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tipologia: Analitici; Id: 1472498


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Tipologia Periodico
Titolo Paolo Alatri, Il Governo Nitti e la questione adriatica
Responsabilità
Alatri, Paolo+++
  • ente ; ente
  autore+++    
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Nome da authority file (CPF e personaggi)
Nitti, Saverio+++   Titolo:oggetto+++   
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IL GOVERNO NITTI E LA QUESTIONE ADRIATICA (*)
Nelle sue Rivelazioni, Nitti scrisse molti anni piú tardi che quando il suo Ministero fu rovesciato, i delegati jugoslavi stavano per riprendere contatto con quelli italiani per riallacciare le trattative, interrotte esattamente un mese prima dalla crisi ministeriale italiana (1). Non pare che ciò sia de tutto esatto: il nuovo incontro non era stato ancora fissato; tuttavia é certo che se nel giugno 1920 Nitti avesse superato la crisi e fosse restato al go-veron, i negoziati diretti per la soluzione della questione adriatica sarebbero stati ripresi entro breve tempo e, con ogni probabilità, portati a compimento. Giolitti, che gli succedette a capo del governo, lasciò invece passare qualche tempo prima di riprendere le trattative, che furono poi concluse il 12 novembre 1920 con la firma del Trattato di Rapallo.
L'accordo concluso da Giolitti e Sforza a Rapallo fu lievemente migliore, per l'Italia, di quello che Nitti e Scialoja stavano per raggiungere Pallanza e che avrebbero probabilmente realizzato dopo il giugno se fossero rimasti al potere: in modo particolare fu migliorata la linea di frontiera terrestre italo-jugoslava (2). Bisogna tener presente, da una parte che Nitti era convinto che fosse opportuno sacrificare eventualmente qualcosa alla celerità
(*) Il presente articolo riproduce alcune pagine conclusive di un ampio lavoro dallo stesso titolo di prossima pubblicazione presso l'editore Feltrinelli.
(1) FRANCESCO SAVERIO NITTI, Rivelazioni. Dramatis personae, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948, pp. 340-41.
(2) Non pare perciò fondata l'affermazione di F. S. NIrri (ibid., p. 343): « Al trattato di Rapallo segui l'accordo con la Jugoslavia: nulla era stato ottenuto che io non avessi ottenuto; anzi la situazione era stata di molto peggiorata D. Più aderente al vero RENÉ ALBRECHT-CARRIÉ, Italy at Me Peace Conference, New York, Columbia University Press, 1938, p. 289, che scrive: « C'è ogni ragione di ritenere che la lunga disputa [italo-jugoslava] sarebbe stata portata a conclusione a Pallanza, e che, se così fosse stato, gli jugoslavi si sarebbero asicurate condizioni migliori di quelle che avrebbero ottenute di lì a qualche mese in condizioni che, sotto qualche aspetto, poterono sembrare meno favorevoli ad essi s.
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della conclusione dell'accordo con la Jugoslavia per essere in grado di dare rapida attuazione al programma di smobilitazione militare, politica e psicologica del Paese, in vista di una politica di riduzione delle spese, di concentrazione interna, di ricostruzione economica, mentre Giolitti, tornato al potere con l'appoggio di una maggioranza assai più vasta di quella che appoggiava il Governo Nitti, poteva permettersi di temporeggiare; e dall'altra parte che Giolitti poté trattare in condizioni più favorevoli, per alcune congiunture internazionali determinatesi nel frattempo: infatti la posizione della Jugoslavia fu gravemente indebolita, tra il giugno e il novembre 1920, sia dall'esito del plebiscito di Klagenfurt (3), sia dal definitivo tramonto di Wilson, che aveva costituito, per tutto il tempo in cui Nitti era rimasto al potere, il maggiore appoggio di Belgrado e il più forte ostacolo a una soluzione positiva del problema fiumano; inoltre le intensificate mène francesi nell'Europa balcanica e danubiana, preoccupando la Jugoslavia e facendole intravedere il pericolo di un isolamento, la indussero a maggiore arrendevolezza di fronte all'Italia per chiudere in qualche modo il grave contrasto sul problema adriatico.
Tuttavia, anche tenuto conto di questo mutamento della situazione generale in cui si trovò a trattare Giolitti in confronto di Nitti, non ci sembra di grande importanza discutere se il Trattato di Rapallo fu più sfavorevole all'Italia dell'accordo che il precedente Governo avrebbe potuto firmare. Piuttosto, va messo in rilievo che, nell'affrontare il problema adriatico, Giolitti non soltanto poté avvalersi delle lunghe, estenuanti trattative già svolte da Nitti e dei risultati già da lui raggiunti, ma prosegui nello stesso indirizzo che Nitti aveva inaugurato nei confronti di Orlando e Sonnino. In sostanza, dunque, e salvo qualche aspetto di dettaglio, la questione adriatica fu risolta secondo le linee generali impostate e perseguite da Nitti in modo totalmente nuovo rispetto ai disordinati e impotenti tentativi del Governo precedente.
Di fronte all'agitazione prodottasi in Italia per Fiume, non vi erano che due strade: l'annessione o l'accordo attraverso le trat-
(3) Cfr. ibid., p. 302.
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tative. La prima avrebbe isolato I'Italia . dalle potenze alleate e l'avrebbe posta in una situazione insostenibile sull'arengo interna-
zionale, mentre avrebbe incoraggiato le correnti nazionaliste e, per converso, avrebbe esacerbato l'opposizione socialista; la seconda era la strada della pace, ma presentava un pericolo: quello di eccitare il militarismo a tentare di rovesciare il governo parlamentare. Nitti non ebbe esitazione nell'imboccare la seconda di queste due strade, ma dovette perciò guardarsi dalla minaccia dell'estremismo di destra.
Con le potenze alleate, i rapporti mutarono nel corso dei dodici mesi della permanenza di Nitti al Governo. Abbiamo documentato altrove con quanta diffidenza e fra quali pregiudizi il nuovo Ministero fu accolto in Francia e, quindici giorni dopo la sua formazione, scoppiavano i gravissimi incidenti fiumani, che. non potevano non rendere tese le reazioni franco-italiane. Di fronte a quegli incidenti, Nitti conservò i nervi a posto, e la nomina della commissione d'inchiesta che lavorò con serena obiettività, contribuì a riportare le cose alle loro giuste proporzioni. Cosicché, in capo a pochi mesi, nell'autunno del 1919, i rapporti tra la Francia e l'Italia erano divenuti eccellenti. Tra ottobre e novembre, vi era ormai la convinzione che la Francia aiutasse concretamente il nostro Paese, il quale non trovava invece altrettanto appoggio nell'Inghilterra (4). In un'intervista a un giornale francese, Nitti poteva dichiarare: « Da che sono al Governo, faccio di tutto per rendere più cordiali i rapporti con la Francia. Ha dissipato ogni equivoco (...) Non dimenticheremo mai ciò che la Francia ha fatto per noi in questa circostanza » (5).
In quello stesso periodo, per contro, peggioravano gravemente i rapporti italo-inglesi, in coincidenza con la nota di Lord Curzon consegnata il 4 ottobre da Lord Hardinge al nostro ambasciatore per deplorare la presunta inerzia del Governo italiano di fronte
(4) Cfr. il rapporto dell'ambasciatore britannico a Roma Buchanan al ministro degii Esteri Lord Curzon, 30 ottobre 1919, in Documents on British Foreign Policy, 1919-1939, edited by E. L. WOODWARD and ROHAN BUTLER, London, 1947 sgg., First Series, vol. IV, p. 143.
(5) Presse de Paris, 12 novembre 1919.
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alla situazione fiumana in regime di occupazione da parte degli irregolari di D'Annunzio.
Col nuovo anno, la situazione diplomatica si capovolge. In Francia a Clemenceau succede Millerand, che si orienta più decisamente verso una politica di forza verso la Germania e la Russia sovietica, politica che Nitti, insieme con Lloyd George, è deciso a respingere. Anche la notizia di una convenzione militare franco-serba, per quanto smentita, contribuisce a rendere nuovamente tesi i rapporti tra i Governi di Roma e di Parigi. Lo scontro avviene a San Remo, e da quel momento s'intensificano anche le mène di Barrère contro il Governo Nitti che arriverà a chiedere, senza peraltro ottenerlo, il richiamo dell'ambasciatore francese a Roma. Su questa base avviene il riavvicinamento sempre più stretto tra la politica inglese e quella italiana.
