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tipologia: Analitici; Id: 1472493


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Tipologia Periodico
Titolo (9 Domande sul romanzo) Sergio Solmi
Responsabilità
Solmi, Sergio+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
SERGIO SOLMI
1) Sempre, quando si parla di crisi del mondo contemporaneo, o delle sue singole strutture, comincio ad allarmarmi. Troppo spesso l'evocazione della « crisi » appare un modo comodo di eludere i problemi affogandoli in una apocalittica indeterminatezza. Né si può parlare della « crisi del romanzo », cosi come si parla di crisi della produzione agricola, o di crisi in borsa. Estensivamente parlando, di romanzi, oggigiorno, in Italia, se ne stampano fin troppi. Né, in un senso generale, il romanzo sarà mai in crisi, perché l'attitudine al raccontare è ingenita nell'uomo, come quella al canto, o al disegno.
Tuttavia di crisi, in un senso assai più circoscritto, si può parlare sotto entrambi gli aspetti enunciati nella domanda. Dopo la guerra, non sono sorti che tre o quattro scrittori particolarmente
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notevoli, in aggiunta ai pochi che già si erano rivelati nel periodo precedente come romanzieri compiuti e significativi. Questo potrebbe anche voler dire che il « neorealismo » non ha mantenute tutte le sue promesse. Effettivamente, come opinavo, rispondendo una diecina di anni fa ad una inchiesta, mi pare della R.A.I., il « neorealismo », sorto dal bagno di esperienze aperte e drammatiche degli anni della guerra, dell'occupazione tedesca, della Resistenza, appariva troppo legato alla contingenza per avere radici profonde, e andare, pur negli esempi positivi, molto al di là di quegli elementi di schiettezza immediata, di freschezza descrittiva, di ingenua emotività che il pungolo dell'ora storica eccezionale aveva ridestato su di un piano abbastanza diffuso. Sicché, al pari della contemporanea esperienza cinematografica di quel nome, anche quella fioritura narrativa — spesso rappresentata da diari, o da diari appena trasposti in narrazioni —, fu di breve durata (a parte, beninteso, i pochi scrittori che, inizialmente sorti sotto quel segno, hanno avuto la forza di svilupparsi per vie proprie).
In un altro senso pure si può parlare di « crisi del romanzo », con riferimento stavolta al « ridimensionamento » operato su certi generi letterari (come, in altri campi, su certe forme dell'arte plastica o di quella musicale), da nuovi mezzi di comunicazione offerti dalla tecnica moderna, nonché dalla « standardizzazione » dei bisogni, e quindi dei gusti e dei correlativi prodotti, altro fenomeno costitutivo della nostra epoca. Innovazioni che hanno portato; per fare un esempio, alla morte di quella tipica creazione dello slancio romantico, e della sua intima e generosa fusione di letterario e di popolare, che fu, appunto, il romanzo « popolare » o « d'appendice » : e che appare essere stato sostituito, nelle sue finalità di svago e di « transfert » psicologico, dal cinematografo e dalla T.V., nonché da quei prodotti in serie che sono i romanzi polizieschi, i « fumetti », e le novelle sentimentali dei rotocalchi (i quali prodotti, rappresentando essenzialmente « estratti in scatola » di processi psicologici ed emdtivi tipizzati, sono necessariamente impressi da un sostanziale irrealismo — anche se per avventura intriso di elementi brutalmente realistici —, e sono perciò
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destinati ad operare una chiusura, anziché un'apertura, verso la vita, come è invece compito dell'espressione letteraria).
