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tipologia: Analitici; Id: 1472513


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Armanda Guiducci, La morte grande
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
LA MORTE GRANDE
(Il Mausoleo di Mosca)
Tutt'uno con le stratificazioni storiche che la rendono un luogo morale, la Piazza Rossa é un immenso spazio fisico, costruito e da godere. Si comprende bene il suo nome, che in vecchio russo suonava:
piazza bella ». Come a tutti gli spazi capaci di sprigionare un fascino potente, alla Piazza Rossa non si capita, si accede. Si arriva, cioè, con una preparazione. Che si provenga, infatti, dalla via Gorki e dalla piazza della Rivoluzione, che si giunga dalla piazza Manejnaïa, ad essa si sale. (Una fatalità da leggenda? Anche Mosca è costruita su sette colline). L'immensa spianata si apre allora all'occhio, con la grandezza di una cosa conquistata.
Sulla fiumana dell'asfalto, risorge improvviso ciel che da secoli sta: le mura merlate, le torri e le guglie, le chiese e i bulbi sfavillanti del Cremlino. A Sud, le zucche che si bilicano sulle torri della chiesa del Beato Basilio, a girotondo, esasperandone i lobi, gli occhi, le verruche di maiolica splendente, distaccano il cielo dal dorso della piazza. Dietro quelle cupole tortili, il pesante cielo moscovita dirada e sprofonda. Le nuvole galleggiano, portate al largo e lontane.
La prima acutissima sensazione che l'esserci nella Piazza Rossa, dà, è di respirare un tempo remoto.
Sopra la cintura merlata, le torri del Cremlino si avvicendano, le cuspidi a scudo di sé, scagliate di bronzo. Richiamano con forza irresistibile altre battaglie, altre paure, altre minacce, quelle dei nomadi po-lòvcy gettati all'assalto, delle orde tartare. Terrore, saccheggio, desolazione e difesa, il mondo impressionato dalle antiche cronache, dal Canto delle schiere di Igor, il mondo dell'infanzia selvaggia della vetusta 'Rus.
Il colore del sangue e del ramarro sono rappresi per l'intera piazza. Il chiarore del cielo li esalta, un falò che brucia da secoli. In lontananza, ardono mitemente i bulbi metallici delle tre chiese più antiche del Cremlino. La luce ne cava uno sfavillio di miele, il sole dischi e aureole.
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Fra fortezze e chiese, l'ibrida potenza del medioevo russo può ancora scatenare il fiato vivente dei suoi spazi, intatto e robusto.
Ma ecco che dall'ammattonato delle mura di cinta del Cremlino distinguete la scalea di granito rossastro che squadra il Mausoleo di Lenin. L'intera parete che lo fronteggia dal lato opposto della spianata, e che aguzza suoi tetti dietro un filare di platani, dà nel liberty,
un grande magazzino. L'edificio di un mattone cupo, a torrette e pinnacoli, che vi sta alle spalle, a spartiacqua fra il traffico delle piazze Manejnaïa e della Rivoluzione é, vi rendete conto, non meno recente, il Museo di Storia. Là hanno imbalsamato il sonno mortale di Lenin. Là, giacciono nelle teche delle vetrine pesci e aringhe disseccati e affumicati e s'accatasta, a piramidi, lo scatolame dell'emporio di Stato. Là, sotto vetro, sfidano il tempo libri e ritratti, armi, arnesi e vessilli. Le austere sale un poco ombrose allineano, più o meno ingiallite, c le appartenenze » di quella che fu la vita di Lenin: i suoi stivali, la sua vettura scoperta, le sue fotografie, i brandelli mistici della Rivoluzione. (« Tutto ciò é cucito alla storia, / schedato e archiviato / e lo dipingono ormai / i Brodskij e i Repin ») (1).
Prende consistenza alfine, sopra la fascia delle mura, il Gran Palazzo, con la sua fisionomia ottocentesca, il doppio rango di finestre.