Contrari sempre a una soluzione della questione adriatica che, con il riconoscimento dell'italianità di Fiume, sembrava ledere e sopraffare i diritti della Jugoslavia, gli Stati Uniti. Si possono mettere in rilievo — e lo abbiamo fatto altrove — le ragioni non spregevoli dell'atteggiamento americano. Rimane da notare, tuttavia, che nella querela Wilson portò uno spirito d'intransigenza e una rigidezza dogmatica che apparvero dannosi anche a Lloyd George e a Clemenceau (6) e che più di una volta, prima ancora delle trattative dirette tra Roma e Belgrado, impedirono il raggiungimento di una soluzione obiettivamente non peggiore di quella assai più faticosamente trovata soltanto nel novembre 1920 a Rapallo. In sostanza, quindi, la difesa della nazione più debole assunta dagli Stati Uniti si converti, poiché attuata con così scarso
(6) Secondo il Premier inglese, ad_ esempio, Wilson era come un predicatore che voleva riscattare l'Europa dai suoi secolari errori. « Senza dubbio l'Europa aveva bisogno della lezione — egli scrisse —, ma il Presidente dimenticava che gli Alleati avevano combattuto quasi cinque anni per il diritto internazionale » (DAVID LLOYD GEORGE, The truth about peace treates, London, Gollancz, 1938, vol. I, pp. 223-24). Sui difetti di temperamento di Wilson hanno scritto tutti quelli che ebbero a trattare o a collaborare con lui; cfr. per es. HAROLD NicoLsoN, Peacemaking 1919, London, Constable, 1945, pp. 161 sgg., e ROBERT LANSING, MEmoires, ediz. francese, Paris, Plon, 1925, pp. 13 sgg. e 217 sgg. (anche in The Big Four and others of the Peace Conference, Boston and New York, Houghton Mifflin Comp., 1921, pp. 47 sgg.), dove lo si accusa di incapacità di accettare critiche e suggerimenti, testardaggine, presunzione della propria infallibilità, tendenza al negoziato segreto, ecc.
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realismo da Wilson, in un grave ostacolo al ristabilimento di condizioni normali in Europa.
Una questione controversa e realmente difficile da dirimere è quanto nell'intransigente opposizione wilsoniana ad una soluzione del problema adriatico accettabile da parte italiana vada attribuito a rigidezze e astrattismi ideologici e quanto a influenze finanziarie. Certo, i due elementi dovettero intrecciarsi, e il secondo non dovette mancare. Si disse insistentemente, allora, che gli americani avessero particolari mire sul porto di Fiume come elemento di una più vasta penetrazione nell'Europa centrale, che essi attendessero dagli jugoslavi un'arrendevolezza che non avrebbero trovato negli italiani (7); più tardi, nel periodo di vita dello Stato libero creato dal Trattato di Rapallo, gli americani progettarono l'acquisto di una parte importante del porto fiumano, su cui avrebbe dovuto esercitare la sua giurisdizione la « Standard Oil Company » (8), e in ciò si vide una specie di dimostrazione a posteriori dei motivi che avevano reso la diplomazia wilsoniana così dura, rigida, intransigente. Per contro, il banchiere americano Guggenheim, intervistato da un giornale italiano (9), dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto preferire una soluzione italiana del problema di Fiume, perché gli jugoslavi ne avrebbero dato il,controllo agli inglesi (Wilson ormai conta poco, aggiunse Guggenheim, e « non potrà impedire ai banchieri e agli industriali di aiutare il vostro Paese in cui essi hanno piena fiducia »); e di interessi della « Cunard Line » britannica a Fiume parlò Harold Spencer, ex corrispondente del New York Herald (10).
Se sulla diplomazia americana poté esercitare influenza la pressione di gruppi economici e finanziari, non si creda che in Italia la vasta agitazione nazionalistica per Fiume non avesse le sue radici in ben individuabili interessi costituiti. Vivo era in particolare l'interesse degli armatori triestini a monopolizzare il corn-
(7) Cfr. per es. ALCESTE DE AMBRIS, La questione di Fiume, Roma, La Fionda. 1920, pp. 35-36.
(8) GIULIO BENEDETTI, La pace di Fiume. Dalla Conferenza di Parigi al Trattato di Rapallo, Bologna, 1924, p. 113.
(9) II Messaggero, 24 febbraio 1920.
(10) L'Idea Nazionale, 7 novembre 1919.
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mercio dell'Alto Adriatico, controllando Fiume. Non a caso l'irredentismo fiumano-dannunziano ebbe il suo quartier generale a Trieste, dove gli armatori, in mancanza di stipulazioni adeguate da parte del Governo italiano prima dell'intervento in guerra, puntavano sulla soluzione -integrale del problema di Fiume — l'annessione — allo scopo di eliminare il pericolo di una concorrenza portuale (11). In tal senso, certamente, si adoperavano uomini come Cosulich e Sinigaglia. Wilson non mancò di scorgere questo elemento, e nella seduta del Consiglio Supremo del 13 maggio 1919 disse : « E anche possibile che i capitalisti di Trieste vogliano che Fiume sia italiana per poter a lor grado rovinare la sua concorrenza » (12). Difatti la maggioranza della popolazione fiumana, e tutti i più avveduti tra i cittadini di Fiume, furono indipendentisti o autonomisti e non annessionisti, come dimostrarono sia il plebiscito del 18 dicembre 1919 sia le vicende posteriori, sulle quali torneremo. Inserita e integrata nel sistema statuale italiano, Fiume non aveva larghe possibilità di attività e di sviluppo; e ciò si poté constatare e confermare quando più tardi gli jugoslavi, perso il controllo di Fiume, ne attuarono l'isolamento e lasciarono vuoti e inutilizzati i capaci e moderni magazzini del bacino Thaon di Revel (13), determinando l'asfissia economica che mortificò il porto e la vita della città nei decenni successivi.
Nitti, per aver preso sul problema fiumano e adriatico in genere un atteggiamento che non coincideva con quello dei nazionalisti, divenne il bersaglio delle più feroci e ingiuste accuse: uno di essi, Armando Hodnig, il fondatore della Vedetta d'Italia, lo
(11) In proposito cfr. lo scritto di GAETANO SALVEMINI nella Quarterly Review del gennaio 1918, ora nel volume Dal Patto di Londra alla Pace di Roma. Documenti della politica che non fu fatta, Torino, Gobetti, 1925, p. 97; ed anche il suo articolo su Il problema di Fiume nell'Unità del 23 novembre 1918, ora nel volume L'Unità di Gaetano Salvemini a cura di Beniamino Finocchiaro, Venezia, Neri Pozza, 1958, p. 543.
(12) Cfr. Les délibérations du Conseil des Quatre (24 mars - 28 juin). Notes de l'Officier Interpréte PAUL MANTOUX, Paris, Editions du Centre National de la Recherche Scientifique, 1955, vol. II, pp. 54-55.
(13) Cfr. la recensione di ATTILIO DEPOLI al Mussolini diplomatico di G. Salve-mini in Fiume, a. I, n. 2 (aprile-giugno 1952), p. 154.
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definì a il tristo agente bancario di Muro Lucano » e affermò che <c aveva venduto Fiume allo straniero » (14).
L'iniziativa di D'Annunzio creò una situazione che condizionò le trattative diplomatiche condotte dal Governo Nitti. Un quesito che è giusto porsi, ma al quale non é possibile dare una risposta netta e univoca, é il seguente: l'impresa dannunziana costituì un elemento positivo o negativo per la soluzione del problema adriatico? Se ci limitiamo all'aspetto strettamente fiumano di quel problema, possiamo affermare che D'Annunzio, inserendo nella situazione un fatto compiuto sul quale si articolò la vasta mobilitazione psicologica organizzata dai nazionalisti, impedì ai negoziatori una soluzione che non implicasse il rispetto e la difesa dell'italianità di Fiume. E lecito tuttavia presumere che anche senza quel fatto compiuto nessun governo italiano avrebbe abbandonato Fiume agli jugoslavi, mentre la soluzione annessioni-stica, che era quella per cui si battevano D'Annunzio e i nazionalisti, non fu per allora realizzata perché non poteva esserlo. D'altra parte, in una prospettiva più ampia, cioè guardando all'intero problema adriatico e non alla sola questione di Fiume, il pronunciamento militare capeggiato da D'Annunzio, e l'elemento di rottura che egli inserì nella legittimità diplomatica internazionale, non attenuarono ma anzi resero certamente più acerba l'opposizione di Wilson a una sistemazione favorevole alle richieste italiane che al Presidente degli Stati Uniti sembrava basata sulla sopraffazione del più debole da parte del più forte (15): e in tal senso i negoziatori italiani ebbero in D'Annunzio non un aiuto ma un ostacolo.
Non vi é dubbio, poi, che allargando ulteriormente lo sguardo, cioè tenendo presente l'intero quadro delle trattative di pace, e non soltanto la questione adriatica, l'episodio di Fiume fu enormemente dannoso agli interessi nazionali italiani. Conseguenza e a sua volta causa del concentrarsi dell'attenzione sul solo ristretto problema fiumano, l'impresa di D'Annunzio confluì in quello che
(14) Nel'introduzione al volume di A. DE AMSROS, La questione di Fiume cit.