Se si pensa alla totale ostruzione dei canali verso il romanzo popolare tradizionale, propria della narrativa moderna (quei canali che mantenevano invece aperti grandi scrittori del secolo scorso, come Balzac, Hugo, la Sand, Manzoni, Dostoiewskj); se si pensa al completo tramonto dell'epica popolare ottocentesca nei suoi esemplari più riconoscibilmente letterari, da Walter Scott a Dumas Padre a Sue fino a Emile Gaboriau, e della fusione che essa operava di rappresentazione storico-sociale, psicologia e mito collettivo; se si pensa alla conseguente clausura e « aristocraticizza-zione » del romanzo (parallela, del resto, a quella della poesia, della musica e delle arti figurative), si avrà un aspetto di « crisi » su di un piano generale, del resto in atto da molto tempo.
2) Il romanzo cc saggistico » non è una novità nella storia letteraria. Il più o meno frequente intervento dell'autore nella narrazione, sia per trarre il succo morale della vicenda narrata, sia per consolidarne la verisimiglianza di prospettive mediante excursus descrittivi o storici, rappresenta già di per sé un atteggiamento « saggistico ». Si pensi all'abbondanza dell'elemento documentario nel romanzo picaresco spagnolo (ad esempio, nel Guzmán de Alfarache, le ampie digressioni sugli statuti dei mendicanti, o sulla vita dei forzati sulle galere), o alla ricchezza dell'osservazione psicologica generale in quello francese del '6 e del '700, o alla divagazione morale e precettistica in quello inglese del '700. Si pensi alla descrizione della peste nei Promessi sposi, o alle grandi parentesi storiche, sociali e filosofiche nei romanzi di Balzac o di Hugo; o, infine, alla sistematica inserzione di « saggi » fantastico-erudito-umoreschi in Moby Dick.
Bisogna giungere alle teorie del naturalismo, con la correlativa imposizione, per il romanziere, di un atteggiamento di spettatore indifferente, e il tentativo di infondere alla narrazione l'oggettività anonima della tranche de vie, per trovare bandito programmaticamente dal romanzo l'elemento morale, riflessivo, documentario, in una parola « saggistico ». Laddove nel romanzo classico il narratore non rinunciava, normalmente, ad assumere un
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proprio punto di vista, a fornire un'angolatura generale alla sua prospettiva, il romanziere naturalista — pur non giungendo, evidentemente, a realizzare il suo programma —, mira a trasfondere integralmente il proprio pensiero e sentimento, le proprie reazioni al mondo, nell'apparente anonimità del fatto narrato. Venne poi un tempo in cui, « consule Gide », si vagheggiò una più assoluta tendenza all'anonimità e impersonalità, e si tentò di elaborare un concetto di « romanzo puro », come pura successione e durée di fatti narrati, analogo a quello, che negli stessi anni si era andato dibattendo, di « poesia pura ».
Nulla dunque di più naturale che il romanzo si riavvicini alle sue antiche fonti, sia pure con modi radicalmente moderni, ossia più strettamente integrando l'elemento generale e saggistico alla narrazione, attraverso una prevalenza di procedimenti analitici e diffusivi, così come avviene, anche se in modi tra di loro incomparabili, in un Proust o in un Musil. Soltanto, non credo affatto che il romanzo « saggistico » sia destinato a soppiantare quello « di pura rappresentazione », proprio perché ritengo, all'opposto, che in un mondo di civiltà profondamente diviso come il nostro, sotto la spinta di un più intenso « farsi » storico, urtante contro pesanti resistenze tradizionali, una delle caratteristiche del romanzo, come di altre espressioni letterarie o artistiche, sia la coesistenza di diversissime forme e modi e ideali stilistici e morali.
