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tipologia: Analitici; Id: 1472460


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Alberto Caracciolo, A proposito di controllo e democrazia operaia
Responsabilità
Adorno, Theodor W.+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Zolla, Elémire+++
  • ente ; ente
  traduttore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Huxley, Aldous+++   Titolo:oggetto+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
A PROPOSITO DI CONTROLLO E DEMOCRAZIA OPERAIA
Non da oggi é venuto in prima piano per la sinistra italiana il problema della ricerca di una nuova politica, capace di consentire — nei modi adeguati alle nostre caratteristiche nazionali, ai dati dello sviluppo economico-sociale dei moderni paesi capitalistici, alle esperienze mondiali più complesse — una decisiva trasformazione socialista. La forza dimostrata ancora una volta dalle sinistre sul piano elettorale, e in pari tempo il rischio che esse restino eternamente bloccate in una situazione di attesa minoritaria senza riuscire a scalzare il sistema democristiano - conservatore, rendono ancora più pressante il problema dopo il voto del 25 maggio.
In questo quadro assume un pasto di rilievo l'esigenza di democratizzazione di tutti gli strumenti di classe e di azione politica socialista. Essa sorge dalla fabbrica, dove troppo spesso si é creato un diaframma tra le organizzazioni e la massa lavoratrice; sorge da tutto quanto il paese, dove l'alta percentuale dei votanti ogni due o cinque anni non può nascondere un'apatia e una rilassata partecipazione al quotidiano andamento politico; si presenta un po' in ogni luogo nelle forme di un preoccupante distacco tra dirigenza politica e lavoratori, fra rappresentanti e rappresentati, come dicono le cifre dei tesserati, dei lettori di giornale, degli attivisti. E un'esigenza che non si può scindere dal contesto di una generale ricerca di soluzioni corrispondenti alle spinte progressive e al superamento delle contraddizioni della società nazionale, ma che di tale contesto è parte specifica e insopprimibile.
Un interessante apparta a questa discussione é dato oggi, ci sembra, dalle proposte che da più parti vengono ad una rivalutazione dei motivi di democrazia operaia e di controllo diretto sulla produzione. Si é già detto e scritto parecchio negli ultimi tempi in ordine a tali problemi, e si è già riusciti ad approfondirli sotto diversi aspetti, indicando dubbi e conclusioni cui é dato arrivare: qui
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vorremmo procedere un poco nella ricerca delle effettive difficoltà che vi sono dinanzi alle proposizioni del controllo e della democrazia operaia, dei nodi che vanno affrontati quando si voglia consentire al movimento una più diffusa democratizzazione ed iniziativa creatrice di classe.
2. E veniamo subito a un primo grosso quesito, con il quale ci si deve misurare. Ridotto, se si vuole, un po' all'essenziale, esso suona così: « In una tendenza, com'è quella dell'epoca nostra, alla massima concentrazione, organizzazione, pianificazione di tutti i processi della produzione e della vita sociale, non è forse priva di senso e contraria allo sviluppo storico reale la ricerca di forme di controllo e di gestione sorgenti dal basso? ». Un quesito, come si vede, molto serio, che parte da una corretta valutazione delle tendenze generali dell'economia industriale contemporanea, sia nei paesi capitalistici, sia nei paesi dove il capitalismo è stato abbattuto, ed ha innumerevoli implicazioni sul terreno della scienza economica, della elaborazione giuridica, delle teorie politiche. Ha inoltre radici lontane nelle dispute sul mercantilismo, sulla democrazia, sull'interventismo economico dello Stato, e conseguenze complesse in tutto l'ampio discorso oggi in atto sui problemi di un piano economico centralizzato.
La prima risposta che si potrebbe dare su questo terreno è di ordine puramente ideologico, e come tale non varrebbe conto di menzionarla se non fòsse valida, peraltro, almeno a far riflettere quanti ritengono di dover scegliere le soluzioni politiche sulla base di un criteria di cosiddetta «fedeltà ai principi ». Tale risposta è in sostanza che il socialismo non sarebbe tale se non contenesse precisamente una valorizzazione di tutti gli elementi di autogoverno contra le forme democratico-borghesi di « delega» dei poteri, se esso non significasse rivalutazione della «società civile» rispetto all'imperio della « società politica ».