(15) Cfr. per esempio D. LLOYD GEORGE, op. cit., vol.. Il, p. 809.
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fu il più grave tra gli errori del Ministero Orlando-Sonnino, vale a dire lo scarso interesse riposto per tutte le questioni ben più importanti della sistemazione del bacino del Mediterraneo in generale e delle riparazioni; e le nefaste conseguenze di questo errore Nitti ereditò. Il suo sforzo per sdrammatizzare il problema fiumano e tutta intera la questione adriatica rientrava certamente in una visione più ampia e lungimirante, nella quale aveva gran parte anche la concezione europeistica, cioè di una sostanziale solidarietà tra le nazioni europee. Ciò spiega sia il gran conto che egli faceva dell'opinione alleata e del buon accordo tra l'Italia e i Paesi dell'Intesa, sia le speranze che egli ripose in una vera Società delle Nazioni, sia anche, infine, la sua fiducia nello sviluppo del radicalismo filosocialista, che nel suo pensiero doveva trionfare in Europa dopo la grande guerra e aprire l'èra dello sviluppo sociale.
Nelle lunghe ed estenuanti trattative, Nitti ebbe come collaboratori i due ministri degli Esteri, cioè, successivamente, Tommaso Tittoni e Vittorio Scialoja. Entrambi erano di origine, formazione e posizione politica profondamente diverse da quelle del presidente del Consiglio: Tittoni era, in sostanza, un clerico-moderato; Scialoja un liberale-nazionalista. Le necessità dell'equilibrio governativo e delle alleanze parlamentari rendevano indispensabile, per un radicale come Nitti, scegliere come collaboratori alla politica estera uomini che potessero almeno attenuare l'opposizione delle frazioni di destra dello schieramento dei partiti. Tuttavia, sia con Tittoni come con Scialoja, l'accordo fu perfetto. La stampa nazionalista insisté più di una volta su presunti dissidi tra il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri (16), ma la documentazione che abbiamo potuto utilizzare e che abbiamo prodotto nel corso del nostro lavoro dimostra che questi dissidi erano nei desideri delle destre, ma non furono mai una realtà; se Nitti ebbe screzi con Badoglio e con Caviglia, non ne ebbe mai con Tittoni né con Scialoja. Anche le dimissioni di Tittoni non furono deter-
(16) Cfr. per esempio l'articolo L'ostaggio bolscevico nell'Idea Nazionale del 22 ottobre 1919.
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minate da un contrasto o da una differenza di vedute con Nitti,. bensì dalla coscienza, che si forme) nell'uomo politico di Manziana, che la propria sostituzione alla Consulta avrebbe reso possibile una ripresa delle trattative su basi nuove, poiché i negoziati che egli aveva condotto erano giunti a un punto morto; ed anche dalla sua volontà di non « bruciarsi » in accordi diplomatici che era facile prevedere non avrebbero trovato lieta accoglienza presso le destre. A nostro giudizio, Tittoni ebbe il torto di non rendersi conto, tra ottobre e novembre, anche in riferimento al passo di Hardinge presso Imperiali, che le cose si mettevano tutt'altro che bene, contribuendo così a istillare in Nitti un ottimismo sulla possibile conclusione delle trattative che il loro successivo sviluppo doveva smentire. Scialoja, a sua volta, era in sostanza uno scettico, che con lo stesso spirito collaborò nel 1920 con Nitti come più tardi collaborò con Mussolini (17). Durante il periodo in cui resse il dicastero degli Esteri, fu a lungo malato e Sforza lo definì una comparsa (18). Nitti, però, trovò in lui un « fedele e onesto collaboratore », un « uomo di grande dottrina e di acutissimo ingegno », uno « spirito chiaro e preciso » (19). Aveva una profonda preparazione giuridica ed era un tecnico della politica. internazionale.
Del resto, in confronto al suo predecessore Orlando, Nitti dimostrò la tendenza a servirsi, per le trattative, più di diplomatici. che di uomini politici e di parlamentari, e in tal senso fu sinto- matica la sostituzione di De Martino a Crespi come membro della. Delegazione alla Conferenza della Pace. Inoltre, Nitti rivelò una notevole capacità di utilizzare per la sua politica nettamente anti-nazionalista uomini che erano animati da un istintivo nazionalismo — da Tittoni a Scialoja, da Badoglio a Caviglia, da Mosconi
(17) « Sono qui — dichiarò una volta quando era ministro degli Esteri — per vedere che, almeno in politica estera, non facciamo troppe fesserie » (DANIELE VARL IZ diplomatico sorridente, ediz. inglese, citato da GORDON A. CRAIG and FELIX GORDON, The Diplomats. 1919-1939, Princeton University Press, 1953, p. 212). Cfr. anche ARTURO CARLO JEMOLO, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni, Torino, Einaudi, 1948, p. 653.
(18) CARLO SFORZA, L'Italia dal 1914 al 1944 quale io la vidi, Milano, Mondadori, 1946, p. 89.`
(19) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., pp. 5, 53 e 340.
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a Salata (20) — tanto che più tardi molti di essi dovevano passare armi e bagagli alla collaborazione col fascismo. Bisogna pur sottolineare il fatto che a contatto con la situazione qual era, specialmente quando si trattava di misurarsi con gli Alleati nelle trattative diplomatiche, quegli uomini erano costretti ad acquistare un realismo che era il naturale nemico di ogni atteggiamento nazionalistico. Uno di essi, Salvatore Barzilai, parlando al Senato il 15 dicembre 1920 sul Trattato di Rapallo, diede un riconoscimento prezioso di questo stato di cose: «Chi ebbe l'occasione di trovarsi a Parigi nel 1919 non può, in sua coscienza, moltiplicare le esigenze e accrescere le censure verso i negoziatori del Trattato di Rapallo. Non può per senso di onestà! »; e dopo aver indicato il carattere contraddittorio delle richieste italiane (Patto di Londra più Fiume): « Allora io ebbi il fondato dubbio che la pace italiana non si sarebbe potuta stringere senza una formula di compromesso: ogni più sincero sforzo da molti, da troppi fu fatto, ma era fatale che un compromesso dovesse suggellare la pace »;
(20) Per quanto riguarda Badoglio, vi è un episodio che dimosrra come egli si tenesse in contatto con i nazionalisti anche nel periodo in cui collaborava con Nitti. Durante la Conferenza di San Remo, Badoglio istallò a Villa Devachan un plastico delle Alpi Giulie; Foch, appena lo ebbe osservato, esclamò: « Non c'è da scegliere fra due o più confini. Qui il confine è uno ». Ora, questa osservazione del generale francese, che non poteva essere a conoscenza se non di Badoglio (tanto che VANNA VAILATI la riferisce nel Badoglio racconta, Torino, Ilte, 1955, scritto sulla base di colloqui avuti col vecchio maresciallo d'Italia), la troviamo già riferita dal giornale dei nazionalisti human La Vedetta d'Italia (12 maggio 1920) e da Robetro Forges Davanzati nell'idea Nazionale (16 maggio 1920).
Tuttavia, nei mesi durante i quali fu Commissario straordinario militare nella Venezia Giulia, Badoglio, se non rinnegò l'antica amicizia per D'Annunzio, nutri verso di lui sentimenti di diffidenza per il suo incoraggiamento al pronunciamento militare, dei quali vale come testimonianza tutta la sua corrispondenza con Nitti. In particolare, nel colloquio che ebbe il 5 dicembre 1919 a Udine con Preziosi e Sinigaglia, Badoglio disse: « Non parliamo nemmeno delle controproposte di D'Annunzio: figuratevi se è mai possibile che io accetti di dichiarare benemeriti della Patria D'Annunzio e i suoi! » (cfr. GIOVANNI PREZIOSI, Come l'on. F. S. Nitti tradì costantemente la causa di Fiume. Per la storia del « modus vivendi » in La Vita Italiana, 15 ottobre 1920, pp. 298-301). Tutto ciò dimostra che, scrivendo più tardi le sue Rivelazioni su Fiume (Roma, De Luigi, 1946), PIETRO BADOGLIO, nel clima politico mutato, diede della propria posizione di fronte a D'Annnuzio una immagine sensibilmente deformata.
Per quanto si riferisce a ENRICO CAVIGLIA, basta leggere il suo libro su Il conflitto di Fiume (Milano, Garzanti, 1948) per rilevare la debolezza del suo pensiero politico, le contraddizioni fra le tendenze nazionaliste e l'avversione contro ogni atto disgregatore della compagine dell'esercito e dello Stato costituzionale.