3) Conosco e apprezzo alcune delle opere che vanno sotto il nome della scuola narrativa francese del « nuovo realismo », o « école du regard » (come l'ha chiamata Emile Henriot). Ma apprezzo assai meno le teorie con le quali i loro autori intenderebbero appoggiarle e giustificarle. Non mi sembra esatto affermare che un tale tipo di romanzo « volge le spalle alla psicologia », bensì che esso tende piuttosto a rilevarla in modi indiretti, o implicandola in movimenti e passaggi di ordine strettamente fisiologico, corporeo, o lasciandola indovinare mediante le tracce enigmatiche che la vicenda romanzesca ha lasciato sugli oggetti visualmente recepiti e descritti, o facendola scaturire per suggestione dall'apparente oggettività di un contesto dialogato ecc. A parte le differenze che presentano tra loro i vari scrittori censés di appar-
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tenere a detta scuola, e che rendono assai difficile escogitare per essi un reale denominatore comune (quale vero rapporto c'è fra Beckett, Butor, la Sarraute, Robbe-Grillet?), a parte le parziali somiglianze con modi del romanzo poliziesco (in ispecie nel caso di Robbe-Grillet), mi pare che quanto può vagamente apparentare quegli scrittori, e far pensare ad un atteggiamento, quanto meno' in una zona assai rarefatta, in certo grado comune, consiste nello sviluppo, in forme narrative, di intenzioni e modi già noti alla lirica francese degli ultimi decenni, diretti ad accentuare l'emozione, per così dire, obliterandola, e in realtà isolandola con reagenti negativi (vuoi d'indifferenza, vuoi di distrazione laterale, vuoi vagamente nostalgici, o scopertamente ironici), in maniera da presentare, per così dire, lo scavo in rilievo, o viceversa.
Roland Barthes, a proposito di Robbe-Grillet, ha accennato alla crisi della civiltà borghese, e della relativa psicologia, e, quindi, all'attualità di un « formalismo assoluto » (le dégré zéro de l'histoire). Ma anche questa tesi poco mi convince. La psicologia di un mondo in crisi non vuol dire assenza di psicologia, ma piuttosto ambiguità, contraddizione, che quindi può benissimo essere resa, magari in modi anch'essi ambigui e contradditori.
Perciò l'ultimo romanzo di Robbe-Grillet, La jalousie, che sembra intenda realizzare in pieno la definizione di Barthes, sopprimendo la psicologia mediante la soppressione dello stesso personaggio principale (ridotto a un ipotetico, astratto e innominato punto di vista attorno a cui ruota il racconto), resta un prodotto eccezionale, il risultato di una specie di scommessa, e in definitiva astratto e volontario. Mentre il precedente romanzo, Le voyeur, presentava, invece, nella forma indiretta di cui s'è accennato, l'evocazione di una realtà psicologica — sia pure bruta ed elementare —, destando di riflesso quella forza emotiva, senza la quale non si dà romanzo, né arte in genere.
Mi sembra poi che rientri solo di scorcio nella pur vaghissima definizione della « scuola », la recente Modification di Michel Butor, col suo delicato impasto di minuta percettività realistica, di alternanze e ritorni di episodi evocati mnemonicamente, e la ben preparata sorpresa di veder sfociare, alla, fine, la vicenda
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interiore del protagonista in un mito culturale, proiezione sognata di un mito interno.
A mio modo di vedere, il « nuovo realismo » ha comunque il merito di sperimentare energicamente prospettive inedite, sonde ancora impreviste nel Russo dell'esistenza: il che, in un'epoca di incertezza e di cambiamento, mi sembra essere inerente al compito stesso del romanzo.
4) Mi pare che neppure l'« io » del romanzo classico equivalesse in tutto e per tutto a una « terza persona », bensì venisse a costituire, per il narratore, un più sicuro aggancio al punto di vista prospettico. Dello stesso ordine sono gli espedienti usati dalla narrativa classica (e anche in epoche più recenti, fino al Conrad), di interporre, ad esempio, fra l'autore e la vicenda narrata la figura di un terzo, di un testimone ex visis o ex auditis, da cui si finge proveniente la narrazione. Espedienti elementari, diretti a garantire l'autenticità del tono narrativo ricollegandolo alle sue presunte fonti orali, o scritte.
