiche potrebbero bastarne due milioni per addetto. Questo sbalzo del coefficiente di utilizzazione del capitale agli effetti del massimo assorbimento nell'industria, per l'economia siciliana, che soffre soprattutto dell'eccesso di manodopera, inoccupata e disoccupata, ha un'importanza più che evidente. Tuttavia non si deve dedurne automaticamente che, data tale sproporzione, si debba senz'altro concentrare lo sforzo per lo sviluppo industriale esclusivamente in direzione delle piccole e medie aziende che assorbono un maggior numero di lavoratori in rapporto agli investimenti occorrenti. Sarebbe un po' troppo semplicistico. In realtà senza un'industria di base non si sviluppa un'industria manifatturiera sana. Bisogna incominciare con creare quel tronco vitale che è l'industria pesante perché si possa formare attorno tutta la ramificazione dell'industria leggera. Questo è il frutto dell'esperienza fatta non solo nei paesi occidentali, ma anche e soprattutto in quelli che si muovono sulla scia dell'esempio sovietico.
***
Per giudicare quale sia stato lo sviluppo dell'industria di base in Sicilia, durante il periodo 1955-1959, il primo settore su cui è opportuno soffermarci è quello elettrico. Dai dati fin qui pubblicati risulta che la produzione complessiva — termoelettrica ed idroelettrica — è salita da
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809 milioni di kWh nel 1955 a 1.145 milioni di kWh nel 1958. Con la costruzione di due dei tre gruppi della centrale Tifeo di Augusta, la disponibilità di energia elettrica nel 1959 ha raggiunto quasi i due miliardi di kWh. Un progresso c'è, dunque, stato in questi anni; un progresso che appare più rilevante se si prende come termine di riferimento la produzione del quinquennio precedente (9). Ma se si prende come termine di confronto la produzione nazionale per abitante, e più ancora il consumo pro-capite, si ha una nuova conferma del sottosviluppo siciliano (10). Ancora una volta si è costretti a riconoscere che tra la media nazionale e quella regionale c'è un divario che si stenta a colmare al ritmo di sviluppo attuale.
(9) L'aumento dell'energia generata dagli impianti termoelettrici ed idroelettrici in Sicilia dal 1952 al 1959 è veramente considerevole, come risulta dalla seguente tabella compilata in base ai dati pubblicati dal e Notiziario Economico Finanziario Siciliano 1958 » del Banco di Sicilia, integrati, per gli ultimi anni, da quelli resi noti dall'ANIDEL:
Anno Produzione energia elettrica in Sicilia
(milioni di kwh)
1952 1955 1956 1957 1958
Produzione complessiva 537 809 851 988 1.145
% sul totale Italia. 1,8% 2,2% 2,1% 2,3% 2,5%
In valore assoluto, la produzione di energia elettrica nell'isola è, dunque, più che raddoppiata dal 1952, mentre in rapporto al totale della produzione italiana è passata dall'1,8% al 2,5%. Questo progresso trova conferma nell'aumento, altrettanto considerevole, dei consumi, registrato nel 1958, come può vedersi dai seguenti dati dell'ANIDEL:
Consumi di energia elettrica in Sicilia
(milioni di kWh)
Totale 1958 Variazione in % rispetto al 1957
Usi civili 292 14,87%
Usi industriali 478 14,31%
Usi elettrochimici ed elettrometallurgici 12,6 — 2,20%
Trazione 60,2 — 1,46%
Usi agricoli 45,8 19,64%
Totale 888,6 - 13,26%
Se si tiene presente che l'aumento globale dei consumi nel 1958 rispetto all'anno precedente è stato in media per l'Italia del 5,59% e che in particolare quello degli usi civili (illuminazione pubblica, illuminazione privata, applicazioni domestiche e commerciali) è stato nello stesso periodo per l'Italia dell'8,83%, si deve riconoscere che iï miglioramento avutosi in Sicilia è stato, relativamente, superiore, come media, a quello nazionale.
(10) L'incremento della produzione elettrica in Sicilia, per quanto apprezzabile in valore assoluto e relativo, non deve farci dimenticare che l'isola con una popolazione
137
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA

Posto in questi termini, il problema si riduce a una ripetizione di quanto si è già detto. In realtà, se si tiene conto della funzione prioritaria che la produzione energetica ha in un'economia in sviluppo, non ci si può accontentare di un ragionamento così limitato e meccanico per commisurare i progressi compiuti al fabbisogno dell'isola. Intanto si deve precisare che cosa si intenda per « fabbisogno ». Se si intende dire la richiesta attuale degli utenti, praticamente non si giustificherebbe la costruzione di nuove centrali (11). Se si pensa invece alla « richie- sta potenziale » allora è un altro discorso. Ed è proprio su questo punto che si impernia la polemica sul problema dell'energia elettrica in Sicilia. Che la richiesta potenziale sia superiore a quella attuale nessuno può onestamente negarlo. Il fatto stesso che la SGES continui a costruire nuove istallazioni come quella di Augusta e a progettarne altre come quella di Termini Imerese ne è la prova migliore. Se l'iniziativa privata non prevedesse un consumo futuro in continuo aumento, nel-
pari al 9,5% di quella italiana aveva appena raggiunto nel 1958 il 2,5% della produzione nazionale di energia elettrica. Comunque, negli ultimi due anni si è verificato un leggero miglioramento nella produzione e nel consumo pro-capite, come può rilevarsi dalla seguente tabella, compilata in base ai dati dell'ANIDEL:
Sicilia Italia
Energia prodotta kWh/abit. Energ. cons. Energia prodotta kWh/abit. Energ. cons.
kWh/abit. kWh/abit.
1957 204 166 866 728
1958 234 185 908 763
Ovviamente, dato il divario nella produzione e consumo pro-capite ereditato dal passato, il maggiore tasso di incremento registrato in Sicilia non è sufficiente a colmare o ridurre il dislivello esistente, ;fino a quando non si sarà raggiunto un ritmo di sviluppo molto superiore. Tuttavia non si può negare che l'indice del consumo di energia elettrica sia andato elevandosi in Sicilia più che in Italia, se si giudica in base ai seguenti dati (base 1946 = 100) dell'ANIDEL:
1946 1952 1955 1956 1957 1958
Sicilia 100 251 390 451 493 558
Italia 100 182 227 244 259 273
(11) Difatti se si dovesse prevedere un aumento annuo dei consumi di energia elettrica in Sicilia del 15% (tenendo presente che quello registrato nel 1958 è stato del 13,26%), le centrali in costruzione basterebbero largamente a coprire il fabbisogno; senza contare poi l'elettrodotto che, attraverso lo Stretto di Messina, assicura all'isola una disponibilità di energia elettrica di gran lunga superiore alla richiesta attuale.
138. RENATO MIELI
l'isola, non investirebbe certamente tanti miliardi nel settore elettrico. È superfluo quindi discuterne. Non c'è dubbio che la disponibilità di energia elettrica debba essere sensibilmente e rapidamente incrementata. Il vero motivo di controversia sta nel decidere l'entità e l'intensità dell'incremento. Può darsi che in base a un calcolo degli utili dei nuovi impianti e dell'ammortamento dei vecchi, alla grande azienda privata risulti più conveniente procedere oculatamente nello sviluppo della produzione elettrica. Non ci sarebbe nulla di strano e di inammissibile; dopo tutto all'iniziativa privata non si può chiedere di muoversi se non in vista di un profitto. Se non fa di più è affar suo; non ha senso rimproverarglielo come se fosse venuta meno al suo dovere. Piuttosto c'è da esaminare se conveniva aumentare la produzione e se si poteva abbassare il costo con un intervento dell'iniziativa pubblica nel settore energetico (12). Ed è proprio questo il fatto che sta all'origine della polemica in corso.
Si dice a questo proposito che la vera colpa dei « monopoli » consista nell'aver impedito all'iniziativa pubblica di funzionare come avrebbe dovuto in Sicilia. Siamo indubbiamente su un terreno minato; e bisogna stare attenti a dove si mettono i piedi. Per quanto imparziali si voglia essere, è difficile evitare gli errori su un argomento come questo. Gli elementi su cui si basa l'accusa mossa alla SGES, considerata quale incarnazione del « monopolio » elettrico nell'isola, sarebbero in sostanza questi: di aver bloccato e deviato a proprio profitto, con la complicità del governo nazionale, i finanziamenti che avrebbero dovuto
(12) Quest'esame, per essere utile, non va fatto partendo da pregiudiziali di carattere ideologico. Intanto si deve osservare che, secondo le conclusioni a cui sono giunti gli esperti che hanno studiato il problema, le risorse idroelettriche economicamente sfruttabili in Sicilia sarebbero valutabili a circa 888 milioni di kWh. Però, si deve subito aggiungere che tale possibilità di sfruttamento è, in buona parte, soltanto teorica e che è più conveniente, da un punto di vista tecnico ed economico, orientarsi verso la costruzione di impianti termoelettrici, ubicati nelle vicinanze dei maggiori centri di consumo.