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sicché il nazionalista Barzilai finiva per adoperare a proposito di D'Annunzio parole che avrebbero potuto essere pronunciate da Nitti: « Non vi é nessuno, per quanto illustrato dalle gesta più nobili, che possa imporsi alla volontà della Nazione »; e ricordava la necessità del pane e della ricostruzione economica.
In Nitti, se tenace fu sempre il perseguimento di fini coerenti con le premesse della sua azione politica antinazionalista, non sempre vi furono, nell'attuazione quotidiana, quella fermezza e quella abilità che sarebbero state necessarie. Lo vediamo, di fronte alle prime notizie della spedizione dannunziana, telegrafare ai generali Pittaluga e Di Robilant: «Ella sa quale é il suo preciso dovere in quest'ora » che non era la formulazione giusta di un ordine, poiché si trattava di precisare se le forze regolari italiane si dovevano opporre o no con la forza, con l'uso delle armi, all'iniziativa di D'Annunzio e all'occupazione di Fiume. Era quella una responsabilità che spettava al presidente del Consiglio, e non c'era da attendersi che se l'assumesse un generale dopo aver ricevuto una disposizione solo apparentemente energica e radicale, in realtà generica e tale da lasciare aperte tutte le strade. C'era in Nitti l'illusione che ordini di quel genere servissero a ristabilire le cose, mentre invece creavano nei dipendenti stati d'animo di incertezza nocivi all'efficacia dell'azione. Con espressioni certamente un po' drastiche ed eccessive, ma che pur contengono una parte di verità, Sforza scrisse che Nitti « non sapeva comandare, non dava ordini, impartiva lezioni » (21), e Giolitti che Nitti sermoneggiava, non agiva (22). Così — e pur con tutte le attenuanti che è giusto riconoscergli per le gravi conseguenze di un eventuale richiamo del Governatore della Dalmazia — Nitti fu debole nei confronti dell'amm. Millo, lasciato al suo posto fra duri rimbrotti dopo che si era compromesso con l'impegno preso di non consentire l'evacuazione della Dalmazia. Nitti scrisse piú tardi che se D'Annunzio aveva potuto preparare e compiere la sua impresa prendendo di sorpresa il Governo, si dové al fatto che Diaz e Aibricci, ai quali il presidente del Consiglio aveva affidato l'in-
(21) C. SFORZA, op. cit., p. 87.
(22) GIOVANNI GIOLITTI, Memorie della mia vita, Milano, Garzanti, 1945, p. 554.
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carico di ispezionare la Venezia Giulia, erano stati a loro volta ingannati e riferirono tranquillizzandolo. Questo elemento, senza dubbio, entrò nella complessa situazione; ma non la esauriva. Nitti aveva a sua disposizione molte altre fonti d'informazione, comprese quelle che gli fornivano le notizie eloquenti e sintomatiche pubblicate dai giornali sulla preparazione di un'insurrezione nazionalista. Il fatto è che egli tendeva ad acquietarsi delle assicurazioni ricevute e a prospettare in termini ottimistici la situazione; e soprattutto riteneva che il suo compito fosse esaurito e ogni precauzione fosse presa col raccomandare ai comandanti prudenza e vigilanza (23).
Bisogna però aggiungere, per delineare un ritratto non deformato della personalità di Nitti, che questo ottimismo discendeva dall'incrollabile fiducia che egli aveva nella ragione, nell'evidenza dei fatti, nel razionale, da illuminista il cui stile si caratterizzava infatti per accenti quasi volteriani. Era insomma, il suo, un piú elevato livello etico-politico, che lo poneva al di sopra della maggior parte degli uomini politici e dei militari del suo tempo e del suo ambiente, ma, con ciò stesso, gli faceva talvolta smarrire il senso delle necessarie cautele da prendere con essi.
Anche nella laboriosa ricerca di una soluzione del problema fiumano, nella scelta tra i vari progetti che furono avanzati durante quei mesi, quasi accavallandosi, Nitti dimostrò talvolta qualche oscillazione (per esempio, sulla creazione dello Stato libero, che egli di volta in volta considerò vantaggioso perché sgradito a Belgrado in quanto sottraeva alla diretta sovranità serba un largo territorio a popolazione slava, e svantaggioso proprio perché essendo abitato prevalentemente da slavi rischiava di soffocare l'italianità della città di Fiume). In verità, a Nitti premeva soprattutto di chiudere la vertenza adriatica: egli non si sentiva di sostenere a spada tratta questa o quella soluzione, ad una o all'altra subor-
(23) « Mi sembrò, e mi sembra tuttora — scrisse ancora C. SFORZA, O. cit., p. 84 — che Nitti fu soprattutto attaccato per quanto fece di bene; e che non si comprese mai con abbastanza chiarezza che i suoi scacchi ed errori in politica interna (l'avventura di D'Annunzio a Fiume non fu che della politica interna) furono in massima parte l'effetto di alcune lacune della sua personalità ».
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dinando la conclusione dell'accordo, poiché gli sembrava che scarsa importanza avessero i dettagli che distinguevano l'una dall'altra le diverse soluzioni prospettate. E in ciò entrò anche, senza dubbio, la sopravalutazione del fattore economico rispetto a quello politico nella vita dello Stato e della società, che fu una delle sue caratteristiche salienti.
Anche se tardi epigoni delle infiammate passioni di quel tempo possono ancor oggi trovare motivo di scandalo nella sollecitudine di Nitti a concludere l'accordo adriatico e nella scarsa importanza ch'egli attribuiva ai dettagli territoriali, a noi sembra — in base a una concezione che siamo convinti essere al tempo stesso più idealistica e più realistica — che non solo lo sviluppo successivo degli avvenimenti internazionali che ha tanto superato i termini di quella contesa rendendoli obsoleti e mostrandone quindi al fondo il carattere artificioso e l'importanza secondaria, ma anche e soprattutto le vicende interne, con la dimostrazione del male recato all'Italia dalla insurrezione nazionalista, provino la sostanziale giustezza della visione nittiana. A Nitti stava soprattutto a cuore contrastare il passo a quella marea montante, e per far ciò bisognava chiudere la falla che si era aperta sul settore adriatico e che costituiva un serbatoio di ispirazioni e di energie a favore delle destre. Il mito della « vittoria mutilata » esercitava un'influenza deleteria sulla vita politica del Paese (24) e occor-
(24) Cfr. G. SALVEMINS, Mussolini diplomatico, Bari, Laterza, 1952, p. 25: « Chi vuole capire la crisi del dopoguerra in Italia. deve tener presente non solo l'esaurimento nervoso prodotto da tre anni e mezzo di sofferenze, ma anche e sopra tutto la velenosa propaganda a cui fu assoggettato il popolo italiano dal 1919 in poi. La storia d'Italia. delle sue agitazioni sociali e turbamenti politici in quel dopoguerra, appare nella sua vera luce soltanto quando sia proiettata sullo sfondo psicologico della `vittoria mutilata'. Con tutto questo, rimane il fatto che né gli errori dei negoziatori italiani, né la mala volontà di Lloyd George e di Clemenceau, né la ostilità di Wilson arrecarono alcun danno reale alla nazione italiana. La mancata annessione della Dalmazia all'Italia non era da deplorare. La Dalmazia non avrebbe accresciuto né le ricchezze né la sicurezza d'Italia. Era un paese povero e roccioso, abitato da più di mezzo milione di slavi fieramente nazionalisti. C'era una maggioranza italiana solo nella città di Zara, e fuori di Zara non più di ventimila italiani dispersi in un mare slavo. Minoranze nazionali annesse contro voglia non costituiscono guadagno per nessun paese. Avesse occupato la Dalmazia, l'Italia avrebbe dovuto mantenervi una parte notevole del suo esercito in permanente attrezzatura di guerra per tenere soggiogata la popolazione slava ostile. Nel caso di altra guerra europea, in cui fosse implicata l'Italia, questa sarebbe stata obbligata ad
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reva raggiungere un accordo che sgombrasse il campo da una pericolosa tensione internazionale e al tempo stesso togliesse di mezzo il principale focolaio insurrezionale a Fiume.
