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tipologia: Analitici; Id: 1472442


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Tipologia Periodico
Titolo Ernesto De Martino, Perdita della presenza e crisi del cordoglio
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De Martino, Ernesto+++
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PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

Nel Mondo Magico (Einaudi, Torino 1958, T ed.) fu da parte nostra tentato di fermare il concetto di crisi della presenza come rìschio di non poterci essere nel mondo, o piò, esattamente in nessuna possibile storia umana. Nel corso delle nostre ricerche storicoreligiose sul pianto rituale antico, e sul passaggio dal lamento pagano a quel modello culturale del cordoglio che è rappresentato dal « pianto di Maria » e dalla figura della cristiana « Mater Dolorosa », ci è stata offerta Vopportunità di approfondire il concetto di una presenza che rischia di smarrirsi nel mondo e che mediante le creazioni culturali si protegge da tale rischio: il che ci ha indotto ad alcune analisi e teorizzazioni di cui il presente scritto vuol essere un saggio, anticipando la trattazione storica dispiegata che vedrà la luce nel volume Dal lamento pagano al pianto di Maria, di prossima pubblicazione nella collana di studi etnologici e storico-religiosi delle Edizioni Scientifiche Einaudi.

1. La presenza malata.

Per analizzare il rischio della presenza posseggono valore euristico le esperienze ed i comportamenti della presenza malata. Senza dubbio la presenza malata è —' dal punto di vista della storia culturale dell’umanità — una astrazione, poiché la cultura è il frutto della lotta vittoriosa della sanità contro l’insidia della malattia, cioè contro la tentazione di abdicare alla stessa possibilità di essere una presenza inserita nella società e nella storia. Ma proprio questa astrazione è la minaccia mortale per eccellenza: onde l’analisi della malattia trionfante presenta il vantaggio metodologico di collocarci davanti al rischio quando esso, diven50

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tando egemonico, si sottrae a quella potenza dialettica per cui, nella presenza sana, sta soltanto come momento negato e variamente redento nell’opera attuata e nel valore conseguito. Presenza malata significa — in generale — presenza che una volta, in qualche determinato momento critico dell’esistenza, ha rinunziato a farlo passare, risolvendolo nel valore, ed è invece passata con esso. Ogni contenuto critico sta per la presenza in quanto trasceso nella oggettivazione formale, e ogni presenza si mantiene rispetto a un contenuto critico nella misura in cui dispiega il suo margine formale di trascendimento: ciò significa che una presenza caduta in crisi di oggettivazione o di trascendimento passa essa stessa in luogo di far passare, perdendo se stessa nel contenuto e il contenuto in se stessa, ed entrando pertanto in una contradizione esistenziale che manifesta vari modi di profonda inautenticità. Il modo estremo è la assenza totale o la degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica: ma vi è tutta una gamma di inautenticità esistenziali in cui si manifesta la crisi patita e non risolta. Dalla esperienza critica non decisa la presenza può riemergere vulnerata. L’ombra del passato che non è stato fatto passare si distende sul progresso del fare, spia la occasione per riproporsi: ma a cagione della interruzione che vulnera la durata della presenza non torna nella dinamica unitaria della memoria attiva e risolvente, sì bene nella estraneità irrelativa del sintomo morboso. La presenza malata si manifesta allora come presenza apparente, che sta nel presente in modo inautentico, poiché vi patisce il ritorno mascherato e irriconoscibile di un identico passato in cui è rimasta impigliata. Per questa disarticolazione della dialettica del tempo il maggior numero di comportamenti morbosi della presenza in crisi non appare per l’osservatore sano in rapporto diretto con momenti oggettivamente critici, ma con situazioni del tutto irrilevanti: in realtà per la presenza malata il « presente » perde la sua autenticità esistenziale e la sua attualità storica, e tende a configurarsi a vario titolo come simbolo cifrato del passato non oltrepassato, operante dalPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO 51

di fuori, irriconoscibile e indominabile. Se la malattia della presenza può prendere corpo in occasioni che sembrerebbero banali, ciò dipende dal fatto che quelle occasioni insorgono nel malato come iterazione senza soluzione di un momento critico nel quale la presenza, una volta, si è smarrita. In altri termini la presenza che, in qualche dove della sua biografia, è passata con ciò che passa, resta in varia misura incapace di un autentico presente, esposta al rischio di patire il ritorno insolubile della situazione rescissa e di dover sostituire al rapporto formale con il presente storicamente determinato il rapporto senza soluzione col passato perduto: la presenza che non ha deciso la sua storia quando doveva farlo, sta ora destorificata, cioè fuori del rapporto reale con la storia concreta del mondo culturale in cui è inserita e in cui è chiamata continuamente ad esserci.

L’analisi della perdita della presenza attraverso le manifestazioni morbose della vita psichica può essere condotta da diversi punti di vista: il nostro non sarà ovviamente quello diagnostico della classificazione dei vari quadri nosologici e neppure quello terapeutico della determinazione della dinamica individuale della malattia, cioè dei momenti critici iniziali e reali che non furono oltrepassati e di quelli simbolici e secondari in cui la malattia attualmente si manifesta. Giova invece ai nostri fini l’analisi fenomenologica di alcuni caratteristici sintomi della perdita della presenza, prescindendo da ógni considerazione dinamica individuale e da ogni riferimento al carattere reale o simbolico dei momenti critici in cui ha luogo la insorgenza morbosa. Particolarmente istruttive sono, a questo riguardo, le esperienze di un sé spersonalizzato, sognante, vuoto, automatizzato, inattuale e simili. Una malata di Janet diceva: « Io mi sono smarrita, è orribile avere lo stesso volto e lo stesso nome e non essere la stessa persona... Voi non avete ancora visto la vera Letizia, se sapessi dov’è ve la farei vedere, ma non la posso trovare » (1). E un’altra malata: « Di tanto in tanto la mia persona se ne va, io perdo la mia persona. E’ una cosa bizzarra e

(1) P. Janet, De Vangoisse à Vextase, Paris, 1928, II, p. 56.52

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ridicola, ma è come se un velario cadesse e tagliasse in due la mia personalità. Le altre persone non se ne accorgono perché io posso parlare e rispondere correttamente. In apparenza per voi io sono la stessa, ma per me le cose non stanno così » (2). E ancora un altro malato: « Ciò che mi manca sono io stesso, è terribile sfuggire a se stesso, vivere e non essere se stesso» (3). A queste esperienze della perdita della presenza fanno riscontro quella della perdita del mondo, che è avvertito come strano, irrelativo, indifferente, meccanico, artificiale, teatrale, simulato, sognante, senza rilievo, inconsistente, e simili. Diceva un malato di P. Janet: « Io intendo, vedo, tocco, ma non sento come un tempo, gli oggetti non si identificano col mio essere, un velo spesso, una nuvola cambia il colore e l’aspetto dei corpi » (4). E un altro malato: « Voi non siete che un fantasma, come ce ne sono tanti: e non potete pretendere che si abbia obbedienza ed affetto per qualcuno di cui non si avverte la realtà » (5). Ancora un altro malato: « Le cose non sono più nel loro quadro e non indicano più la loro utilità (6). Infine ecco come una schizofrenica sottoposta a trattamento psicoanalitico da A. Seche-haye descrive nel suo diario la perdita del mondo: « Per me la follia era come un paese opposto alla realtà, un paese nel quale regnava una luce implacabile, che non lasciava posto per l’ombra, e che accecava. Era una immensità senza confini, illimitata, piatta, piatta, — un paese minerale, lunare, freddo... In questa estensione tutto era immutabile, immobile, fisso, cristallizzato. Gli oggetti sembravano figure di uno scenario. Le persone si muovevano bizzarramente, compiendo gesti e movimenti privi di valore. Erano fantasmi che circolavano in questa pianura infinita, oppressi dalla luce spietata della elettricità. Ed io ero perduta là dentro, isolata, fredda, nuda sotto la luce e senza scopo. Un muro di bronzo mi separava da tutto e da tutti... » (7).

(2) Op. cit., p. 55.

(3) Op. cit., p. 56.

(4) Op. cit., p. 47.

(5) Op. cit.y p. 49.

(6) Op. cit., p. 62.

(7) A. Sechehaye, Journal d’une schizophrène, Paris 1950, p. 20 sg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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In tali esperienze ciò che viene registrato senza soluzione è il vuoto dei valori, l’impotenza del trascendimento e della oggettivazione, la inattualità dell’esserci: in questa inattualità affiora l’insolubile problema della astratta possibilità di sé e del mondo, al di qua della scelta concreta che fonda e autentica il sé e il mondo. Pur nella varietà delle loro espressioni questi malati esprimono lo straniarsi di sé a sé, la perdita di sé come potenza oggettivante e del mondo come risultato della oggettivazione. D’altra parte gli oggetti che « non stanno in sé », ma vanno oltre in modo irrelativo, riflettono e denunziano il perdersi della presenza che non riesce ad andar oltre le situazioni, e a gettarle davanti a sé, per entro un determinato valore operativo. Col venir meno della stessa funzione oggettivante gli oggetti entrano in un rischioso travaglio di limiti, per cui appaiono accennare ad un oltre inautentico, vuoto, estraneo: in realtà questo oltre improprio è la potenza oltrepassante della presenza che in luogo di fondare l’oggettività sta diventando essa medesima un oggetto, si sta alienando con l’oggetto e nell’oggetto. Per questo starnarsi della potenza oggettivante, il mondo e i suoi oggetti sono sperimentati in atto di non essere più «nel loro quadro», cioè nella memoria di una determinata tradizione di significati e nella prospettiva di una possibile operazione formale della presenza. Il mondo diventa irrelativo, senza eco di memorie e di affetti, simile a uno scenario. Gli oggetti perdono rilievo e consistenza (la luce accecante e la mancanza di ombra), si pongono fuori della realtà storica (il paese lunare, minerale, immobile). Tale estraniazione e destorificazione del mondo si riflette nell’esperienza di una estraneità radicale, che chiede perentoriamente rapporto e che non può assolutamente trovarlo: una estraneità irraggiungibile, perduta in lontananze astrali, separata da un muro di bronzo.