È anche vero che un'antica pubblicistica, che ha fatto breccia talora nel senso comune, attribuisce al socialismo e al comunismo la caratteristica del massimo accentramento politico-economico. Ma è chiaro come questo discorso confonda il fatto della direzione ra-
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zionale e sociale dell'economia con una concezione antidemocratica del potere che non c'é né in Marx, né in Lenin, né in nessuna parte della letteratura marxista, neppure nelle interpretazioni della formula « dittatura del proletariato ». Persino Stalin, sotto la cui direzione nell'Unione Sovietica si é sbandato verso il centralismo burocratico, esaltava sul piano teorico il sistema in atto come massima espansione di democrazia diretta, egli economisti spiegava, in un famoso scritto, non doversi ricercare la caratteristica del socialismo nella pianificazione, che non ha di per sé alcun significato rivoluzionario. Come ci ammoniva Antonio Gramsci, potere socialista significa anzitutto valorizzazione di tutti gli istituti e le istanze di democrazia dal luogo della produzione al vertice dello Stato. E al limite, troppo dimenticata dai comunisti « ortodossi », sta precisamente la estinzione dello Stato, e una società nella quale, per dirla con Lenin, « tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno essi stessi la produzione sociale ».
3. Si potrebbe a lungo continuare nella citazione dei luoghi e degli autori in cui l'idea socialista si afferma come massima liberazione delle energie produttive e umane, come sistema nel quale lo Stato, l'esecutivo, la pubblica amministrazione, perdono la loro qualità accentratrice e oppressiva, e si crea il più vero governo di popolo. Ma non faremmo che ripetere cose ovvie, rischieremmo di cadere nella banalità. Non é forse in questa rivendicazione libertaria, del resto, una delle ragioni della grande forza morale acquistata dal movimento operaio in questo secolo di alienazioni e di tirannidi?
Le risposte decisive si devono dare, invece, non sul piano di una interpretazione di idee generalissime, né sul piano di una esegesi di testi. Siamo di fronte a un preciso quesito scientifico, che va risolto di volta in volta con le armi dell'osservazione e della previsione scientifica di fenomeni determinati. E qui sarà possibile, in tal senso, suggerire almeno alcuni temi e qualche risposta.
Una cosa, innanzitutto, sembra da sottolineare: e cioé come la scienza economica contemporanea sia lontana dal ritenere che il problema dello sviluppo economico possa ricondursi a nn proble-
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ma di massima organizzazione dall'alto delle forze produttive. Confidare ad un organismo centrale le leve di un estesissimo patere di pianificazione non fornisce ancora la garanzia della migliore efficienza neppure sotto un profilo strettamente tecnico. Come è noto, anzi, su questo punto, e cioè sugli elementi di sensibilità che possono indirizzare di volta in volta le scelte della pianificazione, non da oggi è in atto la discussione fra specialisti.
Determinati errori, anche seri, di squilibrio, di spreco e sacrificio registrati nelle condizioni di accentrata pianificazione polacca e ungherese, sovietica e jugoslava, hanno ancor più richiamato negli ultimi anni l'attenzione sulle maniere in cui controllare la funzionalità del K piano » elaborato centralmente, allorché manchino i tradizionali contrappesi della domanda e dell'offerta. E da una critica a questi errori, precisamente, si è partiti in Jugoslavia per combinare il piano con le richieste periferiche degli organi di autogestione; in Unione Sovietica nell'estendere a consultazioni decentrate la determinazione dei piani pluriennali; in Cecoslovacchia, in Polonia, in Cina, più o meno timidamente resuscitano istituti di fabbrica o assemblee di produzione. Sul terreno più propriamente scientifico, a contrastare le tendenze per le quali il piano consentirebbe di superare arbitrariamente le leggi economiche, si è passati anzi a rivalutare, in questi stessi paesi, elementi della legge del valore regolatrice delle economie mercantili.
È questa nel suo insieme una grossa discussione, che le esperienze più recenti, con le loro luci e le loro ombre, permettono forse di giudicare matura per importanti avanzamenti. Di essa è possibile mettere in evidenza almeno una constatazione: che cioé la pianificazione socialista, nel momento stesso della sua evidente efficacia in un sistema di produzione sempre più sociale com'è quello generato dall'industrialismo contemporaneo, è soggetta a degenarazioni qualora non venga accompagnata da un sistema di controlli democratici. In campo marxista, la polemica condotta dai trotskisti contro il cosidetto K centralismo burocratico », contro il « capitalismo di Stato », contra i regimi di apparato, aveva mostrato da qualche decennio una certa sensibilità a questo ordine di problemi. Un paese importante, come la Jugoslavia, ha successivamen-
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te sviluppato sul proprio corpo una critica dello stesso genere, rivoluzionando il sistema di pianificazione, i poteri di gestione diretta, i modi di intervento politico della classe operaia. Le più recenti riforme in Unione Sovietica dimostrano se non altro che anche i successi di edificazione economica li registrati durante quarant'anni non eliminano un problema di metodo di pianificazione, di controlli, e in ultimaanalisi_di .democrazia economica e politica. Al quale a loro modo non sono neppure estranei, per altro verso, i paesi a direzione laburista ed altri, come l'India, nei quali si ricerca nel « piano » un rimedio all'arretratezza.