Nitti, come Bissolati, vedeva il pericolo molto più a destra che a sinistra (25). La sua uscita dal Ministero Orlando dopo che la stessa decisione era stata presa da Bissolati aveva definitivamente chiarito la sua fisionomia di K rinunciatario » (26). Ciò servi di
immobilizzare importanti forze militari in quella provincia per proteggere le sue 350 miglia di frontiera contro un attacco proveniente dal retroterra slavo. Siffatto esercito di occupazione avrebbe dovuto essere usato con maggior vantaggio nella protezione di altri confini italiani ben più vitali, quelli verso la Francia, o verso l'Europa centrale, o nella difesa della penisola contro sbocchi al mare. La Dalmazia non avrebbe dato all'Italia il dominio dell'Adriatico. Il dominio del mare è assicurato dalle più potenti forze navali mobili, qualora esse possano fare assegnamento su una sola base navale bene organizzata, in un bacino circoscritto come l'Adriatico. Numerose basi navali non aggiungono niente. Esse non si muovono e non combattono. L'esperienza della guerra 1915-1918 dimostrò che le magnifiche basi navali dell'Adriatico orientale, benché possedute dalla marina austriaca, non permisero agli austriaci d'intraprendere nessuna importante azione navale, dato che le loro forze erano più deboli di quelle dell'Intesa. Anche se la Dalmazia fosse stata annessa all'Italia, la base navale di Cattaro sulle coste orientali dell'Adriatico sarebbe rimasta fuori del controllo italiano. In un mare così piccolo, una potente flotta, appoggiata a Cattaro, sarebbe bastata a tenere a bada la flotta italiana, salvo che l'Italia avesse occupato tutta la costa orientale fino al confine albanese. In questo caso l'esercito italiano avrebbe dovuto difendere una frontiera assai più estesa che 350 miglia. Inoltre, sarebbe stata necessaria una grande flotta mercantile per trasportare dall'Italia alla Dalmazia i rifornimenti indispensabili per l'esercito stanziato in un paese sterile ed ostile, e una forte marina avrebbe dovuto proteggere le linee di comunicazione tra quell'esercito e le sue basi in Italia. Queste forze sarebbero state distolte verso l'Adriatico dalle linee vitali per l'Italia nel Tirreno e nello Jonio. In breve, anche dal punto di vista strategico, e si potrebbe dire, specialmente dal punto di vista strategico, la conquista della Dalmazia sarebbe stata un grosso errore ». Queste considerazioni valgono anche rispetto a quanto dicevamo più su della relativa indifferenza di Nitti verso questa o quella soluzione tecnica del problema adriatico, l'una differente dall'altra soltanto per pochi aspetti di dettaglio.
(25) Per Nitti, cfr. per esempio il rapporto di Buchanan a Curzon, 28 ottobre 1919. in Documents on British Foreign Policy cit., vol. IV, pp. 141-42. Nitti temeva un attacco jugoslavo ai « legionari » a Fiume perché esso avrebbe determinato l'iniziativa del partito militarista e reazionario e quindi l'accavallarsi della guerra interna su quella esterna. Su Bissolati, cfr. RAFFAELE COLAPIETRA, Leonida Bissolati, Milano, Feltrinelli, 1958, pp. 276-78: « Nella irrequieta atmosfera che aveva accompagnato la caduta del ministero Orlando ed il sorgere di quello Nitti e nell'attesa delle elezioni generali, è gran merito di Bissolati, nei suoi ultimi mesi di vita, aver serbato fede fermissima negli ideali per cui si era così coraggiosamente battuto ed aver individuato nel nazionalismo esasperato, nel dannunzianesimo ritornante, il pericolo da isolare e colpire, quello che veramente avrebbe sviato l'Italia dalla cooperazione con le nazioni, ben più che non il rumoroso massimalismo o il cattolicesimo politico organizzato ».
(26) Quando nella prima meta di dicembre 1918 si era cominciato a parlare, in seno al Governo Orlando-Sonnino di cui facevano parte sia Bissolati che Nitti, delle condizioni di pace, i criteri antinazionalisti esposti dal primo erano stati condivisi da
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pretesto ai nazionalisti, che in lui vedevano uno dei loro veri e maggiori avversari, per lanciare contra di lui una furiosa campagna denigratoria, senza esclusione di colpi. Tuttavia la tesi sostenuta dai nazionalisti e ribadita da Caviglia (27) che l'esercito si mise in stato di sedizione e di virtuale colpo di Stato per reagire alle provocazioni tollerate da Nitti non regge: la sedizione era già in atto prima ancora che Orlando cadesse, e semmai, durante i suoi dodici mesi di governo, Nitti riuscì a riportare un po' d'ordine, utilizzando uomini che godevano di largo prestigio sia nell'esercito che tra i nazionalisti, come Badoglio e lo stesso Caviglia. Ma non si valuterà mai abbastanza i1 peso che ebbe la vasta mobilitazione, anzi la vera e propria congiura nazionalista e militarista contro la quale Nitti si adoperò: già nel '19 fu fatta una specie di prova generale di quella che tre anni dopo, quando fu sanata la divisione tra ex interventisti ed ex neutralisti e attraverso tale riunificazione le forze dirigenti tradizionali ripresero in pieno il controllo della situazione (28) e puntarono sull'eversione degli ordinamenti parlamentari, doveva essere la « marcia su Roma ». Le destre nazionaliste hanno un bisogno organico di « questioni nazionali » su cui montare le agitazioni: sia per giustificare il programma di riarmo e di potenziamento delle forze armate, sia per avere una leva mediante la quale tentare, al momento opportuno, di sollevare l'insurrezione contro il governo parlamentare. Ciò in Italia come in Francia o in Jugoslavia. Infatti, se il conflitto per Fiume, in gran parte artificiosamente gonfiato dopo la guerra, costituì la bandiera dei nazionalisti italiani, non è da credere che le stesse resistenze ad un'equa e moderata soluzione del conflitto non vi fossero da parte del nazionalismo jugoslavo, altrettanto cieco e irresponsabile di quello italiano. Dati i termini del problema fiumano, e più in generale di quello adriatico, data cioè l'intricata struttura etnica dei territori in contestazione, la questione di Fiume era in qualche modo ideale per potercisi ac-
quest'ultimo: cfr. l'appunto bissolatiano del 24 dicembre 1918 citato da R. COLAPIETRA, op. cit., pp. 267-68.
(27) E. CAVIGLIA, op. cit., pp. 56-58.
(28) Cfr. GIAMPIERO CARocci, Storia del fascismo, Milano, Garzanti, 1959, pp. 9-10.
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canire fra opposti nazionalismi: essa si prestava magnificamente a quella mobilitazione che gli estremisti di destra riuscirono a realizzare nel 1919. Certo, favorendo l'esaltazione patriottica che rendeva impossibile o almeno più difficile l'accordo, e quindi protraendo la contesa e con essa la mobilitazione, e di conseguenza ostacolando la ricostruzione economica su basi di normalità, i nazionalisti facevano gli interessi di cento grandi industriali contro quelli della grande maggioranza del Paese. Ma intanto diffondevano un veleno destinato a mettersi in circolazione nell'organismo nazionale per non più uscirne e dare i suoi frutti tossici negli anni seguenti. Per tutto il 1919, intanto, la vita dello Stato costituzionale, rappresentativo, parlamentare si svolse come sopra un vulcano, pronto ad esplodere in un terremoto da un momenta all'altro: il colpo di Stato era nell'aria, era una minaccia concreta; la « marcia di Ronchi » poteva benissimo trasformarsi in una « marcia su Roma », e più di una volta sembrò che cosí stesse per avvenire.
Nitti era agli antipodi di ogni atteggiamento nazionalistico e di ogni velleità eversiva delle istituzioni e ciò era sufficiente perché le destre lo accusassero di « disfattismo ». L'Idea Nazionale giunse ad imputargli, non appena ebbe assunto il potere, di essere « l'an-ti combattente » (29), ciò che era ben difficile dire dell'unico uomo politico italiano che, pur non essendosi abbandonato a demagogiche promesse come Salandra con il suo slogan « la terra ai contadini », aveva concretamente operato per istituire una rete di provvidenze in favore dei combattenti. Ma Nitti non era l'uomo del combattentismo professionale, al quale si sapeva che avrebbe dato del filo da torcere. La grossa bomba che gli scoppiò tra le mani, l'impresa fiumana di D'Annunzio, riassumeva tutti gli elementi, tutti i motivi del combattentismo professionale, dell'ardi-tismo sistematico, del nazionalismo, del militarismo, del sovversivismo di destra.
Nel fronteggiarla, Nitti ebbe all'inizio qualche oscillazione. Il carattere solo apparentemente fermo ma in realtà generico dei primi
(29) Pregiudiziale nell'Idea Nazionale del 24 giugno 1919.