La « terza persona » direttamente accampata, senza schemi o mediazioni, dal romanzo ottocentesco, presuppone una società più formata e consapevolmente articolata nelle sue strutture, un mondo di valori sufficientemente stabili, per cui la caratterizzazione iniziale del personaggio risulti evidente, spontanea, nel quadro di qualificazioni e caratterizzazioni sociali, di concetti e giudizi generali ben noti e inequivocabili al lettore, su cui l'originalità individuale possa stagliarsi con tutte le sue precise sfumature. La « terza persona » del romanzo d'oggi vive ancora sull'eredità di quel presupposto, con tutta l'ambiguità che essa implica.
L'autobiografismo della narratip„ odierna é invece segno d'una fluidità e incertezza di valori, data, fondamentalmente, da un mondo in rapida trasformazione, o, come si dice, « in crisi », per cui l'imperniarsi della narrazione sull'oc io » viene a costituire, per il romanziere, una garanzia di autenticità che altrimenti potrebbe riuscirgli dubbia (e, di riflesso, al lettore). Di fronte ad un mondo, a figure dai lineamenti deformati, mobili od equivoci, quale maggior sicurezza di verificazione che l'offrirli fluttuanti e dissolti, per così dire, nella esperienza c in fieri » di un protagonista, coinci-
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dente, in ipotesi, e talora addirittura in fatto, almeno parzialmente, con lo stesso autore?
5) Come è noto, anche da estetiche errate sono spesso uscite opere egregie. La particolare sterilità della formula del « realismo socialista » mi sembra dovuta al fatto che non si tratta già, in sé e per sé, di una dottrina errata, bensì di una dottrina che mira non direttamente al fenomeno artistico in quanto tale, ma lateralmente ad esso, al suo riflesso documentario o morale. L'acuto, per quanto in definitiva irresoluto, pensiero di Gramsci, condizionato in egual grado da crocianesimo e marxismo, ha toccato in anticipo il problema, con vigore impareggiabile, laddove, in Letteratura e vita nazionale, riconosce l'esistenza « di due serie di fatti, uno di carattere estetico, o di arte pura, l'altro di politica culturale, (cioè di politica senz'altro) », soggiungendo: « Che l'uomo politic,;) faccia una pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato mondo culturale è attività politica, non di critica artistica ». In altri temini, il concetto di « realismo socialista » non appartiene al campo delle poetiche, ma al campo della politica culturale. E lo stesso Gramsci, poco più in là, in quanto « politico », vagheggia infatti una « letteratura funzionale », alla stregua dell'« architettura funzionale », di cui già allora si parlava, senza nascondersi il carattere praticistico della « coercizione » e « pianificazione » occorrenti per farla sorgere.
Oggi, a più di vent'anni di distanza dalla morte di Gramsci, dopo aver constatato in atto la sostanza e i limiti del « realismo socialista », dopo di aver sviluppato, anche per una utilizzazione in profondo di altre correnti del pensiero moderno, una fenomenologia dell'arte assai più particolareggiata e complessa di quella che poteva ritenersi implicita nel grande chiarimento crociano, possiamo identificare il problema anche sotto un altro profilo. Sappiamo che l'opera romanzesca è, come ogni altra opera, letteraria o artistica, la risultante, la sintesi di un incontro del singolo con la realtà (e uso a bella posta, per comodità di discorso, questi termini grossolani, perché non si tratta, in effetti, né di un incontro né di una sintesi, ma di un processo unico di esperienza che si matura, coestensivo alla vita stessa dell'uomo-artista, e, a sua volta,
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al flusso della realtà-ambiente). Ora, le teorie del « rispecchia-mento », su cui si basa il realismo socialista, anziché far cadere l'accento sul momento della sintesi particolarità-oggettività (che é il momento della vera comunicazione, in cui l'esperienza singola si autentica, si universalizza nel lettore, come scambio fra individuo concreto così e così foggiato e condizionato storicamente, e altro individuo altrettanto concreto), lo fanno cadere sul momento astratto, avulso, della pura oggettività, o pura corrispondenza esterna alle strutture del reale. Sembrerebbero così configurare non già l'atteggiamento naturale dell'artista, ma un atteggiamento di cronista, nel migliore caso di storico, ma neppure in questi atteggiamenti, a rigore, si può prescindere dal momento particolare, soggettivo dell'esperienza in atto. Questa corrispondenza puramente oggettiva non può quindi risultare che un'ipostasi del reale.