Il mondo attuale sembra di null'altro preoccupato, a prima vista, che di una corsa allo sviluppo economico, all'accrescimento tecnologico e di potenza. Se veramente di questo genere fosse la « competizione pacifica » fra gli stati e i blocchi di stati, essa però avrebbe ben poco interesse per un socialista. In realtà, al di là della corsa alla supremazia, i fatti si incaricano di richiamare ogni tanto all'unico significato di una sana competizione: la ricerca di quale tra i sistemi possibili riesca più armonicamente a risolvere non il problema della quantità della produzione e quantità né quello, a sé preso, dei ritmi della produzione, bensì quello del soddisfacimento dei bisogni crescenti degli uomini. Perché è anche vero come ricordava Luciano Cafagna in un articolo su Passato e Presente che si può avere talvolta in economia molto « dinamismo », ma « cattivo dinamismo », cioé in definitiva né tecnicamente efficiente né realmente socialista.
4. Analogo, parallelo discorso, può esser fatto, ci sembra, sul terreno degli istituti politici. Si dice che la logica dello Stato moderno sia quella dell'accentramento massimo, in rapporto alle crescenti esigenze della vita associata. Ricorderò fra i tanti uno scrittore francese di un secolo fa, il Dupont White, che affermava perentoriamente: « Le progrés developpe la vie...A' plus de vie il faut plus d'organisations, á plus de force, plus de règle; or, la règle et l'organ d'une société c'est l'Etat ». E utopisti e retrogradi, apparivano fin da allora i critici, pur numerosi, di questo processo, gli esaltatori dell'individualismo contra lo strapotere dello Stato. A
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maggior ragione sociologi, giuristi, filosofi si trovano oggi a fare i conti con questa problematica: talora accettandolo, più spesso forse deplorandolo, essi sono costretti a riconoscere il crescente accentramento di poteri nelle mani di pochi « tecnici » o burocrati o specialisti della politica.
Ma anche rispetto a questa legge di tendenza emergono nello stesso tempo limiti e contraddizioni. E lasciando stare, per quanto diffuse, le deplorazioni moralistiche, almeno uno di questi limiti vogliamo segnalare, che risiede nella crescente emancipazione delle idee e delle capacità politiche creata dall'assetto democratico-bor- ghese e dalle stesse istanze ché la vita industriale moderna comporta. Il centro dello Stato si trova continuamente a fare i conti, proprio nei paesi più evoluti, con le esigenze di autodecisione di strati importanti di cittadini, fino a ieri politicamente e socialmente assenti. Per la classe dirigente il problema del consenso diventa pressante come forse non era mai stato, a causa dell'estensione che deve raggiungere e dei tentativi di autonomia con cui si scontra. E siamo all'immenso sforzo di.propaganda, di orientamento psico- logico, di « human relations », di mobilitazione delle idee attraverso ogni forma di scrittura e di spettacolo, di cui l'America ha oggi il primato: sforzo non soltanto odioso, ma probabilmente inetto a controllare la situazione a lunga scadenza, di fronte alla esigenza del cittadino di trovare logica spiegazione ad ogni sviluppo dei fatti nei quali si trovi implicato.
In questo senso hanno ancora posto, dinanzi a un mostro tentacolare quai ê lo Stato moderno, istanze di autonomia e di autogoverni, cheparrebbero a tutta prima anacronistiche. Esse diventano anzi, a nostro avviso, una importanteleva rivoluzionaria nei paesi ad alto accentramento politico su base burocratico-parlamentare, tra cui`"l'ffátia stessa. "Nei q taiirc"tanto più facilmente strati so áTf diiftusi partecipano alla rivolta contro il sistema, quanto piú questa si presenta non come portatrice di possibili nuove deleghe di potere, bensì come apertura di una età di massima espasione civile: di una eta, per dirla con una espressione che ha ormai molto corso, la quale dia luogo alla « socializzazione », oltre che dei mezzi di produzione, delle leve stesse del potere politico.
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5. In modo meno rapido converrebbe esaminare questioni di così grande rilevanza, sulle quali si arrovellano e si provano in ogni paese socialisti, pensatori, dirigenti politici. Ma esse ci dicono, già sfiorandole, che la tendenza al decentramento, all'autogoverno, e alla democrazia diretta non si può, nell'attulale fase storica,con-siderare út6pisstiel e e irreali, ma corrisposi ad una delle necessità che la società contemporanea ripropone per il proprio armonico sviluppo. Da questa considerazione generale ci sarà lecito prendere le mosse per indagare in che senso e in che misura simili istanze possano anche nell'Italia della seconda metà del XX secolo proporsi concretamente.