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ordini inviati ai comandanti militari nella Venezia Giulia rivela infatti, a nostro giudizio, una sostanziale incertezza sulla migliore via da intraprendere per battere il movimento; analoga indicazione offre la accentuata differenza di tono fra la dichiarazione alla Camera del 13 settembre e quella di tre giorni dopo; e bisogna riconoscere che la linea ben presto stabilita di fronte ai « legionari » fu il risultato più delle osservazioni fatte sul luogo e delle indicazioni mandate da Badoglio che delle inclinazioni di Nitti. Comunque, il presidente del Consiglio ebbe l'avvedutezza di non pretendere di sovrapporre quelle inclinazioni ai suggerimenti che gli venivano da chi era stato mandato proprio per studiare direttamente la situazione; e dalla collaborazione tra Nitti e Badoglio nacque e si sviluppò la linea di condotta intesa a svuotare e isolare il movimento dannunziano. Questa linea produsse i suoi effetti, dapprima sdrammatizzando tutta la situazione e riportando alle sue proporzioni il movimento dannunziano che in un primo momento sembrò diffondersi come un'epidemia, poi rendendo possibile la stipulazione di un accordo con la Jugoslavia e la conseguente forzata uscita dei « legionari » da Fiume; giacché non vi é dubbio che su questo terreno Giolitti poté valersi dell'eredità lasciatagli da Nitti.
La linea di condotta stabilita per Fiume da Nitti in collaborazione con Badoglio ebbe anche un altro effetto importante: quello
di mostrare, attraverso le vicende fiumane del dicembre 1919, che
a soli tre mesi dalla « marcia di Ronchi » D'Annunzio aveva perduto il controllo della cittadinanza, di cui non poteva più essere considerato l'esponente rappresentativo. Almeno a partire dallo sconfes-
sato plebiscito del 18 dicembre, il gruppo che gravitava attorno al
comando dannunziano fu una minoranza che dominava con la forza, isolata nell'ambiente cittadino fiumano. Ciò chiari che la
soluzione annessionistica non era quella perseguita dai piú; dal che
si ebbero conferme sempre più chiare nei tempi successivi. Le elezioni fiumane per la Costituente del 24 aprile 1921, tenute in con-
dizioni di maggiore libertà rispetto al periodo della dominazione dannunziana, diedero una schiacciante vittoria agli autonomisti, nonostante il tentativo di incendiare le schede fatto dal sindaco Riccardo Gigante « a capo d'un manipolo di fascisti e legiona-
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ri » (30). Pochi giorni dopo quegli stessi fascisti, guidati da Francesco Giunta, occupavano a mano armata il Municipio (31); « non riuscirono però, di fronte alla sfiducia della cittadinanza e del governo, a mantenere il potere per più di due giorni e lo cedettero quindi ad un Alto Commissario italiano (avv. Bellasich) che avrebbe dovuto instaurare una normalità accettabile dalle due parti in conflitto » (32;. Dopo nuovi conflitti (26-27 giugno 1921), il 5 ottobre si riunì la Costituente eletta il 24 aprile, nella quale gli autonomisti di Zanellà erano in grande maggioranza, sicché il 3 marzo 1922 gli estremisti ricorsero a un nuovo colpo di forza, alla rivolta armata: il palazzo del Governatore, ove risiedeva Zanella, fu preso d'assalto mentre un mas comandato da Giunta sparava su di esso 31 colpi di cannone. Zanella dovette capitolare nelle mani di Attilio Prodam e abbandonare Fiume; ma, se da quel giorno lo Stato libero fu virtualmente soppresso, la città continuò ad essere teatro di lotte tra gruppi di fascisti e di legionari in concorrenza tra loro (33).
Nel quadro generale della storia politica d'Italia e d'Europa nel dopoguerra, la vicenda di Fiume ha un'incidenza che trascende di molto i suoi propri termini, modesti se strettamente considerati: • ed é perciò che abbiamo creduto, utilizzando una vasta documentazione inedita, di dedicare a quella vicenda un lavoro d'una certa ampiezza. « Alla Conferenza della Pace — leggiamo nell'Albrecht-Carrié (34) — la lotta per Fiume, tema di contestazione in se stesso insignificante, si indurì in una battaglia diplomatica di prestigio che in ultima analisi non diede la vittoria a nessuno. Se non fosse stato
(30) ARTURO MARPICATI, Fiume, Firenze, Casa Editrice « Nemi », 1931, p. 80. « Vittoria sicura — scrive con tipico linguaggio retorico G. BENEDETTI, Op. cit., pp. 9596 — auspicavano da ogni parte gli italiani di fede ferma; vittoria sicura era ritenuta quella del Blocco Nazionale. Ma come é possibile soltanto nei momenti più critici di un'epoca travagliata, la materialità del corpo si sovrappose alla gloria dello spirito: prevalsero il malessere, la sfiducia, la stanchezza, il desiderio del nuovo, l'allettamento, l'intravisto paradiso in terra, tutto ciò che sembrava più facile e accessibile alle necessità terrene e immediate. Ebbero elezioni vinte gli autonomi: il piccolo regno stava per sorgere a.
(31) A. MARPICATI, Op. Cit., p. 81.
(32) G. RADErrI, Profilo della storia di Fiume, in Fiume, a. I, n. 2 (aprile-giugno 1952), pp. 77 sgg.
(33) Ibid.; G. BENEDETTI, op. cit., pp. 112 sgg.
(34) R. ALBRECHT-CARRIÉ, op. cit., p. VI (nella « Premessa editoriale » di JAMES T. SHOTWELL).
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per le questoni di maggior rilievo che esso implicava, il problema di Fiume avrebbe potuto essere messo da parte dagli storici come relativamente insignificante, ma il suo peso sulla sistemazione della pace nel suo insieme, come sulla successiva storia d'Italia, fu di durevole importanza ».
Per la mobilitazione dei nazionalisti e dei fascisti di tutta Italia che si realizzò attorno ad essa, « dall'ottobre del 1918 al settembre del 1919 Fiume si comporta veramente — come scrive un dannunziano (35) — da legionario e da fascista verso Croati e Alleati, contro Clemenceau e contro Wilson, nei confronti del sempre titubante e sempre commosso Orlando, e contro le preoccupazioni, le insidie e il cinismo rinunziatario di Nitti ».
In Fiume — prendendo il nome della città come simbolo di quella mobilitazione — si incontrano i rappresentanti delle varie frazioni del nazionalismo e del sovversivismo di destra: accanto al figlio di Vittorio Emanuele Orlando il figlio di Giuseppe Toeplitz,. consigliere delegato della Banca Commerciale, a capo di un ufficio « delle relazioni estere », e il genero del gen. Porro, uno degli accusati nell'inchiesta su Caporetto, tanto per citare qualche nome indicativo. Vecchia classe politica, alta finanza, militarismo dànno vita nella generazione più giovane alla forza armata di una ideologia della quale scaturirà il fascismo e la « marcia su Roma ». Nella sua biografia di Salvemini, Enzo Tagliacozzo osserva che lo storico di Molfetta accentua fin troppo la sua interpretazione e dà un peso forse eccessivo al fattore militare in paragone a quello economico-sociale nella spiegazione del carattere del fascismo (36); siamo d'accordo, purché si avverta che il militarismo non é che uno degli aspetti in cui si manifestano, nel dopoguerra, gli interessi della plutocrazia nazionalista.
Di questi interessi, di questi ambienti, di questa ideologia, Nitti é il più temibile avversario. Fornito di soda preparazione storica ed economica, conscio dei termini reali dei grandi problemi nazionali della ricostruzione, abituato a guardare più ai fatti che
(35) A. MARPICATI, op. cit., pp. 24-25.
(36) ENZO TAGLIACOZZO, Gaetano Salvemini nel cinquantennio liberale, Firenze, La Nuova Italia, 1958, p. 220.
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alle parole, nemico della retorica (37), Nitti é l'uomo di una borghesia moderna che punta sulla liquidazione del militarismo e sullo sviluppo industriale e finanziario. Impresa ardua, la sua, di conciliare le tendenze antinazionaliste con i compiti di capo di un governo borghese nella torbida situazione del dopoguerra (38); del contrasto tra le opposte esigenze possono essere assunti ad esempio ed espressione i due discorsi parlamentari del 13 e del 16 settembre 1919, l'appello ai lavoratori e quello agli uomini d'ordine, ai gene- rali, alle autorità costituite. La sua sconfitta é la sconfitta di una visione moderna, radicale, dei compiti della borghesia: la borghesia già mira a una soluzione tutta diversa, che le assicuri il riacquisto dei margini politici ed economici perduti con le trasformazioni strutturali portate nel corpo sociale del Paese dalla guerra mondiale, anche a costo di sovvertire le tradizionali istituzioni parlamentari.