La crisi di oggettivazione non si riflette soltanto nelle esperienze di spersonalizzazione e di incompletezza di sé, e di fissità inconsistenza e artificialità del mondo, ma anche nella esperienza di una forza o tensione cieca in sé e nel mondo. Gli oggetti che non stanno in limiti oggettivi (riflettendo in tal modo l’alienarsi della stessa energia oggettivante della presenza) sono avvertiti qui come54

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forze in atto di scaricarsi, come oscure tensioni spianti la più piccola occasione per frantumare le barriere che li trattengono, e per fondersi e confondersi in caotiche coinonie. Gli oggetti che « non sono più nel loro quadro » non si presentano più in questo caso con la valenza della artificialità e della lontananza, e come vulnerati da una perdita di prospettiva e di rapporto, ma si configurano piuttosto in atto di agire come potenze cieche ed estranee, che si scaricano disarticolando il reale, e incombendo minacciosamente sulla presenza: alla lontananza astrale si oppone, in una vicenda irrisolvente, la prossimità irrelativa degli oggetti fra di loro e del mondo oggettivo rispetto alla presenza, onde crolla la stessa possibilità di mantenere gli oggetti distinti gli uni dagli altri, e di contrapporre sé al mondo. Si ha allora la terrificante esperienza dell’universo in tensione, sul punto di annientarsi in una immane catastrofe. Racconta la malata di A. Sechehaye: « Chiamavo [la follia] il paese dell’illuminazione a causa della luce vivissima, abbagliante e fredda, astrale, e dello stato di tensione estrema in cui si trovavano tutte le cose, me compresa. Era come se una corrente elettrica d’una potenza straordinaria attraversasse tutte le cose, e aumentasse sempre più la sua tensione, finché tutto sarebbe saltato in aria in una esplosione terrificante... In questo silenzio infinito e in questa immobilità tesa, avevo l’impressione che qualche cosa di spaventoso sarebbe accaduto e avrebbe rotto questo silenzio, che qualche cosa di atroce, di sconvolgente stava per verificarsi. Restavo in attesa, trattenendo il respiro, smarrita nell’angoscia, e non accadeva nulla. L’immobilità si faceva ancora più immobile, il silenzio ancora più silenzioso, gli oggetti e le persone con i loro gesti e il loro rumore ancora più artificiali, staccati gli uni dagli altri, senza vita, irreali. E la mia paura aumentava, sino a diventare inaudita, indicibile, atroce» (8).

Il rischio dell’alienarsi della potenza oggettivante della presenza può essere avvertito o nel dominio del divenire oggettivo, o per singoli pensieri e affetti, ovvero in rapporto alla presenza in quanto tale. Il rischio di alienazione del dominio oggettivo com
(8) Sechehaye, op. cit., p. 21.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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porta l’esperienza di una disposizione maligna delle cose e degli eventi, di un « esser-agito-da » che si sostituisce « all’agire su » della oggettivazione. Si apre così una vicenda di oscuri disegni e di subdole macchinazioni, di rimproveri e di accuse, di insidie e di influenze: e le cose diventano cause, non già nel senso fisico del termine, ma propri in quello giuridico di cause intentate ai danni del malato. L’alienarsi di singoli pensieri o affetti dà luogo alla interpretazione che altri li manovrino, li influenzino, li rubino, o ne siano padroni: a un grado più profondo di alienazióne si avvertono i propri pensieri in atto di staccarsi dal flusso interno del pensare, per ripetersi per loro conto, a guisa di eco psichica, sino a risuonare pubblicamente anche se non comunicati con la parola. L’alienarsi della presenza e l’esperienza immediata della impotenza di qualsiasi scelta formale si rispecchia infine subiettivamente come colpa altrettanto mostruosa quanto immotivata: si tratta infatti della colpa di non potersi motivare, che è — per essenza — radicale e senza motivo. La depressione melancolica è pertanto da interpretare, considerata in questa prospettiva, come l’esperienza di abiezione estrema e di incomparabile miseria che accompagna il senso di sé nel recedere della energia di oggettivazione su tutto il possibile orizzonte formale.

Il rischio radicale della perdita della presenza è segnalato — almeno sin quando la presenza resiste — a una reazione totale che è l’angoscia. Se depuriamo questo concetto da tutte le interpretazioni non pertinenti alimentate da determinate suggestioni metafisiche, o dalla crittogamia con la esperienza religiosa o dai vari idoleggiamenti alimentati da una inerzia morale in atto, e se al tempo stesso ci tratteniamo dal cadere nella empirica della psicopatologia corrente, troviamo come risultato che l’angoscia si determina come reazione davanti al rischio di non poter oltrepassare i suoi contenuti critici, e di sentirsi inattuale e inautentica nel presente. Ciò equivale a dire che l’angoscia è il rischio di perdere la possibilità stessa di dispiegare l’energia formale dell’esserci. L’angoscia segnala l’attentato alle radici stesse della presenza, denunzia l’alienazione di sé a sé, il precipitare della vita culturale nella vitalità56

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senza orizzonte formale. L’angoscia sottolinea il rischio di perdere la distinzione fra soggetto e oggetto, fra pensiero ed azione, tra forma e materia: e poiché nella sua crisi radicale la presenza non riesce più a farsi presente al divenire storico, e sta perdendo la potestà di esserne il senso e la norma, l’angoscia può essere interpretata come angoscia della storia, o meglio come angoscia di non poter esserci in una storia umana. Pertanto quando si afferma che l’angoscia non è mai di qualche cosa, ma di nulla, la proposizione è accettabile, ma soltanto nel senso che qui non è in gioco la perdita di questo o di quello, ma della stessa possibilità del quale come energia formale determinatrice di ogni questo o quello: e tale perdita non è il non-essere, ma il non-esserci, l’annientarsi della presenza, la catastrofe della vita culturale e della storia umana. E infine: l’angoscia è esperienza della colpa, perché la caduta della energia di oggettivazione è, come si è detto, la colpa per eccellenza, che chiude il malato in una disperata melancolia.

Nelle stesse trattazioni della psicopatologia questo carattere dell’angoscia si fa luce talora vincendo le empirie e le superficialità della ordinaria esperienza clinica. « Il malato non ha angoscia di qualche cosa, egli è l’angoscia, senza aver coscienza né di un oggetto, né di un soggetto». «L’oggetto è l’utilizzazione ordinata dell’eccitazione, e la coscienza dell’io è il completamento necessario della coscienza dell’oggetto. Ma nella dilazione catastrofica dell’angoscia non vi è oggetto — e per questo l’angoscia è senza contenuto — e neanche coscienza precisa dell’io ». Ciò che il malato vive è la dilacerazione della struttura della personalità: non si può dire neppure che egli provi angoscia, egli è l’angoscia e fa tutt’uno con essa in questo rovesciamento indicibile nel quale soggetto e oggetto sono scomparsi». «L’angoscia è il pericolo supremo, cioè il profilarsi di quella situazione finale in cui l’organismo non può adattarsi all’ambiente, e si trova minacciato nella sua stessa esistenza » : queste proposizioni di Kurt Goldstein (9), sebbene inadeguate, tro
(9) Kurt Goldstein, Zum Problem der Angst in Allg. àrtzliche Zeitschrift fiir Psychotherapie und Psychische Hygiene, Bd. II (1929) Heft 7, pp. 409 sgg. Per un panorama sulla concezione dell’angoscia nella moderna psichiatria (e neiresistenzialismo) è da vedere il libro di Juìiette Boutonier, L’angoisse, Paris 1949.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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vano la loro elucidazione e la loro verifica nella teoria dell’angoscia come reazione totale al rischio radicale della perdita della presenza. Che cosa infatti può significare la perdita della distinzione fra soggetto e oggetto, l’essere immediatamente l’angoscia, il rovesciamento indicibile che comporta il pericolo supremo di non potersi adattare all’ambiente, che cosa può essere il sentirsi « in seine Existenz be-droht» se non appunto la catastrofe dell’esserci nel senso che abbiamo chiarito? La angoscia indica che la presenza resiste alla sua disgregazione: ma le resistenze e le difese che hanno luogo in regime di crisi hanno il carattere comune di essere sostanzialmente improprie, in quanto non ripristinano la signoria del mondo dei valori e non valgono a reintegrare in modo attivo nella realtà storica di cui si fa parte. La dialettica del « non fare » e del « fare » si disarticola: per la carenza del riscatto formale il «non fare» si orienta verso la paradossale ricerca delPassenza vuota assolutamente di contenuti e di impegni formali, ed il fare si dissolve nella egemonia dialettica del vitale, che pretende in vani conati di ricostruire fittiziamente la presenza. I modi dell’assenza sono conati di destorificazione irrelativa, cioè di evasione totale dalla storicità dell’esistere: tali sono la reazione stuporosa, il ritualismo protettivo ed il simbolismo protettivo. Ostilità persecutoria del mondo, abiezione della presenza in crisi e terrore del fare possono spingere alla reazione, tipicamente contradditoria e irrisolvente, della ricerca dell’assenza totale. L’aggravarsi della crisi restringe sempre più il margine della possibile iniziativa, finché in un supremo conato di rinunzia a sè e al mondo la volontà entra in un blocco spasmodico, restando come sospesa al gioco di una assoluta ambivalenza, in cui ogni «sì» richiama perentoriamente e polarmente il «no». Nei casi più avanzati questo instabile equilibrio di stimoli si riduce a una polarità praticamente automatica, accompagnata da flessibilità cerea, da ecolalia e da ecomimia: ma nei casi meno gravi la presenza ha ancora un margine sufficiente per avvertire il profilarsi della crisi. Uno schizofrenico di Arieti si rendeva conto, con crescente ansietà, che insormontabili difficoltà si opponevano alla sua azione: ogni movimento che si apprestava a compiere gli si confi58