È vero : a volte più ti avvicini alla realtà, più l'hai a portata di mano, più ti sembra irreale. Il Grande Palazzo é sotto i tuoi occhi. Guardalo, da tutte le parti; arriva fin sul ponte che attraversa la Moskva, dietro il Beato Basilio, per scoprirne la lunga ordinata facciata giallina che affaccia al fiume; osservane tutti i particolari — é vertiginosamente lontano. Qui Stalin si adirava contro i suoi « gattini ». Qui, si raduna il Soviet Supremo delle repubbliche socialiste sovietiche.
Dentro le mura di cinta del Cremlino sono state calcinate le ceneri dei grandi comunisti caduti per la Rivoluzione. Nonostante il loro carico umano, intorno al Gran Palazzo le mura si drizzano aggressive, ritornano ad essere quello che sono sempre state: la cinta difensiva e minacciante d'una cittadella del potere.
In un punto delle mura, verso Sud, sì apre un passaggio. È la porta del Salvatore, vi passavano gli Zar. La custodiscono una sentinella dell'Armata Rossa, e un semaforo. Quando il rosso accende quel semaforo, il traffico sull'immensa piazza si congela. Chi si trova a pas-
(1) Questi versi, e i seguenti citad nel testo, sono di Majakowskj.
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sare nelle vicinanze si ferma sui due piedi. La sentinella saluta, un gerarca in divisa varca spedito la soglia, una grossa macchina nera gli scivola incontro. Qualcun altro in divisa scende dalla vettura, apre lo sportello, si inchina. Il gerarca si curva, monta. L'automobile parte veloce sull'asfalto, aumenta di velocità, scompare al di là del ponte sulla Moscova.
Sul semaforo scatta il verde. Di colpo, la gente riprende a camminare, il traffico si scongela.
Sulla Piazza Rossa l'andirivieni umano obbedisce a due ossessioni precise: della vita, della morte.
Dalla parte dei grandi magazzini, il formicolio é intenso. Donne e uomini marciano incessantemente verso gli ingressi, con reti strette nei grossi pugni. Questa rete che vedete pendere in mano a ogni cittadino moscovita, nella quale v'imbattete continuamente (non solo all'entrata e all'uscita dei magazzini, ma lungo ogni percorso cittadino) — flaccida, o gonfiata di pacchi di ogni sorta — é qualcosa di più di un oggetto standardizzato e d'uso normale. Diventa un simbolo della ricerca e della conquista del cibo, degli oggetti.
Per quanto odiosa, l'immagine del formicaio si impone: la vastità brulicante del moto, la frettolosità del va e vieni, la muta e dominante preoccupazione che le governa.
Mentre l'esistenza pratica incalza su questo lato della piazza, sull'altro, opposto, si svolge un pellegrinaggio alla morte.
Dal mattino inoltrato alle cinque della sera, ora in cui la morte vien restituita alla morte, si snoda, risalendo dalla Piazza Manejnaïa, sottostante, la serpentina ininterrotta di coloro che attendono pazientemente di accedere alla visione dei due grandi corpi: Lenin e Stalin.
Se la folla che si riversa al Gum non conosce altro rituale all'infuori dell'urto, della pressione, altra regola all'infuori di quella dello scambio immediato fra denaro e merce, la folla ancor più composita dei pellegrini al Mausoleo sottostà a un rituale prestabilito, a una vera e propria regia della morte.
Lo scopo é quello — alquanto mistico — dell'esaltazione e consacrazione della grandezza sovietica. La suggestione drammatica, infinita, che la morte esercita sui viventi, viene spesso sfruttata per questo fine sottilmente deviante. Il fascino delle «grandi tombe » é equivoco, quando intorno ad esse non cresca l'inesorabile erba, ma la pietra progettata.
Il Grand Tombeau di Napoleone a Parigi, calato alla maniera fa-
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raonica in un immenso pozzo scolpito (così che solo dall'alto riesca possibile afferrarne il blocco delle dimensioni) é equivoco nella stessa maniera repellente, come sfruttamento della potenza della morte per la
potenza tout court. _
A costo di grandiosi trucchi architettonici, ciò che é assolutamente tragico e inappellabile viene risospinto alle assise degli interessi vitali di una nazione e della sua politica di prestigio. Là, il grande assente viene giudicato in contumacia, e regolarmente assolto dal delitto di aver vissuto, dai molteplici delitti che la sua potenza ha inevitabilmente provocato. Si crea cosí, in nome della continuità e della salvezza di una tradizione nazionale, un culto ottundente della morte.