Obiettivamente, la confluenza tra il radicalismo nittiano e il socialismo é fatale: tanto più nella necessità della comune difesa contro le minacce e gli attentati provenienti dal sovversivismo di destra. Naturalmente sono i socialisti riformisti che si mostrano più sensibili alle ragioni di una collaborazione con l'esperimento di governo democratico instaurato da Nitti. Vi abbiamo indicato la via da seguire nella politica estera, con la ripresa delle relazioni con la Russia, dice Treves nel discorso parlamentare del 30 marzo 1920 rivolto al presidente del Consiglio; e riconosce: « Voi avete fatto quanto meglio e più nobilmente potevate fare a Parigi e a Londra
(37) « Non posso parlare senza imbarazzo — disse Nitti alla Camera il 21 dicembre 1919 — della questione adriatica. L'Italia ha una istituzione, fra le altre, che è la più importante di tutte, che è al di sopra di qualunque istituzione fondamentale dello Stato, della magistratura, del Parlamento; un'istituzione alla quale tutti s'inchinano: la retorica. E una forza che non ho mai posseduto. Noi abbiamo parlato tanti anni in tono superlativo e comparativo, che abbiamo persino dimenticato il tono positivo ».
(38) Non solo II Secolo, giornale radicale di Milano, ma anche il Corriere della Sera, conservatore ma avverso al programma annessionista dei nazionalisti e dei dannunziani, commentarono la caduta del ministero Orlando, nei loro editoriali del 21 giugno 1919, con parole aspre verso il « presidente della Vittoria » e auspicando un nuovo Ministero che abbandonasse la retorica verbalistica e facesse sul serio la smobilitazione, realizzasse le necessarie riforme e seguisse una politica più concreta. Tuttavia il 25 giugno 11 Messaggero, sulla base dei primi commenti al nuovo Ministero Nitti, notava come tutti fossero o si mostrassero scontenti, « ma per cause opposte, per ragioni che si elidono a vicenda » che fu un po' il destino di quel Governo.
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per introdurre una spirito nuovo di moderazione e di equità fra gli Alleati. Avete con l'esempio predicato per una tregua allo spirito di conquista e di cupidigia territoriale in Oriente. Avete inteso che i popoli son sazi di territori ed hanno fame di giustizia e di pace. Avete, riconosco, avete rettamente agito per attirare la Russia e la Germania nella comunione economica dell'Europa, principio essenziale per la ricostruzione ». E Turati nel giugno 1920, subito dopo la caduta del Governo Nitti: « L'on. Nitti prese dai socialisti le principali direttive della sua politica estera; forse avrebbe preso da essi anche molte direttive della politica interna, se i socialisti gliele avessero offerte; più volte preluse all'inevitabile, all'augurabile avvento di un governo laburista in Italia, ma l'azione, soprattutto nella politica interna, fu impari, forse per acerbità di casi e di tempi, alla fede professata; e ne venne la sua fatale caduta ».
Sono voci di socialisti riformisti: e ben si comprende. Il socialismo aveva aperta davanti a sé, nella situazione italiana del dopoguerra, due strade: o il tentativo di impadronirsi del potere con la rivoluzione per realizzare la società socialista, o l'appoggio ad un governo radicale di tipo nittiano. Diviso in un'ala massimalista rivoluzionaria soltanto a parole (39) e in un'ala riformista debole e incerta, il partito socialista non seppe imboccare decisamente né l'una né l'altra strada. Le due correnti si paralizzarono a vicenda, nessuna delle sue soluzioni possibili fu tentata.
Nell'auspicare una collaborazione coi socialisti, con alcuni dei quali intratteneva rapporti attraverso il suo segretario particolare Magno, Nitti guardava naturalmente quasi esclusivamente ai riformisti. Più di una volta egli espresse l'opinione che i suoi veri avversari fossero i nazionalisti e non i socialisti, anche se questi ultimi
(39) Limitandoci alla questione fiumana, e al solo scopo di dare un'indicazione tipica della confusione di idee che regnava tra i massimalisti, ricorderemo il modo in cui l'Avanti! reagì alla spedizione dannunziana (ediz. piemontese, 28 settembre 1919): titolo su tutta la pagina: « La rivoluzione nazionalista prodromo di quella proletaria »; articolo di fondo: contro chi sostiene che la rivoluzione non si può fare perché c'è l'esercito, « Fiume ci ha dato la prova che l'esercito non è inespugnabile, che l'esercito può passare ai ribelli, che tutto dipende dal saperlo conquistare (...). La lotta di classe è penetrata per opera dei borghesi, apertamente, nell'esercito. Noi ne siamo lietissimi. Mai era avvenuto nulla di più sovversivo fin qui nella storia politica del nostro paese a. È difficile immaginare più colossale e grossolana topica politica che questa di considerare interscambiabili il sovversivismo socialista e il sovversivismo nazionalista.
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votavano contro di lui; e nutriva la fiducia che questi non si sarebbero uniti ai primi nel tentativo di rovesciarlo (40). Quando ciò avvenne, fu la fine del suo esperimento radicale.
Si è molto insistito sulle agitazioni sociali che caratterizzarono l'anno 1919: in realtà potrebbe a più forte ragione applicarsi al Governo Nitti ciò che Frassati osservò a proposito del Governo Giolitti, che cioè reca meraviglia come il grande fatto storico del dopoguerra, l'immissione del quarto stato" nella vita pubblica italiana, abbia potuto compiersi con incidenti relativamente così trascurabili (41). Del resto le agitazioni sociali non furono un fatto solo italiano ma travagliarono, in misura maggiore o minore, tutti i Paesi che aveva partecipato alla guerra.
Nitti stesso vide chiaramente quali forze Io fecero cadere: « Furono i grandi banchieri della Banca Commerciale, i grandi arricchiti di guerra che più si agitarono per evitare un piccolo aumento del prezzo del pane che essi stessi avevano proposto e che richiesero subito dopo le mie dimissioni » (42). « Io ero nella strana
(40) Cfr. per esempio il citato rapporto di Buchanan a Curzon del 28 ottobre 1919.
(41) ALFREDO FRASSATI, Giolitti, Firenze, Parenti, 1959, p. 2.
(42) F. S. NITTI, Rivelazioni cit., p. 51. Alla lotta tra gli opposti gruppi che si contendevano il controllo della Banca Commerciale, il gruppo Marsiglia e il gruppo dei fratelli Pio e Mario Perrone, e in generale all'attività degli ambienti dell'alta finanza plutocratica, Nitti dedico molta attenzione nei mesi della primavera 1920: di ciò restano a testimonianza i documenti che egli raccolse in appositi fascicoli e che si conservano anch'essi tra le sue carte. La lotta tra i due gruppi della Banca Commerciale si scatenò ai primi di marzo 1920 (si veda L'Epoca e il Messaggero dell'U e del 14 marzo). Dopo un incontro tra Pio Perrone e Giuseppe Toeplitz nel gabinetto di Nitti, l'accordo fu raggiunto e venne stipulato a Genova, auspice il comm. Pogliani, amministratore delegato della Banca di Sconto, alle 3 del mattino del 12 marzo, dopo una drammatica discussione. Fu sostanzialmente una vittoria dei Perrone, che vennero cooptati nel consiglio d'amministrazione della Commerciale dopo che ebbero rivelato di non possedere le 90 mila azioni con le quali erano entrati nel sindacato bancario costituito da Nitti allora ministro del Tesoro, nel marzo 1918, ma 240 mila azioni sul totale di 520.000. I Perrone basavano la loro potenza principalmente sull'Ansaldo, di cui erano proprietari e che aveva tratto larghi profitti dalle forniture di guerra, ma possedevano anche, oltre a poco meno della metà delle azioni della Commerciale, la totalità delle azioni della Banca di Sconto e avevano una larga partecipazione al Banco di Roma; inoltre fondavano proprio allora la Società Nazionale di Navigazione e stavano impadronendosi della Transatlantica. La tregua stipulata il 12 marzo fu però rotta e la lotta riprese due mesi dopo: il 13 maggio i Perrone pubblicavano sul Giornale d'Italia una lettera aperta che era una dichiarazione di guerra contro il gruppo avverso; ad essa ne fecero seguire altre due, pubblicate sempre nel Giornale d'Italia, il 22 e 23 maggio. Il 28 maggio si riunì allora il consiglio d'amministrazione della Commerciale; la relazione fu tenuta dal presidente Silvio Crespi (vice presidenti erano Cesare Saladini, Ettore
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situazione — spiega Nitti più avanti (43) — che gli elementi più avanzati che mi votavano contro e a cui la mia politica doveva sembrare pericolosa, avevano fiducia in me. Sapevano che comunque non avrei mai fatto opera di reazione. Sapevano che lavoravo per una monarchia democratica, non a parole ma nella essenza. Sapevano soprattutto che io volevo la ricostruzione economica. Tranne pochi scalmanati, io avevo avversari non già nemici se non in gruppi reazionari o affaristici di destre pronti a passare da parte mia se cedevo alle loro richieste e ai loro interessi ». Nitti attribuì la propria caduta ad un vero e proprio tranello tesogli sul prezzo politico del pane da questi gruppi reazionari e affaristici: « Dal momento che nessun sistema per farmi dimettere riusciva e le masse popolari erano fiduciose in me non ostante l'apparenza di lotta per istinto, mi si trasse in inganno. Due banchieri vennero da me. Erano e si dicevano miei amici. Vennero per parlarmi dei provvedimenti necessari per avere l'equilibrio al Bilancio e di ciò che io volevo fare. Si mostrarono entusiasti dei miei provvedimenti, ma mi dissero che nel mondo degli affari anche un piccolo aumento del prezzo del pane avrebbe giustificato e reso tollerabili anche i pesi più duri per le classi ricche e che aveva valore simbolico. Così non si poteva dire nulla della mia pretesa demagogia. Io promisi.
