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tipologia: Analitici; Id: 1472496


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Tipologia Periodico
Titolo Francesco Cataluccio, Il Congo Belga nel nazionalismo africano
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Cataluccio, Francesco+++
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Trascrizione Non markup - automatica:
IL CONGO BELGA NEL NAZIONALISMO AFRICANO
Dal punto di vista dell'osservazione politica vi sono due Africa: un'Africa vista nel complesso, come continente, con problemi comuni ad ogni sua parte, ed é l'Africa più conosciuta, che viene in genere identificata col mondo coloniale, che presenta le zone mondiali culturalmente ed economicamente più depresse, che polarizza sempre più la rivalità politico-economica delle potenze attratte dalla sua posizione geografica e dalle sue crescenti possibilità di produttrice di materie prime e di mercato di assorbimento; e un'altra Africa, meno unitaria e più caratterizzata nelle parti. con infiniti problemi d'ordine territoriale umano sociale politico, con acute contraddizioni in ogni campo di vita, con linee di sviluppo, nei diversi settori, non comprensibili che per se stesse, senza che le si possa spiegare guardandoci intorno, in esperienze già compiute o prossime al compimento.
Il fatto nuovo di questi ultimi anni, in tema africano, é che, sia sui problemi generali dell'Africa come area continentale sia su quelli particolari di settore, sono stati gli stessi africani a portare il maggior contributo di esame di studio di discussione. Si tratta di uno sforzo assai serio, che dà la misura del rigoglio di uomini moderni e di élites preparate e dello sviluppo politico e culturale delle diverse società africane, che impegna governi partiti movimenti associazioni, e che si snoda in una fitta catena di incontri convegni e congressi. Non tutto — s'intende — é modello organizzativo e chiarezza di metodo, senso del reale e coerenza dottrinale, ma nel dinamismo delle iniziative e nel calore, non sempre disciplinato, dei contatti, c'è costante il segno di una sicura vitalità, e il preannuncio di una feconda maturazione di 'propositi, di direttive d'azione.
Se il tema dell'emancipazione dalla dipendenza coloniale, con lo scambio delle esperienze di lotta e con la ricerca dei mezzi per coordinare i singoli sforzi e dare concretezza di espressione alla
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reciproca solidarietà, sta il più spesso al centro di tali contatti, non meno viva si rivela la preoccupazione di non risolvere tutto il problema africano nel dato dell'indipendenza, ma di affrontare i problemi organizzativi del continente africano dal punto di vista sia della struttura interna dei nuovi organismi statali sia dei limiti e delle premesse ideologiche d'una unità africana. L'impegno in questa seconda direzione tende ad accentuarsi a misura che si prospetta più chiaramente lo sbocco positivo della lotta nazionale africana, come é dimostrato dal fatto che a porlo in primo piano sono soprattutto i paesi — Ghana, Guinea, Nigeria — che hanno-raggiunto o sono prossimi a raggiungere il primo e fondamentale obiettivo dell'indipendenza.
Naturalmente, l'armonia di posizioni tra i diversi nazionalismi. africani, da facile e pronta qual é sul terreno della lotta anticolo-niale, si inceppa non poco allorché si passa all'esame del coordinamento strutturale tra i nuovi stati, dei lineamenti territoriali o culturali o umani del nazionalismo africano, dei mezzi per individuare e tutelare le singole nazionalità. Come suole accadere, sulla varietà di prese di posizione incidono interessi locali e tribali, talune cristallizzazioni di esperienze compiute durante il regime coloniale, particolari valutazioni degli interessi collettivi connessi alla. origine sociale dei gruppi politici impegnati nella discussione, certa differenziata impostazione dei problemi derivante dalla situa- zione economica e dal grado di sviluppo culturale di ciascuna popolazione.
Sotto gli aspetti culturale sociale politico, non è possibile immaginare area più frazionata e caotica di quella africana. Ciò può dare l'illusione che ci si possa muovere con maggiore libertà di iniziative, come un urbanista che non trovi al giuoco della sua fantasia ostacoli di valori storici da rispettare, ma toglie d'altra parte ogni punto di riferimento sicuro per il successo politico delle iniziative da prendere, rende problematico l'innesto di idee moder, ne sulla vecchia organizzazione di vita, minaccia continui trabocchetti a costruzioni statali o nazionali che pur rispondono a premesse e impulsi di genuina validità. La realtà é che, a differenza del continente asiatico, in Africa, specie nell'Africa nera, ha pre-
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valso la civiltà tribale, la formazione di gruppi umani ristretti e isolati i quali, anche se eccellenti culturalmente, non hanno mai posseduto la tecnica di trattare grandi spazi, di unificare e amministrare grandi concentrazioni umane. Soltanto oggi, per la prima volta, gli africani si pongono il problema della organizzazione unitaria di vaste aree africane; ma se lo pongono in uno stato d'anima emotivo concitato quale può derivare dal ritrovarsi dopo una latta assai aspra contro la potenza coloniale — talvolta resa più aspra dalla resistenza psicologica e sociale di parte dello stesso gruppo nazionale — con problemi politici economici di estrema complessità e persino col problema di definirsi nazionalmente.
A tre dei molti congressi riunitisi di recente conviene accennare, come a quelli che meglio hanno puntualizzato i due aspetti dell'attuale evoluzione africana, la rottura cioè del vincolo di dipendenza coloniale e la organizzazione politica dell'Africa divenuta arbitra della sua vita. -
Il primo si è svolto a Accra capitale del Ghana dall'8 al 13 dicembre 1958 sotto la presidenza d'una forte personalità dell'odierno nazionalismo africano, il kenyese Tom Mboya. Preceduto (15-22 aprile), nella stessa Accra, da una conferenza degli stati già giunti all'indipendenza, e definito « conferenza panafricana » -in effetti vi hanno preso parte, attraverso duecento delegati, venticinque paesi del continente — il congresso ha presentato un netto obiettivo anticoloniale, ha mirato cioè a preparare, secondo l'espressione del suo promotore, il primo ministro ghanese Kwame Nkrumah, « l'assalto finale all'imperialismo e al colonialismo ». La dichiarazione conclusiva della conferenza è perentoria nell'atto di accusa contra il regime coloniale: « La conferenza condanna e addita al disprezzo il sistema del colonialismo e dell'imperialismo nei territori coloniali britannici e francesi, che ha raggiunto le forme più acute e disumane in Algeria, Camerun, Africa centrale, Kenya, Sudafrica, nei territori portoghesi di Angola, Mozambico, isole Principe e San Tommaso, dove la popolazione indigena vive sotto un regime di fascismo coloniale; denuncia lo sfruttamento delle risorse nazionali e della manodopera di questi territori; denuncia la violazione dei diritti umani e democratici proclamati
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dalla Carta delle Nazioni Unite; denuncia la segregazione razziale, il sistema delle riserve e delle altre forme di discriminazione razziale e la barriera del colore; denuncia il lavoro schiavistico nei territori di Angola, Mozambico, Congo belga, Africa meridionale e sudoccidentale; denuncia la politica svolta nell'Africa centrale e nell'Unione Sudafricana, dove la dominazione della minoranza sulla maggioranza é basata sulla dottrina razziale della discriminazione; denuncia la confisca delle terre migliori degli africani a vantaggio dei colonialisti europei; denuncia la militarizzazione dell'Africa e l'uso del territorio africano per scopi militari, specialmente in Algeria e nel Kenya ». L'influenza preponderante del primo ministro ghanese sulla conferenza la si ritrova anche nel tono assiomatico e non poco fideistico con cui é affrontato il problema dell'unità africana col superamento delle rivalità tribali e razziali, nel modo scevro di qualsiasi perplessità con cui é affermata la concezione panafricanista, nella semplicistica creazione teorica dei primi cinque complessi regionali che dovrebbero preludere all'unità continentale: una federazione costiera dal Senegal al Camerun; una federazione raggruppante la Mauritania, il Sudan francese, l'Alto Volta, il Niger e il Ciad; una federazione comprendente il Sudan meridionale, l'Etiopia e la Somalia; una federazione tra Kenya, Uganda, Tanganika e eventualmente il Niassa; una federazione costituita dall'Ubanghi Sciari e dal Medio Congo. Ma anche in Europa certo unitarismo odierno é puramente velleitario, basato sul « dover essere » piuttosto che sul « poter essere », senza nemmeno l'attenuante dell'ancora ingenuo e giovanile pensiero politico!
Meno impegnato in senso politico ma maggiormente diretto a chiarire questioni di rilevante incidenza sul futuro dell'Africa é il congresso o meglio la riunione di studio che ha luogo dal 16 al 23 marzo 1959 a Ibadan, capitale della Nigeria occidentale e sede della più attrezzata università dell'ovest africano, sotto l'egida del Congresso per la libertà della cultura. Il tema di studio della riunione, « Governo rappresentativo e progresso nazionale », consente di esaminare, tra gli altri, i problemi della tribù, della nazione e della federazione. Universitari e uomini politici, partendo dalla
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constatazione che i nuovi stati africani sorgono da una geografia politica arbitraria artificiosa, dettata in gran parte dal giuoco di spartizione e di equilibrio di potenza dei governi coloniali nel sec. XIX, si sforzano di individuare l'entità dell'ostacolo creato dalle diverse esperienze politiche e dalle diverse situazioni linguistiche e culturali al raggruppamento dei nuovi organismi nazionali. Lo studio del problema porta al tentativo di definire la « personalità africana », al confronto tra la teoria del panafricanismo di Giorgio Padmore, la teoria della negrità di Leopoldo Senghor e del gruppo che fa capo alla rivista Présence africaine, e le posizioni di Nkrumah e altri gruppi intellettuali di lingua francese o inglese. Nella riunione resta ribadita la tendenza dei più giovani pensatori africani a rivendicare alla cultura negra uguaglianza di nobiltà con le principali civiltà storiche e sinanche il privilegio di contenere nel suo seno il nucleo più valido delle altre; é ribadita anche l'avversione profonda verso l'Europa espansionista del sec. XIX, accompagnata dal ripudio dell'Africa tradizionale. Come ricorda G. Balandier in « Afrique ambigue », « devant sa chapelle, Nganga Emmanuel, fondateur de l'une des "églises noires" du Congo, brûle les derniers fétiches témoins des vielles fidélités africaines, mais il exorte aussi ses adeptes à croire en un messie qui n'est plus solidaire du monde blanc réprouvé ». Si tratta in sostanza d'un combattimento su due fronti, quale é stato realizzato in pratica nell'azione politica del Convention People's Party di Nkrumah.