In questa erezione della morte a potenza schiacciante per puri fini contingenti, una sostanziale mancanza di terrore e di pieta rende i mausolei moderni imparagonabili con la reale grandezza faraonica. Chi ha visitato le grandi tombe millenarie dell'Egitto, ha provato a inoltrarsi, vivo, nel cunicolo e nelle segrete della morte. L'ossessione del destino d'oltretomba, l'orrore della profanazione danno una cupa, ma solenne ragione all'accortezza degli inganni che dominano interamente queste costruzioni. La potenza della morte é più forte, insomma, della potenza e della fama del morto colà sepolto.
Nei mausolei moderni, il gioco degli inganni é rovesciato: non si tratta più di stornare i vivi, di indurli a rispettare una solitudine senza scampo, bensì di attirarli alla fama del defunto, usando dell'atroce prestigio della sua passività per colpire e per marcare le coscienze in un senso voluto.
Se il Grand Tombeau parigino deve la propria maestà mostruosa al calcolo di effetti del genere, (raggiunti dilatando non soltanto le dimensioni della cripta, ma dalla tomba che rinserra il corto scheletro del condottiero), il mausoleo sovietico (umanissimo invece nelle dimensioni, e ammirevole per la semplicità architettonica) deve il suo fascino sinistro al fatto di poterli vedere, i morti. (« Io temo / che le processioni / ed i mausolei / il regolamento fisso / dell'amministrazione / anneghino / nell'incenso dolciastro / la semplicità / di Lenin. / Per lui tremo, come per la pupilla dell'occhio, / che non sia / falsato / dall'ideale dei pasticceri »).
Non so quanto questo fascino, che é quello arcaico ed irresistibile di una rivincita ingannevole sulla distruzione dell'essere umano, possa giocare molti dei pellegrini che giungono fin dalle repubbliche più lontane per sfilare davanti alle salme, sostare dinanzi a loro un attimo
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solo, e uscire con quella visione impressa negli occhi per tutta la vita. Dubito che possa mancare la sua presa; anche una coscienza preparata può difficilmente esorcizzarlo. Osservando nel corteo molte facce fisse e ottuse, arrivate chissà da quali campagne, vien fatto di pensare che, inevitabilmente, quel fascino si fisserà nella venerazione, nella superstizione, in un culto mistico della potenza dei propri capi e del proprio paese.
Che la regia del corteo miri a questo, é indubbio. La gente si assiepa fin dal mattino presto sulla Piazza Manejnaïa per aspettare il momento di essere ammessa al corteo, e di risalire in quello fino alla Piazza Rossa. Si tratta di una calca vera e propria, che si stringe ventre contro schiena, paziente e intollerante com'è sempre la folla in attesa, capace di una resistenza incredibile, viperinamente attenta a impedire ogni minima varco. I poliziotti la smistano, la inquadrano in ordine di precedenza. Alla coda del corteo vengono aggiunte due persone per volta. Subito, con passi lentissimi, esse si adeguano, diventano processione.
È rigidamente proibito camminare per tre. Un poliziotto interverrà a redarguire l'inosservante, ad assegnargli il posto che gli compete. Affiancarsi, camminare per due. Lo vogliono la lunghezza, il ritmo.
La regolarità con cui al corteo, continuamente mozzato della testa, viene rinnovata la coda, fa si che la serpentina non appaia un solo momento più breve, più rada. L'effetto è schiacciante; francamente — senza paragone. Tutti i visitatori dell'Urss non hanno esitato a definirlo
grandioso ». Con quest'aggettivo si liquida l'impressione soggiogante del numero che si moltiplica all'infinito. Un'impressione che sulla Piazza Rossa diventa un'esperienza visiva, un'emozione tanto più forte se, estendendo al tempo quella moltiplicazione nello spazio, si pensa che é da più di trenta anni che attraverso la piazza il gran serpe si snoda, si segmenta, e ricresce.