Avviene allora, per la fatale conversione di ogni contenutismo in formalismo, che la parte di invenzione, di agio, di libertà dell'artista, dato il tema « pianificato » e strutturato esternamente, si rifugia nell'episodio, nella pagina, nella frase (ad es., la bella descrizione, la bella, o caratteristica, « tipizzazione »). Così la forma si scinde veramente dal contenuto, e si fa accademica.
In conclusione, se qualche opera che va sotto l'etichetta dei « realismo socialista » si é salvata, o si salverà, sarà sempre in virtù di un equivoco, di una più o meno casuale coincidenza con lo scopo propagandistico, polemico o dottrinale. E, nella sua stessa valutazione, interverranno sempre motivi elasticamente politici, ossia varianti a seconda dei movimenti di contrazione e di distensione imposti dalla situazione e dall'opportunità politica.
Gramsci osservava ancora: « Se il mondo culturale per il quale si lotta é un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà irresistibile, esso troverà i suoi artisti ». Gramsci assegnava quindi alla « coercizione » e al « piano » il compito di una specie di maieutica, per accelerare un processo storico necessario. Ma la realtà é sempre destinata a mostrarsi assai più complicata e difficile di quella sognata nella generosa visione del politico (e lo stesso Gramsci ha sovente perfetta coscienza di questa complessità). L'azione per la nascita di un mondo nuovo, che é fatto della
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volontà degli uomini operanti su di una storia padroneggiata solo approssimativamente e parzialmente, é sempre per fatalità laterale al progetto. D'altra parte il mondo nuovo é veramente nuovo anche per la sua prevalente quantità d'imprevisto. Qui é la debolezza del « realismo socialista », che, mirando alla realtà attraverso íI « piano », all'essere attraverso il « dover essere », ne sopisce e ne smorza i contrasti, e ne lascia sfuggire il più vero fondo.
6) Mi riferisco a quanto detto più sopra circa il « romanzo saggistico », della necessaria coesistenza, in un'epoca di rapida trasformazione, di diversi ideali e schemi e modi narrativi. Riesco perciò a concepire benissimo un ipotetico futuro romanzo fortemente contrassegnato da un denso « mezzo » linguistico (écriture artiste, linguaggio separato e individualmente elaborato, e magari d'invenzione personale, alla Joyce), così come un romanzo linguisticamente, stilisticamente spoglio, che « lasci parlare le case ». Parimenti, in altro campo, vedo la possibilità della coesistenza di un'opera pittorica intensamente « astrattizzata », e di un'altra apparentemente di forme tradizionali, entrambe nuovissime e a pieno livello moderno. Non ho mai creduto nelle mitologie formalistiche dell'avanguardia, ma molto alla intensità e pienezza dell'esperienza e dell'avventura personale, e alla loro istintiva concordanza coi motivi profondi del tempo.
7) Occorre distinguere. Alcuni scrittori di oggi, particolarmente del tipo « neorealista », usano il dialetto, o l'argot o lo slang nei dialoghi dei loro romanzi, nella sua funzione tradizionale caratterizzante e « localizzante », ossia come pura materia oggettiva, a scopo di individuazione realistica di ambienti e personaggi. In qualcuno — da noi C.E. Gadda —, tale funzione caratterizzante, pur sussistendo in una certa misura, diventa secondaria, e l'uso del meneghino o del romanesco, intellettualisticamente sottolineato, il più spesso coesistente con espressioni in lingua, e magari in lingua dotta, diventa, al pari dell'uso di terminologie e costrutti a volta arcaici, classicheggianti, tecnici, o accademici ecc., un espediente diretto all'ispessimento del mezzo linguistico.