In quanto ai costi si deve distinguere quello vero e proprio di produzione dal costo globale e finale dell'energia distribuita agli utenti. Il primo, che comprende gli oneri patrimoniali (rimunerazione del capitale, ammortamenti, imposte) e le spese d'esercizio (spese generali, per il personale, per la manutenzione e per il combustibile nel caso di impianti termici), è praticamente uguale in tutto il paese. Anzi, è piuttosto inferiore che superiore in Sicilia rispetto al Nord. Il secondo, che comprende anche le spese di trasporto, con relative perdite di linea dovute alle distanze dal luogo di produzione al luogo di consegna, in Sicilia, dove le utenze sono più diluite nello spazio, data la bassa densità di distribuzione, e data la irregolarità di prelievo, a causa di una maggiore concentrazione dei consumi nelle ore di massimo carico, è certamente più elevato che nelle regioni settentrionali. Ne consegue che, indipendentemente dal carattere pubblico o privato delle aziende, l'elettricità costa più cara nelle zone sottosviluppate, come la Sicilia, appunto per il minor consumo pro-capite e per la minor densità di utenze.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 139
essere destinati all'Ente pubblico, ossia all'E.S.E. Che ciò sia realmente accaduto resta ancora da dimostrare con prove circostanziate. Però non lo si può escludere. Da fonte competente, si risponde con una contro-accusa; non è vero che son mancati i finanziamenti, ci sono già stati nella misura dei due terzi della spesa d'impianto ed erano disponibili anche per il rimanente terzo. È mancata invece la capacità dei dirigenti dell'E.S.E. i quali non hanno saputo utilizzare le possibilità esistenti. Se alla testa di quell'Ente ci fosse stato un uomo come Mattei -- si dice — a quest'ora la centrale dell'E.S.E. sarebbe già entrata in funzione da un pezzo. Bastava che non si respingesse l'offerta di credito di un'impresa appaltatrice (offerta che sarebbe stata integrata e garantita dai fondi della Regione), per il timore di insinuazioni o sospetti.
Chi ha ragione? Il dirigente dell'E.S.E. o gli uomini politici che hanno sulla coscienza il rimorso di averlo collocato a quel posto? È difficile dirlo; bisognerebbe saperne molto di piú. In mancanza di una inchiesta che permetta di accertare come siano andate le cose, è più saggio sospendere qualsiasi giudizio sul passato e concentrare l'attenzione sul presente. Perché non si provvede ora a procurare il finanziamento necessario per completare l'opera intrapresa e restata a metà? Chi lo impedisce? Qui non c'entrano più i «monopoli ». Il problema, a quanto è dato capire, riguarda invece i rapporti tra Stato e Regione. Nel corso del dibattito sul bilancio all'Assemblea Regionale, nel novembre scorso, l'on. Fasino, che fu, in precedenza, Assessore all'Industria, rinfacciò al Governo Milazzo di aver ereditato otto miliardi che lo Stato si era impegnato ad erogare subito a favore del-l'E.S.E. e gli rimproverò di non aver fatto nulla per approntare l'emissione di obbligazioni allo scopo di completare il programma dell'Ente. Milazzo rispose assicurando che gli otto miliardi concessi dalla Regione sui fondi corrisposti dallo Stato in base all'art. 38 (contributo di solidarietà) erano già in programma ma non dovevano essere interpretati come uno « spostamento dal livello nazionale a quello regionale » dell'impegno relativo al problema energetico. In altre parole, Mi-lazzo insisteva per non far gravare sulle finanze regionali la spesa relativa al completamento del programma dell'E.S.E., mentre da varie parti, ed in particolare dalla D.C., lo si invitava allora ad affrettare comunque la conclusione dell'opera incompiuta, sostenendo che si sarebbe alleggerito in tal modo una grave passività.
Ma il contrasto tra iniziativa pubblica e privata in tema di energia elettrica, non può dirsi, con ciò, esaurito. Nel corso dello stesso dibat-
140 RENATO MIELI
tito é infatti riemerso in forma piuttosto acuta. Questa volta, però, le parti erano invertite. Erano i sostenitori dell'iniziativa privata che accusavano l'E.S.E. di aver ostacolato con pretesti capziosi il decreto di autorizzazione della centrale di Termini alla Tifeo. Dunque, l'ostruzionismo a danno dell'incremento produttivo nel settore elettrico, andrebbe ora addebitato all'Ente pubblico. II colmo é che quest'accusa veniva candidamente — diciamo così — ribadita dall'Assessore delegato dell'Industria, Barone, il quale ammetteva che vi era stato da parte del-l'E.S.E. un tentativo per indurre il governo a revocare quel decreto di autorizzazione (revoca che venne deliberata in seguito). Messo in grave imbarazzo da questa ammissione, il Presidente Milazzo ritenne allora di non dovere né approvare né sconfessare il suo, forse ingenuo, collaboratore. Ma la K gaffe » rimase; e con essa il dubbio che la politica di intervento pubblico per lo sviluppo dell'energia elettrica in. Sicilia fosse in mano di uomini che non sembravano all'altezza del compito.
***
Se si passa ad altri settori dell'industria di base la situazione appare notevolmente diversa. Nel settore chimico sono stati compiuti considerevoli progressi. Gli stabilimenti della Sincat e della Montecatini sono tra i più grandi che esistano nel nostro paese, e senza dubbio tra i più moderni. Anche la petrolchimica ha fatto in questi tempi passi avanti, che sarebbero sembrati impensabili fino a pochi anni addietro. Nessuno può contestarlo. Se polemiche vi sono state in tale campo, sono state dettate da altre considerazioni, che non hanno avuto per oggetto il disconoscimento di quanto ha fatto l'iniziativa privata in questo settore. Si é ,detto che la grande industria settentrionale, beneficiando di condizioni di estremo favore, si è avvantaggiata per costruire impianti che non hanno recato un serio contributo all'economia siciliana in quanto hanno assorbito una aliquota molto scarsa della manodopera locale. L'osservazione, francamente, non regge ad una analisi serena. Le grandi aziende moderne hanno una loro economia interna che non può essere modificata da considerazioni di carattere sociale. Che sia impresa pubblica o privata, un complesso petrolchimico, se è costruito secondo le tecniche più moderne in modo da ridurre al minimo i costi di produzione, non può assorbire più di un certo numero di addetti, che é, come tutti sanno, molto limitato rispetto al capitale investito. Non c'é nulla da fare: nel ramo dell'industria di base, o si costruiscono impianti moderni ad elevata produttività che comportano una notevole intensità di
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capitale per ogni posto di lavoro, o è meglio rinunciarvi piuttosto che creare aziende destinate a soccombere di fronte alla concorrenza o a far pagare al contribuente le spese di una produzione anti-economica. Quando si è assillati, come in Sicilia, dal problema della massima occupazione, è giusto avviare gli investimenti in un'altra direzione, dove a parità di capitale sia possibile dar lavoro ad un maggior numero di persone, senza elevare i costi di produzione al di sopra di quelli della concorrenza nazionale o straniera. Ciò non significa che si debbano trascurare quelle industrie di base che hanno o dovrebbero avere un effetto moltiplicatore, stimolando con la loro presenza il sorgere di altre attività industriali o terziarie. Significa soltanto che non bisogna chiedere all'industria di base di dare quello che non può, a meno di non essere impostata su criteri poco seri.
Un'altra osservazione che viene comunemente fatta a proposito dei complessi costruiti in Sicilia dalla grande industria del Nord é che i benefici di tali attività non rimangono nell'isola. Queste aziende, che operano in Sicilia, ma hanno la loro sede centrale a Milano invece che a Palermo, e i cui dirigenti, tecnici e maestranze sono in gran parte settentrionali, finiscono per arricchire, in mille modi, le regioni di provenienza. Se con ciò si intende criticare l'attuale sistema tributario che è quello che è, non si vede perché si dovrebbe farne una colpa ai a monopoli ». Molto più saggio e fruttuoso sarebbe studiare una riforma tale da rendere quel sistema più giusto e funzionante nell'interesse dell'isola. Se si intende, invece, protestare per i benefici che l'industrializzazione della Sicilia fa confluire verso il Nord, allora è doveroso correggere un'impressione, in parte sbagliata e in parte ingiustificabile. Si capisce: gli utili delle imprese settentrionali in Sicilia tornano alle stesse, cosi come tornano alle loro famiglie le rimesse dei tecnici e degli operai trasferitisi dal Nord per lavorare nell'isola. E non. potrebbe essere altrimenti, fino a quando non ci saranno imprese, tecnici e maestranze siciliane che provvederanno a prendere il posto dei settentrionali. Ma non è giusto ignorare che, anche allo stato at- tuale, una parte non irrilevante di quegli utili e soprattutto di quelle rimunerazioni rimane nell'isola, dove alimenta se non altro uno svi- luppo del commercio e dei servizi. Molto più ragionevole sarebbe stu-diare come si potrebbe accrescere questa aliquota che va a beneficio della Sicilia invece di perder tempo in recriminazioni.
Una terza osservazione viene fatta meno di frequente, sebbene of-fiirebbe maggiori spunti -per una- critica convincente. È un fatto: che
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attorno ai grandi complessi sorti in Sicilia non si sia verificato quello sviluppo di attività indotte che sembrava dovesse manifestarsi spontaneamente. Su questo avremo occasione di soffermarci in seguito; ma non si può forse pensare che i grandi complessi abbiano una parte di responsabilità a causa della loro istintiva tendenza a provvedere direttamente alla creazione delle attività 'sussidiarie, quando sono economicamente fruttuose, e a non farlo, quando sono poco convenienti? Se si vuole insomma che gli utili ricavati dalle attività industriali sorte in Sicilia vengano, almeno in parte, investiti in altre attività produttive a beneficio dell'isola, sarebbe opportuno studiare meglio quali meccanismi o quali incentivi dovrebbero essere messi in opera per raggiungere questo scopo, che, fino a prova contraria, è il vero scopo da proporsi.