Altra cosa intollerata: che si parli. Ho veduto un vecchio dall'aspetto pezzente cacciato brutalmente fuori dalla fila per questa ragione, e rinserito solo dopo una contestazione concitata con un gruppo di poliziotti. II silenzio aiuta la lentezza, è un elemento indispensabile del rituale. In silenzio procedono giovani, vecchi, uomini, ragazzi, giovanette e vecchie, ragazze e donne, ucraini, kazakistani, usbechi, armeni, cittadini d'ogni repubblica, contadini, operai e militari, sovietici e cinesi, stranieri. Molti cinesi nel corteo, militari e intere famigliole, le donne con in collo i loro bimbi dagli occhi di mandorla immensi.
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A passi brevi e in silenzio, in un funerale eterno, finalmente si raggiunge la facciata del Mausoleo.
Quasi sotto la torre Spasskaïa, la più grande e la più bella sulla cinta del Cremlino, il Mausoleo discende per forti gradienti di granito rosa intenso dal tempietto, che lo corona, fino al livello della piazza. Benché opera dello Schoussev, un professore d'accademia, le sue proporzioni rifuggono dalla statura retorica. Certamente, gli giova il rapporto con l'alto muro del Cremlino che lo sovrasta alle spalle. Allorché Lenin vi fu ospitato, nel 1924, era di legno. (Lo Schoussev si era ispirato ai monumenti funerari dell'età preistorica). Cinque anni dopo, fu tradotto nella fastosità regale del marmo.
La rigida angolatura della scalea che balza verso il basso per blocchi parallelepipedi, impone l'idea della discesa sotterranea, della camera riposta della morte.
Con la sua mole tranquilla, con il suo orologio rotondo, con la stella librata sulla punta, la torre Spasskaïa domina quest'idea, impassibilmente.
(« Come scattano / folli / le lancette sulla Spasskaïa, / dall'inizio del minuto / all'ultimo quarto è uno scatto »). Questo fu il giorno il cui la torre scandì l'ora della morte di Lenin.
Guardo il corteo che si snoda, ordinato in mestizia e rigore dalla polizia (« la polizia, / faccia di culo ») e ripenso a quel vivo tempo di morte cantato da Maiakowski, quando sulla Piazza Rossa sembrò che nuovamente la Russia fosse diventata nomade. (« La diga delle strade / si spacca in mezzo / e cantando / gli uomini / si precipitano alla morte »).
Silenziosi, ordinati, a pascetti, gli uomini guadagnano il Mausoleo. Oltre il basso portale e il presentat'arm pietrificato delle sentinelle, la scalinata esterna del monumento si fa naturalmente scala interna, per la discesa alla cella. I marmi più preziosi che l'Unione Sovietica possegga sono stati impiegati per la facciata: il granito rosa proviene dall'Ucraina, dalla Carelia il porfido rosso che mensola il tempietto;. eppure si fondono senza sontuosità, con un effetto di colore caldo e tranquillo. Ignoro da quale regione sia stato cavato il marmo che riveste la sala di ingresso, che corre lungo le scale: è un marmo mai veduto in Europa, azzurro piombo, vibrante di scaglie e di riflessi argentei. Gelido e ardente, pulito e ricco — si intona benissimo a tutto, il clima del Mausoleo.
Mentre scendete, il silenzio che da tempo vi accompagna, si fa op-
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pressivo, terribile. Si presenta e si paventa, in quest'ultimo scorcio dell'attesa, avvicinandosi la meta, e quale che sia il motivo che vi ha spinto quaggiù, il mistero sempre rinnovantesi della morte dell'uomo. Terminata la scala, si svolta sulla destra. Subito, come svoltate, sentite che siete ormai fra i defunti. L'ingresso alla cella è in faccia, fluttua un barbaglio rossastro. Entrate e, senza poter ancora discernere forme umane, scorgete dal retro i sarcofaghi, sopraelevati. Per passarvi davanti occorrerà salire una breve scala, discenderne una uguale per guadagnare l'uscita. Nella stanza, di proporzioni rispettose, una penombra rossa, una luce che vi gela le dita. Vi rendete conto che siete in una cella frigorifera.