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gurava come rischiosa possibilità di compiere un atto nocivo o inefficace, e pertanto questo malato, dominato dall’angoscia, preferiva non mangiare, non vestirsi, non lavarsi, per ridursi infine alla immobilità assoluta dello stupore catatonico (10). Il carattere estremamente contradditorio e irrisolvente di tale reazione è che l’assenza delle esperienze estatiche connesse alla vita magico-religiosa della storia culturale umana: l’assenza dello stupore è infatti sulla linea di quella stessa perdita della presenza che costituisce il rischio della malattia, e la clamorosa contradizione del «farsi assente per terrore dell’azione» può metter capo soltanto al nuovo e più grave sintomo morboso del blocco spasmodico della volontà. Il secondo modo della destorificazione irrelativa della crisi è costituito dal ritualismo dell’agire. Mentre nella reazione stuporosa il conato si dirige verso l’assenza totale dalla realtà storica attuale, nelle stereotipie e nei manierismi dell’agire soltanto determinati settori più o meno ampi e prolungati dell’agire vengono sottratti alla storicità, chiusi al dialogo con essa, e irrigiditi in una iterazione dell’identico che è la negazione del mobile divenire storico e della necessità di rispondere ad esso con iniziative formalmente determinate. Nei manierismi e nelle stereotipie dell’agire la presenza in crisi si chiude in un miserabile regime di risparmio vuoto di valore: chiusa nelle rigide barriere protettive del ritualismo in quanto tale, essa « sta nell’esistenza senza starci», poiché qualunque cosa accade essa contrappone all’accadere lo stare immobile nelle proprie iterazioni.

Il rapporto col momento rituale della magia e della religione è soltanto apparente, perché nella magia e nella religione la ritualità dell’agire media, attraverso l’orizzonte mitico, una piena reintegrazione culturale, mentre le stereotipie e i cerimoniali della presenza malata, sostanzialmente chiusi nella loro vicenda privata, si esauriscono in un vuoto tecnicismo dell’assenza, e perciò non si sollevano dalla crisi di oggettivazione, ma la ribadiscono e la aggravano. Il terzo modo della destorificazione irrelativa della crisi consiste nella destorificazione per simboli protettivi, a cui affida il compito di ridischiudere l’azione. I simboli protettivi o allusivi, ansio
(10) Arieti, Interpretation of schizophrenia, New Jork 1955, p. 126.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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samente cercati o costruiti, rappresentano il conato di occultare a sè la storicità del reale, e quindi la responsabilità personale delle iniziative, in modo che il fare effettivo sia nient’altro che iterazione del già deciso e fatto su un piano metastorico. Anche i simboli protettivi, in quanto dovrebbero proteggere l’azione anticipandone il corso in un mondo a sè, non vulnerato dalla decisione personale, rappresentano, al pari del ritualismo dell’agire, un modo di « stare nella storia senza starci», e un disperato tentativo di rischiudersi

— attraverso questa miserabile frode — all’azione. Un altro malato di Arieti quando usciva di casa era indotto a dare interpretazioni di qualsiasi cosa scorgesse per via, al fine di trarne indicazioni rassicuranti sulla non rischiosità della direzione da seguire. Se vedeva una luce rossa all’incrocio stradale la interpretava come un avvertimento occulto a non procedere più oltre nella direzione corrispondente, se invece gli cadeva sotto gli occhi una qualsiasi freccia stradale credeva trattarsi di un avvertimento del buon Dio per indurlo ad imboccare la direzione non rischiosa. Questa ricerca di simboli protettivi del fare non gli riusciva tuttavia di nessun giovamento, e al colmo dell’angoscia tornava a casa, dove cercava rifugio nella reazione stuporosa. Internato nell’ospedale psichiatrico il terrore dell’azione e l’ansiosa ricerca di simboli protettivi non lo abbandonarono: se un dottore gli poneva qualche domanda, egli si sentiva al tempo stesso spinto e bloccato a rispondere, e cercava i segni che gli avessero indicato quale risposta dare e quale no. Sottoposto alla r//or-terapia subì un miglioramento, «anche perché — come osserva l’Arieti — nell’ospedale tutto si svolgeva secondo ordini, il che lo alleggeriva delle sue responsabilità» (11). Anche la destorificazione per simboli allusivi sembra ricordare i miti della vita magico-religiosa: ma i veri miti della vita magico-religiosa ridischiudono, come si è detto, determinati valori sociali, politici, morali, poetici e conoscitivi, mentre i simboli allusivi a cui ricorre la presenza malata sono conati individuali del tutto vuoti di prospettiva culturale, e perciò sterili anche sul piano tecnico sul quale si muovono.

(11) Arieti, op. cit., p. 121 sg.60

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Analoghe considerazioni valgono per le difese improprie orientate verso il «fare». Qui i conati di recuperare la presenza riescono solo ad una caricatura ed una contraffazione della esigenza del trascendimento, in quanto ciò che dovrebbe stare sempre come materia, la vitalità, pretende di assolvere compiti formali. Così il « far passare nel valore », che comporta ima appropriazione interiore a un far morire ideale, cede il luogo, in questa forma della crisi, alla appropriazione materiale di oggetti privi di significato attuale, alla mania del raccogliere e del conservare, alla incorporazione nelle cavità naturali del corpo, alla fame insaziabile di cibo e alla ingestione di oggetti anche non commestibili, allo sfrenato erotismo, al furore distruttivo e omicida. I momenti delFinnalza-mento alla forma, cioè l’appropriazione, la conservazione ed il superamento formali, sono qui contraffatti sull’improprio piano materiale della vitalità in atto, chiusa in sé stessa e adialettica rispetto al destino formale dell’uomo: diabolus simia Dei. La egemonia del vitale che pretende di surrogare la risoluzione formale si manifesta nel modo più netto nella cosiddetta eccitazione maniaca. Qui la presenza in crisi si limita a prestare alla accelerazione vitale l’inerte contenuto di rappresentazioni e di sentimenti che simulano, ma non sono, valori reali. Lo psichiatra Giorgio Dumas riferisce di un tal Victor, capitano dell’esercito francese e appartenente a una famiglia tradizionalmente legata al culto della gioire e della patrie, il quale nei suoi eccessi maniaci si abbatteva al suolo, ventre a terra, gridando: «A me il granito! », alzandosi poi lentamente e guardando intorno a sè con aria di sfida. Interrogato successivamente dal Dumas, durante un periodo di remissione, gli rese questa spiegazione: « Sì, mi ricordo; era per me una manifestazione di spirito patriottico, un appello alla vecchia terra francese, riboccavo di amor patrio e desideravo farne mostra ». Un’altra volta il capitano Victor accolse il Dumas ruggendo come un leone e roteando furiosamente gli occhi. Ecco la sua spiegazione successiva: « Sì, è così, era in onore di mio padre, ufficiale prima di me nelParmata d’Africa. Ruggendo come un leone africano credevo di incarnare il patriottismo della nostra famiglia, quello di mio padre ed il mio: oggiPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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però la dimostrazione mi sembra debole». In altra occasione il capitano Victor aveva detto al Dumas che cercava di sentirgli il polso: «Prendi la mia pelle, se vuoi!». Spiegazione successiva: «Era il sacrificio della mia vita che io offrivo al mio paese ». È sin troppo evidente che, in un caso come questo, determinati valori culturali come la gioire e la patrie stanno nel contesto in modo del tutto apparente e strumentale: ciò che predomina è la pura accelerazione vitale che si scatena senza nessun rapporto con la reale situazione del momento, dandosi a pretesto i vuoti nomi di valori politici e morali.

2. La vita religiosa come tecnica protettiva mediatrice dei valori.

Per quanto la crisi della presenza non abbia in sè storia culturale (essa è infatti per definizione la destorificazione della presenza, il non esserci in una storia umana) il numero, la qualità e la intensità dei momenti critici a carattere pubblico è determinabile solo per entro concrete società storiche. In società in cui il distacco dalle condizioni naturali non va oltre la caccia e la pesca ed alcuni strumenti litici, o in cui il regime economico si è sollevato all’agricoltura primitiva alla zappa o alla pastorizia o aH’agrieoltura all’aratro la sfera dei momenti critici è di fatto intensissima ed amplissima appunto perché ciò che passa senza e contro l’uomo si ma-nifesta in una misura che noi a mala pena riusciamo ad immaginare, abituati come siamo all’ordine cittadino della moderna civiltà industriale. Nelle società primitive e nel mondo antico l’arco della vita individuale nel quadro della vita collettiva è disseminato di rischi esistenziali che per noi hanno perso ogni significato: l’incontro con animali pericolosi, l’attraversamento di paesi sconosciuti e selvaggi, l’incerto esito della caccia da cui dipende per intero il destino alimentare della comunità, la perdurante scomparsa della selvaggina che insieme alle radici costituisce l’unica base di regime dietetico, le vicende meteorologiche sfavorevoli che aprono per il gruppo sociale una prospettiva di morte per affamamento, la siccità che inaridisce i pascoli e uccide l’unica ricchezza del bestiame, le grandi e frequenti epidemie sterminatrici costituiscono altret62

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tante esperienze critiche di cui la moderna civiltà industriale ha perduto quasi la memoria. Restano per noi in comune con le civiltà primitive e con il mondo antico la esperienza critica della morte della persona cara e delle fasi della evoluzione sessuale (sulle quali è merito della psicanalisi aver richiamato l’attenzione) o l’insorgere delle grandi catastrofi naturali o delle malattie mortali; senza contare i momenti critici che sono connaturati alla civiltà capitalistica come tale (le crisi economiche e le forme spietate di sfruttamento), o alla atrocità delle guerre moderne, o al crudo dispotismo degli stati dittatoriali, capitalistici o socialistici che siano. Ma nel complesso il nostro incommensurabilmente più alto distacco dalle condizioni naturali e la ampiezza delle realizzazioni civili in tutti i domini, e gli abiti morali e le persuasioni razionali che ne abbiamo acquistato, ci fanno molto più preparati a superare i momenti critici dell’esistenza, patendo senza dubbio il rischio, ma non più nei modi così estremi che nelle civiltà primitive e nel mondo antico minacciano di continuo la vita dei singoli e quella della comunità. Infatti nelle civiltà primitive e nel mondo antico il rischio della presenza assume una gravità, una frequenza e una diffusione tali da obbligare la civiltà a fronteggiarlo per salvare se stessa. Nelle civiltà primitive e nel mondo antico una parte considerevole della coerenza tecnica dell’uomo non è impiegata nel dominio tecnico della natura (dove del resto trova applicazioni limitate), ma nella creazione di forme istituzionali atte a proteggere la presenza dal rischio di non esserci nel mondo. Ora la esigenza di questa protezione tecnica costituisce la origine della vita religiosa come ordine mitico-rituale.