Non ce lo possiamo nascondere, anche tra noi tutto sembra procedere in un modo che scoraggia orientamenti di tal genere. Di fronte a noi, o se si vuole sopra di noi, vi è un sistema ben con-chiuso, pesante, che sembra destinato a soffocare le energie non conformiste, nella politica come nell'economia. Contro di ciò non é che manchi resistenza o ribellione, ma le stesse forze organizzate della sinistra, che ne dovrebbero essere a capo, sembrano aver preso qualche cosa dai loro nemici. Non riescono ad essere i luoghi del più vivace, continuo, critico e creatore fermento di idee e di energia nuova. Accolgono troppo spesso il burocratismo, il tatticismo, le soluzioni di comodo. Al Leviathan statale di oggi sembrano portati a contrapporre più c e aí t?rai'immaglñé di `ún altro Leviathan del doman socialista sia pure, ma .nel quale ancora una volta si imporrà il criterio della delega a una élite del potere. E intanto si avverte di essi l'immobilismo, l'impovërimentö dei'välori e del sostegno cosciente e e masse.
Uri cämbiamento tuttavia non solo non e impossibile, ma sembra rispondere ad esigenze di fondo della società contemporanea. Nella concreta situazione nostra una ripresa di democrazia operaia e di impegno socialista sembra aver bisogno in sostanza di muoversi lungo una triplice direzione per trasformarsi in una spinta effettiva: ha bisogno di far progredire una teoria per la_con- quinta del socialismo in « paesi _come l'Italia»; di farespa dere istituti e strumenti di controllo sulla produzione e di intervento
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democratico sul potere; di dar luogo a una coscienza e a un indirizzo
criticamente adeguata in sede partitica e sindacale.
6. Non mi fermerò qui sul problema della teoria: non perché sia di poca importanza, ma perché di tale profondità che si gioverà piuttosto, e già si è giovato, di apporti particolari, puntuali, tratti dall'osservazione e dalla comparazione di singoli fenomeni.
Accennavamo in altro luogo recentemente, riprendendo osservazioni diffuse, di quale portata sia il problema di uscire dagli schemi dell'età di Marx o dalle soluzioni proposte al tempo della rivoluzione russa, in un momento di cristallizzazione delle idee secondo confini che quasi ripetono i grandi blocchi mondiali contrapposti. Pure il problema esiste e dobbiamo dare atto al movimento comunista in Italia di avere in qu khè misura conservato _ per anni — quell'autonomia di pensiero che permetteva a Gramsci le sue analisi delle vie della rivoluzione italiana. Ma anche qüësto sforzo si è disperso tra il conformismo internazionale, dopo aver contribuito a suggerire almeno la formula di una via democratica che passi attraverso le « riforme di struttura », formula da cui prende le mosse ormai tutta la sinistra socialista. E non sappiamo fino a che punto il Partita socialista da solo si saprà supplire.
Il fatto è che non si può più fermare a queste formule, oggi, né è possibile rifarsi all'originale pensiero gramsciano o restaurare una presunta ortodossia marxiana o leninista per ricavare una strada efficiente al socialismo. L'essenziale è partire dall'osservazione di come si è venuta strutturando negli ultimi decenni la società italiana e, in pari tempo, dei paesi come l'Italia, nei limiti in cui l'analogia sia possibile; accompagnando ed in parte anche precedendo l'azione politica se non si vuole che tradizione, esperienza, attaccamento delle masse, si esauriscano in una battaglia senza prospettive.
7. Al problema della teoria si ricollega immediatamente, ci pare, quello degli istituti e degli strumenti d'azione del movimento operaio. E vi ricollega, in primo luogo, perché la esistenza di forme di controllo sulla produzione ha grande valore per la cono-
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scenza del fatto economico, dall'azienda al mercato: conoscenza che per alcuni racchiuderebbe per intero il problema del controllo. Ma forse questo limite é ancora insufficiente. Perché nel logorarsi degli strumenti propriamentte parlamentari o esclusivamente partitici, dalle forme del controllo e della democrazia operaia sembra prendere consistenza l'idea stessa di una via democratica al socialismo.