« Fine; / fine, / fine. / Chi / convincere? / Un vetro, / e sotto vedete...» fino al petto, parallele a pochi metri di distanza, le statue di carne in cui abitarono gli uomini Stalin e Lenin. Due busti, piú precisamente. Dal ventre in giù, una coltre di bronzo copre, con pieghe pietose, le loro figure spezzate.
La luce rossa li lambisce e, sfiorando con un raggio rosato la testa e le mani scolpite in quella cera opaca in cui si blocca, con la morte, la nostra materia organica, trucca il pallore cadaverico.
La mano sinistra di Lenin poggia tesa sul massiccio lenzuolo. La destra è serrata a pugno, all'altezza del cuore, su una giacca simile a camiciotto, con il colletto alto chiuso e due tasche ai lati del petto.
Sono due mani piccole ma affusolate, con le nocche lunghe come hanno gli intellettuali: mani che hanno scritto, che hanno pensato, ricordarlo non fa fatica, da sole parlano del loro tempo trascorso. Le mani di Stalin ricadono pesanti sul bronzo, grandi, con le dita nocchiute, la palma spessa. La giubba militare cachi le taglia al polso.
La faccia di Lenin, minuta, stempiata, gli zigomi alti, è appuntita in una serietà indifferente. La morte marchia proprio sul viso di coloro che amarono la vita come un caldo continuo progetto, quest'impronta — di uomo che ha declinato, ormai, tutte le responsabilità.
La morte, che noi avvertiamo angosciosamente soprattutto come cessazione, è un crudele processo di metamorfosi. Qualcosa viene fissato per sempre, qualcosa viene cancellato per sempre sul volto dell'uomo che muore.
È come se, allorché sopraggiunge la fine, la tensione provocata dall'uomo, con la sua problematica presenza, nel mondo della natura, precipiti, per forza d'inerzia. E l'antagonismo fra la vita biologica e
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l'esistenza umana, nel momento stesso in cui culmina, si contenda per sempre le fattezze dell'individuo.
Il viso bloccato dalla morte non è mai, se non nei tratti somatici più grossolani o evidenti, il medesimo viso che l'uomo condusse in giro da vivo. E qualcosa di meno, e di più: è un volto, compiuto e rivelatore come una parola scritta; tragico, nella misura che gli spetta. Intanto, evade stranamente dal tempo: nonostante ogni segno, ogni piega dell'età, la propria stessa età non lo riguarda piú. A quale eta risale questa paralisi che colpisce tutto il corpo visibile di Lenin e tutto quello di Stalin? Lenin sembra vagamente più giovane, perché i capelli folti di Stalin sono brizzolati. Ma il viso di Stalin non è perciò più vecchio. In una maschera, é semplicemente assente l'angoscia del volto umano, di essere macinato dalla mola del tempo. E anche i volti di Stalin e di Lenin danno nella maschera — voi potreste semplicemente dire: un intellettuale russo, ricordandovi improvvisamente di qualche effigie di Dostoevsky tosi tipicamente slavo e somigliante, negli zigomi alti, nella fronte convessa, nelle mascelle che intenagliano il mento appuntito; un uomo da esercito e da cannoni, un generale, balenandovi irresistibilmente una qualche analogia visiva, chissà quando e dove afferrata, con un Pancho Villa o con un virulento capo militare da Americhe del Sud.
La chioma folta spazzolata all'indietro, i baffi imperiosi, il naso come un pugno in mezzo alla faccia, le guance che tradiscono il grande apoplettico, una grossa verruca immobile su quella di destra, e le labbra sensuali su cui aleggia il ricordo stupefacente di un sorriso, la testa di Giuseppe Stalin giace riversa in un altro emisfero, pur stando così vicina e parallela a quella di Vladimir Ilijc Lenin.
Donde gli viene quell'incredibile sorriso?
Ricordo il ritratto di Barbusse, che lo vide da vivo: « Sono gli occhi dal taglio esotico leggermente asiatico, che imprimono alla sua maschera di rude lavoratore un'aria ironica. C'è qualche cosa nello sguardo e nella espressione del viso che lo fanno apparire sempre sorridente. O meglio, si direbbe che egli stia sempre per sorridere. Così pure Lenin ».