Già vedemmo come il rischio della presenza sia essenzialmente costituito da una destorificazione irrelativa che si manifesta in vari modi di inautenticità esistenziale. Il carattere fondamentale della tecnica religiosa sta nel contrapporre a questa destorificazione irrelativa una destorificazione istituzionale del divenire, cioè una destorificazione fermata in un ordine metastorico (mito) col quale si entra in rapporto mediante un ordine metastorico di comportamenti (rito). Con ciò è offerto un orizzonte per entro il quale siPERDITA DELLA. PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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compie la ripresa delle possibili alienazioni individuali e la loro risplasmazione nei valori culturali. Il carattere dialettico nel nesso che lega il rischio della perdita delia presenza e la sfera del sacro è illustrato con particolare evidenza da un’opera che ha avuto una notevole efficacia nel dominio della filosofia e della storia delle religioni: il Sacro di R. .Otto. Si tratta, com’è noto, di un’opera religiosamente impegnata, e tuttavia proprio per questo capace di fornirci indicazioni preziose sul nesso in questione. Naturalmente ad un patto: che la problematica cominci per noi proprio lì dove Rudolf Otto ritiene di aver raggiunto l’ultima Thule, cioè l’esperienza viva del nume che è presente. La connotazione caratteristica, profondamente irrazionale, di questa presenza del nume sarebbe, secondo l’Otto, il « radicalmente altro » e quindi il blinde Entsetzen, il dàmonische Scheu che in cospetto del nume si impadronisce della presenza, soggiogandola. Ora questo « radicalmente altro » che sgomenta chi ne fa esperienza è appunto il rischio radicale di non esserci, l’alienarsi della presenza. L’alterità profana è sempre relativa, inserita nel circuito formale, qualificata: ma quando comincia a diventare eccentrica, a isolarsi, e la presenza non è più capace di mantenerla come altra, e di conservare il proprio margine rispetto ad essa, allora comincia ad apparire quel carattere «radicale» del-l’alterità che è da interpretare come segnale della crisi della presenza. Anche il blinde Entsetzen è eloquente: entsetzen ha il duplice significato di « spossessare » e di « inorridire » o « essere pieno di raccapriccio », il che significa che qui si sta a consumare la perdita della energia formale, e appunto da tale spossessamento radicale nasce l’orrore caratteristico che individua la crisi. Ma il carattere dialettico del rapporto crisi-ripresa della esperienza del sacro è illustrata altresì dalla espressione dàmonische Scheu: infatti se l’accento batte su Scheu si ha qualche cosa di praticamente identico a un puro stato ansioso, al blinde Entsetzen patologico, mentre se l’accento batte su dàmonische allora già la ripresa comincia a fare le sue prove, sia pure in modo elementare, e l’orrore non sarà più «cieco» se almeno riesce a scorgere un’immagine organicamente inserita nel mondo storico nel quale si vive, e aperta al valore.64

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Considerazioni analoghe possono farsi a proposito dell’altro momento polare del numinoso, il fascinans. La paradossia di questa polarità non costituisce affatto un nesso misterioso, da rivivere nella sua immediatezza, ma racchiude una trasparente dialettica: ciò che nella crisi repelle e soggioga, il tremendum dell’alienarsi e del perdersi della presenza, tuttavia attira e chiama al rapporto, alla ripresa, alla reintegrazione nell’umano, e questo attirare o chiamare in modo perentorio è il fascinans del radicalmente altro. Nella limitazione della esperienza religiosa ciò che chiama è il nume, ma per il pensiero giudicante ciò che chiama è la alienazione della presenza che reclama reintegrazione in una storia umana. O anche: è il non deciso, l’ambivalente, che esige decisione nel valore. La differenza tra l’ambivalenza patologica e quella religiosa sta unicamente nel segno del movimento per entro il quale essa si manifesta: l’ambivalenza patologica è un sintomo di una disgregazione che va recedendo verso modi sempre più compromessi, onde sta in modo irrisolvente in un regresso che distacca sempre più la presenza dalla realtà storica e che sempre più si chiude al significato e al valore che in quella realtà possono essere riconosciuti; l’ambivalenza religiosa invece è inserita in un movimento di ripresa e di reintegrazione, che dalla crisi si solleva al valore, e che perciò va mediamente ristabilendo col mondo storico i rapporti in pericolo. O anche: nella malattia l’ambivalenza prospetta una destorificazione irrelativa in atto, un compito di decisione e di scelta al quale si abdica, un non esserci in nessuna possibile storia umana; nella vita religiosa l’ambivalenza è già il numinoso, immagine mitica aperta al valore, rapportabile all’umano mediante il rito, inserita nella tradizione culturale: in ultima istanza è un ambivalente che va decidendo il suo valere. In un modo o nell’altro l’ambivalente religioso è incluso in un processo che ferma nella metastoria mitica l’alienazione irrelativa della crisi e che realizza la reintegrazione del divino nell’umano.

Ma il sacro manifesta la sua coerenza tecnica anche in altro modo: in quanto nesso mitico-rituale esso maschera il divenire storico nella iterazione rituale di modelli mitici in cui su un pianoPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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metastorico il mutamento è ammesso e al tempo stesso reintegrato: ne nasce così un particolare regime di esistenza protetta, nel cui ambito per un verso si entra in rapporto con le alienazioni della crisi, mentre per un altro verso si inaugura una dinamica che sospinge alla riconquista delle forme di coerenza culturale a vari livelli — storicamente determinati — di autonomia e di consapevolezza. Questa dialettica di ripresa e reintegrazione dei rischi di alienazione è caratterizzata dalla coerenza tecnica della destorificazione mitico-rituale che si fa mediatrice del ridischiudersi delle altre forme di coerenza culturale, dalla economia aH’ordinamento sociale, giuridico e politico, al costume, all’arte e alla scienza.

Il concetto di sacro come tecnica mitico-rituale che protegge la presenza dal rischio di non esserci nella storia e media il ridischiudersi di determinati orizzonti umanistici consente di considerare sotto una nuova luce la vexata quaestio del rapporto fra magia e religione. Senza dubbio ogni forma di vita religiosa, in quanto fondata sulla destorificazione mitico-rituale, comporta un momento tecnico insopprimibile, che ne costituisce la sfera più propriamente magica; d’altra parte la tecnica magica più rudimentale, quando sia dotata di vitalità storica e organicità culturale, non si esaurisce mai nel semplice tecnicismo, ma media e dischiude un determinato orizzonte umanistico, più o meno angusto. In tal guisa l’opportunità di considerare come magica o come religiosa una particolare forma storica del sacro dipende soltanto dal grado relativo di sviluppo e di complessità del processo di mediazione dei valori che in quella forma ha luogo: quando prevale il momento tecnico della destorificazione mitico-rituale e l’orizzonte umanistico che ne risulta è particolarmente angusto (ma non mai inesistente!) il termine magia può sembrare più appropriato, quando invece rito e mito sono profondamente permeati di valenze morali, speculative, estetiche etc. allora la designazione di religione è certamente più opportuna. In sostanza il concetto di magia ha origine nella polemica culturale, allorché si tende a negare che una certa religione enuclei valori, e se ne avverte soltanto il momento meramente tecnico: nel discorso storiografico la qualifica di magia ritiene un66

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significato legittimo solo in senso comparativo, cioè per indicare una forma di vita religiosa in cui lo sviluppo del momento tecnico è relativamente grande e l’orizzonte umanistico dischiuso relativamente angusto: il che del resto è ampiamente confermato dall’uso linguistico corrente, malgrado gli elementi di confusione che vi hanno introdotto alcuni falsi teorizzamenti della scienza e della storia delle religioni. Piuttosto è da mettere in guardia gli storici delle religioni da un altro uso linguistico, che poi racchiude a vari livelli di coscienza e di coerenza una determinata teoria della vita religiosa: alludiamo all’uso di estendere il nome di religione (o di «religiosità») a qualsiasi impegno etico fortemente sentito anche se accompagnato da un orizzonte esclusivamente umanistico e mondano. Per ricordare l’esempio più illustre del genere si pensi al capitolo che apre la Storia d’Europa del Croce, e che si intitola « La religione della Libertà », dove si ritrova anche la seguente giustificazione teorica dell’impiego della qualifica di « religione » a proposito dell’ideale liberale consustanziale al moderno pensiero dialettico e storico: « Ora chi raccolga e consideri (i tratti) dell’ideale liberale, non dubita di denominarlo, qual esso era, una ’ religione ’: denominarlo così, ben inteso, quando si attenda all’essenziale ed intrinseco di ogni religione, che risiede sempre in una concezione della realtà e in un’etica conforme, e si prescinda dall’elemento mitologico, pel quale solo secondariamente le religioni si differenziano dalle filosofie» (p. 23 sg.). Ora l’essenziale e l’intrinseco di ogni religione sta, come si è detto, proprio nella destorificazione mitico-rituale come tecnica mediatrice di determinati orizzonti umanistici, e pertanto mal si attaglia la qualifica di religione ad una concezione essenzialmente laica della vita e del mondo. Nei nostri studi poi un concetto di religione come quello formulato dal Croce può introdurre soltanto una serie di equivoci dannosi, o quanto meno vale a restringere il compito dello storiografo soltanto a quel settore circoscritto che è l’enuclearsi della ' visione del mondo ' dal mito, lasciando fuori della considerazione proprio la ierogenesi come tecnica, e decurtando e oscurando in tal modo il processoPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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dialettico della vita religiosa così come è stato qui sommariamente delineato.