Significa, quando diciamo questo, che si voglia con un gioco della volontà o dell'immaginazione, dar vita d'un tratto ai Consigli di fabbrica gramsciani o alla piramide dei Soviet leniniani, dai quali nascerà finalmente il potere socialista? Non di ciò si tratta, evidentemente. Non abbiamo nessuna intenzione di formulare schemi per un nuovo « sistema » di istituti, ben congegnati orizzontalmente e verticalmente, con i loro statuti e regolamenti elettorali, come faceva nel 1920 Nicola Bombacci col suo progetto di Soviet. Quel che occorre é rivalutare, fondandosi sull'esperienza, sulla tradizione, culle forze e le sollecitazioni in atto, tutti gli elementi autogoverno e di controllo diretto presenti alla base; é indirizzarsi con i lavoratori dell'azienda e con tutti i possibili apporti tecnici e intellettuali, alla ripresa dei motivi di intervento diretto sulla produzione.
Così posta la questione resta soprattutto, ancora una volta, da applicarsi allo studio determinato dei fatti dell'azienda e del movimento operaio. E qui ci limiteremo a richiamare la attenzione su alcuni istituti e momenti non ancora lontani alla nostra esperienza.
Cose molto importanti ci può dire per esempio la Resistenza antifascista e l'esperienza dei Comitati di liberazione dove, malgrado le interpretazioni strumentali e « diplomatiche » talvolta date dai partiti, si esprime un momento di eccezionale capacità creativa di popolo. In essa la rofonditá della crisi dello Stato pone all'or-
dine del giorno edificazione di un sistema originale, d iverso da
un semplice ritorno al prefascismo. L'apporto unitario di masse ingenti, al di là delle divisioni di colore politico, si fa suscitatore di forme di democrazia diretta. Persino le forti inclinazioni alla partitocrazia in senso stalinista, presenti specialmente tra i comu-
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nisti, di fronte alla magnifica espansione popolare si sperdono in gran parte, se non a Salerno e a Roma, certo nel vivo della battaglia partigiana.
Non ci interessa qui tanto il problema della solidarietà fra i partiti antifascisti, minata dal resto anche da tendenze poco unitarie. Ma ci interessa il genuino spirito di eguaglianza fra tutti i combattenti, invalso in numerose formazioni garibaldine, pur nella scelta di una piattaforma assai avanzata di rinnovamento. Ci colpisce la spinta al fronte unico che dal basso fa superare lacerazioni e riserve. E richiama la nostra attenzione il fiorire di embrioni di potere popolare intorno alla guerra partigiana e nelle zone libere, che ha un significato tutt'altro che contingente.
Si comincia dalle fabbriche, nei grandi scioperi del marzo 1943, con i comitati unitari, che stanno quasi a dimostrare `l'impassibilità, senza una rinascita di democrazia operaia, del fatto rivoluzionario. La ricostituzione delle Commissioni interne secondo l'accordo Buozzi-Mazzini, all'indomani del 25 luglio, va anch'essa nella interpretazione dei lavoratori, ben oltre le competenze regolamentari. E di 11 prendono vita quei Comitati di agitazione e C.L.N. aziendali che in molti luoghi tengono in mano la Resistenza fino alla Liberazione.
Non solo nelle fabbriche, ma in ogni altro luogo, si fa luce fra i motivi centrali della lotta antifascista l'aspirazione a determinare dal basso la organizzazione del potere politico. E un'aspirazione, una volontà di cui ognuno di noi ha memoria, testimoniata dalla letteratura partigiana, applicata persino negli organismi di combattimento. Essa si esprime attraverso la elezione di comandanti e commissari, la consultazione politica di massa, un egalitarismo fra combattenti e capi assai più consono ai tempi eroici della Rivoluzione russa che alla rigida gerarchia dell'esercito di Stalin.
Uno degli elementi di frattura fra Nord e Sud alla fine della guerra risiederà proprio nella viva coscienza del movimento Alta Italia di avere in se medesimo i germi di un nuovo potere che nasce luogo per luogo, vallata per vallata e fabbrica per fabbrica, di fronte al potere di democrazia tradizionale, largito dall'alto ed estraneo alle esigenze di autogoverno espresse dalla lotta armata, che
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si vede proporre da Roma. La polemica delle « cinque lettere » fra i partiti del CLNAI, nell'inverno 1944-45, ci dà il senso di quanto una simile spinta dal basso si facesse sentire in tutte le formazioni socialiste. Fú primo il Partito d'Azione a lanciare il richiamo alla creazione di uno Stato nuovo, retto su istituti nati non da rapporti fra partiti, ma dalla democrazia diretta. Il Partito comunista si mostrò sensibile a queste idee, respingendo la possibilità di prolungare una sorta di « monopolio dei partiti » sui C.L.N. E i socialisti poterono egualmente far valere, su questo terreno, le loro tradizionali posizioni non conformiste. Ognuno avvertiva di non godere di « deleghe » permanenti, ma doversi fondare sul consenso e il controllo ininterrotto delle grandi masse: di dover rispondere al genuino spirito della resistenza.