Conti e Pietro Fenogli) e venne pubblicata, con il verbale dell'intera seduta, nel Messaggero del 5 giugno. Alla fine di maggio, di fronte al rilancio di accuse di illecite operazioni finanziarie, Nitti nominò una commissione di inchiesta « sui fatti d'accaparramento di azioni e di aumento di capitale di quelle società anonime i titoli delle quali subirono notevoli e rapide fluttuazioni di prezzo con turbamento del mercato dei valori e con danno degli azionisti a (cfr. Il Messaggero del 30 maggio). Della commissione facevano parte il consigliere di Stato Federico Brofferio (presidente), il consigliere di Cassazione Girolamo Biscaro, il direttore generale delle imposte dirette Pasquale d'Aroma, il direttore del commercio Angelo di Nola e l'economista prof. Giorgio Mortara. Si noti che mentre le grandi imprese, l'Ansaldo, l'Ilva, la Terni ecc., chiedevano la liberalizzazione completa del commercio estero, che costituiva uno dei punti del programma della Confederazione Generale degli Industriali fondata ' il 9 aprile 1919, Nitti era l'uomo politico che, nella sua veste di ministro del Tesoro, aveva creato, al contrario, l'Istituto dei Cambi, poi soppresso da Orlando (a regolare la materia erano rimaste le banche): Cfr. Louls HAUTECOUR, L'Italie sous le Ministère Orlando. 1917-1919, Paris, Bossard, 1919, pp. 207 e' 249. Un interessante accenno a legami tra L'Idea Nazionale e la Banca Commerciale, che inclinavano l'organo nazionalista a « una guerra ingiusta ed eccessiva ai jugoslavi », è in un appunto di Bissolati del 24 dicembre 1916, cit. da R. COLAPIETRA, op. cit., p. 241.
(43) F. S. NITT5, Rivelazioni cit., p. 539.
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di fare quel provvedimento con decreto-legge. Era un aumento non solo facilmente tollerabile e che non avrebbe agito se non minimamente agli effetti del consumo. Il provvedimento era necessario. Quando io ritirai il decreto-legge, dimettendomi, il governo che mi succedette dovette ripresentarlo come disegno di legge. Quelli che essendo favorevoli si erano eccitati contro, lo facevano per salvare la faccia dei loro amici d'estrema. Insomma un preteso ostruzionismo che faceva ridere e che non durò. Nulla di più ridicolo e disonorante. Ma lo scopo era uno solo: le mie dimissioni, e fu raggiunto. Ebbi poi la prova che vi era già accordo da parte del mondo di coloro che mi avevano fatto la proposta con uomini dei partiti di estrema sinistra. L'indomani che il provvedimento era pubblicato doveva nelle organizzazioni operaie scatenarsi in tutta Italia una violenta protesta per chiedere l'abolizione del decreto e le dimissioni del Ministero. L'organizzazione marciò perfettamente e non era ancora pubblicato il decreto che articoli scritti da prima e notizie da prima preparate inondarono l'Italia e i socialisti furono ancora ingenui da prestarsi al gioco » (44).
Non tutto é da accettarsi a occhi chiusi in questa pagina di Nitti: le masse erano molto più orientate verso la rivoluzione socialista che verso il radicalismo nittiano, e quindi va presa con beneficio d'inventario la sua affermazione che esse avevano fiducia in lui, tanto é vero che i socialisti poterono partecipare alla manovra che fece cadere il suo Governo; inoltre va tenuto presente un elemento a cui Nitti non accenna nemmeno, e cioè che il suo Governo si trovò costretto a cercare l'appoggio parlamentare e la stessa collaborazione ministeriale dei popolari, i quali d'altronde costituirono, entro il suo Gabinetto, i rappresentanti sia pure indiretti di certe istanze nazionaliste, e non esitarono a staccarsi da lui e a farlo cadere quando divenne più precisa la prospettiva di una politica di riavvicinamento all'Unione Sovietica da essi considerata con orrore. Ma la sostanza del racconto e del giudizio di Nitti resta pur sempre accettabile.
A Nitti succedette Giolitti: il quale, se condusse a conclusione
(44) Ibid., pp. 543-44.
184 PAOLO ALATRI
la vicenda fiumana, inaugurò però una politica di patteggiamenti con le destre, e particolarmente con i fascisti, che doveva costituire una premessa della « marcia su Roma » (45). « Dopo la guerra — ha scritto uno studioso di quel periodo (46) — Giolitti era sostanzialmente un sopravvissuto. Il giudizio può sembrare duro, ma é reale. Il vero problema non era ormai, infatti, né di continuare né tanto meno di rinnegare la politica giolittiana, ma di portarla su un terreno nuovo, più ampio: quello della democrazia. Il vero problema era la riforma agraria, l'esproprio della grande proprietà assenteista, l'avvento delle classi lavoratrici al governo, la Costituente. Tutto ciò era, apertis verbis o larvatamente, nel programma di Nitti. In realtà, quindi, il vero continuatore del giolittismo fu Nitti, che afferrò lui solo la sostanza del problema dell'ora: il passaggio dal liberalismo alla democrazia. Il suo tentativo falli, e quella fu veramente l'ora tragica per l'Italia. Quando Giolitti tornò al governo era ormai un revenant: il tentativo suo, inattuale, era destinato a fallire. Le masse popolari premevano alle porte dello stato .e solo un programma spregiudicatamente democratico aveva qualche speranza di recuperarle. Ma Giolitti questo non lo poteva e non lo voleva offrire: era contro i suoi principi, contro il suo metodo, contro la sua sostanziale sfiducia nelle masse, che egli stimava meritevoli di essere governate umanamente, ma non capaci di esercitare esse stesse il potere. Naturale quindi che pensasse all'imbarco dei fascisti,. per cogliere i tradizionali due piccioni: riassorbire (e possibilmente... digerire) il movimento fascista trasformandolo in una corrente conservatrice un po' zotica ma di tipo tradizionale, e ricattare i socialisti ed i popolari per piegarli ai suoi voleri. Il calcolo, inutile ri- cordarlo, si rivelò gravemente errato ».
Un altro scrittore, che di quei tempi e di quegli eventi fu attento e acuto osservatore (47), giudica che le anticipate elezioni
(45) Cfr. in proposito il mio lavoro su Le origini del fascismo, Roma, Editori Riu- niti, 1956.
(46) RAIMONDO LURAGHI, Giolitti e il fascismo, Lettera alla rivista Risorgimento di Torino, gennaio 1959, p. 28.
(47) SINIBALDO TINO, Il trentennio fascista. Rilievi ed appunti, Roma, Puccinelli, 1944, p. 62.
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del 1921 con l'alleanza demo-liberal-fascista fu dovuta alla volontà di evitare un nuovo esperimento di governo di Nitti, che sarebbe tornato al potere con i più preparati uomini del socialismo, realizzandone postulati e principi.
Certo, quando, dopo le elezioni del '21, più di una volta in breve spazio di tempo fu tentata da parte degli schieramenti e degli uomini politici della democrazia liberale la formazione di un fronte unico che non si pub definire antifascista, ma almeno di resistenza al fascismo nelle sue mire sovversive verso lo Stato costituzionale, il candidato delle sinistre, che volevano sfociare in una forma sta-tuale in cui il potere del Parlamento si affermasse incontrastato, anche contro alcune tradizionali prerogative della Corona, fu proprio Nitti. Ciò si dové alla prova che egli aveva dato durante i dodici mesi del suo governo nel 1919-20, quando la questione adriatica, anche per i suoi addentellati con la vita politica interna, era stata la più grave che egli avesse dovuto affrontare. E se su Nitti si appuntò l'odio di tutte le forze conservatrici e reazionarie e quell'esperimento fu reso impossibile, con ciò la democrazia borghese si precluse l'ultima possibilità di conservare le forme storiche dello Stato costituzionale, ed apri definitivamente la porta al fascismo, al sovvertimento delle istituzioni liberali e parlamentari e alla ventennale dittatura.
PAOLO ALATRI
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 38
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38


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