A conti fatti, si deve comunque riconoscere che nei settore dell'industria chimica e petrolchimica l'iniziativa privata ha dato un apporto considerevole allo sviluppo economico dell'isola, anche se l'ordine di grandezza degli investimenti effettivi é meno elevato di quello che la Confindustria avrebbe voluto far credere. Ma non si può dir lo stesso per altri settori, come quello siderurgico e quello meccanico in cui non si é compiuto alcun progresso durante questi anni. Il calcolo in termini di convenienza sembra aver dissuaso non solo i privati ma anche l'I.R.I. ad intervenire in tale direzione. Ora, se è comprensibile che la grande industria del Nord abbia ritenuto di non doversi impegnare con investimenti che non le garantivano profitti pari a quelli ottenibili altrove, meno comprensibile riesce la circospezione dimostrata dalle aziende di Stato nel declinare l'invito, ad esse ripetutamente rivolto, di creare in Sicilia un complesso siderurgico o un complesso meccanico. Intendiamoci: sarebbe sciocco mettere in dubbio la competenza tecnica dei diri- genti dell'I.R.I. Ne sanno certamente piú di noi in materia di distribuzione degli investimenti in rapporto agli utili prevedibili. Né c'è da pensare che tale atteggiamento tragga la sua origine da inconfessate finalità politiche, in quanto esso é rimasto immutato nonostante il cambiamento di governo e di indirizzo verificatosi a Palermo. Con La Loggia o con Milazzo, 1'I.R.I. non ha dimostrato alcuna inclinazione ad investire in Sicilia come invece ha fatto in altre regioni sottosviluppate della penisola.
A questa carenza di iniziativa pubblica nel settore in cui un intervento avrebbe avuto un carattere integrativo e non sostitutivo di quella
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privata, che non sembra avere interesse a manifestarsi, fa riscontro una spiccata volontà di presenza nel settore chimico in cui, dato quanto si é già fatto in questi anni, meno si dovrebbe sentire la necessità di un intervento. È vero che si tratta dell'E.N.I., ossia di un ente di Stato diretto da una forte e dinamica personalità. Ma ciò non toglie che si possa avere qualche perplessità sulle scelte effettuate dalle aziende a partecipazione statale.
Molto si é scritto in questi tempi a proposito del complesso industriale di Gela progettato dall'E.N.I. e approvato alcuni mesi fa dal Ministero competente. Non é il caso di sottolinearne l'importanza, che é più che evidente. Bastano pochi dati a chi vuol farsene un'idea. L'impianto di Gela dovrebbe avere tre componenti fondamentali: 1) una raffineria capace di produrre circa una tonnellata all'anno di benzina greggia e d'auto di gasolio, olio combustibile e gas liquefatto, destinati alla vendita; 2) un complesso petrolchimico capace di produrre 500.000 tonnellate all'anno di fertilizzanti azotati e 3) una centrale termoelettrica capace di produrre annualmente un miliardo di kWh di cui il 20% dovrebbe essere immesso al consumo. Complessivamente l'investimento previsto arriverebbe alla cifra considerevole di ben 120 miliardi. Impianto veramente imponente, dunque, nel quadro dell'economia isolana. Ma stiamo attenti a non esagerare con le cifre, suscitando un'attesa che potrebbe essere delusa. Il costo elevato del progetto non si traduce automaticamente in un aumento enorme degli introiti della Regione e dell'occupazione. Purtroppo il greggio di Gela é ad elevata densità e richiede per l'estrazione processi tecnici molto costosi. Come l'ing. Mattei ha avuto occasione di precisare, perché lo sfruttamento dei giacimenti di Gela sia economico, due condizioni sono necessarie: c che si realizzi un complesso industriale integrato verticalmente e che le royalties da corrispondere sulle quantità estratte siano adeguate alla qualità e ai costi di produzione ». La prima di queste due condizioni trova il suo adempimento precisamente nel progetto dell'E.N.I. di cui si é detto. La seconda implica la riduzione ed eventualmente abolizione delle royalties che l'E.N.I. si era impegnata a versare alla Regione in base all'accordo che disciplinava la ricerca e lo sfruttamento di idrocarburi nell'area di Gela. Si può convenire sulla legittimità della richiesta di una forte riduzione delle royalties, tenuto conto appunto della qualità del greggio; ma non si può ignorare che, accogliendola, la Regione rinuncerà a quegli introiti su cui poteva contare e darà un pretesto alla a Gulf Italia.» per chiedere, anch'essa, un trattamento di favore. Comunque il
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minor introito significherà una minore disponibilità di quei fondi che dovrebbero essere destinati a nuovi investimenti produttivi, su cui si 'faceva assegnamento in Sicilia per sviluppare un'azione propulsiva (13). Analogamente, anche le prospettive di largo assorbimento di manodopera vanno ridimensionate, con un po' di realismo. L'impianto di Gela non potrà creare molti posti di lavoro, trattandosi di complessi che tecnicamente richiedono un immobilizzo di oltre 40 milioni per addetto. Non é serio e nemmeno onesto perciò fare balenare speranze che andrebbero poi deluse. I complessi dell'E.N.I., tosi come quelli della Montecatini, ,o della Sincat, non possono risolvere il probelma della disoccupazione siciliana; possono stimolare con la loro presenza uno sviluppo produttivo che dovrebbe elevare al massimo l'occupazione. Il loro contributo alla soluzione del problema è più efficace come concorso indiretto che come apporto diretto. Non ci si deve attendere quindi miracoli da Gela : gli esperti non prevedono più di 3000 assunzioni. _
A questi ridimensionamenti psicologici si aggiungono alcune riserve circa altri aspetti del progetto. Tra le critiche che ad esso vengono mosse due sembrano meritevoli di confutazione nell'interesse della Sicilia. Si osserva che il progetto prevede la costruzione di un porto a Gela, a carico della Regione. Quanto verrà a costare quest'opera? Dieci miliardi, secondo alcuni, 20 secondo altri. E una cifra piuttosto grossa, se si pensa alle altre opere non meno necessarie e urgenti che gravano sul bilancio siciliano. Si osserva inoltre che l'entrata in funzione del complesso di Gela potrebbe aggravare la crisi nel settore dello zolfo. La desolfura-zione del petrolio grezzo di Gela darebbe luogo a una produzione di zolfo di recupero a costi molto bassi e in concorrenza con quello prodotto dalle miniere siciliane. Rispondono i tecnici dell'E.N.I. che questo danno sarà evitato, poiché lo zolfo di Gela sarà in gran parte utilizzato direttamente 'e per la parte rimanente conferito all'E.Z.I. a un prezzo calcolato facendo la media tra quello dell'E.N.I. e quello delle miniere siciliane. In tal modo l'E.Z.I. potrà disporre di un certo quantitativo di zolfo a costo inferiore che gli permetterà di ridurre il prezzo sul mercato. Con ciò non si risolve la crisi dello zolfo; né l'E.N.I. pretende di
(13) A questo proposito viene fatto osservare che l'alternativa a una produzione non economica sarebbe la rinuncia ad estrarre il petrolio di Gela, con la conseguenza di ridurre a zero le royalties spettanti alla Regione. Certo; meglio poco che niente. Ma viene il dubbio che, una volta costruito l'impianto di raffinazione, si finisca per constatare che e : più conveniente utilizzarlo per trattare il greggio nord-africano, piuttosto .che quello estratto in loco. E se così fosse anche quel poco, a cui ridurrebbero lé royalties, tenderebbe a zero.





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farlo. Quella crisi che deriva dal fatto che il prezzo internazionale é sensibilmente inferiore a quello dello zolfo prodotto in Sicilia, potrà trovare solo in parte un'attenuazione se si verticalizzerá la produzione dello zolfo, bruciando direttamente il minerale sul posto per produrre acido solforico. Anche cosí, secondo il parere dei tecnici, l'Italia non potrà affrontare le conseguenze dei M.E.C. per quanto si riferisce alla unificazione delle tariffe doganali nei confronti delle importazioni provenienti da paesi non aderenti alla Comunità: resterà sempre uno scarto tra il prezzo siciliano e quello mondiale. Ora, appunto in considerazione di tale difficoltà, l'Italia si riprometterebbe di chiedere alla stessa Comunità un impegno a contribuire al programma di riconversione dell'industria zolfifera e di assistenza ai disoccupati. Il prodotto di Gela — si chiedono alcuni esperti che criticano il progetto dell'E.N.I. — non priverà il nostro paese di un argomento valido per chiedere, come ne avrebbe diritto, che venga suddivisa fra i sei paesi del M.E.C. la spesa per la riconversione e sovvenzione della produzione zolfifera? E una domanda che invita alla riflessione.