8. Ancora di li, da quello spirito e da quella realtà, nasceva il movimento dei Consigli di Gestione. Annegato il padronato nell'ambiguità politica se non apertamente nel collaborazionismo, attraverso il sindacato le maestranze si proponevano unite non solo alla direzione aziendale, ma all'assunzione della responsabilità direttiva nazionale.
Non ci sentiamo di affermare che i Consigli quali vennero riconosciuti dal decreto 25 aprile 1945 del CLNAI abbiano poi assolto, specialmente col passare dei mesi, a tutto quanto l'iniziativa dei lavoratori attendeva da loro. Sulla valutazione della loro esperienza del resto si sta sviluppando da qualche tempo un interessante ripensamento critico. Malgrado differenze di compiti e di at- titudini fra Consiglio e Consiglio, malgrado interpretazioni diverse che ne davano i partiti ed oscillazioni fra un settarismo operaistico e un collaborazionismo con le direzioni d'azienda, essi tuttavia rispondevano sostanzialmente a quella esigenza dell' autonomia dei produttori già cara a Gramsci. Nel sobrio linguaggio di un documento di governo, la relazione del ministro Rodolfo Morandi riassumeva felicemente questo significato: « Spesso, fuggiti o dispersi i dirigenti, furono i Consigli di gestione a prendere in pugno le imprese. Ma anche dove gli avvenimenti non si svolsero in questa forma estrema, l'intervento dei Consigli di gestione valse a ranno-
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dare e a stringere le disperse e scomposte fila delle organizzazioni aziendali, frenando eccessi spiegabili per l'eccezionale contingenza, e infondendo ai dipendenti un'altissima consapevolezza ».
Dobbiamo ricordare che i Consigli si muovevano in una fase di equilibrio economico molto instabile. Dal punto di vista produt-
tivo, per un paio d'anni dalla liberazione, le imprese per la mag-
gior parte vissero alla giornata, senza impiantare programmi a lunga scadenza. E in mancanza di alti profitti le direzioni lascia-
vano di buon grado agli operai una parte di responsabilità, salvo a riprendere i pieni poteri col profilarsi di una ripresa. I Consigli di gestione si trovarono di conseguenza risospinti ad una prevalente azione di vigilanza sugli interessi della maestranza, o di rappresentanza della volontà politica dei lavoratori di fronte al potere industriale, confondendosi con gli altri organismi di fabbrica: sindacato, cellula, commissione interna. E si trovarono poi indeboliti e disorientati quando l'economia cominciò a ristabilire la propria dinamica, e lo Stato apparve rinsaldato, fuori della fabbrica, nelle sue strutture tradizionali.
I partiti, anche quelli di sinistra, non mostravano malta attenzione verso il movimento, tutto concentrando in altri settori e in altre battaglie. Il principio estremo dell'autogestione, del quale del resto è lecito discutere il significato in una fase di permanenza della proprietà privata dei mezzi di produzione, era affermato quasi soltanto dal Partito d'Azione, debole fra gli operai, e da Lelio Basso sulla rivista « Socialismo ». I'l Partito comunista oscillava fra una concezione tecnicistica ed una più estesamente politica, per la quale avrebbe voluto fare dei Consigli un'ulteriore roccaforte della propria influenza diretta. Ancora un po' diverso il pensiero ufficiale del Partita socialista, incline ad attribuire a questi istituti piuttosto una funzione di controllo che di gestione. « Il Consiglio — sosteneva la relazione Saraceno al congresso del 1946 — è per noi principalmente l'organo di base, l'organo periferico del controllo democratico della produzione. Ma un controllo periferico presuppone necessariamente un controllo centrale, un'economia regolata, un minima di pianificazione. Dobbiamo quindi concepire i Consigli di gestione come organi di sburocratizzazione periferica contro i pe-
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ricoli del socialismo di Stato, burocratico e centralizzato e in sostanza antidemocratico ».
La situazione spinse i Consigli, piuttosto che a diventare organi di sburocratizzazione, a burocratizzarsi essi stessi. Una seria responsabilità hanno in questo i partiti, e in primo luogo il Partita comunista, incline a considerarli più che altro come strumento accessorio di un'azione che si sarebbe decisa senza toccare la fabbrica, in sede politico-parlamentare o di generali movimenti di masse. Il colpo di grazia, come si ricorderà, fu dato al momento del « Fronte democratico-popolare » del 1948. I Consigli di gestione vennero convocati a un congresso chiaramente preelettorale, che consegnò il movimento nelle mani dei dirigenti di partita segnando, nella pratica e nella coscienza stessa dei lavoratori, la fine di ogni suo autonomo significato.