Le correnti d'opinione africane tornano a confrontarsi — e a scontrarsi — su questi temi di negrità, di unità africana, di rapporti tra civiltà occidentale e civiltà africana, di definizione e restaurazione d'una cultura originaria negra, di modernità e tradizione, nel secondo dei congressi della Società africana di cultura, che si svolge a Roma dal 26 al 31 marzo 1959. « Unità e responsabilità della cultura negro-africana » è l'argomento posto in discussione. Nella relazione introduttiva il segretario generale Alioune Diop riprende e sviluppa la posizione propria della sua rivista Présence africaine, ad un tempo avversa ad ogni contaminazione violenta della cultura negra ad opera della civiltà europea e aperta al
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dialogo su un piede di uguaglianza. La sua formula riassuntiva é « disoccidentalizzare per universalizzare », da cui ci si può avviare
o verso tesi di collaborazione o verso preclusioni intransigenti. Ida una parte, afferma lo scrittore Riccardo Wright: « Il mio pun to di vista è quello d'un occidentale contro l'Occidente. E tuttavia, se ragioni razziali mi hanno staccato dall'Occidente e mi hannc indotto a una critica della sua civiltà, le mie reazioni e i miei atteggiamenti non possono che essere quelli d'un occidentale. Non si sceglie la propria civiltà. La si assorbe con la nascita, e non la si può cambiare cosí come non si può cambiare il colore della propria pelle ». Ribatte, d'altra parte, il presidente della nuova repubblica di Guinea Sekou Touré, che la decolonizzazione non è solo liberazione della presenza coloniale ma anche liberazione totale dello spirito del colonizzato. Messo fuori della storia, lo scrittore
e artista africano tende e spersonalizzarsi sotto l'influenza della cultura occidentale e a lungo andare egli si trova isolato nel suo stesso ambiente naturale di fronte a contadini, artigiani restati immuni da ogni timore o complesso ed estranei a cultura abitudini
e valori del regime coloniale. Perciò, nella costruzione della società dei paesi liberati dal colonialismo, l'intellettuale deve rifarsi alla cultura del popolo, alla vita reale; perciò la decolonizzazione deve avere contenuto rivoluzionario, senza indipendenza « per gradi » e senza « tappe verso l'indipendenza ».
Osservando che il congresso é « un congresso di ladri di lingue », il poeta malgascio J. Rabemananjara mette in rilievo il dato obiettivo più importante per spiegare la difficoltà degli scrittori
e degli uomini di cultura negri ad avere una visione unitaria dei. problemi della loro civiltà. Al termine dell'incontro però essi riescono a trarre fuori taluni elementi positivi d'azione suggeriti dall'urto stesso di tendenze e di valutazioni che ha dominato le discussioni. La risoluzione finale suggerisce di: ristudiare scientificamente la storia dell'Africa; formare gruppi di storici; istituire archivi e biblioteche; riprendere in esame i sistemi associativi di base e soprattutto la democrazia comunitaria per elaborare forme nuove di vita comune; orientarsi nel grande intreccio di oltre seicento lingue e dialetti dell'Africa, scegliendo per i suoi elementi
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comuni quella lingua (swaili, bambara, ulof, malgascio, senegalese) che possa diventare in breve lingua continentale attraverso l'insegnamento obbligatorio in tutte le scuole africane; curare il passaggio dalla forma orale a quella scritta delle opere letterarie; sviluppare il dialogo ai fini d'una comprensione reciproca tra le religioni cattolica, protestante, musulmana e animista prevalenti in Africa. In definitiva il congresso dice agli africani: siate cattolici, siate marxisti, siate fedeli a qualsiasi ideologia che soddisfi le vostre esigenze intellettuali e morali, ma africanizzate la vostra ideologia, adattatela alla realtà culturale politica economica dell'Africa, in modo che tutte insieme le vostre ideologie concorrano a liberare la cultura africana dalle sovrastrutture imposte dall'esterno e a fare ritrovare al mondo africano la sua personalità originale, la sua capacità di universalizzarsi, di portare un contributo autonomo alla soluzione dei grandi problemi dell'umanità.
***
Dibattiti e discussioni e polemiche sui problemi relativi al proprio sviluppo nazionale, ad opera dei circoli politici e culturali del continente nero, si svolgono nel vivo di un processo di trasformazione del mondo africano del quale sono oggi individuabili alcune caratteristiche fondamentali.
Ciò che più salta agli occhi é l'impetuosità del movimento verso l'autonomia delle popolazioni sottoposte a regime coloniale. Non vi é dubbio che il mondo coloniale africano, ch'era il più compatto e vasto alla fine della seconda guerra mondiale, tende a disgregarsi ogni giorno più facendo posto a stati autonomi o allentando i suoi vincoli in misura tale da rendere inevitabili ulteriori concessioni, a breve scadenza, all'impulso di autonomia delle popolazioni indigene. Risveglio economico e culturale e quindi politico degli indigeni, indebolimento della capacità espansiva delle potenze coloniali, preponderanza nello scacchiere internazionale di stati anticoloniali quali l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti, attiva solidarietà di governi affrancatisi di recente dalla amministrazione coloniale, presenza sollecitatrice dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, convergono verso l'identico obiettivo di porre in crisi il
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regime coloniale. Non tenendo conto dell'Egitto e dell'Africa settentrionale francese (Tunisia Marocco Algeria, quest'ultima tuttora in lotta di riconquista della propria individualità nazionale), dove il dominio coloniale aveva particolare carattere, né della breve parentesi coloniale dell'Etiopia dal 1936 al 1941, nell'ultimo decennio sono usciti dal mondo .coloniale Libia, Sudan, Eritrea, Costa d'Oro (Ghana), Guinea francese; mentre sono alla soglia dell'indipendenza la Somalia sotto amministrazione fiduciaria italiana, íl Camerun sotto amministrazione fiduciaria in parte francese e in parte britannica, il Togo sotto amministrazione fiduciaria francese, la Nigeria britannica. In seno poi alla Comunità franco-africana, promossa alla fine del 1958 dal governo De Gaulle per evitare un radicale movimento centrifugo, i territori dell'Africa occidentale francese (Senegal, Sudan, Mauritania, Niger, Alto Volta, Costa d'Avorio, Dahomey) e dell'Africa equatoriale francese (Gabon, Medio-Congo, Ubanghi-Sciari, Ciad) e il Madagascar si sono affrancati, se non completamente, in misura tale da presentare netti lineamenti di individualità statale autonoma.
Altro dato caratterizzatore dell'evoluzione politica africana é la tendenza al raggruppamento, o su basi federali o per annessione di territori nazionalmente affini o geograficamente complementari, che si afferma presso gli stati già consolidati. Nel primo caso si tratta di fenomeno che si collega a remote esperienze storiche o rispecchia talune esigenze di più agevole amministrazione coloniale
o ubbidisce a una realistica valuta ione delle necessità economiche finanziarie difensive di un moderno organismo statale. Dall'uno
o dall'altro di tali motivi o anche da due o più motivi simultanei sono sorti l'Unione Sudafricana, lo sforzo egiziano per ora infruttuoso d'incorporazione del Sudan, certo orientamento federalistico nel Nordafrica francese (Maghreb unito), la Federazione della Rhodesia e del Niassa, il progetto britannico di federazione dell'Africa orientale (Kenya Tanganika e Uganda) avviato dalla creazione dell'East Africa High Commission che coordina ventotto rami amministrativi dei tre territori tra cui i trasporti aerei le dogane la difesa le poste i servizi radiofonici le ferrovie le comunicazioni fluviali la statistica e l'istruzione superiore, la Federa-
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zione etiopo-eritrea, l'integrazione del Togo britannico nel Ghana, l'annessione del territorio di mandato dell'Africa sudoccidentale ex-tedesca da parte del Sudafrica, la richiesta sudafricana d'incorporazione dei Protettorati britannici di Basutoland Bechuanaland
e Swaziland; e, in data più vicina, il progetto di federazione tra Ghana e Repubblica di Guinea «come nucleo della creazione degli Stati Uniti dell'Africa occidentale », la Federazione del Mali tra Senegal e Sudan e i progetti di Unione Benin (Dahomey Niger
e Togo) e di Stati Uniti dell'Africa latina (Africa equatoriale francese, Congo belga e colonie portoghesi). « Col vostro voto », afferma il presidente dell'assemblea costituente a Dakar Modibo Keita il 17 gennaio 1959 all'atto della proclamazione della Federazione del Mali, « voi avete gettato le fondamenta dell'unità africana. Voi siete gli architetti della Federazione dell'Africa occidentale. Ora dovete diventare i crociati e gli evangelizzatori dell'unità politica
e accettare ogni sacrificio per la realizzazione dell'unità africana ». Il primo ministro del Niger Hamani Dior così puntualizza a sua volta l'esigenza -federalistica: « L'aspirazione all'indipendenza non potrà essere soddisfatta compiutamente che in un quadro federale. Noi intendiamo superare immediatamente la fase dell'indipendenza per raggiungere uno sviluppo nuovo corrispondente al sorgere nel mondo dei grandi raggruppamenti ».
L'Africa, che ha realizzato in passato soltanto parziali esperienze statali ed ha conosciuto invece come preponderante organizzazione politica quella tribale, consente, come ho detto, più d'ogni altro continente, mobilità ed elasticità di suddivisioni territoriali; esiste cioè un largo margine entro il quale sia possibile attuare concentramenti territoriali senza turbare l'equilibrio nazionale delle parti componenti, ma accrescendone anzi l'attitudine ad evolvere verso forme moderne di vita. Il difficile sta nel trovare la formula costitutiva adatta a far coesistere in uno stesso organismo popolazioni con tradizioni evoluzioni interessi spesso in nessun modo comparabili. Il regime federale è in ogni senso il più adatto a coordinare la vita di territori con disuguale maturazione politica economica sociale, adattandolo nelle infinite gradazioni in cui può realizzarsi a ciascuna situazione; ma anche un raggruppa-
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mento federativo, per essere vitale, non deve avère carattere arbitrario, bensì essere sollecitato da un concreto vantaggio delle parti interessate. La parola d'ordine del « raggruppamento », dominante oggi in Africa, non si presenta dunque di facile attuazione e, laddove l'entusiasmo momentaneo lo crea, non sono improbabili movimenti inversi volti al frazionamento.
