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tipologia: Analitici; Id: 1472490


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo (9 Domande sul romanzo) Alberto Moravia
Responsabilità
Moravia, Alberto+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
ALBERTO MORAVIA
1. — Il romanzo come genere letterario non é in crisi. Le tecniche narrative sono state sempre in crisi cioé in evoluzione; e il fatto che si scrivano oggi romanzi molto diversi da quelli di uno o due secoli fa dimostrerebbe semmai che il romanzo come genere é ancora in pieno sviluppo. Il paragone con il poema epico non è probante appunto perché il poema epico mori proprio per mancanza di sviluppi e di crisi, allorché si era fossilizzato in forme immutabili e convenzionali. Del resto il poema epico è durato più di duemila anni e il romanzo, nella sua forma attuale, conta appena trecento anni di età.
Ma il romanzo partecipa senza dubbio della crisi più generale di tutte le arti. Questa crisi, per dirla in breve, é quella dei rapporti tra l'artista e la realtà. I marxisti qui hanno buon gioco facendo notare che la crisi del rapporto tra l'artista e la realtà rispecchia fedelmente l'alienazione dell'uomo in regime capitalistico; purtroppo, però, il romanzo e in genere l'arte sovietica sembrano rispec-
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chiare anch'essi un'analoga e forse maggiore alienazione; con questa differenza, però: che l'arte occidentale riconosce l'esistenza del-
la crisi e la esprime con modi appropriati (come per esempio, per la musica, la composizione dodecafonica e per la pittura, l'arte astratta), mentre l'arte sovietica pretende invece di ignorarla.
Per tutti questi motivi bisognerebbe forse far risalire la crisi del rapporto tra l'artista e la realtà a cause più lontane e più sottili. Una di queste cause è senza dubbio la civiltà industriale alla quale partecipano in eguale misura così i paesi capitalisti come quelli comunisti. È probabile che la crisi delle arti sia in parte dovuta al carattere particolare della civiltà industriale la quale tende per sua natura, invincibilmente, a sostituire il prodotto artistico con quello industriale, sia direttamente con dei surrogati, sia indirettamente distruggendo le condizioni ambientali e psicologiche favorevoli alla creazione artistica. Se si considera infatti l'arte come un'altissima forma di artigianato (e lo è in certa misura allo stesso modo che ogni artigianato è una modesta forma di arte) si vedrà subito che essa, al pari dell'artigianato, è stata colpita a morte dalla civiltà industriale in tutti i prodotti destinati al consumo delle masse; prodotti che la civiltà industriale è in grado di fornire meglio e più rapidamente delle arti.
I surrogati che la civiltà industriale propone di sostituire al romanzo sono numerosi. Prima di tutto il cinema, poi la televisione, poi la letteratura fabbricata in serie cioè quella dei giornali, delle riviste a rotocalco, dei fumetti e degli estratti. Ma fermiamoci un momento sul cinema. Insieme alla televisione esso ha sottratto al romanzo territorii vastissimi, forse per sempre. È inutile enumerarli anche perché sono noti; si fa prima a dire ciò che è rimasto al romanzo che è precisamente ciò che la macchina da presa non sarà mai in grado di esprimere e rappresentare per la insufficienza e grossolanità dei mezzi di cui dispone. È evidente che il cinema non potrà mai dirci quello che ci ha detto Proust, tanto per fare un solo esempio. Ma che cosa vuol dire ciò? Vuol dire che il romanzo vede, ad un tempo, restringersi enormemente così il campo dei suoi lettori come quello dei suoi argomenti. O meglio: il romanzo, dopo essere stato per alcuni secoli il mezzo narrativo più popolare, é
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costretto, per forza di cose, a diventare un prodotto per pochi, un po' come il teatro.
Ma questi sono aspetti per così dire esterni del problema. Più intimamente, si potrebbe dire che ciò che il cinema e la televisione hanno sottratto al romanzo è la rappresentazione oggettiva della realtà. O per lo meno pseudo-oggettiva e naturalistica, che, ai fini del consumo, è lo stesso. Non è poco; e se il romanzo dovesse continuare ad essere quello che è stato durante il secolo scorso, quasi tutto.