***
Facciamo un po' il punto. L'industria di base in Sicilia durante questo periodo, come si è visto, ha avuto un certo sviluppo, disuguale ma nel complesso abbastanza consistente. In alcuni settori si é andati avanti, ad esempio nell'industria chimica, in altri si è restati fermi, ad esempio in quella siderurgica; nell'insieme si è registrato un certo progresso. Ma l'industria di base — ripetiamo — non ha il potere di risolvere da sola il problema della massima occupazione, che più assilla l'economia regionale. Il settore che determina in misura preponderante il processo generale di aumento dell'occupazione e del reddito — si osserva giustamente nel rapporto del Comitato Saraceno sui risultati conseguiti nei primi quattro anni di attuazione dello « Schema Va-noni » — é costituito dall'industria manifatturiera; allo sviluppo di questa industria è legata infatti la massima quota dell'espansione dei servizi pubblici e privati e quindi la piattaforma di redditi e di investimenti che a sua volta determina l'attività mercantile, l'attività bancaria e ogni altra attività cosidetta terziaria. Ora, è precisamente in questo settore che si è verificata una certa atrofia dell'organismo economico isolano. A che cosa si deve imputare questo mancato sviluppo?
Il quesito ci riconduce all'esame di quel processo di induzione che avrebbe dovuto esplicarsi attorno alle industrie di base con una germi-
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nazione di attività sussidiarie. In quale misura si è avuta tale induzione? O, piuttosto, perché é così esiguo il numero delle industrie indotte?
Si prenda ad esempio Ragusa, la città del petrolio. Ebbene dal 1953, ossia da quando sono stati scoperti i giacimenti tuttora sfruttati dalla « Gulf », quali attività sono sorte? In un primo tempo vi é stato un gran fiorire di esercizi che alla stregua del livello di vita cittadino potrebbero senz'altro definirsi di lusso : alberghi, ristoranti, cinema, negozi... Poi, passata l'euforia, il boom si è arrestato. Oggi, a parecchi anni di distanza, a Ragusa manca ancora la luce e l'acqua, che vengono erogate in misura assolutamente insufficiente. Non parliamo poi di attività industriali; solo in questi ultimi tempi è entrato in funzione l'impianto della ABCD (società del gruppo Bomprini Parodi Delfino) per la produzione di politene. È il primo esempio di utilizzazione del petrolio estratto a Ragusa; ma è, purtroppo, anche l'unico. Quel petrolio che da anni sgorga abbondantemente, va attraverso l'oleodotto costruito dalla « Gulf » direttamente alla raffineria Rasiom di Augusta, senza lasciare dietro di sé, nella città, se non un cumulo di speranze deluse.
Bisogna riconoscere — e i ragusani l'hanno imparato a loro spese — che il vero punto di accumulazione di ricchezze non è il centro dove si estrae il petrolio, ma semmai, quello dove avviene la raffinazione di esso. Logico quindi che le prospettive per lo sviluppo di attività industriali indotte dalla produzione petrolifera dovessero polarizzarsi attorno ad Augusta piuttosto che a Ragusa. Ma neanche questa previsione ha trovato l'attesa conferma. Vicino ad Augusta sono sorti, infatti, i grandi complessi della Sincat a Priolo. Pere) Siracusa, che come capoluogo aspirava a diventare un centro industriale é rimasta quella che era: una stupenda città museo. Tranne il cementificio del Barone Pupillo — uno dei rarissimi esemplari di imprenditore siciliano — e lo stabilimento dell'« Eternit Siciliana », più qualche fabbrica minore, non si è visto sorgere null'altro di nuovo in questi anni. Nemmeno il progetto di creazione di una « zona industriale », dopo tante discussioni e opposizioni, si è riusciti a varare. Non si pile, dunque dire che, almeno fino a questo momento, Siracusa abbia saputo ricavare tutti i vantaggi che il sorgere dei grandi complessi industriali sembrava dischiudere.
Per ragioni che si spiegano in parte, tenendo conto della favorevole ubicazione, la città che ha più risentito o utilizzato la benefica vicinanza di Augusta, è stata invece Catania. Il maggiore dinamismo dei suoi abitanti e soprattutto la costituzione di una ben attrezzata « zona industriale » hanno certamente contribuito ad imprimere quell'impulso che
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 147
è mancato altrove. Si è avuto cosi uno sviluppo nel settore della media e piccola industria che è piuttosto ragguardevole, se confrontato a ciò
che si è fatto nel resto dell'isola. Una trentina di stabilimenti sono stati
costruiti o sono in corso di costruzione. Si tratta di aziende che svolgono la loro attività produttiva nei rami più svariati; lavorazione del
legno, del ferro, di materie, plastiche, resine sintetiche, vetro, ceramica,
materiali da costruzione, derivati del petrolio, medicinali, apparecchi radio, gomma, colori, vernici, tessuti e confezioni, generi alimentari e
conserve, macchine agricole, istallazioni ferroviarie, tubi di acciaio... Tutta una gamma, come si vede, che si estende su un vasto settore. Il risultato, in termini di assorbimento di manodopera, è stato che si sono creati poco più di 2000 posti di lavoro. Altri 3000 nuovi posti verranno creati quando saranno realizzati i 40 progetti di nuovi impianti di cui si stanno attualmente istruendo le pratiche. Complessivamente, dunque, tra due o tre anni, la zona industriale avrà immesso nell'attività produttiva circa 5000 persone. Non sono molte; però non sono che un nucleo destinato, per l'effetto moltiplicatore delle attività manifatturiere, a generare attorno a sé un maggiore incremento dell'occupazione in attività terziarie ad esse connesse. Tale sviluppo a Catania ha immobilizzato finora, per i 24 stabilimenti già in esercizio, un capitale di 4 miliardi e 250 milioni; cioè una media di poco superiore ai due milioni per ogni nuovo occupato. Elemento, questo, da tenersi in considerazione nell'indagine sulle possibilità di uno sviluppo industriale dell'isola, che si adegui alla deficienza di capitale e sovrabbondanza di manodopera.
Tornando al quesito che ci si poneva, bisogna riconoscere che nonostante eccezioni come quella di Catania, non si é avuto quello sviluppo dell'industria manifatturiera che per induzione si sperava sarebbe stato determinato o stimolato dal sorgere di alcuni grandi impianti nel settore di base. Le ragioni possono essere varie e cumulative. Scarsità di capitale: si sa che il capitale privato siciliano non é molto ed ha comunque una propensione per gli investimenti più sicuri o più fruttuosi a breve scadenza. A Catania, però, il capitale affluito é in gran parte di provenienza straniera o settentrionale. Non vi è motivo per escludere che ciò possa ripetersi altrove e su più vasta scala. Vi è invece da osservare che sussistono ancora alcune difficoltà nel sistema creditizio, le quali possono rappresentare un serio ostacolo. I crediti che vengono in generale concessi con una oculata valutazione della solvibilità del richiedente sono spesso insufficienti a dar vita ad una attività industriale
148 RENATO MIELI
sana. L'industriale che riesce a ottenere dei crediti di impianto si trova poi, a stabilimento costruito, nella necessità di ipotecare il complesso delle attività disponibili per poter mettere in moto il meccanismo produttivo. Non avendo altre garanzie da offrire non riesce, cioè, ad ottenere quei crediti che gli occorrerebbero per la gestione dell'impresa. Le facilitazioni e gli incentivi che sono stati introdotti in Sicilia per favorire lo sviluppo industriale hanno dato un apprezzabile risultato, ma si sono dimostrati ancora insufficienti. Occorre trovare una soluzione al problema dei crediti di esercizio, per superare la strozzatura finanziaria che tuttora blocca il processo di industrializzazione.
Scarsità di maestranze qualificate e di tecnici: questa è una seconda difficoltà che si somma alla prima. Nonostante la sovrabbondanza di manodopera e il numero preoccupante di intellettuali disoccupati, la Sicilia manca di uomini preparati alle attività industriali. Manca di uomini, non di capacità. Dove si è cercato di trasformare il manovale in operaio qualificato e l'intellettuale in tecnico o in dirigente d'azienda, i risultati sono stati largamente positivi. Occorre, però, attraverso una estesa, per non dire generale, opera di riqualificazione dei lavoratori e di correzione dell'indirizzo, quasi esclusivamente umanistico, della scuola creare quella preparazione moderna che fa tuttora difetto alla popolazione siciliana. E un'opera di gran respiro, che richiede tempo e perseveranza; ma tutt'altro che impossibile. Con il materiale umano dei siciliani si può essere certi di raggiungere sotto questo profilo il livello delle società più progredite.
Economie esterne: altro serio svantaggio. Tutto costa di più in Sicilia rispetto alle regioni più avanzate: a cominciare dalle fonti di energia (scarse le risorse idriche, data la irregolarità delle precipitazioni stagionali e la natura del terreno, e notevole la dispersione degli utenti) per finire con le materie prime e i semilavorati che dovrebbero essere importati (14). La insufficienza delle infrastrutture crea, in partenza, condizioni di inferiorità per un industriale siciliano nei confronti di
(14) È opinione molto diffusa che lo sviluppo industriale sarebbe stato ritardato nel nostro paese dall'alto costo dell'energia elettrica. In realtà, l'incidenza della spesa per l'energia elettrica sul valore del prodotto è in media del 2%. Se si considera, ad esempio, che l'incidenza del costo del lavoro è invece dell'ordine del 50% si deve riconoscere che le spese per l'energia elettrica non influiscono in misura determinante sui costi industriali. Ciononostante è innegabile che una riduzione del costo dell'energia elettrica avrebbe un effetto benefico sullo sviluppo industriale in zone come la Sicilia. Una politica tariffaria diretta in tale senso sarebbe, in ultima analisi, equivalente a un nuovo efficiente incentivo. Ma appunto per questa ragione le imprese elettrocommerciali sostengono che si potrebbe ottenere lo stesso risultato con altri incentivi di diversa natura.