Quest'ultima previsione appare molto più fondata in quei casi di federazione che sono determinati da un evidente sottofondo coloniale. La si vede già attuarsi per la Federazione della Rhodesia e del Niassa, imposta dalla minoranza bianca ed ora scossa — sanguinosi incidenti del marzo 1959 nel Niassa e nella Rhodesia settentrionale — dalla avversione delle popolazioni indigene che la considerano appunto uno strumento di perpetuazione del vincolo coloniale. È probabile che la stessa sorte abbia la Comunità franco-africana, forse in atmosfera meno violenta per la clausola che Parigi ha opportunamente inserito nella costituzione, relativa al diritto di ogni stato della comunità a uscirne quando lo creda conveniente.
Ma anche dove non esiste la spinta anticoloniale, sono frequenti i segni di movimento centrifugo, che investe del resto le stesse federazioni per così dire « primarie », sorte cioè come tali e non costituitesi in fase posteriore all'indipendenza. Fenomeno opposto al raggruppamento è infatti, in alcuni settori africani, quello della secessione, dovuto in gran parte alla innaturale divisione territoriale del continente africano al momento della sua spartizione nel sec. XIX, eseguita con la sola preoccupazone dell'equilibrio di potenza tra gli stati che vi parteciparono. Sintomi di secessione, più o meno intensi, sono constatabili in Libia e in Etiopia, nel Sudan e nel Ghana, in Mauritania e nel Sudafrica. Si tratta di un processo normale di assestamento, facente perno talvolta non su impulsi nazionali ma su preoccupazioni tribali o su interessi settoriali sia economici sia personali. Spesso il movimento centrifugo si sviluppa in vista di altri e più connaturali raggruppamenti: è il caso delle popolazioni somale dell'Etiopia, che parteciperebbero volentieri a quella Confederazione della grande Somalia che dovrebbe raggruppare, secondo progetti attribuiti al presidente egiziano Nasser,
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le tre Somalia (francese, britannica e in amministrazione fiduciaria italiana), l'Eritrea, l'Ogaden e parte del Kenya.
Un terzo elemento determinante della evoluzione dell'Africa è il problema dei rapporti interrazziali. Tale problema si presenta con caratteristiche diverse in Algeria, nel Sudafrica, nell'Africa centrale britannica (Rhodesia) e nell'Africa orientale britannica (Kenya), ma in tutti e quattro questi territori provoca la stessa conseguenza di allontanare nel tempo la formazione di stati africani indipendenti, e rappresenta quindi il settore in cui la colonizzazione europea é decisa a difendere ad oltranza le sue posizioni non soltanto di ordine economico ma di governo e di amministrazione. In Algeria, il riconoscimento dell'individualità nazionale araba è negato in nome dell'apporto dato alla « individualità algerina » dal gruppo, indubbiamente numeroso e attivo, dei coloni francesi, in nome della contrapposizione d'un interesse nazionale francese a un interesse nazionale arabo. Per meglio caratterizzarsi, tale interesse « nazionale » strettamente algerino dei coloni francesi si é venuto negli ultimi anni sempre più distinguendo dagli interessi di stretto ordine coloniale della Francia, e alla fine ha preteso — ed ottenuto —, con la rivolta del 13 maggio 1958, la assoluta identificazione dei due interessi, sul piano dei coloni: « l'Algerie c'est la France ». Tanto più agevole è stata l'identificazione per il fatto che la ricchezza mineraria del sottosuolo su-dalgerino, ognora più ampia di promesse positive, ha dato solidi puntelli al patriottismo algerino. Ciò però interessa la formulazione d'una politica della Francia per l'Algeria, indica il sopravvento preso in Francia dalle correnti più avverse al nazionalismo arabo, ma non imposta una soluzione valida anche per l'altra parte, o meglio, prospetta una soluzione opposta agli obiettivi degli algerini arabi, lasciando quindi alla prova di forza la decisione del problema. « C'est que l'Europe », osservava J. Amrouche durante l'assemblea della Società europea di cultura a Parigi nel settembre 1953, « hors d'Europe est l'anti-Europe; elle est contre l'Europe, renie l'Europe ».
Negli stessi termini, sostanzialmente, il gruppo etnico bianco del Sudafrica pone il problema della minoranza bianca in una so-
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cietà di colore in espansione. La differenza dall'Algeria è che qui ìl problema è affrontato nella fase finale dell'evoluzione politica indigena ed ha il carattere della caotica e pur puntigliosa reazione a un destino imminente — reazione che é incapace di scorgere e tentare un piano di compromesso —, mentre nel Sudafrica l'impegno della minoranza bianca è rivolto a stroncare in sul nascere ogni velleità nazionalistica della maggioranza negra, a bloccare tutte le vie capaci di portare alla maturazione d'una coscienza politica degli indigeni di colore. L'apartheid o separazione delle razze è lo strumento di tale politica. Il governo nazionalista sudafricano, che ne é l'assertore, parte da una posizione critica verso gli stati colonizzatori europei i quali, con le loro velleità di assimilare, di seminare nell'ambiente indigeno i valori culturali morali religiosi sociali dell'Europa, hanno preparato la strada alla rivolta, all'emancipazione delle popolazioni sottoposte al controllo coloniale, e afferma che non esistono mezze misure tra i due estremi della assimilazione totale e della totale separazione tra i gruppi etnici di un dato territorio, a meno che il gruppo etnico bianco non voglia attendere fatalisticamente il momento della propria totale estromissione; e poiché l'obiettivo di assimilazione non é proponibile in un Sudafrica che ha soltanto 2.906.000 bianchi tra i 14 milioni di abitanti, unica soluzione realistica é la separazione delle razze che mantenga il predominio politico economico e culturale del gruppo etnico bianco. Come è maldestra la cornice morale che i nazionalisti sudafricani danno alla loro politica di apartheid quando sostengono che li preoccupa l'interesse degli indigeni ad approfondire e sviluppare le loro tradizioni culturali, non di snaturarle con esigenze e problemi di altre culture e civiltà, capaci di creare nel loro animo inquietudine spirituale, aspirazioni fittizie sproporzionate alla realtà del loro intimo processo evolutivo, così appare irreale la loro previsione che i gruppi etnici di colore del Sudafrica siano con l'apartheid tagliati fuori dal movimento di emancipazione politica delle popolazioni africane e si adagino nell'indefinita accettazione della supremazia della minoranza.
Partendo dalla constatazione che l'indirizzo sudafricano ha
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per sola conseguenza l'esasperazione dei rapporti razziali e che, se rinvia il problema dell'emancipazione indigena, lo porrà però a suo tempo in termini non di conciliazione di interessi e di vantaggiosa coesistenza ma di violenta eliminazione del gruppo bianco — e se io tiro troppo la corda dalla parte mia », ha ricordato di recente un alto funzionario coloniale belga, «il giorno in cui sono costretto a lasciarla, ebbene, essa va molto lontano anche dalla parte opposta » —, la Gran Bretagna si é sforzata di avviare i suoi territori dell'Africa centrale e orientale, anche su sollecitazione di notevoli correnti di opinione pubblica e di associazioni (esempio, la Capricorno Africa Society), ad una esperienza di collaborazione interrazziale, di partnership. Al tentativo di conciliazione di interessi hanno nociuto e nuocciono, tuttavia, certa tendenza delle autorità locali britanniche a considerare la partnership come un mezzo di prolungamento del governo coloniale e l'evidente impulso di alcuni settori di coloni a trasformarla in uno strumento avente gli stessi fini dell'apartheid, la permanente supremazia della minoranza bianca. Se perciò il nazionalismo africano è in aperta lotta contro le posizioni di indubbio contenuto colonialistico, quali si affermano a Algeri e a Pretoria, diffida di un interazzismo che non ha rotto con tutte le velleità colonialistiche. Nella sua autobiografia Kwame Nkrumah oppone a Aggrey, il cui insistente messaggio politico è la collaborazione tra le razze bianca e negra, la tesi che tale collaborazione e può esistere soltanto quando la razza negra tratta su un piede di uguaglianza con la razza bianca » e che « soltanto un popolo con un governo proprio può pretendere uguaglianza, razziale o di altra natura, con un altro popolo ». Cioè « indépendence d'abord ».
Al problema della formazione di stati interrazziali si collega l'ultimo degli elementi che condizionano l'attuale evoluzione politica del continente africano: la posizione delle potenze occiden- tali, oscillante tra la volontà di non perdere le residue posizioni di governo coloniale, sia pure adattandole alle nuove situazioni di fatto, e la esigenza, alla quale sono più sensibili i governi come lo statunitense che non hanno in Africa posizioni coloniali da difendere, di non compromettere i futuri rapporti di collaborazione
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con la comunità di stati africani, e di non lasciare che si convoglino vieppiù verso i governi comunisti interessi e simpatie del nazionalismo africano già fortemente influenzato dall'aperta solidarietà comunista alle sue aspirazioni e dalla dottrina marxista circa la lotta nazionale dei popoli oppressi dall'imperialismo. Della volontà conservatrice, adattata alla mutata situazione dell'equilibrio delle forze, sono manifestazioni, oltre all'impegno di riforme delle singole potenze coloniali — che ha negli accennati programmi federativi e nella recente creazione della Comunità franco-africana esempi di rilievo — gli sforzi per affrontare con piani concordati i problemi difensivi ed economico-sociali riguardanti il continente nero. In campo difensivo, le due conferenze di Nairobi (1951) e di Dakar (1954) hanno deciso la costruzione di una rete di comunicazioni, comprese le rotte aeree, tra i vari possedimenti, e il diritto di passaggio e di stazionamento in caso di guerra alle truppe di una potenza nel territorio delle altre; da alcuni anni, inoltre, il governo sudafricano insiste nel sollecitare una comunità di difesa tra i territori africani a sud del Sahara sulla falsariga di altri patti regionali (NATO, OAS, SEATO, patto di Baghdad). In campo economico-sociale, fanno spicco la creazione, nel gennaio 1954, di una Commissione per la collaborazione tecnica nell'Africa a sud del Sahara tra Belgio Francia Gran Bretagna Portogallo Federazione dell'Africa Centrale e Unione Sudafricana, la costruzione di varie centrali elettriche fornitrici di energia alle industrie di più territori vicini e, ultimamente, la decisione di inserire i territori d'oltremare nel Mercato comune europeo (MEC).