Nel suo impiego tradizionale, tale ispessimento tendeva essenzialmente a finalità comiche, umoristiche, per effetto, ad esempio,
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di una gravità destinata a rilevare, per via di contrasto, una fatuità, un'assurdità. Nella nostra epoca, in cui le distinzioni classiche del comico, del tragico, del sublime ecc., si sono straordinariamente mescolate e rese irriconoscibili, le cose non stanno più allo stesso modo. Ma qualcosa di un tale carattere — una solidità, un equilibrio destinati a mettere in luce una mancanza, un disquilibrio —, si rivela anche nell'uso più moderno del mezzo. Il denso impasto linguistico e stilistico, col lavorio d'invenzione che esso implica, adempie, nel tono narrativo gaddiano, ad una funzione di schermo, di difesa, di maschera protettiva nell'affrontare una materia che l'autore sente troppo scottante e compromettente, e che un tono « normale » non sopporterebbe. O, se meglio si vuole, di una lente, nello stesso tempo ravvicinante e deformante, interposta fra l'occhio del narratore e i fatti narrati. Difesa di una intimità, solida testuggine protettiva nell'avvicinamento ad una estraneità. L'invenzione verbale e la dilatazione sintattica, con l'intensa messa a fuoco dei particolari, adempiono anche ad una funzione rallentatrice, di sosta e di preparazione — e quindi di sorpresa — in quel difficile processo di avvicinamento.
Tenuto conto di una simile complicata e tormentata disposizione al racconto, l'uso del dialetto, inserito in una struttura stilistica intenzionalmente sostenuta e imperturbabile, con le sue volute sintattiche auliche o indirette, entra anch'esso come espediente eterogeneo, solidificante nello stesso tempo che caratterizzante. Si tratta ormai di un dialetto per modo di dire, tanto le sue inserzioni sono cariche di responsabilità espressive. In codesta sua funzione « impropria » (e a parte quanto più intimamente si attiene alla personalità assai complessa del Gadda), l'uso del dialetto può anche ricordare la sua assunzione a félibrige da parte di certi poeti d'oggi (un mezzo tradizionale che diventa nuovo, in quanto impiegato ad esprimere sentimenti sottili e ombreggiati, che sembrerebbero dover sfuggire per principio alla natura arcaica, eguagliante, disindividualizzante, proverbiale dei dialetti. Ed é invece proprio all'ambiguità dell'effetto che é affidata la grazia individuante). Penso, in particolare, alle belle liriche friulane di P.P. Pasolini: del resto, anche l'uso del romanesco nella prosa di ro-
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manzo di quest'ultimo risponde, se pure con un più insistito vezzo filologico, ad una disposizione complessa, benché diversissima da quella del Gadda.
Va da sé, peraltro, che mi sembra estremamente improbabile un romanzo « pensato » e scritto integralmente in dialetto. Ritengo, anzi, che il destino di simili sopravvivenze dialettali sia legato alla progressiva fatale scomparsa dei dialetti.
8) Nonostante mi possano essere addotti alcuni recenti esempi contrari, o apparentemente contrari — ma essi dovrebbero venire attentamente analizzati uno per uno —, non credo molto a un'effettiva reviviscenza del romanzo storico, e meno ancora alla possibilità, oggi, di un romanzo nazionale-storico, nell'accezione precisata nella domanda. Per «ricostruire vicende e destini che non siano puramente individuali », appartenenti ad un « blocco » storico del passato, occorrerebbe una piattaforma ideale e ideologica presente assai più salda di quella che può essere consentita in un tempo di rapido mutamento e di conseguenza disorientamento, in cui è già difficile in principio, per l'artista, trovare la via di una propria qualsiasi autenticità. E intendo piattaforma ideale in un senso effettivo, costitutivo, come equilibrio di maturate esperienze e persuasioni interne, non già come adesione, pur sincera, a sistemi e dottrine. Oggi come oggi, penso che il romanziere possa sentirsi assai più intensamente sollecitato da aspetti e casi di vita contemporanea, e dai problemi che essi suscitano; e, naturalmente, di storia contemporanea, facenti anch'essi parte, direttamente o indirettamente, della sua esperienza o quanto meno della sua memoria. Posso tutt'al più pensare a un romanzo storico come « mascherata » storica, esprimente cioè, dietro una convenzionale ambientazione storica, sentimenti e preoccupazioni d'oggi.