2. — Il romanzo saggistico abbastanza curiosamente non ha niente a che fare con il romanzo a tesi dell'ottocento. Il romanzo saggistico nasce dall'evoluzione della tecnica narrativa e più precisamente dall'impossibilità e improbabilità della terza persona sostituita ormai sempre più spesso con la prima. Questa sostituzione, nella storia recente del romanzo, sta ad indicare il momento in cui la crisi generale delle arti ossia del rapporto tra l'artista e la realtà, colpisce anche la narrativa. Infatti: la terza persona sottintendeva la rappresentazione oggettiva e la credenza nell'esistenza dell'oggetto, credenza condivisa così dal romanziere come dal lettore. Ma dal momento in cui il rapporto con la realtà entra in crisi e la realtà stessa si fa oscura, problematica e inafferrabile, la terza persona si rivela come una convenzione, cioè qualche cosa che rende impossibile l'illusione e l'incanto della rappresentazione romanzesca. Ora le convenzioni sono sopportabili soltanto se fondate su qualche cosa di profondo e di reale. -La convenzione che faceva dire du- rante l'Ottocento: « Egli pensò» era fondata su una scala di valori che consentiva di credere all'esistenza di una realtà obbiettiva. Crollata questa scala di valori, dire: « Egli pensò » si rivelò come una convenzione vuota e insopportabile. Donde la necessità di dire invece : « io pensai » che risponde esattamente alla concezione attuale della realtà come qualche cosa che non si sa se esista e che, in ogni modo, esiste soltanto per ogni uomo preso singolarmente, caso per caso e senza pregiudizio di altre realtá del tutto diverse.
Ma la prima persona é un veicolo che consente l'indefinito allargamento e approfondimento del romanzo. Mentre infatti è
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molto difficile e comunque artificioso e spesso noioso far dire ad un personaggio in terza persona troppe più cose che non consenta la sua azione e soprattutto fargliele dire senza dare l'impressione di un indiscreto intervento dell'autore, é molto facile e del tutto legittimo che il personaggio in prima persona si abbandoni a riflessioni, ragionamenti e simili. La terza persona non consente che la rappresentazione immediata, drammatica dell'oggetto; la prima persona permette di analizzarlo, di scomporlo e, in certi casi, addirittura di farne a meno. Ma analizzare, scomporre un oggetto invece di rappresentarlo immediatamente e drammaticamente é già scrivere un saggio o per lo meno mescolare il saggio alla rappresentazione. Da questo nasce che i romanzi in prima persona sono spesso più o meno saggistici; e che il lettore il quale può trovare al cinema tutta la rappresentazione immediata e drammatica di cui ha bisogno, chiede sempre più al romanzo che esso sia anche saggio, ossia rappresentazione riflessa, mediata, indiretta. Curiosamente, i romanzi più saggistici sono quelli della memoria; ossia quelli in cui il personaggio che parla in prima persona, ricorda avvenimenti del passato. E si capisce subito perché: la materia dei romanzi di memoria per forza di cose é ordinata secondo un tempo ideale o ideologico che non é quello naturalistico delle rappresentazioni dirette e drammatiche. Questo tempo ideale o ideologico richiede un intervento continuo della riflessione, un commento continuo della ragione. Sotto quest'aspetto si potrebbe dire che La Rechèrche é tutto un immenso saggio.
3. — Robbe-Grillet e gli altri che in Francia vorrebbero un romanzo visivo, ossia un romanzo nel quale niente fosse contesta- bile e tutto fosse assolutamente sicuro appunto perché legato al più sicuro dei nostri sensi che é la vista, vorrebbero in fondo un romanzo in cui la realtà fosse disumanizzata, ossia restituita all'oggettività vergine e terribile che forse aveva prima della comparsa dell'uomo sulla terra. Robbe Grillet dice infatti: « È illegittimo e arbitrario scrivere "il mare sorride", perché il mare non ha una bocca e non può per questo, sorridere; é un tratto umanistico, si attribuisce al mare un carattere umano, ossia si fa una metafora. È legittimo invece dire "il mare é blu" perché lo é infatti, noi
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lo vediamo blu ». A questo si potrebbe rispondere prima di tutto che un daltonista vede il mare di un altro colore; e poi, che già il fatto di designare una vasta distesa di acque con il nome di mare vuol dire umanizzarlo, ossia che già il fatto di designare un oggetto con una parola vuol dire incorporare quest'oggetto in un mondo umano, sottrarlo all'oggettività anonima del mondo preumano o extraumano. In altri termini la parola « mare » é oggettiva soltanto in apparenza; in realtà essa umanizza ossia soggettivizza l'oggetto appunto perché lo nomina. Si tratterà, dunque, tutt'al piú, di porre dei limiti all'umanesimo, di non farci dimenticare, per esempio, che il mare ha proprietà e caratteri che non sono umani.
Così la proposta del visivismo ossia della riduzione della realtà a quello che percepisce la vista, può avere soltanto un valore polemico e di sintomo. Del resto anche la vista sceglie ossia esprime un giudizio. E se non si vuole che scelga, allora per descrivere, poniamo, una stanza, non basteranno diecimila pagine.