LA CONTRASTATA EVOLUZIONE DELLA SICILIA 149
un concorrente settentrionale. Per quanto si faccia, ci vorrà molto tempo per colmare questo svantaggio ereditato dal passato.
Tutte queste condizioni sfavorevoli esistono e non si possono ignorare. Ma la vera difficoltà é nel fattore umano. Quello che manca in Sicilia sono gli imprenditori. È inutile ripetere che ciò si deve in gran parte all'opera di soffocamento compiuta dall'industria del Nord con la complicità dei poteri dello Stato, dopo l'unificazione nazionale. E vero: il protezionismo imposto per favorire l'affermarsi delle industrie, dislocate nel triangolo settentrionale, lo hanno pagato i meridionali — e tra questi i siciliani — con la contrazione delle loro esportazioni agricole e l'impoverimento della loro economia. Ma anche prima che questo processo di polarizzazione della ricchezza e della miseria nel nostro paese si sviluppasse in pieno, i siciliani avevano già quella propensione a concepire l'economia isolana piuttosto in termini di consumo locale che in termini di scambio. C'é una grande verità nelle parole che il vecchio Prii.cipe del « Gattopardo » rivolge agli intraprendenti patrioti lombardi e piemontesi che cercano di scuoterlo dalla sua aristocratica e distaccata saggezza. Se avessimo voluto progredire e produrre come voi, se avessimo voluto fare anche noi qualcosa, non avremmo aspettato il vostro arrivo. Avevamo tutta l'intelligenza per riuscirvi da soli. Ma non ci interessava. Esatto: i siciliani non erano imprenditori neppure un secolo fa, non perché non ne avessero la capacità, ma perché non ne avevano la volontà. La loro concezione della vita, istintiva nel popolo e più o meno meditata nella classe dirigente, era diversa; più vicina a quella maturata in altri climi mediterranei che non nell'Europa occidentale. Dire che non abbiano oggi capacità imprenditoriali, non è un giudizio critico, bensì un riconoscimento di una diversa formazione storica. Non si fa dunque torto a nessuno se si constata che in Sicilia non ci sono gli uomini che abbiano la vocazione e la capacità di diventare industriali. Le poche eccezioni confermano la regola.
Si deve ammettere che non è facile dimostrare capacità imprenditoriali in un'area sottosviluppata come quella siciliana. A parte gli impedimenti oggettivi ai quali si è fatto cenno in precedenza e le limitate disponibilità di capitale privato, vi é da tener presente che per avviare un'attività industriale occorre oggi avere una preparazione adeguata. Occorre non solo possedere una conoscenza delle tecniche produttive piú avanzate, per la progettazione degli impianti, ma anche una conoscenza del mercato, in base ad una analisi continua e aggiornata. Non è più il tempo degli industriali che credono di saper tutto da
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soli e di decidere per intuito. Non solo; ma i programmi di investimento e i progetti di impianto vanno visti in una prospettiva di anni. Vi sono insomma dei tempi tecnici indispensabili per la maturazione di un piano di attività produttiva: tempi tecnici dei quali l'imprenditore deve saper tener conto. Insomma, colmare il divario che esiste nelle capacità imprenditoriali tra le regioni sottosviluppate e quelle progredite è la vera difficoltà. Anche qui la conclusione é sempre la stessa: non si può affidare la soluzione del problema al giuoco spontaneo delle forze economiche. Se si lascia fare ad esse il divario tende ad aumentare. Per correggere lo squilibrio esistente, occorre intervenire con una azione appropriata.
Ai siciliani bisogna riconoscere il merito di aver ideato uno strumento che in teoria ha tutti i requisiti per svolgere tale azione. Questo strumento ideale é la Sofis. Concepita come mezzo di propulsione e non come semplice istituto di credito industriale, la Società Finanziaria Siciliana (società per azioni di cui la Regione detiene la maggioranza), ha appunto per finalità quella di partecipare con funzione pilota al sorgere e al consolidarsi di attività industriali nell'isola. A tale scopo può disporre di un capitale iniziale che ammonterebbe a 13 miliardi e 600 milioni. Però, con una legge che dovrebbe essere varata senza troppe difficoltà dall'Assemblea Regionale, questo capitale potrebbe essere portato a circa 20 miliardi, mediante un versamento anticipato di 6 miliardi che la Regione é tenuta a corrispondere alla Sofis nel prossimo triennio. Questo capitale iniziale consentirà alla Società Finanziaria di emettere obbligazioni ordinarie per un valore complessivo equivalente, ossia per altri 20 miliardi, più una serie di obbligazioni per investimenti industriali in gestione speciale per un massimo pari al quintuplo dello stesso capitale, ossia per altri 100 miliardi. Si arriva tosi ad una disponibilità teorica di 140 miliardi. Diciamo teorica perché negli stessi ambienti della Sofis si prevede che le obbligazioni ordinarie avranno un :mercato difficile e che quelle costituite in gestioni speciali dovranno con-,cedere forti premi ed un elevato tasso di interesse per aver successo.
Una disponibilità di 140 miliardi può costituire un'efficace massa finanziaria di manovra. Tutto sta a vedere come viene impiegata. Se si pensa, ad esempio, a una politica di investimenti, basata su una scelta oculata dei settori più rispondenti al fine di incrementare l'occupazione e il reddito, e a una politica di disinvestimenti, volta a ricostituire con continuità il capitale disponibile, quella cifra può rappresentare, senz'al-
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tro, ciò che occorre e basta alla Sofis per svolgere la sua funzione propulsiva. Ma una politica di investimenti e di disinvestimenti che sia davvero razionale presuppone una conoscenza dell'area di mercato in
cui si deve attuare e un programma operativo ben definito nel tempo.
Ci sono questi presupposti nella mente dei dirigenti della Sofis?
In un primo tempo, sembrava che si fosse imboccata la via della serietà. L'ing. La Cavera, appena nominato direttore, aveva rilevato dalla Sicindustria, una ampia e approfondita indagine del mercato regionale, effettuata con molta cura dall'Istituto svizzero « Battelle ». Per sottolineare maggiormente l'importanza che si attribuiva a questo studio, che avrebbe dovuto essere assunto come base scientifica su cui si sarebbero effettuate le scelte per i settori di investimento, lo stesso La Cavera, accompagnato dai suoi diretti collaboratori, volle recarsi in persona a Ginevra per prendere in consegna i quattro volumi in cui si compendiava l'indagine sull'economia dell'isola. Si creò, non a caso, una viva attesa nell'opinione pubblica alla quale si era fatto credere che quel «piano Battelle » dovesse in qualche modo contenere il segreto per liberare la Sicilia dall'arretratezza economica. Sembrava che la massima pubblicità sarebbe stata data a quell'indagine per permettere a tutti di vedere come si sarebbe proceduto a una rapida ed efficiente industrializzazione della Sicilia. E invece da allora non se ne è più sentito parlare. Tornato a Palermo con il « piano Battelle », La Cavera si é chiuso in un impenetrabile mutismo. Nessuno ha potuto sapere a quali conclusioni avesse approdato quello studio. Neppure l'ex Presidente Milazzo è riuscito a prenderne visione. Mistero. Perché tanto silenzio? Di congetture se ne potrebbero fare molte: non ultima quella di un dissenso fra il direttore La Cavera e l'on. Bianco che proprio in quei giorni era stato nominato Presidente della Sofis. Ma il contrasto fra i due dirigenti, che hanno una spiccata personalità e palese divergenza di opinioni, non spiega molto. Resta, cioè oscuro il contenuto di quel piano e il motivo per cui da qualche parte si sia avuto interesse a non renderlo di pubblica ragione. Né ci sembrano convincenti le spiegazioni che vengono date sottovoce negli ambienti della direzione della Sofis. « Renderemmo un servizio ai nostri avversari — si dice — se divulgassimo i suggerimenti che scaturiscono da quell'indagine ». Sembra di dover capire che la Sofis si riprometterebbe di cogliere di sorpresa, con un intervento massiccio, distribuito in varie direzioni, quelle forze economiche che avrebbero interessi contrari ad uno sviluppo autonomo dell'economia siciliana. Per parlar chiaro, questa linea di prudenza sarebbe dettata dal propo-
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sito di non far conoscere ai grandi industriali del Nord quali investimenti si stanno contemplando da parte della Sofis, in modo da creare delle situazioni di fatto a cui sia estranea la Confindustria. Create queste situazioni, il gruppo di aziende a partecipazione regionale potrebbe trattare con gli industriali settentrionali, partendo per tosi dire da posizioni di forza. In altre parole, prima farsi le ossa e poi discutere con i e monopoli »: questa sarebbe la ragione tattica che avrebbe consigliato alla Sofis l'attuale riservatezza. È una spiegazione che non convince, non perché si dubiti dell'interesse che avrebbero quelle forze economiche ad influire sull'opinione pubblica interpretando in un modo particolare i risultati dell'analisi effettuata dall'Istituto Battelle, ma perché non si vede come la Sofis possa ottenere la fiducia dei risparmiatori e soprattutto degli imprenditori siciliani, che dovrebbero impegnarsi in iniziative industriali, senza una chiara idea delle condizioni e prospettive di mercato.