Molto problematica é invece l'esistenza o anche la semplice chiara impostazione d'una politica occidentale che esprima la preoccupazione di comprendere l'ampiezza del travaglio delle forze nazionali africane e di assecondare la soluzione dei loro problemi, di legare i propri interessi ai loro interessi in divenire, di stabilire un rapporto, possibilmente una conciliazione, tra le loro esigenze e i propri interessi politico-economici, di precisare in definitiva la propria linea di condotta di fronte ai vari aspetti in cui si articola la realtà africana, dal problema dell'autonomia dei territori dipendenti a quello degli aiuti necessari ai paesi sottosvilup-
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patì, dalla discriminazione razziale in alcuni territori alla possi- bilità e ai principi basilari di stati plurirazziali.
Non c'è alcun segno che gli stati del blocco occidentale, nel. loro complesso, si siano posti, per risolverlo, il problema d'una concreta politica africana, nei numerosi rivoli in cui questa si scinde e va coordinata. A cominciare dagli stati che mantengono controlli sovrani su settori dell'Africa — se si esclude in parte la Gran Bretagna che segue da vicino e senza apriorismi le varie situazioni del continente —, la cui politica africana sembra ridursi a un puntiglioso tentativo di contrastare il più possibile i mutamenti dello status quo, a una tenace negazione di quanto è ritenuto in contrasto col proprio interesse. Essi sono fermi su una. valutazione polemica dell'Africa che, sia pur lentamente, si affaccia al mondo moderno, e se sono disposti a concessioni di principio, si mostrano riluttanti a convertire in politica concreta le generiche ammissioni. Oppongono cioè a una politica africana teorica una politica africana reale, del tutto diversa. Le poche iniziative opportune che sono attuate hanno per lo più carattere marginale, e il loro benefico effetto psicologico . è compromesso dal non essere frutto di un orientamento tempestivo ma tardivo adattamento a situazioni non altrimenti controllabili. D'altra parte, ad aggravare la frattura politica tra negri e bianchi, anche il gros- so dell'opinione pubblica dell'Europa occidentale continua ad essere ancorata a formule africaniste assai pericolose per gli interessi africani dell'Europa, non è aliena da posizioni mentali e da impulsi politici che in qualche modo ricordano gli obiettivi di supremazia che giuocavano fino a ieri. Ciò non serve sicuramente a smantellare le stratificazioni di diffidenze di sospetti, talvolta di odio, che il passato ha accumulato sull'animo degli africani. Il problema, per l'Europa, non è di constatare e proclamare l'arbitrarietà o l'ingiustizia di simili stati d'animo, ma di convincere che vuole e sa fare una politica su altre basi, a carattere bilaterale, di uguaglianza, nell'interesse di entrambe le parti.
Evidentemente il problema non si esaurisce nel solo atteggiamento verso gli ideali di emancipazione dei popoli africani; si estende invece all'atteggiamento verso le difficoltà d'ordine raz-
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ziale politico economico che l'emancipazione porta seco. Feconda politica africana significa, in larga misura, assistenza cauta e disinteressata nel faticoso avvio dei nuovi stati africani alla vita autonoma, e soprattutto rinunzia a impegnare questi nuovi stati in un serrato giuoco di rivalità internazionali nel quale si sentirebbero in certo modo posti ancora in una posizione di inferiorità e di dipendenza. Non presenta prospettive utili il tentativo di trasferire in blocco sul territorio africano l'apparato della guerra fredda, come ha rilevato anche l'ex-ambasciatore statunitense Chester Bowles, il cui volume Africa's Challenge to America (1956) prende posizione contro l'orientamento del Dipartimento di Stato del suo paese verso i giovani stati africani e asiatici, facente perno essenzialmente sugli aiuti militari e sul rigido allineamento politico.
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I vari problemi or ora accennati, la cui reciproca interferenza e la cui soluzione contribuiranno a determinare il nuovo assetto politico dell'Africa, sono quasi tutti presenti nel Congo Belga. È come se su questo immenso territorio, posto nel cuore del continente nero, si riflettesse l'immagine vera genuina del mondo africano, consentendo di raccogliere in una visione unitaria, e quindi più fedele, aspetti diversi dispersi qua e là; é come un lago in cui svariati fiumi e torrenti immettono le loro acque mescolandosi e placandosi in una limpida superficie che l'occhio pus?) scrutare in modo riposato e sicuro. Impulsi d'indipendenza, polverizzazione tribale che cerca di cementarsi in una unità nazionale, ricerca di collegamento con popolazioni affini per la formazione di en= tità federali, problemi di coesistenza razziale con i coloni europei, perplessità politiche e psicologiche dello stato colonizzatore nel passare da una politica di puro governo coloniale a un riconoscimento degli interessi preminenti indigeni, sono oggi individuabili nel Congo belga nella fase di avvio, di prima maturazione. La problematica di questi aspetti di vita è meno vivace e perentoria che in altri territori africani, ma per ciò stesso può essere colta nella sua più umana e logica radice.
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Forse in nessun altro territorio africano, quanto nel Congo, il regime coloniale ha trovato un ambiente più comodo e adatto per insediarsi e svilupparsi. Il Congo appariva davvero come un vastissimo « territorium nullius », isolato dall'esterno coi suoi appena sessanta chilometri di costa rispetto agli oltre novemila chilometri di frontiere terrestri, frazionato politicamente con la sua serie di tribù sparse in grandi spazi e divise da migliaia di chilometri di fitta foresta equatoriale e, se a contatto, ostili l'una a l'altra per ancestrali rivalità. I circa cinquecento trattati, che l'esploratore Stanley stipulo in cinque anni dal 1879 al 1884, con i capi locali a nome della Associazione internazionale per l'incivilimento e l'esplorazione del Congo di cui era presidente il re belga Leopoldo, indica tale estremo frazionamento umano e politico. La scarsa popolazione — oggi 11.500.000, di cui 60 mila bianchi, in un'area di 2.344.000 Kmq. —, appartenente a tre diverse razze (bantù veri e propri nelle regioni di savana sudorientale, bantù della foresta nella zona di nordovest e sudanesi nelle regioni di nordest), non poneva problemi particolari d'ordine politico, mentre la ricchezza agricola di alcune regioni e mineraria di altre non addossava sacrifici al bilancio metropolitano e offriva vantaggiose prospettive d'impiego di capitali. Anche per quanto riguarda la sicurezza esterna, tutto fu risolto rapidamente, prima ancora che una apposita conferenza internazionale riunita a Berlino consa- crasse (23 febbraio 1885) la nascita dello Stato indipendente del Congo, attraverso una serie di accordi di confine con la Francia (14 aprile 1884), con la Gran Bretagna (15 maggio 1884), con la Germania (8 novembre 1884) e col Portogallo (durante la conferenza di Berlino). In più, la clausola della porta aperta, stabilita alla conferenza di Berlino e ribadita dalla successiva conferenza di Bruxelles (Atto generale del 2 luglio 1890), neutralizzò in gran parte l'interesse di terze potenze a provocare occasioni che inde- bolissero la posizione coloniale belga.
Allorché il 18 agosto 1908 si apre a suo favore la successione stabilita da re Leopoldo col testamento del 2 agosto 1889, il Belgio entra in possesso di un patrimonio di tutto riposo e attivo sotto ogni angolo visuale.
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Le direttive di politica indigena che il Belgio subito attua, e che rimarranno immutate nei decenni successivi sono, da una parte l'assoluta esclusione degli africani da ogni responsabilità di governo, — come, dei resto, dei coloni bianchi, il che è fatto notare dai belgi come prova dell'inesistenza di discrimazione razziale —, dall'altra l'impegno paternalistico di migliorare gradatamente le condizioni di vita degli africani, evitando però che educazione e contatti con l'esterno suscitino in loro esigenze politiche, insofferenza dello status quo. La « carta coloniale » emanata nello stesso 1908 come costituzione, fissa a Bruxelles la sede del governo centrale del Congo; i poteri legislativo ed esecutivo sono nelle mani del re, rappresentato nella capitale congolese Leopoldville dal governatore generale e assistito da un Consiglio di governo con funzioni consultive. I quattro quinti della popolazione indigena sono organizzati in centres coutumiers, retti ciascuno da capi sotto il controllo d'un amministratore territoriale belga; il resto vive in centres extra-coutumiers, aggregato cioè alle comunità bianche e amministrato anch'esso da capi nativi ma sotto la legge belga. Gli indigeni partecipano anche ai Consigli di ciascuna delle sei province (Leopoldville, Equatore, Provincia orientale, Kivu, Katanga e Ksai), a carattere consultivo, con membri di nomina governativa. A un piccolo gruppo di africani — nel 1955 non superavano i cento —, man mano che raggiungono un particolare livello culturale, viene riconosciuta la qualifica di matriculés cioè uguaglianza di diritti con gli europei. Tutto qui, per diversi decenni.