Eppure, con la sua giustizia ironica, la metamorfosi irrimediabile ha cancellato ogni ricordo di sorriso dal piccolo volto d'avorio di Lenin, infinitamente più asiatico e più ironico nel taglio; lo ha mantenuto — una traccia beffarda e sconvolgente — su quello grezzo e sanguigno di Stalin.
L,
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Un sorriso impercettibile, chissà come fissatosi agli angoli delle labbra, che riesce peri a diffondersi, per tutta la faccia; un sorriso do-minatore, di chi ce l'ha fatta, e che impone la presenza del terribile. La tenace indefettibilitá di tutti i dolori sofferti nei luoghi di esecuzione, nelle camere di tortura, urta contro quel sorriso — uno scontro silenzioso e pauroso di masse di energie invisibili.
« Basterà che io muova il mignolo ed egli non esisterà più ». « Basterà che io muova il mignolo e Tito non esisterà più. Egli cadrà ». « Muoverò il mignolo e Kossior non esisterà più; muoverò ancora una volta il mignolo e Postisciev e Ciubar non esisteranno più; muoverò ancora il mignolo e Voznesenski, Kuznezov e molti altri spariranno ».
Per quanto stranamente la morte si sia alleata alla propaganda, riproducendo quello stesso viso forte, ottimistico e sorridente che fu innalzato su migliaia e migliaia di cartelloni, é possibile dimenticare?
Disperata é la forza di sussistenza del dolore. La nostra medicina é la dimenticanza, la giustificazione. Riascoltatele solo un momento, davanti al letto bronzeo di Stalin, le parole che uno dei molti, a nome Eiche, scrisse per sé e per tutti gli altri:
« Le cose stanno nel modo seguente: non essendo in grado di sopportare le torture alle quali sono stato sottoposto da Usciakov e da Nikolaiev, e particolarmente dal primo — i quali hanno sfruttato il fatto che le mie costole fratturate non sono guarite e mi hanno fatto molto soffrire — sono stato costretto ad accusare me stesso ed altri ».
Una serietà terribile, pallida, sta rappresa sul volto di Lenin. Il suo pugno è contratto.
Il mignolo di Stalin è sigillato nell'indifferenza (le unghie serbano una traccia di nicotina).
Invano pensate che, a un certo momento, anche la morte ha alzato il suo mignolo — e Giuseppe Stalin è caduto fulminato. Una sproporzione fra i destini umani sussiste.
Sui pochi metri di distanza che separano queste due salme si ha l'impressione di misurare l'abisso. Allinearli così vicini...
Vicini e lontani, lontani ma vicini, se si è presi con forza da questa sensazione, ecco, almeno ora un tratto comune, un che di somigliante, qualcosa che li conforma, si riesce a scoprire. E una certa assenza. Una curiosa assenza, non di vita, come ci si potrebbe aspettare, ma di morte.
Passando la sua spugna nera sopra un volto umano, la morte, allorché sopraggiunge, sembra preoccuparsi della sua eccessiva indivi-
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dualità. Mira a distruggere, con calma furia, la propria principale nemica — l'espressione, questa immensa e millenaria creazione e vendetta della civiltà umana.
Sforzandosi di cancellarla, e stravolgendola, cerca di ristabilire nell'individuo la specie, di rodere i segni più trionfanti della ribellione. Nei minuti in cui, passando e ripassando, preparando in silenzio il viso dell'uomo al distacco, la spugna lo lava nel nulla, la metamorfosi é in atto. Alcuni muscoli vengono tesi, altri rilassati. Il viso, giacendo in una solitudine insostenibile, é contratto a metà. Per metà l'uómo dà sulla vita, per metà sull'ombra. È un processo che avviene per strappi insensibili ma rapidi. Nel tempo dell'agonia, questa plastica oscura ha modo di esercitarsi liberamente, di sbizzarrirsi. Viene alterato, sciupato, tutto ciò in cui abitò il meglio dell'uomo — il meglio senza più aggettivi morali: la fiammata unica della sua esistenza. I suoi occhi per primi, e quella zona palpitante di significati che li circonda — luogo prediletto di scavo; e quell'altra area di palpito alla radice del naso, vicino alla bocca; e la bocca stessa, pozzo misterioso e superbo dell'articolazione; e quella plaga intorno alle labbra, dove l'accento di un intero modo di esistere si incontra con i significati che calano dagli occhi, e li fermano.