Vi è anche un problema di costume che non pub essere ignorato. È vero, i privati non rivelano in anticipo i loro progetti. Ma l'iniziativa pubblica non é la stessa cosa : ha un'altra funzione, che é precisamente di integrare e sostituire quella privata, quando ciò é necessario nell'interesse della collettività. E l'interesse della collettività non può essere amministrato da pochi in segreto, prescindendo da ciò che ne pensa la collettività stessa. Il controllo dell'opinione pubblica é inseparabile dalle finalità dì una società come la Sofis; altrimenti non vi sarebbe alcuna garanzia contro il rischio di veder sorgere una nuova potenza economica, con tutti gli inconvenienti che si attribuiscono al monopolio. Bisogna poi tener presente che i siciliani sono molto intelligenti, ma anche diffidenti. Un silenzio di tomba in una materia così delicata, qua-Ie é quella di promuovere e finanziare attività industriali che possono, anzi dovrebbero, generare lauti profitti a beneficio di un certo numero di imprenditori, si presta a facili e pesanti sospetti.
Ma, lasciando da parte le considerazioni di ordine morale e le riflessioni di natura psicologica, vi è una ragione pratica che rende necessaria la rottura del silenzio. L'ex Presidente Milazzo, accogliendo la richiesta dei sindacati e del P.C.I., aveva annunciato la creazione di un Comitato incaricato di elaborare un piano di sviluppo economico e sociale dell'isola. E un piano del genere non avrebbe potuto certo tacere sui compiti spettanti alla Sofis.
Quali sarebbero state le linee fondamentali di questo piano non é dato sapere. Vari sono i problemi da risolvere e gli interessi da conci-
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liare; ma alcune questioni pregiudiziali sembrano già adesso impor- si all'attenzione. Quando si parla di industrializzazione e in particolare di sviluppo del settore manifatturiero, che è quello che ha la più elevata capacità di assorbimento della disoccupazione, non si può ignorare in quali termini si pone la questione nel nostro paese. Stando ai dati del rapporto del « Comitato Saraceno » del giugno scorso, il 90% dei nuovi posti di lavoro nei settori extra-agricoli durante il quadrien- nio 1955-1958 sono stati creati dalle imprese private. Più esattamente: alla fine del 1958 l'industria manifatturiera italiana occupava 4.500.000 persone, facenti capo per il 96% a imprese private e per il 4% a imprese pubbliche. Data questa struttura, c'è da chiedersi se in Sicilia l'iniziativa privata saprà dare, anch'essa, il contributo maggiore all'assorbimento della disoccupazione, in armonia con quanto avviene su scala nazionale, o dovrà essere sostituita dall'iniziativa pubblica. La soluzione di questo problema è in gran parte affidata alla Sofis. La Società potrebbe infatti assumere una serie di iniziative industriali, con una partecipazione maggioritaria (in virtù di una recente deroga ad una norma precedente che fissava nel 25% il massimo di partecipazione in imprese miste) stabilendo un limite di tempo per il disinvestimento della quota di avviamento. Si creerebbe in tal modo un meccanismo di riscatto, che darebbe luogo ad un processo di privatizzazione, più o meno automatico. Questo potrebbe essere uno schema per favorire la formazione di imprese private siciliane nel settore della produzione di beni di consumo: schema ingegnoso, senza dubbio, ma — come dire? — un po' troppo teorico. Se gli imprenditori siciliani non hanno dato finora segni di vita, nonostante gli aiuti e gli incentivi messi in opera dalla Regione, é piuttosto ardito pensare che lo faranno nel prossimo avvenire, perché sorretti dalla Sofis. La Cavera che di questo problema si sente investito con il fervore passionale di chi crede di avere una missione da compiere, non si nasconde affatto quanto sia arduo creare una mentalità imprenditoriale tra i siciliani. È come — egli pensa — vo ler dare da mangiare a chi -é digiuno da secoli; occorre abituarlo gradualmente. Né si può fare leva sulla sete di ricchezza che in altre parti ha tanta presa sugli uomini. Con i siciliani — afferma La Cavera — bisogna far leva sul senso di giustizia e di dignità. Bisogna ricordarsi che preferiscono restare poveri come sono, piuttosto che essere umiliati da altri. A questo prezzo rinuncerebbero a qualsiasi ricchezza, pur di non vergognarsi di se stessi. Non si deve quindi interpretare l'insufficiente sviluppo industriale della Sicilia come un segno di
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inferiorità congenita dei siciliani. Chi giudica così sbaglia, e non contribuisce certo a promuovere quello sviluppo della Regione che é nell'interesse anche della nazione.
Ma La Cavera, come si diceva, non si nasconde che, anche a voler usare il metodo più appropriato, l'opera di riforma della mentalità isolana é molto ardua e di lungo respiro. E se non riuscisse? Se nonostante tutto l'impegno appassionato e i mezzi impiegati non si riuscisse a formare una classe imprenditoriale siciliana, quale situazione si verrebbe a creare? È inutile nasconderselo: se l'iniziativa privata siciliana non sarà capace di affermarsi, dovrà cedere il posto o a quella « settentrionale » o a quella pubblica, regionale e statale. Non vi é alternativa, fuori di questa.
Qui non si é più nell'ambito del certo, bensì in quello dell'opinabile. La scelta di indirizzo che la classe dirigente siciliana è chiamata a compiere non si basa unicamente su un calcolo razionale dei vantaggi e degli inconvenienti prevedibili. Molti altri fattori intervengono nella determinazione di tale scelta; fattori che hanno un'importanza decisiva, anche se sfuggono ad una precisa identificazione da parte di chi é estraneo alla mentalità ambientale, e forse degli stessi siciliani. Sarebbe interessante cercare di comprendere i motivi che dall'esterno sembrano imponderabili ed hanno invece tanto peso all'interno di una società come quella siciliana. Vivide intuizioni si affacciano subito alla mente per analogia con il comportamento di paesi di antica civiltà che si accingono a superare oggi la loro arretratezza economica. E vien fatto di pensare che il valore che si attribuisce al superamento della povertà sia diverso da quello che si attribuisce al passo successivo, ossia alla creazione di una relativa agiatezza. Per chi deve vincere la fame, non c'è prezzo di sacrifici che sia troppo alto, ma al tempo stesso non c'è rinuncia più difficile di quella delle risorse morali di dignità e di speranza, che sono l'unico bene rimasto. L'esasperazione del sentimento nazionale o autonomistico in zone economicamente sottosviluppate non é che la testimonianza di questa difesa di un valore insostituibile per chi non ha altro nella vita. Non è quindi inspiegabile, anche se può sembrare sorprendente, che tanta carica di istintiva idealità e di fierezza si accumuli proprio nelle aree depresse. Né deve sembrarci illogico che i siciliani possano mettere nei loro calcoli di ciò che deve farsi per il progresso dell'isola una forte dose di passionalità, talvolta improduttiva. È naturale che sia così; ed é giusto sforzarsi di capirlo, per ren-
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dersi conto della complessità del problema, nella viva concretezza dei suoi termini attuali.
* * *
Su un punto, credo, le idee sono chiare per tutti. La Sicilia deve industrializzarsi se vuole risolvere il suo problema di fondo, che è quello di dar lavoro alla massa di inoccupati e disoccupati e di elevare il reddito medio ad un livello per lo meno doppio di quello attuale. Ora, per industrializzarsi nel modo più rapido ed efficace, non vi è miglior strumento a sua disposizione della Sofis. Questa Società, se riuscisse a utilizzare al massimo le risorse di cui è dotata, potrebbe mobilitare un capitale considerevole in investimenti industriali, ai quali parteciperebbe, come si è detto, con una quota anche superiore al 25%. Se, tanto per fare un'ipotesi, la Sofis promuovesse un'attività industriale, impiegando tutte le sue disponibilità in imprese ove partecipasse in media con un 50% del capitale si avrebbe un investimento complessivo che si aggirerebbe attorno ai 280 milioni. Sulla base di quanto risulta dall'esperienza della zona industriale di Catania, stimando che occorrano circa due milioni per la creazione di un posto di lavoro, si potrebbe prevedere un assorbimento globale di 140.000 persone. Questa cifra va però corretta, tenendo presente che l'incremento di occupazione sarebbe superiore per gli effetti moltiplicatori che lo sviluppo industriale esplicherebbe nel mercato siciliano, e va al tempo stesso riferita ad un periodo minimo di tre anni, occorrenti per realizzare un programma di tale portata. Anche così, nella ipotesi di un pieno impiego delle disponibilità teoriche, si arriverebbe, con una stima molto approssimativa, ad una previsione incoraggiante. La Sofis potrebbe contribuire efficacemente a ridurre la disoccupazione nell'isola. Non vi è dubbio, comunque, che essa rappresenti potenzialmente la chiave per la soluzione del problema della massima occupazione in Sicilia. E questo è sentito da tutti.
Ma, per tornare a ciò che non può misurarsi con dati statistici, bisogna riconoscere a questo punto, che il funzionamento della Sofis dipenderà in larga misura dai criteri e dai metodi dei suoi dirigenti. E qui il discorso si sposta necessariamente dall'economia alla politica. Il calcolo di ciò che può essere più utile, qui deve cedere il posto al calcolo di chi può ricavarne un maggior utile. Entrano in giuoco interessi di gruppi, siciliani e non siciliani, che non consentono più di ragionare in astratto per il bene dell'isola. Nella classe dirigente regionale vi é una
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divisione di opinioni e convergenza occasionale di interessi, che presenta un'immagine confusa, contraddittoria e quasi incomprensibile di quella società in evoluzione.