Fino al 1° gennaio 1958, con la concessione dello statuto comunale alle città di Leopoldville, Elisabethville e Jadotville -alle quali seguono un anno dopo Bukavu, Stanleyville, Coquilhatville e Luluaburg — nessun cambiamento viene apportato alla situazione costituzionale. Il Congo è come pietrificato, politicamente; i marosi che agitano, con due guerre mondiali e rivoluzioni, le acque europee e coloniali, si frantumano sulle dighe massicce che sembrano circondare il grande spazio umano del Congo. Entro il loro recinto il tempo pare essersi fermato e continua
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l'età dell'oro del mondo coloniale. Un belga, J. Labrique, ha puntualizzato di recente nel parigino Le Monde gli elementi costitutivi dell'idilio coloniale congolese, la ricetta pratica di quello che egli definisce « paternalismo integrale » del regime coloniale belga : « Lo Stato-Provvidenza e l'Imprenditore-Provvidenza vigilano, con la collaborazione delle missioni cattoliche, sul benessere materiale e morale dell'indigeno. Questi é curato gratuitamente da quando é nel seno materno e dalla fanciullezza fino al letto di morte. È fornito di, alloggio dal suo imprenditore o beneficia d'una indennità e di prestiti edilizi autorizzati dall'amministrazione. È nutrito scientificamente e ricreato con saggezza. L'imprenditore gli versa direttamente parte del salario alla Cassa di risparmio. Al privato non è consentito legalmente di prestargli denaro o anticipargli prodotti. Il suo riposo é garantito dal coprifuoco nei quartieri in cui vive e dove la presenza dell'europeo non è permessa nelle ore notturne. La formula per la sua felicità é studiata da uomini di scienza e applicata da esperti uomini d'affari che si ingegnano di evitargli errori di condotta. Sino ad ora é poco, gli era proibito di avere in casa, e .a più forte ragione di consumare vino o alcool. I film che é autorizzato a vedere sono prima sottoposti a una commissione apposita di censura; nelle campagne il loro contenuto é religioso o educativo. I giornali, le riviste, i libri destinati a lui sono anch'essi di carattere edificante e sono editi quasi esclusivamente dal governo e dalle missioni. Egli non può spostarsi da una regione all'altra senza permesso dell'autorità né senza aver presentato un certificato medico. Se desidera oltrepassare le frontiere, deve ottenere il nullaosta del governatore generale e versare una cauzione che serva per le eventuali spese di rimpatrio. È soggetto a leggi speciali, é giudicato da tribunali speciali che emettono per lui pene speciali. Per definizione é insolvibile: secondo la consuetudine, non può essere citato in giudizio da un europeo per un'azione di carattere civile. Gli spetta un prezzo ridotto negli spettacoli sportivi e nelle manifestazioni artistiche alle quali sia stato autorizzato di assistere. Pochi sono gli svaghi che gli sono consentiti di condividere con europei e il
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più spesso organizzati dal suo imprenditore o su iniziativa del governo o delle missioni. Nell'ambito riservato alla sua attività economica — salariato, impieghi d'ordine, piccolo commercio, artigianato —, l'autorità lo protegge dalla concorrenza degli europei. L'immigrazione bianca é stata sistematicamente scoraggiata. Fino a cinque anni or sono il negro del Congo belga non aveva accesso all'insegnamento universitario. Al di fuori dei seminari non poteva frequentare che le scuole professionali o scuole secondarie con programma ridotto rispetto alle scuole per i ragazzi europei. Tale situazione sussiste ancora per la grande maggioranza. Prima di essere ammesso a frequentare una scuola per ragazzi europei, il ragazzo negro é sottoposto a una speciale visita medica, é compiuta un'inchiesta sulle condizioni della sua famiglia, sul suo tenore di vita, sulle sue risorse finanziarie. Non é facile l'iscrizione alle università straniere. Il governo ha preferito organizza' re sul posto delle facoltà, partendo dal principio che il negro ha tutto da avvantaggiarsi dall'essere educato nel suo ambiente, tra i suoi fratelli di razza, mantenendo in tal modo il contatto con la tribù e rendendosi conto dell'arretratezza della massa. Si evita così che lo studente sia corrotto da dottrine sovversive e turbi poi con la sua condotta il cauto sviluppo del piano fissato. Quanto all'europeo che sbarca al Congo belga, egli si sente, si crede, si attribuisce d'ufficio un compito di educatore. Quale che sia la sua professione, quale che sia il suo lavoro. Un libraio apre un nego- zio? Egli censura la lettura della clientela negra. Il commerciante, il droghiere, il macellaio educano la loro clientela negra in reparti appositi. Le banche hanno preparato dei cassieri negri col compito di illuminare i risparmiatori ».
Meno spettacolare e irritante che nel Sudafrica, e senza quel gusto della teoricizzazione del proprio programma politico che allarma gli osservatori e scuote psicologicamente i « pazienti », l'orientamento di governo nel Congo belga é una forma di apartheid. Suscita perciò uno scandalo interno la pubblicazione nel 1957, ad opera di Van Bilsen, professore all'università cola niale di Anversa, di un Piano trentennale per l'emancipazione del
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Congo; e costituisce uno scandalo internazionale la decisione dell'Assemblea generale dell'ONU, durante la sessione del 1952, di raccomandare al Comitato per le informazioni sui territori non autonomi — creato nel 1949 col compito di esaminare i dati forniti dalle potenze amministratrici sulle condizioni economiche sociali e culturali dei territori loro sottoposti — di raccogliere anche indicazioni dettagliate sul modo in cui le popolazioni indigene godono del diritto all'autodecisione. Il Belgio, punto sul vivo, dichiara di non volere più partecipare ai lavori del Comitato. Emancipazione, autodecisione: due parole che sono come bestemmie, come esplosivi, capaci di sovvertire il lavoro di un cinquantennio. Nulla é da respingere con più puntigliosa fermezza quanto un qualsiasi tentativo di inserire i negri in un giuoco politico. All'ONU l'autorità belga potrebbe non indicare la tappa in cui é giunto il regime coloniale belga nella corsa verso il proprio tramonto, ma assicurare che, nell'atmosfera tutta sussulti di rivolta di ribellione del continente africano, il Congo mantiene il suo ritmo di vita placido operoso, fatto di conciliazione tra gli interessi dei colonizzatori e degli indigeni.
A chi chiede informazioni sul progresso « politico » del Congo, il Belgio risponde con informazioni sul progresso « economico » ; a chi insiste per aver cifre sull'evoluzione culturale e sociale degli indigeni, Leopoldville ribatte con indici di produzione, con dati su nuove industrie o sul commercio. La politica può creare illusioni su una maturazione nazionale di là da venire, mentre il lavoro la disciplina l'insistenza sui valori morali getta le basi di una società che in futuro potrà anche addossarsi responsabilità amministrative.
I tre pilastri che sostengono l'edificio di questo rigido rapporto coloniale sono l'autorità politico-militare, le missioni e il ceto industriale, reciprocamente solidali e operanti armonicamente. Il governo protegge l'azione missionaria e lascia alle missioni il compito di diffondere l'istruzione in confini ben bloccati (soltanto scuole elementari e professionali fino al 1955, allorché é aperta a Kimuenza, nei pressi di Leopoldville, una università intitolata a Lovanio e fornita di poche facoltà); le 470 missioni cattoliche
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con 4430 missionari — cui si affiancano 258 missioni protestanti
con 1170 missionari controllano in maniera capillare orientamenti ed esigenze delle masse indigene, scoraggiando spiritualmente e suggerendo di scoraggiare politicamente qualsiasi indizio di eversione (« un vero potere nel Congo » le definisce J. Pirenne); l'industria, soprattutto mineraria, nella quale per legge il 50% delle azioni spetta allo stato belga in veste peró di capitalista privato, condiziona l'intera vita della colonia ed é arbitra delle direttive di governo. Non é, il Congo, colonia di popolamento, non serve per obiettivi strategici, ma funziona come una coraggiosa impresa economica e la sua ragion d'essere é legata alla tutela degli interessi economici che vi si sono trasferiti e sviluppati. La finalità della colonia del Congo spiega bene la politica belga nel Congo. Probabilmente, se Bruxelles avesse la certezza che la formazione d'un nazionalismo congolese e il suo sbocco nella creazione di uno stato africano non alterassero le condizioni di espansione dell'iniziativa industriale, lo sforzo ombroso di neutralizzare qualsiasi evoluzione politica dei congolesi farebbe posto a una maggiore flessibilità di vedute politiche. La preoccupazione politica di salvaguardare il patrimonio economio, inoltre, suggerisce l'accettazione, nel 1944, di un accordo con gli Stati Uniti — accordo rinnovato alla sua scadenza, dopo dodici anni — che trasferisce a questi ultimi l'intera disponibilità della produzione di uranio :del Congo, la più alta del mondo. Conviene infatti potere avere, in una fase di sempre più vivace anticolonialismo, la solidarietà di una potenza, come Washington, assai incline ad assecondare lo sfaldamento della costruzione coloniale europea, in Africa come in Asia.
In un Congo visto soltanto come una unica enorme azienda di produzione e di commercio, la popolazione indigena non interessa che come massa di manodopera alla quale assicurare un graduale miglioramento di vita ma non una libertà capace di turbare l'ordinato ritmo produttivo. Tutti sono imbarcati su una stessa nave e tutti hanno il solo dovere di produrre sempre più e sempre meglio. E in effetti gli indici di produzione agricola e industriale del Congo mostrano un progresso costante. Se in agricoltura 14 mila coloni
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coordinano il lavoro di 350 mila negri, con forti produzioni di cotone caffè gomma cacao essenze pregiate, nell'industria la marcia produttiva è più spettacolare: 192 milioni di tonnellate di rame, 14 milioni di tonn. di stagno (la seconda cifra nel mondo), 5 milioni di tonn. di cobalto (il 75% della produzione mondiale), 89 milioni di tonn. di zinco, il 56% della produzione mondiale di diamanti industriali, una forte aliquota di tungsteno, e poi la ricordata maggiore produzione mondiale di uranio, estratto nei giacimenti di Shinkolobwe da un minerale che ne contiene dal 60 all'80% (quello canadese ne contiene dal 30 al 40%). I piani di produzione sono agevolati dal coordinamento delle iniziative, assicurato dalla concentrazione della maggior parte delle aziende di produzione nelle mani della Société générale de Belgique che le gestisce direttamente o a mezzo di filiali (Union minière du Haut Katanga, Banque du Congo belge, Société Cotonco). Oltre alla Société générale, operano nel Congo il gruppo Banque de Bruxelles-Bru fina, gruppo Empaine, il gruppo della Cominière, la compagnia Unilever. La sola Compagnia dell'Unione mineraria dell'Alto Katanga fornisce, per imposte, due dei sei miliardi delle entrate del Congo. Malgrado che la partecipazione dei gruppi finanziari statunitensi nelle imprese industriali e minerarie del Congo tenda ad accentuarsi sempre più — acquisto di forti pacchetti di azioni della Société Cotonco, dell'Union Minière, della Tanganyka Concessions Ltd, della Société Symaf, — notevoli sono ancora le posizioni britanniche, rappresentate soprattutto dalla Tanganyka Concessions Ltd (un terzo delle azioni dell'Union Minière e diritto di ricerca e sfruttamento su un'area di 155.400 kmq. fino al 1990) e dalla Lever Brothers Ltd (pacchetto di azioni della Unilever e 750 mila ettari di piantagioni di palme in condominio con la Société générale). Dalla Société générale dipende anche la Compagnia marittima del Congo, mentre in campo agricolo il grosso delle aziende fa capo alla Societé Congolaise de Hévéa, alla Cultures equatoriales, alla Agri f or (fusa nel 1948 con la compagnia statunitense Plywood Corporation).