5. — Il realismo socialista é un tentativo statale e autoritario di risolvere la crisi delle arti secondo un'ideologia appunto statale e autoritaria. Non c'è peggiore teorico dell'arte dello Stato; e non c'è peggiore artista di quello che cerca di applicare le teorie dello Stato. E questo non tanto perché le teorie statali sull'arte siano errate (le idee del realismo socialista sono difendibili) quanto perché lo Stato per sua natura non può volere in ultima analisi se non l'interesse dello Stato, nel caso un'arte di propaganda. Ma il realismo socialista ha valore soprattutto di sintomo di una situazione che si presenta dappertutto eguale. Le soluzioni dell'arte astratta a occidente sono l'equivalente di quelle del realismo socialista a oriente. Come abbiamo già detto, le soluzioni occidentali hanno tuttavia su quelle orientali il grande vantaggio di essere più positive appunto in quanto sono più negative, ossia di riconoscere la crisi e partire da essa e non di nascondersela e pretendere di ignorarla.
6. — È difficile dare una risposta a questa domanda. Dal punto di vista della durata, si direbbe che abbiano più probabilità di essere letti in futuro i romanzieri che lasciano parlare le cose di quelli che vogliono prima di tutto essere scrittori e stilisti; e questo per la buona ragione che lo stile di uno scrittore, ancor più
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della personalità sovente rispecchia il gusto o la moda dell'epoca, che sono cose periture. D'altra parte il romanziere stilista, appunto perché rispecchia il gusto o la moda dell'epoca, é spesso piú apprezzato e ammirato dai contemporanei, del romanziere che lascia parlare le cose. Naturalmente queste due maniere di scrivere non sono fatti puramente formali, bensì determinati da modi di sensibilità originali e profondi; per questo é impossibile dire che cosa si debba o non si debba fare. Come sempre, in questi casi, c'è una soluzione e classica » che concilia i due opposti cioè lascia parlare le cose e consente di dirle da scrittori e stilisti. Ma quando mai si. é potuto definire in anticipo che cosa sia classico? La sola maniera di definirlo è di attribuire al termine un significato morale.
7. — All'uso del dialetto in Italia corrisponde sempre una crisi del linguaggio colto e dunque della classe dirigente. Non è un caso che i tre maggiori scrittori dialettali italiani, il Goldoni, il Porta e il Belli, sono raggruppati intorno gli anni della Rivoluzione Francese la quale trovò le classi dirigenti italiane del tutto impreparate e, in un secondo momento, avverse. L'uso del dialetto allora rivelò l'incapacità della lingua colta, giunta ormai ad un estremo grado di rarefazione e di aridità, di esprimere le nuove realtà che si venivano delineando in Europa. Analogamente l'uso del dialetto in questi ultimi anni sta a indicare la crisi della lingua colta e della classe dirigente italiana dopo la catastrofe del fascismo. Gli scrittori che oggi adottano il dialetto, lo fanno per vari motivi che tutti, esplicitamente o implicitamente, hanno a che fare con questa crisi. Alcuni adottano il dialetto per esercitare una presa maggiore sulla realtà, soprattutto su certe realtà popolari o provinciali: la loro sfiducia nella lingua colta ha un significato prevalentemente letterario e filologico. Altri adottano il dialetto per simpatia per l'umanità popolare e avversione per le classi dirigenti: la loro sfiducia nella lingua colta ha dunque un significato prima ancora che filologico, politico e sociale. Ma sia i primi che i secondi indicano la presenza di una grave frattura tra la classe dirigente italiana e la cultura, tra gli intellettuali e la borghesia. È evidente che la lingua é il linguaggio della cultura e il dialetto quello della necessità; ma si direbbe che oggi, da noi, molto spesso necessità e
cultura siano una sola cosa e che perciò l'uso del dialetto sia giu stificato e legittimo anche dal punto di vista culturale. Il che poi vuol dire che in Italia la classe dirigente é incapace di cultura; allo stesso modo che la cultura non ha la possibilità di imporre le proprie ragioni alla classe dirigente.
8. — A questa domanda vorrei rispondere a mia volta con alcune domande: é ancora possibile credere nella Storia? Possono ancora esistere storie nazionali in Europa ? E che storia é quella d'Italia, così fallimentare, piena di sconfitte che sono vittorie e di vittorie che sono sconfitte, con il Risorgimento che diventa fascismo, la Chiesa scacciata per Porta Pia che rientra per la finestra del Concordato, la società italiana che venderebbe l'anima al diavolo pur di sopravvivere fisicamente e il comunismo e l'atlantismo ? E ancora: non è forse significativo che nel maggiore romanzo storico che sia stato scritto in Italia, I Promessi Sposi, la storia non abbia alcun peso e sia soggetta alla Provvidenza ? E che nel Gattopardo, ultimo tentativo di fare un romanzo storico, la storia sia negata?
9. — I romanzieri che preferisco sono quelli che vuotano il sacco e dicono tutto quello che hanno da dire, fino in fondo, senza riguardi per il conformismo dei loro tempi e di quelli avvenire. Più particolarmente la mia preferenza va ai romanzieri « comici » di tutti i tempi: Petronio Arbitro, Apuleio, Rabelais, Cervantes, Gogol e altri.
ALBERTO MORAVIA
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32293+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1959 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 38
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1959 - 5 - 1 - numero 38


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