Cercare di spiegarsi che cosa sia il c milazzismo », non è semplice. Come fenomeno politico si può pensare che all'origine del movimento ci sia stato l'impulso a formare un secondo partito cattolico, piú sensibile alle esigenze locali e capace di sostituirsi, a breve scadenza, a quei partiti di destra, instabili e incoerenti come il loro elettorato. Un'idea del genere poteva incontrare all'inizio il favore di alcuni settori della gerarchia ecclesiastica, preoccupati del vuoto a destra che esiste nello schieramento politico italiano e ansiose di collaudare in Sicilia una nuova formula.
A questo si sommava una sollecitazione di altra natura. Il momento dell'industrializzazione, giunto al punto critico, diventava il momento dell'autonomia. Per le forze economiche siciliane che avevano avuto nel passato una posizione dominante e si vedevano inesorabilmente scalzate e soppiantate da rivali esterni, ben più potenti, era venuta l'ora di muoversi per impedire l'insidioso processo di infiltrazione o di rassegnarsi ad essere, prima o poi, eliminate. Allarmate e umiliate dalla espansione della grande industria settentrionale e convinte di non poter contrapporre ad essa una resistenza basata sull'iniziativa privata locale, intravvidero una sola possibilità di arginarla: quella di trincerarsi dietro l'autonomia per proteggere in qualche modo la formazione di un'industria siciliana. Per esse la Sofis si configurò subito come uno strumento necessario per formare e rinvigorire una e destra economica » regionale, capace di resistere alla invadenza e concorrenza di quella settentrionale. Non c'è quindi da stupirsi che ex-qualunquisti di un tempo o monarchici di ieri si siano schierati attorno a Milazzo per sostenerne l'esperimento autonomistico. È un istinto di conservazione che li ha spinti a tentare in extremis di formare un ceto industriale, consociandosi in uno sforzo collettivo per non essere dispersi e sommersi come individui. Però, non c'era nemmeno da aspettarsi che si fossero convertiti ad una mentalità imprenditoriale moderna o a una sensibilità sociale progressista. Restavano, allora come oggi, quello che sono sempre state: forze di destra, per origine e orientamento economico, anche se alleate a forze di sinistra per realizzare, con mezzi politici, la diga protettiva dell'autonomismo, al riparo della quale pensavano di ricostruire le loro vacillanti posizioni.
Sotto questa duplice spinta, politica ed economica, il milazzismo
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si é presentato per un certo verso come una nuova incarnazione di una destra siciliana, che si era andata sgretolando e consumando negli ultimi anni: un'incarnazione più sveglia e dinamica, capace di utilizzare il suo atavico qualunquismo per sviluppare una politica spregiudicata nei metodi ma tenace nei fini.
Si é detto che la politica di questa destra era obbiettivamente di sinistra. Vero fino a un certo punto. Nella fase iniziale di convergenza autonomistica, il movimento di Milazzo può aver reso un prezioso servizio al P.C.I. e al P.S.I., in quanto ha impedito il ricostruirsi in Sicilia di una maggioranza dominata dalla D.C. e, di riflesso sul piano nazionale, ha alimentato la crisi della formula Segni. Ma per quanto si riferisce allo sviluppo dell'economia isolana, ed in particolare alla industrializzazione, non si può dire che vi sia mai stata una vera identità di obbiettivi fra le due ali su cui si reggeva il governo Milazzo. Al contrario, vi è sempre stato un inconciliabile contrasto. E ancor oggi, quel contrasto perdura: la partita, chiusa con la fine dell'esperimento Milazzo, rimane aperta all'interno della Sofis. Può darsi che, in tema di utilizzazione di questo strumento di sviluppo industriale, prevalgano le tendenze privatistiche, che avrebbero il loro più forte assertore nel Presidente della Società, Bianco; o quelle pubblicistiche, che farebbero capo al Direttore, La Cavera. Può anche darsi che, neutralizzandosi a vicenda, le due tendenze finiscano per paralizzare la Società Finanziaria siciliana, condannandola a un'azione spicciola, disordinata e inconcludente. E ancora troppo presto per fare previsioni, anche se sono già trascorsi tanti mesi dalla nomina dei due dirigenti; é sempre troppo presto per pronunciare un giudizio definitivo su una questione in cui si scontrano interessi e personalità siciliane.
Per il Partito Comunista la via da seguire era evidente. Avendo individuato un gruppo politico regionale che, nella carenza di una classe imprenditoriale, aveva scelto l'alleanza con le sinistre per sopravvivere e riformarsi, i comunisti non potevano che incoraggiarlo e sostenerlo. Di pericoli vi era uno solo da temere: che queste formazioni fossero incapaci di fare sul serio. Non è facile sradicare dalla mente di uomini, abituati ad amministrare con criteri di altri tempi, certe deformazioni in cui si rispecchia la loro refrattarietà al progresso sia economico che sociale. E più facile, a furia di compromessi, lasciarsi contaminare dal clima di pressapochismo e di clientelismo, che si instaura dove
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non c'è una volontà produttivistica seria. E il pericolo maggiore era di venir coinvolti in una gestione irresponsabile della cosa pubblica; o,
per parlar di cose più concrete, di permettere che i miliardi, di cui può
disporre la Regione e più particolarmente la Sofis, finissero per essere dissipati in opere di beneficenza a fine politico o in spese improduttive.
Ciò sarebbe stato un disastro non solo per l'isola ma anche per coloro
che si sono addossati il compito di liberarla dalla sua dolorosa arretratezza. Per il P.C.I. era necessario che l'esperimento Milazzo avesse esi-
to positivo; ed era necessario che lo avesse avuto al più presto. Altrimenti le speranze suscitate dal risveglio autonomistico si sarebbero tradotte in amaro e sfiduciato risentimento.
Per il P.S.I. il problema era ancor più delicato. Avendo appoggiato, sia pur con qualche riserva ed esitazione, l'esperimento Milazzo, i socialisti comprendevano che non avrebbero potuto sottrarsi alle conseguenze di un eventuale insuccesso. Anch'essi, per la partecipazione indiretta al potere, si sentivano impegnati ad impedire il fallimento di un tentativo di progresso accelerato sul piano regionale. Per il P.S.I. che è, in campo nazionale, assertore dell'alternativa democratica, si poneva, però, l'imbarazzante dilemma se considerare o no la formula siciliana come una esemplificazione della prospettiva additata al paese. La politica di Milazzo — ci si chiedeva — era quella che si sarebbe voluto riprodurre al livello del governo nazionale? Palermo sarebbe dunque stato un banco di prova per ciò che si sarebbe dovuto ritentare a Roma. Ma il P.S.I. ha sempre esitato a considerarlo tale e non si è fidato di dare quell'esperimento a modello per il resto del paese.
Ancor più impacciata e preoccupata è stata la D.C. La frazione che
da essa si era distaccata per dar vita al movimento di Milazzo non era
quella che aveva dimostrato in precedenza di avere una propensione
per l'apertura a sinistra. Al contrario era sostanzialmente l'ala conser-
vatrice del partito, allarmata dai propositi e soprattutto dai metodi di Fanfani e dei fanfaniani. Andandosene, quella frazione spostò l'equilibrio interno della DC. siciliana, che si venne a trovare cosí su posizioni più vicine a quelle dei partiti di sinistra, anche per effetto del contraccolpo subito e della preoccupazione di non restare tagliata fuori dal nuovo clima diffusosi nell'isola. Ne é derivata una situazione contraddittoria. La D.C. siciliana, diventata suo malgrado opposizione di destra ha continuato a professare idee più avanzate di quelle di una parte della. maggioranza formatasi attorno a Milazzo. In tema di industrializzazione, per esempio, si é arrivati a uno stato di cose veramente parados-
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sale: l'impostazione suggerita dai fanfaniani era piú vicina a quella dei socialisti di quanto non lo fosse l'impostazione di una parte dei milaz-ziani. Il pensiero di Lanza, La Loggia, Carollo, Lo Magro era in sostanza questo: poiché l'iniziativa privata dimostra di aver esaurito il suo interesse per nuovi investimenti in Sicilia, tocca ora a quella pubblica farsi avanti per colmare il vuoto che resta. Tocca, cioè, alle aziende di Stato, come quelle del gruppo E.N.I. e a quelle regionali, che dovrebbero sorgere ad opera della Sofis, farsi avanti con un piano organico di investimenti, ben studiato ed energicamente attuato.
Se si dovessero prendere alla lettera tali dichiarazioni di intenzioni ci sarebbe da chiedersi, oggi come ieri, che cosa abbia vietato in Sicilia il formarsi di una maggioranza coerente. D'accordo: il veto della direzione di alcuni partiti impedisce che si sperimenti a Palermo una formula di governo che non si vuole ammettere a Roma. Ma non potrebbe impedire una convergenza nelle scelte di politica economica se da ogni parte si volesse fare sul serio ciò che si dice. La verità è che quello che manca è precisamente il presupposto di una qualsiasi maggioranza costruttiva, cioè il programma. In Sicilia tutti sono per l'industrializzazione, tutti sono per la Sofis. Ma in quale modo e con quali intendimenti? Questo resta ancora da chiarire. Per uscire da ogni ambiguità non vi é che un solo mezzo sicuro : formulare un piano con impegni e scadenze che non consentano equivoci. Soltanto allora la maggioranza latente verrà alla luce e potrà contarsi. Soltanto, allora si incomincerà a veder chiaro.