Gradatamente sorge e si sviluppa anche l'industria di trasformazione: raffinerie di rame, fabbriche di tessuti, cementerie, bir-
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rerie. E anche in questo settore é il capitale statunitense a raggiungere le posizioni di maggior rilievo.
Tale capitale- fa sentire il suo peso nell'indurre Washington a largheggiare in aiuti finanziari allorché nel 1950 il governo di Bruxelles decide di attuare, con un piano decennale, un vasto sforzo di ammodernamento delle infrastrutture congolesi e di potenziamento dell'economia della colonia: due grossi prestiti sono concessi nel 1950 e nel 1951 direttamente al governo belga, mentre altri prestiti sono dati a singole società operanti nel Congo. Il piano prevede una spesa straordinaria di 50 milioni di franchi ripartita in nove sezioni: trasporti, alloggi indigeni, servizi di pubblica utilità, rifornimento idrico, elettrificazione, istruzione, igiene, immigrazione e agricoltura. È soprattutto il territorio minerariamente privilegiato del Katanga ad avvantaggiarsi dell'impegno di spesa straordinaria del Belgio nel Congo sia in autostrade che in ferrovie — linea da Kabalo a Kamina di 444 km. — e in edilizia ospedaliera e scolastica; ma anche i maggiori centri urbani ricevono una notevole spinta a rafforzarsi economicamente con la creazione di complessi industriali e ad attrezzarsi in senso moderno. Leopoldville in dieci anni passa da 96 a piú di 300 mila abitanti, si arricchisce di un sobborgo industriale (Limete), é fornita di uno dei migliori aeroporti africani, con una pista di lancio lunga 4 km.; il porto di Matadi viene ingrandito e adattato ad un traffico intercontinentale; da nuove strade o ferrovie sono valorizzati i centri di Stanleyville, Ponthierville, Port-Franqui, Kindu, Costermansville.
Il viaggio di re Baldovino nel maggio-giugno 1955 ha l'obiettivo di consacrare, esaltandolo, questo panorama di operosità e di crescente benessere, che ha il suo corrispettivo politico nella stabilità sociale, nella concordia razziale, nella collaborazione degli indigeni. Al pesante sgretolamento dell'edificio coloniale per ogni dove in Africa, viene contrapposto l'armonioso cammino congolese. Soltanto i fatti contano, e il Congo é li a smentire chi corre dietro a idee di ineluttabilità del dissolvimento coloniale. Il Congo prospera perché non vi sono teste calde politiche, e le teste calde politiche non germinano perché la potenza coloniale sa tenere l'am-
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biente disinfestato moralmente e sa rendersi conto che occorre assicurare a tutti lavoro e dare graduali soddisfazioni alla esigenza di miglioramento materiale e spirituale degli indigeni.
Concentrazione di operai nei grossi centri abitati, in conseguenza dell'industrializzazione, contatto di questi operai con i colleghi bianchi, formazione di una piccola borghesia commerciale e impiegatizia, vicinanza di territori politicamente in fermento, concorrono tuttavia a trasformare sempre più l'ambiente congolese, costituiscono le consuete premesse al passaggio del regime coloniale in una fase di crisi. Per quanto impegno vi ponga, l'autorità coloniale belga non riesce a conservare del tutto il Congo come un vaso chiuso rispetto al mondo circostante e a impedire che le trasformazioni di vita all'interno del paese abbiano effetti diversi che altrove. La delusione é sempre al varco per coloro che riducono il problema politico a un problema di educazione, specialmente se fondano l'educazione su un precetto morale che si identifica soltanto col proprio tornaconto.
All'interno del Congo i primi sintomi di irrequietudine si manifestano nei centri extra-coutumiers di Leopoldville e della zona mineraria del Katanga. Sia che si tratti di solidarietà sindacale tra proletariato europeo e africano — l'organizzazione sindacale indigena é autorizzata dal 1946 —, come in seno all'Unione Katangaise nel Katanga e all'Unicol nella Provincia orientale con capoluogo Stanleyville, entrambe imperniate sulla lotta contro il centralismo amministrativo di Leopoldville, sia che si tratti di primo urto di interessi tra bianchi e negri nelle piantagioni e coltivazioni della provincia di Kivu, appare chiaro che lo status quo sociale e politico presenta le prime incrinature.
Né l'isolamento dall'esterno ha più ampie probabilità di durare, una volta che nelle regioni confinanti si verifichino, come già avviene, decisi movimenti di opinione pubblica in senso nazionale. L'osmosi di idee di impulsi tra le popolazioni congolesi e quelle vicine, soprattutto con quelle sotto amministrazione francese — la capitale dell'Africa equatoriale francese Brazzaville e Leopoldville sono sulle due sponde del fiume Congo separate da soli 4 km. — ha precedenti sintomatici: l'unica rivolta di una certa proporzione
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scoppiata nel Congo prima della seconda guerra mondiale, quella del 1920-21, ha avuto a protagonista un carpentiere, Simone Kim-bangu, che era membro di una setta religiosa fondata al di là del fiume Congo, nel 1948, da Zéphyrin Lassy. L'osmosi ha, oltre tutto, una base etnica: il gruppo etnico dei Lari infatti é stato disperso dal giuoco delle spartizioni coloniali tra il Congo francese, il Congo belga, il Cabinda e l'Angola portoghese. La stessa osmosi, sempre sulla base delle affinità etniche, é in atto ai confini con l'Angola, con la Rhodesia, con l'Uganda e col Sudan, dove non è raro il caso di un capo congolese che abbia parte della sua tribù al di là della frontiera.
Che vi sia, nel sottofondo della vita congolese, un ribollio cauto ma intenso di sêtte segrete e religiose, lo dimostra il rapido formarsi di associazioni rivendicatrici di diritti politici congolesi — evidentemente non dovuto a improvvisazione — che ha luogo nello stesso momento in cui, nel giugno 1956, l'Africa equatoriale francese ottiene da una legge-quadro del governo di Parigi, insieme agli altri territori francesi dell'Africa nera, l'avvio a una decisa evoluzione autonomistica che andrà a compimento con la costituzione francese del 5 ottobre 1958. Il là sembra essere dato dal manifesto Conscience africaine, redatto da un gruppo di intellettuali Bangala di residenza a Kinshasa, in cui si rivendica l'esistenza di una nazione congolese; ma, il fatto che esso fissi in tappe lungo un trentennio il processo evolutivo verso la completa emancipazione, fa comprendere che si tratta di manovra diversiva organizzata dalla missione di Scheut e utilizzante l'avversione tradizionale della popolazione Bangala contro la popolazione Bakongo. Questi scendono in campo, infatti, con un programma più radicale, che prevede l'indipendenza immediata e la partenza dei bianchi. Due gruppi politici si fanno portavoce di questo programma: il Movimento nazionale congolese fondato da Patrizio Lumumba, e, più autorevolmente, l'Associazione dei Bakongo per l'unificazione, la conservazione e l'espansione della lingua Kikongo, che si trasforma poco più tardi in Associazione degli originari del Basso Congo (Abako).
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La vivacità delle manifestazioni politiche di questi gruppi e l'ampiezza di adesioni che essi raccolgono nell'ambiente indigeno cancella subito l'oleografica e falsa immagine di un Congo estraniato dall'irrequietudine nazionalista africana. Non resta al governo belga che dare una prova, sia della sua volontà non di escludere una evoluzione politica del Congo ma soltanto di graduarla sulla base di una educazione amministrativa della popolazione, sia del fatto che nell'attuale malcontento per lo status quo non sono implicati che sparuti gruppi di persone mossi più da spirito di rivalità tribale che da avversione al regime coloniale. Annuncia perciò, il 26 marzo 1957, la concessione dello statuto municipale alle principali città congolesi, dando per altro ad esso un contenuto assai complicato, tale da lasciare poco margine di responsabilità agli indigeni eletti. Tra l'altro, le città sono divise in parecchi « comuni » (in 11 Leopoldville, in 5 Elisabthville e in 3 Jadotville), ciascun comune avrà un sindaco o borgomastro non eletto ma nominato dal governatore, e sopra i vari borgomastri d'ogni città starà un primo borgomastro, di nazionalità europea. Più minuziosa ancora è la procedura di preparazione delle liste elettorali, allo scopo di sfoltirle al massimo. La fase preparatoria durerebbe tuttavia a lungo se una serie di incidenti — gravi quelli allo stadio Baldovino nel giugno — non forzassero la mano alle perplessità che sussistono in parte dei circoli ufficiali della colonia circa la con venienza a tentare l'esperimento « democratico ».
A chiusura delle giornate di voto, rispettivamente l'8 dicembre a Leopoldville e il 22 dello stesso mese a Elisabethville e Jadotville, il corpo elettorale indigeno, accorso compatto alle urne (85%), riversando il 77% dei suoi suffragi sui candidati bakongo, dà ragione a chi ha manifestato perplessità anche dopo che sono state messe in atto tutte le precauzioni per spoliticizzare l'avvenimento. Sorprende e allarma, in particolare, il fatto che l'alta maggioranza riversatasi sui candidati bakongo non provenga soltanto dalla popolazione dei Bakongo, che rappresenta la metà delle liste elettorali; con ciò infatti viene meno il luogo comune più diffuso negli ambienti colonialistici, che non vi possa essere nel Congo schieramento politico su base diversa di quella tribale. Le elezioni indicano
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che c'è un fattore di avvicinamento tra gli africani capace di far superare lo spirito tribale, ed è la solidarietà di interessi nazionali. Finiscono per riconoscerlo anche i Bangala che, per sperare di contrapporsi in futuro con successo ai rivali Bakongo, si decidono a scendere con maggiore impegno sul terreno delle rivendicazioni nazionali e cambiano subito tono in tal senso.