L'ultimo punto di domanda: «vicende e destini... fuori dal tempo storico » penso alluda al romanzo utopistico, o d'anticipazione, o « fantascientifico ». Ma, per un tale tipo di romanzo, sarebbe necessario un gusto distaccato per il gioco delle ipotesi, per i problemi generali, che, se è spesso riscontrabile negli anglosassoni, e in qualche misura nei francesi, mi sembra esuli generalmente dalla natura eccessivamente concreta, sospettosa verso le
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« idee », impegnata d'istinto nella realtà immediatamente circostante, del letterato italiano. Si veda, ad esempio, come le innegabili qualità di estro fantastico e di garbo narrativo nei racconti di un Buzzati vengano fatalmente, il più spesso, ad ancorarsi a motivi spiccioli di costume, o addirittura a fatti di cronaca; angustiando i propri significati nell'angolatura di una moralità tradizionalistica e piccolo borghese. Maggiore apertura, mi sembra, in alcuni recenti racconti di Bigiaretti.
9) Non rispondo appositamente all'ultima domanda, perché la mia risposta avrebbe un senso solo se appoggiassi, o auspicassi, o prevedessi, l'affermazione di una forma o di una corrente di romanzo sulle altre. Poiché così non penso, e fra le mie predilezioni entrano indifferentemente romanzi cosiddetti realistici, o saggistici, o fantastici ecc., con solo riferimento alla forza e all'intensità della visione che essi esprimono, la mia risposta acquisterebbe il carattere ozioso e svagato di quelle alle consuete inchieste sui e dieci libri da salvare », e simili.
Se, tuttavia, qualche previsione mi é consentito di avanzare sull'avvenire del romanzo, dir) che, da molto tempo, si sono spente le epoche unitarie del romanticismo e del naturalismo, in cui si poteva pensare ad una produzione di opere salienti come prodotto di uno slancio espressivo in certa misura comune — anche a non voler parlare di vere e proprie « scuole ». Non credo neppure che siano da attendersi risultati da sforzi in direzione di una narrativa più intensamente autoctona e « nazionale », dato che i caratteri peculiarmente « nazionali » del romanzo si sono in buona misura indeboliti e confusi in questi tempi di Weltliteratur. Inoltre, come sono diventati incerti, da una parte, i confini fra il romanzo e il saggio, o il diario, così possono domani diven- tare, o ridiventare, incerti i confini fra il romanzo e la lirica, o fra il romanzo e il dramma ecc.
Da qualche decennio a questa parte, piuttosto, le opere di maggior significato apparse nel campo del romanzo mostrano caratteri spiccatamente solitari, e non lasciano dopo di sé continuatori, ma, tutt'al piú, epigoni e imitatori.
Evitandosi, dunque, di considerare il problema sotto riflessi
troppo tecnicistici o ideologici, si deve piuttosto comprendere lo sviluppo del romanzo come facente tutt'uno coi destini della letteratura in generale, identificantisi a loro volta questi ultimi coi destini stessi della storia. Da questo più ampio punto di vista, direi che non mi sembrano probabili in questo tempo mutamenti o rinnovamenti collettivi, ma che sia per ora da contare piuttosto, sul sorgere di opere genuine e solitarie, impegnanti un'intera esperienza di vita nella rivelazione di « spaccati » originali e nuovi della realtà, che ce ne agevolino quella più intensa presa di coscienza che é il fine unico di ogni letteratura.
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 38
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38


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