Se tuttavia è da respingere la tendenza panlogistica che risolve la religione in una sorta di philosophia inferior non è nemmeno da accogliere la esigenza irrazionalistica di una autonomia formale della vita religiosa. La religione, ove sia intesa correttamente come nesso mitico-rituale, non è un apriorv. il tentativo di R. Otto di completare le tre critiche kantiane con una quarta attinente al ' sacro ' deve considerarsi fallito. Apriori però è certamente la potenza tecnica dell’uomo, sia che si volga al dominio della natura con la produzione dei beni economici, con la fabbricazione di strumenti materiali e mentali del pratico agire, sia che invece si volga ad impedire alla presenza di naufragare in ciò che passa senza e contro l’uomo. Sulla linea di questo secondo impiego della potenza tecnica si trova la religione, che resta definita dal carattere particolare del suo tecnicismo, cioè dalla ripresa e dalla reintegrazione umanistica dei rischi di alienazione, mediante la destorificazione mitico-rituale. La risoluzione tecnica della vita religiosa non è certamente nuova, se già Platone in un passo famoso del Fedone non esitava a considerare il mito delle anime dopo morte come un incantesimo per rassicurare il fanciullino che in ciascuno di noi si angoscia davanti alla morte. Tale risoluzione tecnica presenta il vantaggio di orientare lo storico verso ciò che di specificamente mitico è nel mito e di specificamente rituale è nel rito, senza cedere alla tentazione religiosa, e senza d’altra parte postulare nel sacro una irrazionalità destinata a sfuggire al pensiero storiografico come tale. Il sacro, in quanto tecnica, è coerenza umana, che il peiv siero storiografico può ripercorrere senza lasciare proprio nessun residuo all’immediatezza (e all’arbitrio) di un mistico rivivere. Si tratta certamente di una coerenza diversa da quella dell’arte, o della vita morale dispiegata o della filosofia: ciò che qui si nega è che non gli sia immanente nessuna forma di razionalità, e che racchiuda un nucleo ' irrazionale ' irriducibile, tale da indurre il pen€8

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siero storico alla contradditoria fatica di uscire da se stesso e dalla storia umana (12).

3. La crisi del cordoglio.

La crisi del cordoglio si presenta, nel quadro delle precedenti considerazioni, come il rischio di non poter trascendere il momento critico della situazione luttuosa. La perdita della persona cara è, nel modo più sporgente, l’esperienza di ciò che passa senza e contro di noi: ed in corrispondenza a questo patire noi siamo chiamati nel modo più perentorio all’aspra fatica di farci coraggiosamente procuratori di morte, in noi e con noi, dei nostri morti, sollevandoci dallo strazio per cui « tutti piangono ad un modo » a quel saper piangere che, mediante l’oggettivazione, asciuga il pianto e ridischiude alla vita e al valore. Tuttavia questa aspra fatica può fallire: il cordoglio si manifesta allora come crisi irrisolvente, nella quale si patisce il rischio del progressivo restringersi di tutti i possibili orizzonti formali della presenza.

La crisi del cordoglio, come si è detto, appartiene alla condizione umana: tuttavia la civiltà moderna l’ha di molto ridotta di intensità e di pericolosità, fornendole il soccorso di tutta la energia morale maturata nel vario operare civile, e — per i credenti — contenendola e lenendola mercè la prospettiva delle consolanti persuasioni della religione cristiana. Nel mondo antico (per tacere naturalmente delle civiltà primitive) la crisi del cordoglio assume invece ordinariamente, sia nell’individuo che nella collettività, modi estremi che hanno riscontro nella nostra civiltà solo in casi individuali eccezionali e palesemente morbosi, e più diffusamente appena in quelle poche aree folkloriche che per certi aspetti riproducono ancora condizioni di esistenza in qualche modo simili a quelle del mondo antico. Così ove prescindano dalla risoluzione poetica di Omero, la crisi di Achille per la morte di Patroclo si manifesta

(12) Sul concetto di sacro, vita religiosa, destorificazione mitico-rituale, e sui rapporti fra religione e magia, e fra religione e storiografia religiosa ci permettiamo rinviare alle nostre due monografie Crisi della presenza e reintegrazione religiosa, in « Aut-Aut », 1955, n. 31 e Irrazionalismo e storicismo nella storia delle religioni in « Studi e Materiali di Storia delle Religioni», XXVIII, 1957, fase. I, pp. 89 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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in modi « eccessivi » che noi oggi non saremmo disposti a concedere a un uomo « normale », e che possiamo al più tollerare con varia disposizione d’animo nelle contadine dell’Italia meridionale o della penisola balcanica. Tuttavia noi qui dobbiamo analizzare proprio i modi « eccessivi » della crisi del cordoglio, cioè il rischio che essa comporta quando tocca per così dire il fondo.

Quando la caduta della potenza oltrepassante consuma sino in fondo il suo rischio, la contradizione esistenziale in cui la presenza si irretisce assume il modo estremo della assenza totale e della degradazione dell’ethos della presenza nella scarica meramente meccanica di energia psichica. In generale la situazione luttuosa è tale solo nell’atto o nel tentativo del trascendimento formale, e d’altra parte la presenza si distacca da questa situazione, e si costituisce come presenza, nella misura in cui va dispiegando lo sforzo del trascendimento. Ciò significa che nel crollo completo della potenza oltrepassante la situazione luttuosa si rescinde e scompare per la presenza, la presenza dilegua nel contenuto critico che non riesce a gettare davanti a sè come « oggetto » qualificato, e lo ethos del trascendimento si va annientando nel meccanismo convulsivo. Di tale assenza totale in cospetto dell’evento luttuoso rendono frequente testimonianza, in via di esempio, le Chansons de Geste, dove le dame e i cavalieri, ma talora lo stesso re Carlo, se pasment in presenza del cadavere o per notizia di morte, cioè « perdono la presenza» nella forma dell’assenza totale: la perdono Se-bille alla morte del marito Baudoin {quant Sebille l’entant, li sans li est muez, / la véne lui troble, si a les danz serrez, / contre terre se pasme, ne peut sor piez ester), Carlo alla morte del figlio Lohier (Commi? Charles l’entent, si se set que il die, / il est cheiis pasmés devant sa baronie, / si qu’ìl ne pot parler d’une lieu et demi), i cavalieri di Aymeri alla morte del loro signore (fa et la gisent li che-valier pasmé), centomila franchi alla morte di Rolando (cent mìle Frane s’en pasment contre teré) (13).

(13) Cfr. O. Zimmermann, Die Toten\lage in den altfranzasischen Chanson de geste, Berlin 1899, p. 9 sgg.70

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L’assenza totale rappresenta il limite estremo della crisi del cordoglio: ma al di qua di tale limite stanno tuttavia determinate inautenticità esistenziali della presenza, caratterizzate dal recedere verso l’assenza, e dall’irrisolvente patire e dibattersi per questo recedere. Sulla linea di tale recessione, ma al di qua del suo termine estremo, si trova uno stato psichico che in concreto può manifestarsi con varie sfumature individuali, ma che tipologicamente resta definito da una ebetudine stuporosa senza parola e senza gesto, e senza anamnesi della situazione luttuosa: uno stato simile, designato dal comune linguaggio con la espressione « impietrito (o folgorato o raggelato) dal dolore », si riflette — com’è noto — nel mito di Niobe. Si tratta però di una calma inautentica, funesta e minacciosa, e di una instabile smemoratezza, che da un momento all’altro può dirompersi in un planctus irrelativo, cioè in un comportamento orientato ad arrecare offese anche mortali alla propria integrità fisica. Questa polarità di ebetudine e di planctus denunzia una crisi profonda nella quale in luogo della decisione formale si instaura la paradossia estremamente contradditoria di un « non fare per farsi vuoti di contenuto» ovvero di un furore che annienta materialmente quella presenza che dovrebbe invece oltrepassare formalmente la situazione. In particolare nel planctus il furore autodistruttivo si accompagna al sentimento patologico di una miseria

o anche di una colpa smisurate che può ricevere nella coscienza varie motivazioni fittizie, ma che in realtà nasce dalla esperienza critica di non potersi dare nessuna motivazione reale secondo valore, e di chiudersi nella situazione invece di oltrepassarla. Appena un po’ al di qua di questa irrisolvente polarità di ebetudine e di planctus sta la sgomenta coscienza di essere immerso in tale polarità e di non poterla padroneggiare. Al senso angoscioso del duplice rischio di cadere nell’ àfZYjxavta o nel caotico jcotcstóc, si ispirano le parole di Admeto al ritorno dei funerali di Alcesti: « Ahimè, ahi ahi, / Dove andare? Dove stare? / Che dire? Che tacere? / Come morire?...» (14). Del pari nelle Troiane Ecuba che giace a terra an
(14) Eur., Ale., vv. 861-864.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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nientata, prima di inaugurare la lamentazione pronunzia analoghe parole di smarrimento: «Che debbo tacere? / Che cosa non tacere? / Su che lamentarmi...» (15).