Ma sono soprattutto i Bakongo a sfruttare la piattaforma della vittoria elettorale per una più intensa attività propagandistica e organizzativa. La loro associazione Abako utilizza al massimo la forza che deriva dal poter parlare a nome d'una opinione pubblica « nazionale », e si fa esigente contro il disorientamento degli ambienti belgi. Sei degli otto comuni di Leopoldville hanno alla testa dirigenti dell'Abako, e poco importa che la legge assegni ad essi una ridotta responsabilità amministrativa, se consente di continuare íl dialogo politico con l'autorità belga. Il presidente dell'associazione, Kasavubu, non lascia dubbi, nel discorso di insediamento come borgomastro del quartiere di Dendale (Leopoldville), sull'uso che intende fare della sua carica. Il governatore generale Pétillon gli invia una nota di biasimo, ma la vita congolese non cessa di svolgersi in un'atmosfera di eccitazione, politica che ha quale protagonista l'Abako. Tanto più che l'amministrazione coloniale può contare meno sull'atout suo più forte, la « politique du ventre plein », ora che l'economia congolese è in fase di recessione nel settore minerario, la disoccupazione africana tende a ingrossarsi (50 mila nella sola capitale congolese, nel dicembre 1958), il bilancio congolese per la prima volta è in deficit e si manifesta la tendenza a minori investimenti di capitali e persino al rimpatrio di capitali verso il Belgio. D'altra parte, come suole accadere, il campanello d'allarme del risultato elettorale non spinge il governo belga ad abbandonare la politica dello struzzo e a valutare obiettivamente la realtà al di fuori dei luoghi comuni di comodo e della naturale pigrizia conservatrice, ma accresce perplessità e suggerisce piuttosto propositi di più ferma resistenza, non bene mascherati dagli accenni ai necessari adattamenti della politica indigena (dichiarazione governativa del 18 novembre 1958 e costituzione
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d'un gruppo di lavoro per lo studio dei problemi politici nel Congo Belga).
Sul più accentuato dinamismo dell'Abako influisce indubbiamente anche l'ulteriore sviluppo nazionalistico dei vicini territori dell'Africa equatoriale francese, che giunge all'epilogo vittorioso con la nuova costituzione francese dell'ottobre 1958. È proprio alle porte di Leopoldville, a Brazzaville, che il gen. de Gaulle annunzia solennemente la sua politica di rottura radicale con il vecchio colonialismo in Africa. Alla testa dei due territori del Congo e dell'Ubanghi-Sciari, divenuti stati indipendenti — il secondo col nome di Repubblica centro-africana — membri della Comunità franco-africana, vi sono due personalità, rispettivamente l'abate Youlou e B. Boganda (perito poi in un incidente aereo il 30 marzo 1959), di vivacissima fantasia panafricanista, assai sensibili ai problemi del Congo belga. Il primo é infatti il capo dei Lari, il gruppo etnico che abbiamo visto dislocato in parte nella colonia belga, e l'altro, fondatore del Movimento per l'evoluzione sociale dell'Africa nera (Mésan), insiste sul fatto che le due rive del fiume Ubangui (la riva sinistra fa parte del Congo Belga) sono abitate dalle stesse tribù M'baka e Banziai, e lancia l'idea d'un raggruppamento, « Stati Uniti dell'Africa latina », che dovrebbe comprendere i quattro territori dell'ex-Africa equatoriale francese, il Camerun, il Congo belga e l'Angola, e si allineerebbe agli Stati Uniti dell'Africa occidentale, di influenza anglo-sassone (Nkrumah), e a una zona di influenza musulmana (Nasser), nel dare un primo assetto politico all'Africa. « Io stesso sono nato congolese » — afferma denunziando « l'errore geografico degli esploratori » e chiedendo una revisione della frontiera dell'Africa centrale — « e sono divenuto ubanguiano. Una parte della mia tribù si trova nel Congo belga, un'altra nell'antico territorio dell'Ubangui e un'altra ancora al Ciad. Ma è la lingua francese e la nostra comune cultura latina che costituiscono per noi dei legami fondamentali. Ed è perciò ch'io credo fermamente all'avvenire di quella che si dovrà chiamare Africa latina, così come si parla di America latina ».
È problematico che possa avere eco fra i nazionalisti congolesi un progetto del genere, come anche del resto quello Lari del
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Youlou, ma costituisce ugualmente una manifestazione dell'esigenza di avvicinamento, di collaborazione tra le diverse forze politiche di questo settore africano. Se è soltanto frutto della tendenza belga ad attribuire a influenze esterne la perdita della « buona salute » del Congo, l'affermazione di un ministro di Bruxelles relativa alla responsabilità dell'abate Youlou nell'evoluzione dello stato d'animo congolese, è certo però che frequenti divengono i contatti nella seconda metà del 1958 tra gli esponenti dell'Abako e il mondo nazionalista extra-congolese. E sono contatti che servono a rinvigorire i propositi di porre decisamente sul tappeto il problema politico congolese. Tali propositi ricevono le estreme sollecitazioni morali nella ricordata conferenza di Accra, dove l'Abako è rappresentato da due « eletti » del 1957, Diomi e Lumumba.
L'eco della conferenza di Accra nei centri congolesi è d'un genere caratteristico di taluni momenti nella vita dei popoli in cui la suggestione collettiva riversa su un episodio marginale, su un evento qualsiasi aspettative sproporzionate, altera le dimensioni della realtà, crea un'atmosfera quasi messianica di attesa. Tornando dal Belgio dopo alcune settimane di assenza, il presidente del sindacato dei funzionari congolesi e borgomastro del comune di Kaluma, A. Pinzi, rimane sorpreso per il mutamento avvenuto nell'opinione pubblica africana, nota lo stato d'eccitazione che Accra ha creato. I sintomi di eccitazione si rivelano anche il 28 dicembre, al prima dei comizi politici autorizzati dall'autorità belga a Leo-poidville: ogni volta che gli oratori del Movimento nazionale congolese accennano alla necessaria evoluzione verso l'indipendenza, parte della folla risponde con grida che rivendicano l'immediato raggiungimento di tale obiettivo. In siffatta atmosfera, l'annunzio alla folla già riunita, il 4 gennaio 1959, del divieto del governatore al comizio che avrebbero dovuto tenere Kasavubu, Diomi e Lumumba, è accolto come una sfida contro le aspirazioni nazionali congolesi. La reazione si scatena improvvisa con violenza tumultuosa e acre, investendo disordinatamente beni e persone che siano europei. Per due giorni incendi e saccheggi degli africani si frammischiano a cariche e sparatorie, ad arresti ed uccisioni ad opera della polizia e dei reparti paracadutisti accorsi in rinforzo da
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Kamina. Poi, per diversi giorni ancora, strascichi di disordini e di violenza repressiva qua e là per le località del Congo; ed infine, il gran silenzio del coprifuoco, lo stato d'assedio, le carceri colme di rivoltosi, la ripresa del consueto ritmo di vita.
Le sanguinose giornate del gennaio segnano la comparsa sulla scena politica congolese di una volontà indigena distinta e opposta alla volontà dello stato colonizzatore, e capace di porre sul tappeto il problema dell'autonomia del Congo. L'urto violento con l'amministrazione colonia-belga serve anche a consacrare l'Abako come il nucleo organizzativo più efficiente, per il momento, nel tenere vivo e incanalare lo sforzo autonomistico. Il suo prestigio ne esce rafforzato, e più ancora si rafforza per la malaccorta decisione di Bruxelles di ordinarne lo scioglimento e di arrestare i suoi capi J. Kasabuvu, D. Kanza e S. Nzeza (insieme ad un gruppo di altri esponenti politici, tra i quali Diomi e Pinzi). Uomini politici di altri movimenti, come ad esempio il presidente del Movimento nazionale congolese Lumumba, si compromettono, fino ad incorrere nell'arresto (10 marzo), nel promuovere agitazioni in favore della liberazione di Kasabuvu e compagni. L'obiettivo belga di spezzare ogni possibilità di vita dell'Abako viene neutralizzato dall'identificazione che l'opinione pubblica indigena del Congo tende sempre più a fare tra Abako e indipendenza congolese. Se ne rende ben conto il ministro per il Congo Van Hemelrijk allorché giunge nella colonia per sondare le reazioni indigene al suo programma di riforme e non trova interlocutori in grado di parlare diversamente che a titolo personale; più esattamente, trova una organizzazione denominata Interfédérale e raggruppante tutte le associazioni etniche congolesi, ma deve poi constatare che i propositi arrendevoli manifestati dai suoi dirigenti, B. Tumba e J. Iveki, non sono che i propositi d'una organizzazione la cui esistenza é sconosciuta alle associazioni etniche che in teoria ne fanno parte.
Al fermento congolese, che trae spinta dall'arresto dei capi dell'Abako per accentuare i motivi di lotta nazionale, il 18 gennaio offre piena solidarietà una dichiarazione del Consiglio afro-asiatico del Cairo, che si sforza di allargare internazionalmente l'eco avuto dagli avvenimenti del 4-5 gennaio: « L'orrenda carneficina di
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Leopoldville, dove centinaia di abitanti inermi sono stati uccisi, ha completamente smentito le menzognere affermazioni dei belgi nel loro tentativo di convincere il mondo intero che essi sono i « colonizzatori ideali » e che il Congo é una colonia « soddisfatta ». Il Belgio ha sfruttato spietatamente il ricco territorio congolese, la cui popolazione é oggi inferiore ai 12 milioni, mentre nel 1900 era di 20 milioni. I1 regime belga é costato al popolo congolese 5-8 milioni di vite umane. Le retoriche dichiarazioni del Belgio sulla sua missione civilizzatrice nel Congo si sono volatilizzate come bolle di sapone nelle strade di Leopoldville, immerse nel sangue durante il recente passato. La coscienza del mondo é offesa da questo mostruoso crimine degli imperialisti belgi. ...Gli imperialisti belgi inviano una commissione per aprire una inchiesta sulle circostanze del massacro. Lo scopo di questo provvedimento é di giustificare il massacro e non accontenterà quindi i popoli dei paesi asiatici e africani. Noi chiediamo che una commissione internazionale sia autorizzata a svolgere una minuziosa inchiesta sull'inumano episodio di Leopoldville. Esprimiamo la nostra solidarietà con il movimento di liberazione del popolo congolese e chiediamo il riconoscimento dell'indipendenza del Congo e l'immediato ritiro dei belgi da questo paese che essi hanno rovinato e saccheggiato senza scrupoli. Tutte le truppe belghe debbono immediatamente partire dal Congo. I dirigenti dell'organizzazione Abako — D. Kanza, J. Kasabuvu ed altri — debbono essere immediatamente messi in libertà e si debbono svolgere trattative con essi sulle questioni concernenti l'indipendenza del Congo, sull'abolizione completa e definitiva della dominazione belga in questo paese ».