9. Caduto lo « spirito della resistenza », dissolto il movimento dei Consigli di gestione, relegate nella storia queste esperienze e nella lontananza i tentativi di autogestione nei paesi dell'Europa orientale, non manca chi ritiene sepolta con ciò tutta intera l'esigenza consiliare e di controllo dei produttori sulla produzione. Ma ancora qui, nella realtà dell'oggi e nella realtà nostra italiana, si ripropongono spunti che indicano il permanere di queste esigenze e il manifestarsi di esse in forme non solo embrionali.
Procediamo, una volta ancora, per rapidi accenni. Ma almeno sull'istituto della Commissione interna e alla presenza del sindacato dobbiamo richiamare l'attenzione. Nelle Sett& tesi sul controllo, presentate da Panzieri e Libertini su « Mondo Operaio », viene riconosciuto il significato unitario e preliminare di questi organismi, ma troppo alla svelta, ci sembra, se ne esclude l'attitudine a partecipare all'azione tipica del controllo, perché lontana dai loro compiti statutari. Per il posto che oggi occupano nella fabbrica, per il loro carattere unitario di rappresentanza, per il loro carattere elettivo e non burocratico, é lecito chiedersi se non risieda nelle c. i. il nocciolo di una ripresa nella fabbrica, anche se domani fosse necessario un più ampio rivoluzionamento di istituti sindacali e aziendali.
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Le recenti battaglie popolari offrono anche altri esempi di democrazia e di unità sorgente dal basso, che male si fa a dimenticare: pensiamo ai tanti comitati formati per l'una o l'altra rivendicazione di quartiere e di categoria, dei comitati meridionali di « rinascita », delle assemblee di inquilini, di consumatori, dei H padri di famiglia » nei villaggi, e via dicendo. Chi vi ha partecipato conosce il genuino slancio che spesso ha dato origine a queste iniziative, il senso che da esse promanava di poter decidere, in qualche misura, di se stessi con le proprie stesse forze. E prima ancora di vedere le ragioni che hanno ogni volta immeschinito e strumentalizzato simili iniziative, un'altra di queste vogliamo porre in risalto, vale a dire le conferenze di produzione.
Ora sostenute, ora dimenticate in sede di partita e di sindacato, le conferenze di produzione non sono del tutto venute meno ancor oggi nella pratica del movimento di fabbrica. Non confondiamole con le assise di questo o quel settore in crisi, promosse di solito alla vigilia di una consultazione elettorale. Nel loro significato originario esse rimangono l'occasione tipica nel quale la maestranza
operai, impiegati, capi, tecnici — viene a contatto con i problemi della produzione nel suo complesso, esercita su di esse la propria critica, e ad esse possiamo guardare ancora con interesse.
10. Non abbiamo accennato quasi per niente, finora, ai massimi strumenti di raccolta e direzione del movimento operaio: partito e sindacato. Ma è pensabile forse che specialmente in una situazione come la nostra, con un grande accentramento dell'organizzazione in mano a questi strumenti ed anzi prima di tutto ai loro apparati, una profonda democratizzazione possa svolgersi al di fuori di essi? È pensabile che essa non debba riguardare in modo diretto, decisivo, i partiti politici?
Di ciò parliamo solo a conclusione del nostro discorso per la semplice ragione che vediamo la spinta rinnovatrice nascere prima di tutto dalla classe, dal luogo di lavoro, e ci pare giusto che appunto lì venga svolgendo i suoi primi tentativi, di li eserciti la sua pressione. Ma é anche chiaro che ad una rivalutazione dei motivi del controllo e del decentramento politico vanno conquistati i par-
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titi, se si vuole mutare un costume che oggi imbriglia tutte le iniziative autonome e «irregolari ». Bisogna distruggere il mito, l'abitudine a una gerarchia nella quale il partito diventa l'incarnazione di ideali, programmi, collocazione sociale, affetti di ciascuno; la critica al partito e ai suoi dirigenti diventa attacco e tradimento. Anche il «culto della personalità» e gli eccessi burocratici hanno potuto prosperare solo grazie a questa mitica costruzione dell'idea di partito di cui siamo giunti a leggere, in una notissima poesia di Pablo Neruda, che sarebbe il principio e la fine di ogni uomo progressivo.
Per costruire questo edificio irrazionale, questa delega a una entità partitica infallibile, suprema, il movimento comunista ha lentamente indebolito ogni altro istituto di classe ed ogni altro potere sorgente dalla società . civile. Una battaglia di democrazia operaia non può che accompagnarsi a una serrata critica su questo terreno, a una lotta per la restituzione del partita ai suoi limiti naturali, ai suoi compiti di interpretazione e di orientamento, alla sua capacità di flessibile interprete dei movimenti in atto nella parte più avanzata del corpo sociale. Se una ricerca di democratizzazione e di controllo volesse prescindere da una conquista degli istituti partitici dominanti, esso continuerebbe a subire colpi senza riuscire ad entrare nella coscienza generale del movimento. Chi trasformasse in aristocratico disprezzo la giusta critica ai partiti di sinistra come oggi si sono venuti caratterizzando, si condannerebbe alla funzione di inascoltato predicatore di sogni.