Nella carenza della energia formale della presenza i tentativi di ripresa si risolvono in vani conati, in trascendimenti impropri, in cui la vitalità prevarica la funzione formale che non le può mai spettare: così il «far morire i morti in noi», che è un faticoso processo interiore e ideale, si può manifestare nella modalità più impropria, cioè nella aggressività contro il cadavere, o nel bisogno di vendicare il morto con una nuova uccisione operata su altri, o con l’insorgenza di un indiscriminato furore distruttivo; l’interiorizzazione del morto mercè dell’appropriarsi della sua opera per continuarla ed accrescerla si può degradare nella incorporazione materiale della necrofagia o della fame insaziabile; il compito di instaurare con colui che non è più un nuovo rapporto affettivo alimentato da una benefica memoria può cedere il luogo all’erotismo della necrofilia; e infine la esigenza di una ripresa formale in genere può dar luogo soltanto a modi meramente vitali di recuperare, con l’esaltazione di impulsi aggressivi, o alimentari o erotici. In tutti questi casi lo scacco del trascendimento è palese: si cerca la scelta oltrepassante secondo valore e si trova invece la contraffazione del compito formale sul piano improprio della vitalità, si tenta di svolgere l’ethos del trascendimento ed invece si mette in moto il furore, la fame e la libidine.

Un’altra serie di sintomi di crisi si riferisce più particolarmente al centro della situazione luttuosa, cioè al cadavere. In effetti lo scandalo di tale situazione, la sua pietra d’inciampo e il suo segno di contradizione, è costituito dal cadavere, dalla spoglia corporea che, dopo il trapasso, sta davanti ai sopravvisuti. Nella misura in cui abdica la potenza oltrepassante della presenza il cadavere comincia ad « andar oltre » in modo irrelativo: e suo « oltre » irrelativo riflette il rischio della stessa potenza oltrepassante che invece di

(15) Eur., Troiane, vv. 110 sg. Nella ripresa istituzionale del lamento funebre questo momento di smarrimento è diventato spesso un modulo: p. es. ite naro? Ifispero? (che dico, che spero?) nel lamento funebre sardo o come vogghìe fa? Come agghia fa? (che cosa fare?) del lamento funebre lucano.72

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« andar oltre » alle rappresentazioni relative a questo suo contenuto, oggettivandole nel valore, comincia essa stessa a diventare il vuoto oltre, e quindi la crisi, dell’oggetto. E’ possibile dedurre, assumendo questo criterio ermeneutico, le varie esperienze morbose che nascono dal rapporto non autentico col cadavere in quanto centro emozionale della situazione luttuosa. Il cadavere appare una « estraneità radicale » : infatti esso tende a sottrarsi alla potenza formale, e il suo « oltre » —> che solo per entro il rapporto formale si determina — sta diventando « vuoto ». Il cadavere appare una « forza » : infatti, per mancanza di determinazione, i suoi limiti sono entrati in travaglio, e vanno forzandoci rapporto senza trovarlo. Il cadavere è una forza «ostile»: infatti esso, come oggetto in crisi, rispecchia l’alienarsi della stessa energia oggettivante, il che è l’ostile ed il funesto per eccellenza. Il cadavere «contagia»: infatti, nel suo andar oltre irrelativo e senza soluzione, comunica caoticamente il proprio vuoto ad altri ambiti del reale, e al tempo stesso i più disparati ambiti del reale, con progressione minacciosa, spiano l’occasione più accidentale per farsi simbolici rispetto al cadavere, e per ripeterlo in una eco multipla senza fine. Il cadavere « torna come spettro » : infatti esso sta nella crisi dei sopravvissuti come contenuto in cui la presenza è rimasta impigliata e prigioniera, onde torna a riproporsi in modo inautentico nella estraneità e nella indo-minabilità della rappresentazione ossessiva o della allucinazione. Il cadavere è « ambivalente », si dibatte per i sopravvissuti nella infeconda polarità di repulsione e attrazione: infatti il suo scandalo respinge in quanto centro di crisi e di dispersione, ma al tempo stesso comanda perentoriamente il rapporto, in una vicenda irrisolvente. E infine la stessa attrazione, nella carenza della decisione formale, finisce col convertirsi nella esperienza del cadavere che malignamente « attira a sè i vivi » : infatti il cadavere, come oggetto in crisi, non soltanto non mantiene le distanze rispetto agli altri oggetti, ma non rispetta neanche la distanza rispetto alla presenza, e incombe su di essa catturandola e trascinandola via con sè, come Glauca morta il padre Cleonte, allorché esso volle sollevarsi dalla cara spoglia:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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...Quando ebbe finito di piangere e di singhiozzare, volle risollevare il suo vecchio capo. Ma come l’edera ai rami d’alloro, restò preso nel peplo leggero: cercava di rimettersi in piedi, ed essa, in senso inverso, lo tratteneva. Tirava con violenza? Le sue vecchie carni si strappavano dalle ossa. Infine vi rinunciò e rese l’anima, impotente ad aver ragione della sciagura. Giacquero morti la figlia e il vecchio padre, lato a lato — catastrofe fatta per alimentare il pianto (16).

Infine la crisi della presenza in occasione del cordoglio può assumere i modi di un delirio di negazione dell’evento luttuoso: senza compiere il necessario lavoro di interiorizzazione del morto e di trascendimento delPevento luttuoso la presenza malata cerca di instaurare un comportamento come se il morto fosse ancora in vita, concentrando magari su un qualsiasi surrogato l’organizzazione del proprio delirio. In una certa misura ciò può accadere anche nel normale lavoro del cordoglio, come provano gli infiniti espedienti cui talora si ricorre per cancellare o attenuare l’asprezza dell’inaccettabile « mai più » e per guadagnare il tempo necessario a compiere il distacco e la risoluzione degli affetti che il morto aveva mobilitato in noi quando era in vita. Ma se il lavoro del cordoglio riesce, questi espedienti stanno nella dinamica del periodo di lutto appunto come strumenti di distacco e di risoluzione, e quindi come tecniche di riadattamento alla realtà storica, che alla fine sarà accettata e riconosciuta con la rinuncia ad altro che non sia un dolce e benefico ricordo velato di mestizia. Al contrario nei patologici deliri di negazione ciò che dovrebbe funzionare come strumento tecnico di riadattamento diventa centro di organizzazione di tutta la vita psichica, inerzia e pigrizia in cui ci si adagia, argomento di progressivo distacco dalla realtà; e ancorché può sembrare che talora si tratti degli stessi espedienti adoperati nel lavoro efficace, la considerazione della dinamica in cui sono inseriti ci rende avvertiti che il segno nei due casi è opposto, e che i valori della vita umana nel primo caso si stanno drammaticamente ridischiudendo, e nel secondo si stanno dileguando. In un’ultima istanza in questi deliri di negazione si avverte che la presenza non ri
(16) Bue., Medea, 1205-1220.74

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solve la situazione luttuosa, ma semplicemente l’ha perduta, e non vi spende intorno nessun lavoro produttivo. Ciò appare particolarmente evidente in quelle ancor più gravi crisi in cui tutta la situazione luttuosa è colpita da un patologico oblio, e la presenza riemerge dalla rescissione in modo apparente, onde nasce una inautenticità esistenziale nella quale la presenza si dibatte divisa fra la perdita della attualità del reale e il ritorno irrelativo del passato rescisso, il quale torna nel modo più inautentico, cioè senza appartenere alla stessa presenza, e quindi senza poter essere ripreso nella dinamica del « far passare ». Ad illustrazione di questo stato morboso basterà ricordare una malata di Janet che dimenticò tutti i particolari relativi alla malattia, alla morte e alla inumazione della madre, e che dal momento della amnesia smarrì Fattualità del reale e la possibilità di inserirsi in esso con azioni adatte: al tempo stesso l’evento luttuoso rescisso tornava, con le memorie relative, nel corso di crisi periodiche in cui la malata minava le scene obliate come se ancora si trovasse a viverle, cioè come se appartenessero al presente e non al passato: poi, conclusa la crisi che aveva bruscamente interrotto la vita psichica, le scene e la situazione luttuosa erano di nuovo dimenticate (17).

4. Di alcune teorie psicologiche sul cordoglio.

Nel complesso la moderna psicologia non ha dedicato alla crisi del cordoglio tutta l’attenzione che sarebbe stata desiderabile, in parte perché nel mondo moderno la crisi del cordoglio non presenta aspetti così pericolosi come nel mondo antico (per tacere delle civiltà primitive), ed in parte perché è sembrato che l’evento luttuoso come tale non giustifichi una considerazione psicologicamente unitaria, potendo occasionare a seconda delle disposizioni individuali le più diverse nevrosi o psicosi. Tuttavia la moderna psico-cologia ha talora toccato il problema del cordoglio e delle reazioni anormali alla morte della persona cara. Pierre Janet interpreta

(17) La descrizione del caso si trova in P. Janet, L’état meritai des hystérìques, 19233, pp. 55 sg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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la crisi del cordoglio come il prodotto della necessità di sopprimere un certo numero di condotte ormai non più impiegabili verso la persona morta, e di instaurare nuovi comportamenti che tengano conto del fatto della morte: ora questa soppressione e questa instaurazione comporterebbero un lavoro, che può non riuscire, in quanto o si continua ad agire come se il morto fosse ancora in vita o si perde troppo presto la memoria dell’evento luttuoso, per improvvisa amnesia (18). Questa interpretazione della crisi del cordoglio non offre nessun criterio sicuro per distinguere il lavoro che riesce da quello che fallisce: è infatti vero che durante il periodo di lutto, e anche oltre, hanno luogo comportamenti che ritardano o variamente attenuano il pieno riconoscimento della morte, come stanno a testimoniare non foss’altro i riti funerari di tutte le epoche, e i miti dell’al di là e del mondo dei morti, ma tale « ritardo » non costituisce in sé malattia se attraverso di esso si facilita il compito di «far morire i nostri morti in noi». D’altra parte l’amnesia improvvisa ddl’evento luttuoso non è patologica perché l’oblio si produce « troppo presto », e Parreste concerne un numero « eccessivo » di atti, ma perché non è stato compiuto il lavoro di interiorizzazione e di risoluzione che è proprio del cordoglio.