Finita l'operazione, il viso — quali ne siano stati i tratti volitivi — é conformato a una maschera. Ma a una maschera tragica. Mentre rimangono rispettate proprio le parti più anonime, più disabitate dall'intelligenza (« La morte / non sa chiedere scusa »), la deformazione di ogni altro tratto tradisce il grado della lotta avvenuta: l'accanimento dell'uomo a rimanere uomo; della morte a disfarlo.
Ora, fissando le maschere a cui sono ridotti Lenin e Stalin, due lottatori di tempra, colpisce l'assenza di conflitto. Somigliano troppo a un'iconografia, con una pretesa anticipata di eternità. Si penserebbe quasi a un intervento della mano dell'uomo, perché soltanto l'uomo cerca, in una maschera, di conservare la somiglianza con la vita.
Mi sovviene il dubbio terribile espresso da Emanuelli quando rivide, sette anni or sono, il corpo di Lenin, che aveva già veduto imbalsamato diciotto anni prima. A Emanuelli venne il sospetto che il volto non fosse più quello vero, ma una maschera di cera dipinta alla perfezione. Espresse questo suo timore, e gli dissero che poteva anche essere verità. Durante la guerra, quando Mosca sembra minacciata dall'invasione, il corpo di Lenin venne segretamente murato in una stazione della metropolitana. Più tardi, trovarono che si era incenerito.
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« La sostituzione con la maschera di cera colorata é particolare che, riferisco senza dargli nessuna importanza, e infatti non ne ha dal momento che i suoi fedeli lo ignorano ».
Fosse pur vero, il particolare, infatti, non ha nessuna importanza. Stalin, non incenerito, appare colato nella stessa cera sonnolenta, non tormentata, in cui sono modellati i tratti di Lenin.
La mano dell'uomo é certamente passata su di loro — non fosse altro che per il macabro rito assurdo dell'imbalsamazione. E vi ha lasciato la sua traccia illusoria e pietosa.
Un'imitazione, assai abile, di sopravvivenza, ci permette dunque di ammirare oggi nel Mausoleo sovietico quanto costituisce il vanto di non poche basiliche cattoliche: delle salme eccezionalmente intatte, levigate per l'eternità.
Ad Assisi, è naturale, vogliono che si ammiri la tecnica del miracolo. A Mosca, il viceversa. Appunto per questo, risalire alla piazza Rossa — splendente di tutti gli smalti dell'esistenza — con la turgida meraviglia della mummificazione conficcata negli occhi, é tutt'uno col chiedersene il perché.
Possibile che l'alto Egitto, le tecniche segrete con cui si pietrificano i corpi, che — sopra ogni altra cosa — la vendetta primordiale sulla dissoluzione abbiano preso piede proprio qui, nel paese dove la carne dovrebbe essere «Fine; / fine, / fine? »
Che cosa pensano della morte i cittadini sovietici che attraversano indaffarati la piazza, che si ammassano all'entrate del Gum? Destinati, loro, alla macinatura nei grandi campi di seppellimento urbani? O li rende sufficientemente tranquilli l'idea che all'intero costo del funerale civile provvederà senz'altro lo Stato?
Della morte sovietica non ne sappiamo nulla. In tutti i libri che abbiamo interrogato sull'Urss, la morte é citata solo come « mortalità »: « coefficiente di », o « diminuzione della v. Gli uomini non amano parlarne.
Allorché il tardo pomeriggio spegne gli ultimi fuochi d'oro sulle cattedrali del Cremlino, il Mausoleo chiude i suoi battenti. La sera, sopra di esso, splendono verticali le stelle elettriche accese nelle guglie delle torri. Nella piazza quasi silenziosa, l'anacronismo fra la grande giornata umana dell'Urss, che naturalmente finisce, e la mole che si squadra granitica, si accentua. Prosegue, piú in ombra, il baratto fra la potenza della morte e la potenza dello Stato.
ARMANDA GUIDUCCI
 
Trascrizione secondaria non visualizzabile dall'utente 


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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1960 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 42
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1960 - 1 - 1 - numero 42


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