***
Che cosa si è aspettato a farlo? L'operazione Milazzo, dopo tanti mesi perduti nella schermaglia parlamentare e nel lavoro dietro le quinte del sottogoverno, é fallita. E tempo ora di mettere ciascuno di fronte alle proprie responsabilità. Prima che i miliardi che dovrebbero essere destinati all'industria evaporino in altre direzioni, bisogna decidersi a proporre un piano di interventi pubblici, da parte dello Stato e della Regione. E dovrà essere un piano che si integri nello sviluppo nazionale. Altrimenti l'autonomia, male interpretata, si ritorcerà a danno della Sicilia, la quale, come parte integrante dell'Italia, non pub sottrarsi alle conseguenze della politica liberistica, in generale, e del MEC, in particolare, che maggiormente colpiscono le aree sottosviluppate in questa. fase del loro incipiente sviluppo industriale. Tener conto delle leggi del mercato, non solo nazionale ma mondiale, operando con una prospettiva non di consumo locale ma di scambio, è una necessità inderogabile.
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Non si può rinchiudere il rimodernamento dell'economia e della società siciliana nei confini ristretti dell'isola. Occorre ragionare con mente aperta al futuro e guardarsi dal confondere l'autonomia con l'isolazionismo.
Queste riflessioni ci hanno condotto a non condividere nel passato il facile ottimismo di chi vedeva negli sviluppi della situazione siciliana il segno di un'immancabile affermazione di un nuovo corso economico e sociale, destinato a liberare in pochi anni l'isola dalle sue condizioni di sottosviluppo. Con molta franchezza, ci sembra doveroso dire che le buone intenzioni non sono sufficienti a risolvere un problema di questa mole, se non vi é una chiara conoscenza delle difficoltà ed un onesto impiego delle forze occorrenti per venirne a capo. Ora, la prima riforma da operare è quella della stessa mentalità con cui si affrontano questi problemi e del costume. L'individualismo spinto agli estremi, come in Sicilia, non permette nemmeno che attorno ad un programma si formi una maggioranza stabile e coerente. Il prevalere delle ambizioni personali sulle idee insidia i partiti, perennemente in crisi, e impedisce il raggrupparsi di forze politiche omogenee sulla base di un chiaro indirizzo che si intende perseguire. Cosi non si risolve nulla. Cosi la stessa autonomia regionale finisce per isterilirsi e corrompersi. Contro questa tendenza i siciliani debbono trovare in se stessi la forza di reagire. E inutile che ci si venga a dire che il loro temperamento non lo consente; o che si scomodi la storia per giustificare una mentalità che non riesce ad adeguarsi alle esigenze di una società moderna produttiva, la quale ha bisogno di un forte spirito organizzativo e associativo. Con assoluta sincerità dobbiamo rispondere che non crediamo ad un vero progresso che non sia una riforma del modo di pensare oltre che di vivere. Senza impazienze, che sarebbero ingiustificate, ma senza indulgenze, che sarebbero insidiose, i siciliani debbono rendersi conto che c'è qualcosa da cambiare nel loro costume politico, e che in una civiltà moderna le idee chiare, i programmi realistici e il gusto dell'onestà valgono più dei personalismi, polivalenti e adattabili alle circostanze del momento.
Una delle prime verità che i siciliani debbono a se stessi é di riconoscere che il fine da proporsi non è quello di distribuire l'attuale scarsa disponibilità di beni, ma di incrementare al più presto e al massimo la produzione. L'obbiettivoo per dirla in termini espliciti, è il lavoro. E il lavoro significa fatica, impegno, disciplina e sacrificio prima ancora di significare migliori condizioni di vita. E una legge di natura : bisogna produrre di più per poter consumare di piú. Non basta eliminare le
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ingiustizie di una struttura sociale che ha fatto il suo tempo. E necessario, si, liberare la società dalle strozzature che ne impediscono il progresso; ma non è sufficiente, se, compiuto questo passo, non si va avanti verso un aumento costante della produzione fino ad elevare il reddito regionale ad un livello degno di un paese civile.
Non é certo la volontà di lavorare, né l'intelligenza che mancano al popolo siciliano. È mancata purtroppo e continua a mancare per molti la possibilità di impiegarle. Spetta alla classe dirigente dimostrare oggi di essere capace di porre termine a questa dolorosa situazione. L'autonomia investe oggi la Sicilia di una responsabilità diretta. Ma la classe dirigente deve stare attenta a non cedere alla tentazione di una faciloneria che potrebbe costar cara. È inevitabile che in una società in transizione vi siano gruppi e ceti, preoccupati di perdere posizioni di privilegio. È umano che chi sente avvicinarsi il tramonto, cerchi di ritardare o impedire il volgere degli eventi da cui non si aspetta nulla di buono. Queste forze senza avvenire non possono intendere l'autonomia se non come una difesa del passato. Non è vero che sono pronte a contribuire al progresso dell'isola. Sarebbe ingenuo crederlo. Sono pronte ad impadronirsi degli strumenti di potere, economico e politico, per controllare e dirigere lo sviluppo regionale, conservando in forme nuove il potere di classe dominante. E poiché non hanno la capacità di sostituirsi né ai grandi industriali del Nord né al governo di Roma, aspirano unicamente ad interporsi tra queste fonti di potere reale e la Sicilia come mediatori. Con questa mentalità si viene a creare un diaframma artificiale tra l'isola e il resto del paese, senza che si formi una nuova classe dirigente, moderna e responsabile. No, questo non é autonomismo, anche se viene contrabbandato come tale. Questo é un vecchio vizio di uno strato parassitario della società siciliana, contro il quale bisogna stare in guardia.
Conclusione: dietro la facciata dell'autonomismo siciliano si nasconde un equivoco. Nella coalizione di forze e di interessi che ha consentito a Milazzo di dar vita ad un esperimento, ricco di tante promesse, vi era una contraddizione che i comunisti cinesi definirebbero di tipo antagonistico. Tra l'ala destra e l'ala sinistra dello schieramento autonomistico non vi è mai stata una vera intesa sulla via da seguire per il rimodernamento economico e sociale dell'isola; vi é stata una serie di compromessi, avvolti spesso da un trasparente velo di ambiguità. Ci hanno insegnato a scuola che non si sommano addendi che non siano fra di loro dello stesso tipo. Così è anche nella vita. Si possono mettere
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insieme voti eterogenei; ma ció -non basta a formare una maggioranza capace di realizzare una politica coerente ed efficace.
L'autonomismo, se si riduce alla ricerca affannosa di un quarantaseiesimo voto qualsiasi pur di raggiungere la maggioranza nell'Assemblea regionale, diventa una semplice etichetta senza contenuto. E lo si è visto.
Ora bisogna decidersi a riconoscere che per fare una politica di progresso ci vogliono uomini di progresso. Credere che chiunque dichiari di essere autonomista sia davvero disposto a contribuire allo sviluppo dell'economia e al rimodernamento della società siciliana sarebbe una imperdonabile ingenuità. Oltre alle forze di conservazione, che non nascondono di essere tali o che cercano di salvaguardare i privilegi del passato, vi è un ceto che, considerandosi come mediatore naturale e insostituibile tra i siciliani e il resto del paese, fa di questa sua inconfessata vocazione una vera e propria professione. Ieri era con Milazzo, perché si vedeva maltrattato e minacciato, nella propria sopravvivenza, dagli industriali del Nord e dai dirigenti dei partiti di Roma. Oggi è in parte contro, perché spera di ottenere qualche segno di riconoscenza, mettendosi a disposizione di coloro che fino a pochi giorni fa aveva accusato di essere i « nemici » dell'isola. Domani, con altrettanta disinvoltura, potrebbe tornare da capo con un nuovo Milazzo. Niente è definitivo : meno che mai in Sicilia. Cambiano i governi, si capovolgona le maggioranze, rna quel ceto cerca di restare sempre a galla, trasformandosi secondo le circostanze. Purtroppo questa è la realtà. Si sta formando nella società isolana una strozzatura che vede nell'autonomia nient'altro che un mezzo per speculare su una evoluzione, matura e necessaria, o per impedirla, se dovesse attuarsi al di fuori del suo controllo.
Gli slogan sono sempre pericolosi per quel tanto di passionale ed indefinito che si presta a confondere le idee. Quello autonomistico ha avuto in Sicilia il torto di non chiarire, con il programma e con i fatti, che intendeva assumere il significato concreto di progresso. Ora è venuto il momento di lasciare da parte i miti e di cercare nella realtà siciliana gli elementi di una maggioranza omogenea, che voglia sul serio-superare l'arretratezza economica e sociale dell'isola. Questa maggioranza c'è nella popolazione e, pur con tutte le riserve, nella sua classe dirigente; occorre avere l'onestà di individuarla e la capacità di ricomporla sulla base di un programma che non consenta equivoci. Non è
più tempo da surrogati. RENATO MIELI
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1960 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 42
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42


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