All'irrigidimento nazionalista indigeno, provocato dall'urto del gennaio, corrisponde uno stato d'animo di allarme prima, e poi di reazione antinegra, tra la minoranza bianca stanziata nel Congo. Il panico altera le proporzioni della minaccia alle sue posizioni economiche e sociali, spingendo ad atteggiamenti capaci piuttosto di approfondire il solco razziale che di smussare i motivi di contrasto, facendo vedere la salvezza soltanto in una politica di forza, in una dura repressione di qualsiasi gesto autonomistico degli africani. Non manca, tra coloni e funzionari coloniali, chi non
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condivide l'orientamento basato su impulsi di vendetta, ma é sommerso dalla prevalente tendenza a puntare i piedi, a considerare lo spirito di moderazione come una debolezza foriera di distruzione degli interessi bianchi. Una mozione dell'Association des colons, subito dopo gli incidenti, chiede « la costituzione immediata d'un corpo di protezione armata », reclama « il risarcimento integrale dei danni », domanda che « severe misure siano prese contro tutti i responsabili » e che « lo stato di assedio sia proclamato immedia- tamente in caso di ripresa dei disordini »; proclama infine la pe-
rennità e dei legami tra Belgio e Congo. Allorché
poi il ministro per il Congo Van Hemelrijk si reca nella colonia per convincere gli europei sulla necessità di riforme, trova, specie nella provincia di Kivi.I, un'accoglienza assai ostile. « Promettendo suffragio universale e indipendenza », afferma un manifesto degli. ultra nell'occasione, « il governo ha dato un premio alla rivolta! Coscienti di rappresentare l'immensa maggioranza della popolazione, sosteniamo che gli impegni presi dal governo sono da considerare nulli e come non avvenuti. Nessun piccolo governo passeggero di Bruxelles ha il diritto di gettare l'unità belgo-congolese in pasto ai primi saccheggiatori che capitano. Reagiamo! Uniamoci! La sorpresa ci ha fatto perdere una battaglia, ma la vittoria sarà nostra ». A poco a poco negli ambienti bianchi del Congo tende ad affermarsi un'atmosfera da 13 maggio algerino, una tendenza a porsi come i soli legittimi rappresentanti degli interessi belgi nel Congo, aventi il dovere, se necessario, di opporsi con la forza alla politica di Bruxelles. Tale atmosfera non sfugge alla Commissione parlamentare d'inchiesta che é inviata nella colonia per indagare sulle cause degli avvenimenti del 4-5 gennaio. Il suo rapporto, pubblicato il 28 marzo, insiste su questo punto, e così accenna alla parte che i circoli militari sostengono nell'alimentare lo spirito di rivolta « La commissione sottolinea la necessità che le autorità militari eseguano senza criticarle le decisioni delle autorità civili che rappresentano il potere esecutivo nel Congo. La commissione sottolinea lo stretto dovere di tutti i comandanti militari di attenersi scrupolosamente ai loro compiti ed evitare qualsiasi apprezzamento sulle decisioni che spettano alle sole autorità civili ».
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I due fermenti opposti, africano e bianco, s'influenzano reciprocamente; non poco il primo contribuisce a far prevalere un orientamento di puntigliosa resistenza tra i bianchi, determinante è il secondo nel togliere ogni prospettiva agli africani sulla possibilità di evoluzione dell'animus coloniale belga.
Da ciò ne resta compromesso lo sforzo che il governo di Bruxelles imposta all'indomani degli incidenti allo scopo di riprendere in mano la situazione, attraverso una energica svolta alla sua tradizionale politica indigena. Le sue prime decisioni sono quelle consuete in simili circostanze; da una parte tenta, come si è visto, di scoraggiare con aspri mezzi coercitivi la corrente estremista e toglierle la possibilità di raccogliere le fila della sua organizzazione, dall'altra mira a soddisfare talune esigenze economiche e sociali degli indigeni che, secondo la sua diagnosi degli avvenimenti, hanno pesato sull'origine del moto di rivolta: sono prese misure per migliorare le condizioni di lavoro e i salari di certe categorie, sono annunziati programmi di lavori pubblici, viene incoraggiato il reinserimento nell'ambiente rurale dei lavoratori che desiderano lasciare la città, è dato permesso ai non europei di trasferirsi nei quartieri riservati ai bianchi, viene annunziata l'attuazione dal 1° gennaio 1960 d'un secondo piano decennale per 50 miliardi di franchi. Contemporaneamente Bruxelles procede a una revisione dei quadri amministrativi e di governo della colonia, sollecita il ritmo di lavoro d'un gruppo di studio per riforme nel Congo che è da tempo in funzione, promuove la ricordata commissione di inchiesta parlamentare.
Si rende conto però che in primo piano c'è un problema politico, e che non è possibile procrastinare nel tempo la decisione sul problema fondamentale, che è quello dell'inserimento degli indigeni nella vita politica della loro terra e della loro assunzione graduale di responsabilità di governo. La soluzione di questo problema è data, il 13 gennaio, da un programma esposto in un messaggio di re Baldovino e in una dichiarazione alla Camera del primo ministro Eyskens. È un programma sufficientemente chiaro nella sostanza ma espresso in forme « interlocutorie », tali da permettere successivi accomodamenti. Due sono gli obiettivi generali da esso
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espressi: evoluzione politica degli indigeni verso l'autogoverno, e creazione di una comunità belgo-congolese che assicuri la presenza duratura del Belgio nella vita del Congo e tuteli permanentemente gli interessi economici belgi nel Congo. Il messaggio del sovrano afferma: « È nostra ferma risoluzione di condurre, senza indugi dannosi ma senza precipitazioni sconsiderate, le popolazioni congolesi all'indipendenza, nella prosperità e nella pace... Pur non esitando ad approvare e assecondare le aspirazioni dei nostri fratelli neri, non possiamo tuttavia dimenticare che il Belgio, con 80 anni di servizi e di sforzi ha acquisito diritti incontestabili alla loro simpatia e alla loro leale cooperazione ». Nella dichiarazione del primo ministro si legge: «Il Belgio intende organizzare nel Congo una democrazia capace di esercitare le prerogative della sovranità e di decidere della sua indipendenza... Nell'interesse dei due paesi é auspicabile che al termine dell'evoluzione siano mantenuti vincoli di associazione fra il Congo e il Belgio ». Per l'attuazione del primo obiettivo é fissata la seguente tabella di marcia: elezione di Consigli comunali e territoriali alla fine del 1959; elezione di Consigli provinciali nel marzo 1960; subito dopo, elezione del Consiglio generale del Congo — abbozzo della futura Camera dei rappresentanti — e formazione di un consiglio legislativo corrispondente ad un senato. Per taluni, a Bruxelles, il programma brucia troppo le tappe, mentre per altri non tiene abbastanza conto delle esigenze sociali ed economiche. Nella colonia invece, come ho già accennato, per motivi diversi esso provoca, sia nell'ambiente africano che in quello bianco, perplessità e, in certi settori, aperta ostilità.
Ma il programma pone come prima esigenza la liberazione dei capi nazionalisti incarcerati, sia perché è la condizione per trarre tutti gli effetti psicologici verso la distensione degli animi che il programma governativo si propone, sia perché quei capi sono i soli validi interlocutori, capaci di dare col loro consenso efficacia pratica al programma stesso. Durante la sua visita nel Congo, il ministro Van Hemelrijk, dopo la ricordata esperienza con i rappresentanti dell'Interfédérale, va a chiedere in carcere a Kasavubu il parere sul programma governativo e gli propone un
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piano in vista dell'indipendenza. Il capo dell'Abako si dichiara favorevole in linea di principio ma fa osservare che prima di pronunziarsi definitivamente ha bisogno di consultarsi con i suoi amici. A metà marzo i capi indigeni sono liberati e si recano spontaneamente — almeno secondo le affermazioni del ministro del Congo — a Bruxelles per trattare sul programma di evoluzione politica del Congo.
Il Congo si trova ora in questa fase fluida di contatti, di polemiche, di prese di posizione, di gesti d'intransigenza, di sforzi di compromesso, nella quale gli interessi in giuoco tentano di prendere coscienza della nuova situazione e di far valere il proprio punto di vista. E indubbio che Bruxelles ha tuttora largo margine di manovra, ma la situazione diverrebbe difficile per essa il giorno in cui la manovra si dovesse orientare verso l'alterazione o la interpretazione restrittiva del programma del 13 gennaio, sulla spinta della tendenza da « 13 maggio » che si delinea tra la minoranza bianca residente nel Congo. La situazione entrerebbe poi in una via senza uscita il giorno in cui si cedesse alla richiesta di tale minoranza perché sia aumentata l'immigrazione bianca nel Congo. L'aver limitato l'immigrazione é stata una delle poche decisioni sagge della vecchia politica del Belgio riguardo al Congo. L'ex- ambasciatore statunitense Bowles racconta che, avendo chiesto al governatore generale belga cosa potesse far diventare comunista il Congo, quegli rispose: « One hundred thousand white Europeans settlers ». La scarsa entità del gruppo bianco é si una condizione favorevole perché sia meno aspro il processo di sganciamento del Congo dal regime coloniale, ma non é pertinente, nella affermazione riferita dal Bowles, l'idea implicita che, mantenendosi basso il ritmo di immigrazione, possa rimanere bloccato il problema di indipendenza. La realtà é che, più numerosa immigrazione bianca o meno, comunismo o meno, il Congo é entrato ormai nel gran movimento di decolonizzazione che domina l'Africa. Il movimento indigeno congolese può essere valutato in modi diversi, come forza politica, può apparire più o meno privo di centro di gravità organizzativo, caotico nei suoi interessi tribali, confuso nei suoi obiettivi nazionali, ma ha raggiunto in modo netto il momento di
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frattura psicologica col regime coloniale. Per incerti che possano essere i modi di convergenza concreti dei suoi impulsi, é certo che si tratta di solidi impulsi di emancipazione. Saranno le circostanze di lotta a esprimere le forze politiche più valide nazionalmente e gli uomini più adatti a esserne guida. E interesse del Belgio con- siderare il passaggio da un ordine di cose all'altro non come un tracollo delle sue fortune ma come una evoluzione, per nulla arbitraria, che può consentire l'ulteriore sua presenza, vantaggiosa per i suoi interessi, ove sia posta in atto una politica intelligente e flessibile, chiara e senza doppi giuochi.
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 38
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38


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