In ogni c^so il giudizio non è quantitativo, ma qualitativo, cioè concerne l’effettivo « passare nel valore » che si compie attraverso il cordoglio come lavoro: e qualsiasi ritardo non sarà mai eccessivo né qualsiasi anticipo prematuro (cioè non si tratterà né di ritardo né di anticipo, ma semplicemente del tempo giusto) se l’uno o l’altro ridischiuderanno gradualmente il vario operare culturale compromesso dalla crisi. D’altra parte proprio il Janet, a proposito della malata già precedentemente ricordata, e nel tentativo di spiegarne il comportamento patologico che abbiamo sommariamente descritto, mette in rilievo come il tratto morboso più saliente fosse l’arresto della personalità alla situazione luttuosa, e la successiva incapacità di « accrescersi per raggiunzione e assimilazione di elementi nuovi » (19): il che significa che la crisi del cor
(18) P. Janet, De Vangoisse à Vextase, II, 1928, p. 350, 367; cfr. p. 281.

(19) P. Janet, L'état mentale des hystériques, 1931, p. 82.76

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doglio è tale nella misura in cui spezza la « durata » della vita spirituale, pietrificandola in un « atomo psichico » che compromette la fluidità stessa della presenza, e che è fonte di inautenticità esistenziale. Relativamente più impegnata e complessa di quella del Janet è la teoria psicoanalitica del cordoglio, che fu inaugurala dal Freud nel suo scritto Tauer und Melancolìe. Il Freud volle scorgere un differenza fra il cordoglio e la melancolia per il fatto che « mentre nel cordoglio è il mondo ad essere povero e vuoto, nella melancolia lo è l’io stesso» (20). Una seconda differenza starebbe nel fatto che mentre il cordoglio si riferisce « alla perdita cosciente di un oggetto amato » la melancolia è in rapporto con una perdita «che si sottrae in qualche modo alla coscienza» (21). Ciò posto il lavoro compiuto dal lutto consisterebbe nel distacco della energia libidica dall’oggetto perduto, e nel reimpiego di tale energia per nuovi investimenti: ora il distacco e il reimpiego possono non riuscire, e la libido può restar legata al vecchio oggetto, che più non esiste, determinando una separazione della realtà e una psicosi allucinatoria del desiderio (22). Nella melancolia invece la perdita dell’oggetto amato (che non è necessariamente una morte fisica, ma in generale una impossibilità di fatto di continuare il rapporto con l’oggetto amato) costringe la libido ad abbandonare l’oggetto, e a ritirarsi nell’io: qui però, in mancanza di impiego, la libido toglie a suo oggetto l’io stesso, con la conseguenza che la perdita dell’oggetto si tramuta nella perdita nell’io, e che l’abbassamento e l’avvilimento dell’io sta in luogo dell’abbassamento e dell’avvilimento dell’oggetto perduto, dell’idolo infranto: come dice Freud « l’ombra dell’oggetto si estende sul soggetto » (23). La melancolia, al pari del cordoglio, svolge un lavoro per liberare la libido dal legame con l’oggetto amato, rendendola disponibile per nuovi impieghi: ma mentre nel cordoglio tale lavoro si svolge prevalentemente nella sfera della coscienza e mantiene la distinzione fra io e oggetto perduto, nella melancolia il processo di distruzione

(20) Freud, Ges. Schr., V, p. 538.

(21) Freud, Op. cit., 1. c.

(22) Freud, Op. cit., p. 537.

(23) Freud, Op. cit., p. 542.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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e di svalutazione si svolge nell’inconscio, finché le cariche libidiche, al termine rei processo, ridiventano libere dando luogo all’accesso di mania (24). Questa prima interpretazione del Freud subì successivamente alcune modificazioni, nel senso che le differenze fra cordoglio e malincolia furono in parte attenuate e in parte diversamente atteggiate. Fu osservato che anche nel cordoglio, al pari che nella melancolia, aveva luogo la identificazione con l’oggetto amato e perduto, come quando i sopravvissuti riproducono — nel gesto, nella inflessione della voce, nell’uso di determinate frasi e simili — particolarità anche minime del comportamento che già appartennero al defunto: tali identificazioni sono da interpretarsi come forme di consolazione della perdita patita, o anche come utilizzazione narcisistica della libido oggettuale rimasta libera da impiego (25). Tuttavia nella melancolia la persona appare integralmente padroneggiata dalla identificazione dell’io con l’oggetto amato e perduto, senza che alla coscienza emerga che cosa propriamente fu perduto nel mondo oggettivo, mentre nel cordoglio

— a meno di ima sua degenerazione melancolica — non è mai del tutto smarrito il rapporto cosciente con l’oggetto, e l’identificazione immediata col morto ritiene una importanza relativamente limitata (26). Un ulteriore sviluppo della teoria psicoanalitica del cordoglio fu determinata dalla considerazione dei rituali funerari delle cosiddette civiltà primitive, e anche di quelli del mondo antico (per tacere dei relitti folklorici che in generale restarono fuori dell’interesse dei psicoanalisti): qui la differenza fra cordoglio e melancolia sembra ancor più attenuarsi, perché quei rituali mostrano in larga misura le autoaccuse, le autoflagellazioni e le autopunizioni che caratterizzano il comportamento melancolico. D’altra parte le « vendette », le esplosioni di aggressività verso l’esterno, le orgie sessuali e alimentari che chiudono il periodo di lutto richia
(24) Freud, Op. cit., p. 552 sg.

(25) Freud, Ges. Schr., VI, p. 374. Cfr. K. Abraham, Obie\tsverlust und Introjek.' non in den normcden Trauer in abnormen psychischen Zustànden, in Versuch einer Ent-wicklungsgeschichte der Libido, 1924, pp. 22 sgg. e C. Musatti, Trattato di psicanalisi, 1950, II, p. 271.

(26) K. Abraham, op, cit., p. 27.78

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mano la fase maniacale che segue a quella malancolica nella forma clinica della cosiddetta psicosi maniaca-depressiva. Le affinità fra cordoglio primitivo (o antico) e il quadro clinico della melanco-lia spinsero Géza Roheim a tentare una nuova interpretazione del cordoglio e delle forme di depressione melancolica o di aggressività maniacale che possono accompagnarlo. Se le autoaccuse e le autopunizioni del melancolico sono originariamente dirette a un’altra persona che ora è stata identificata con l’io, le autoaccuse e le autopunizioni che hanno luogo durante la crisi del cordoglio, e che si manifestano con particolare evidenza nei rituali del mondo primitivo e di quello antico, dovevano essere con tutta probabilità ricondotte allo stesso processo di identificazione (o di «introiezione »). A questo punto venne in soccorso del Roheim la famosa teoria freudiana dell’Urvater ucciso e divorato dai figli gelosi, misfatto che avrebbe inaugurato la storia dell’umanità. Avendo mangiato il padre, il conflitto esterno fu «interiorizzato» nei parricidi: « qualcosa in loro era divenuto padre », dando luogo a un conflitto endopsichico fra «io ideale» e «io attuale», e quindi a una fase di depressione melancolica, con relative autoaccuse e autoflagellazioni. Il conflitto fu sciolto mercé la sua proiezione all’esterno, cioè dando sfogo alle tendenze parricide che continuavano ad operare, ma volgendole a un oggetto surrogato, cioè al nemico, che era mangiato e divorato in una spedizione guerresca. La fase maniacale chiudeva così la fase melancolica, proprio come nella psicosi maniaco-depressiva: e i rituali funerari primitivi sembravano ad ogni morte ripetere questa vicenda, sia pure in forma abbreviata, poiché il periodo di lutto si chiudeva in essi molto spesso con una spedizione di « vendetta », o con un’orgia sessuale o alimentare. Allo stesso modo la zoofobia e il totemismo sarebbero stati un altro modo di proiettare all’esterno, in questo caso sull’animale, il conflitto interno (27).

Più recentemente Melarne Klein ha ripreso il problema del cordoglio al di fuori delle istanze prevalentemente etnologiche che

(27) Geza Roheim, Nach dem Tode des Urvarter, in « Imago », IX (1923), pp. 83 sgg.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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avevano indotto il Roheim a formulare la sua interpretazione. Per la Klein ogni lutto rinnova in generale il bisogno di restaurare dentro di sé la persona amata e perduta, così come avevano già detto il Freud e l’Abraham: ma al tempo stesso ogni lutto mette in pericolo gli oggetti amati per primi — in ultima analisi i « buoni genitori » — e pertanto obbliga a restaurare in sé anche il mondo interno, che sta perdendo il suo equilibrio e sta andando in rovina. Il cordoglio è un lavoro che provvede a questa duplice restaurazione: ma vi provvede riattivando e ripetendo — sebbene in diverse circostanze e con diverse manifestazioni — gli stessi processi maniaco-depressivi che sono propri dell’epoca infantile. Il lavoro del cordoglio non riesce quando la persona non ha potuto stabilire nella sua infanzia i suoi interni « buoni oggetti », e affronta perciò l’evento luttuoso già in condizioni di insicurezza e di squilibrio interni (28).