Se troppo spesso, in sede comunista e socialista, le strutture partitiche esistenti rappresentano ormai ciò che si chiama « il vecchio », e tendono alla conservazione di abitudini, mentalità, posizioni costituite, non per questo si può pensare di rinnovare il movimento al di fuori di esse. Troppo spesso anzi questa specie di conservatorismo ha battuto le iniziative periferiche più coraggiose, grazie alla propria potenza globale, rimproverando poi tali iniziative di essere fallite, in questa o quella fabbrica e questa o quella provincia o sindacato, perché sbagliate e « utopistiche ». C'é dunque una grossa battaglia da svolgere in sede di partito per una demolizione di miti e di strutture, per un arricchimento del senso
ALBERTO CARACCIOLO
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democratico. Può essere che organismi particolarmente centralizzati come il partita comunista lascino poche speranze di immediato successo a tale battaglia, maggiori speranze abbiamo però diritto di coltivare, almeno, nei riguardi del partito socialista.
Il sindacato è a sua volta un luogo decisivo per verificare proposte di democrazia operaia e per dare ad esse il necessario respiro_ Di più, ci troviamo senz'altro d'accordo con quanti hanno sottolineato, ancora nei recenti dibattiti, il posta che spetta al sindacato anche nella problematica del controllo. Quando il sindacato veda diminuita la propria capacità di contrattazione, o tenda a ridursi ad esponente di alcune correnti politiche presso i lavoratori, non vi può essere espansione dell'azione di classe né a livello di fabbrica né a livello più ampio. E ci chiediamo se la stessa Commissione Interna da sola, lacerata e ristretta all'ambito aziendale, non rischi di perdere la propria autonomia verso il padronato almeno là dove questo può contare su più ampi margini di potenza.
Ci sembra giusto guardare dunque con molta attenzione alla funzione del sindacato rispetto ai problemi del controllo anche se esso sarebbe, istituzionalmente, limitato ad altri compiti. L'esperienza di molti grandi paesi sembra richiamarci in questo senso. La stessa ampiezza di raggio d'azione e di conoscenza di cui il sindacato dispone, sembra garantire meglio un coordinamento fra iniziativa aziendale e ricerca di un piano economico di largo respiro. Guardare alla scissione attuale fra sindacato, commissione interna, consiglio di gestione, come ad una separazione « naturale » e insopprimibile, senza tener conto dei complessi mutamenti di funzione già in atto e senza progettarne eventualmente degli altri, potrebbe essere un modo astratto di proporsi la questione del controllo.
Ciò che comunque resta fisso, anzi deve restare fisso se non si vuole far perdere a queste istanze ogni significato, é la ripulsa delle concezioni non democratiche del partita e del sindacato. Dacché negli ultimi tempi si é tornato a parlare di controllo, abbiamo visto più di un tentativo di trasformare questa proposta in un mero fatto di competenza parlamentare: così, ci sembra, nello spirito di un articolo di Ferruccio Parri sul « Ponte » e così — non stupisca l'ac-
A PROPOSITO DI CONTROLLO E DEMOCRAZIA OPERAIA 95
costamento — in alcune note di Paolo Spriano sull' « Unità ». Il controllo in tal modo, si trasforma in una richiesta legislativa, se non addirittura in una semplice delega di maggior poteri a qualche « comitato prezzi » ministeriale.
Evidentemente non è questo che ci può interessare, così come non dice nulla una verbale ripetizione di amore per la democrazia diretta da parte di qualche gruppo il quale, come « Tempi moderni », la vede poi incarnarsi in personalità del radicalismo o della sociologia cristiana o americaneggiante, rispettabili finché si vuole ma lontane da ogni « vocazione » proletarie. Il problema é più profondo, è più complesso. Quello che può contare, e può dar nuove forze e prospettive a una battaglia socialista in Italia, é una ripresa di controllo della produzione che non sia solo un fatto tecnico ma politico, e di democrazia operaia che non sia solo un fatto di classe ma acquisti peso in una programmazione politica ed economica: una ripresa di iniziative, di valori, che servano a costruire gli elementi di un socialismo inteso come massima autogestione e come massimo autogoverno.
ALBERTO CARACCIOLO
 
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1958 Mese: 7 Giorno: 1
Numero 33
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 7 - 1 - numero 33


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