Le teorie psicoanalitiche del cordoglio hanno in comune il limite fondamentale di restare essenzialmente al di fuori della grande tradizione culturale che riconduce il lavoro del cordoglio al « far morire i nostri morti in noi», cioè al far passare i morti nel valore, trascendendo con ciò la situazione luttuosa. La vicenda della «libido oggettuale» che nel cordoglio sarebbe impegnata a distaccarsi dalPoggetto perduto e ad impiegarsi in un nuovo oggetto parrebbe adombrare in qualche modo ciò che abbiamo chiamato « trascendimento della situazione luttuosa » : ma in realtà la libido (o vitalità) non va oltre la polarità del piacere e del dolore e delle corrispondenti reazioni, e l’oggettivazione secondo forme di coerenza culturale non è opera della vitalità, ma delPethos del trascendimento. Anzi il chiudersi della vitalità in se stessa, la sua recessione adialettica, costituisce il rischio del cordoglio e la minaccia di una crisi nella quale possono apparire, degradati sul piano meramente vitale e in una vicenda impropria e irrisolvente, i compiti ai quali l’ethos del trascendimento sta venendo meno: una crisi in cui il far morire ideale e interiore può scadere nell’impulso ma
(28) M. Klein, Mouming and its relations to manie-depressive states, in Contri-butions to Mychoanalyses 1921-1945, London 1948, pp. 311 sgg.80

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terialmente distruttivo, l’interiorizzazione del morto smarrirsi nel mangiare il morto, la necessità della ripresa e della liberazione degradarsi nello scoppio irrefrenabile di riso, nell’erotismo e nella fame, e infine il complesso degli scacchi del trascendimento essere avvertito come estrema abiezione e come colpa radicale. Questa critica di principio alle teorie psicoanalitiche del cordoglio ci dispensa, almeno in questa sede, dairesaminarne le singole parti e dal discutere il romanzo etnologico di Géza Roheim: a noi basti aver spinto la polemica quanto occorre per ribadire quella tradizione culturale che assegna al cordoglio il compito di trascendere nel valore la situazione luttuosa, e che interpreta la crisi come impotenza a compiere questo trascendimento.

5. Intorno a un pensiero del Croce sul cordoglio

Nei suoi Frammenti di Etica il Croce espresse sul cordoglio un pensiero notevole, per quanto occasionale: un pensiero che racchiude la possibilità di uno sviluppo teorico e di un approfondimento storiografico, e che di fatto ha operato come stimolo nella nostra ricerca sul pianto rituale nel mondo antico e sul processo storico che condusse al nuovo ethos della morte inaugurato dal Cristianesimo. Ecco il passo dei Frammenti:

Che cosa dobbiamo fare degli estinti, delle creature che ci furono care e che erano come parte di noi stessi? «Dimenticarli», risponde, se pure con vario eufemismo, la saggezza della vita. « Dimenticarli », conferma letica. « Via sulle tombe! », esclamava Goethe, e a coro con lui altri spiriti magni. E l'uomo dimentica. Si dice che ciò è opera del tempo; ma troppe cose buone, e troppo ardue opere, si sogliono attribuire al tempo, cioè ad un essere che non esiste. No: quella dimenticanza non è opera del tempo; è opera nostra, che vogliamo dimenticare e dimentichiamo... Nel suo primo stadio, il dolore è follia o quasi: si è in preda a impeti che, se perdurassero, si conformerebbero in azioni come quelle di Giovanna la Pazza. Si vuol revocare l'irrevocabile, chiamare chi non può rispondere, sentire il tocco della mano che ci è sfuggita per sempre', vedere il lampo di quegli occhi che più non ci sorrideranno e dei quali la morte ha velato di tristezza tutti i sorrisi che già lampeggiarono. E noi abbiamo rimorso dì vivere, ci sembra di rubare qualcosa che è di proprietà altrui, vorremmo morire con i nostri morti: codesti sentimenti, chi non li ha, purtroppo, sofferti o amaramentePERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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assaggiati? La diversità o la varia eccellenza del lavoro differenzia gli uomini: l’amore e il dolore li accomuna; e tutti piangono ad un modo. Ma con l’esprimere il dolore, nelle varie forme di celebrazione e culto dei morti, si supera lo strazio, rendendolo oggettivo. Così cercando che i morti non siano morti, cominciamo a farli effettivamente morire in noi. Né diversamente accade nell’altro modo col quale ci proponiamo di farli vivere ancora, che è il continuare l’opera a cui essi lavorarono, e che è rimasta interrotta... (29).

In effetti questo passo del Croce racchiude una esattissima e umanissima verità: per grande che possa essere il dolore di una perdita subito si impone a noi, nella piena stessa del dolore e con tanto maggiore urgenza quanto più siamo prossimi alla disperazione, il compito di evitare la perdita più irreparabile e decisiva, quella di noi stessi nella situazione luttuosa. Il rischio di non poter oltrepassare tale situazione, di restare fissati e polarizzati in essa, senza orizzonti di scelta culturale e prigionieri di immaginazioni parassitane, costituisce la seconda decisiva morte che l’evento luttuoso può trascinarsi dietro; perciò nella morte della persona cara siamo perentoriamente chiamati a farci procuratori di morte di quella stessa morte, sia destinando ad una nuova riplasmazione formale la somma di affetti, di comportamenti, di gratitudini, di speranze e di certezze che l’estinto mobilitò in noi finché fu in vita, sia facendo nostra e continuando e accrescendo nell’opera nostra la tradizione di valori che l’estinto rappresenta. Indipendentemente dalla situazione luttuosa come tale, è appunto questa la varia fatica che ci spetta in ogni momento critico dell’esistenza, che è sempre un attivo f ar passare nel valore, e quindi un rinunziare e un perdere, un distacco e una morte, e al tempo stesso una opzione per la vita: ma nella perdita di una persona cara noi sperimentiamo al più alto grado l’esprezza di questa fatica, sia perché ciò che si perde è una persona che era quasi noi stessi, sia perché la morte fisica della persona cara ci pone nel modo più crudo davanti al conflitto fra ciò che passa irrevocabilmente senza di noi (la morte come fatto della «natura») e ciò che dobbiamo fai passare nel valore (la

(29) Croce, frammenti di Etica, 1922, pp. 22-24, cfr. p. 21 e 111.82

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morte come condizione per l’esplicarsi della eterna forza rigenerante della « cultura). La fatica di « far passare » la persona cara che è passata in senso naturale, cioè senza il nostro sforzo culturale, costituisce appunto quel vario dinamismo di affetti e di pensieri che va sotto il nome di cordoglio o di lutto: ed è la « varia eccellenza» del lavoro produttivo e differenziato a tramutare lo « strazio » — per cui tutti gli uomini rischiano di piangere « ad un modo» — in quel saper piangere che reintegra l’uomo nella storia umana. A questo punto comincia a prendere consistenza un definito problema storico-religioso. Nel passo nei suoi Frammenti di Etica il Croce fa esplicito riferimento alle varie forme di celebrazione e di culto dei morti attraverso le quali « si supera lo strazio, rendendolo oggettivo», cioè si avvia l’aspra fatica di far morire i nostri morti in noi. Questo acuto — per quanto occasionale — pensiero del Croce merita di essere svolto e approfondito nella concretezza di una ricerca storico-religiosa. Nel formulare tale pensiero il Croce aveva presente soprattutto la forma cristiana del culto dei morti, e in sostanza spingeva al suo compimento il motivo di vero racchiuso nella ideologia funeraria nata sotto la spinta del Cristianesimo come religione. Fu infatti la religione cristiana che inaugurò il grande tema culturale di Cristo vincitore della morte, e chiamò i morti dormienti in attesa di risveglio, e insegnò agli uomini a non temere il defunto come larva, potenziando al massimo Pethos della « cara memoria » : e per quanto questo ethos vivesse per entro il mito in un al di là metastorico, e non già ancora si fosse sollevato al pensiero dell’a/ di là dell’opera umana, da dispiegare senza sosta nella storia per vincere il non-es-sere perennemente risorgente, innegabilmente da quel mito si svolse questo pensiero, per filiazione diretta e secondo itinerari culturali dimostrabili. D’altra parte la interpretazione del Croce non vale soltanto per la civiltà cristiana, e per il cristiano culto dei morti, ma può essere estesa a tutte le possibili civiltà religiose. Anzi la più sicura conferma della sostanziale verità della formulazione del Croce sembra provenire addirittura dalle cosiddette civiltà primitive, ove i rituali funerari mostrano nel modo più crudo e diPERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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retto il momento dell’oblio dell’evento luttuoso, e l’espressione simbolica — nel rito come nel mito — della separazione del morto dai viventi e della difesa dei viventi dalle funeste insidie del morto. Presso i Feugini p. es. il tema dell’oblio trova espressione in numerosi tratti del rituale funerario. « Niente deve ricordarci più il nostro morto», dicono, gli indigeni (30): e in conformità a questo proposito immobilizzano il cadavere affinché non torni come spettro a tormentare i viventi, cercando in vario modo di dissimulare e di rendere irriconoscibile il luogo della inumazione, si inibiscono di pronunziare il nome del defunto, bruciano la sua capanna e gli oggetti che gli appartennero in vita, così, e così via (31). Fra i riti funerari dei gruppi Aranda osservati da Strehlow ve ne è uno particolarmente istruttivo a questo proposito: viene tessuto un cordone con i capelli del morto, e il fratello minore nel corso del rituale funerario pone uno dei capi di questo cordone in bocca ad un uomo, premendo l’altro capo sul proprio addome, dove cioè avverte l’angoscia. Quindi l’uomo morde il cordone, a significare la cessazione dell’angoscia: la stessa procedura è successivamente ripetuta per tutti i membri della comunità in lutto, prima con gli uomini, poi con la vedova e infine con le altre donne (32). Nelle lamentazioni rituali eseguite dai Paiute si ritrovano espressioni di questo tipo: « Questo era l’ultimo nostro parente. Era un uomo buono. Sia possibile per noi dimenticarlo... Addio, va alla terra dei morti, e non tornare... Abbiamo fatto del nostro meglio per curarti: non tornare a disturbarci... ». In particolare in un rito di liquidazione del periodo di lutto viene versata dell’acqua sul capo di colui che è in cordoglio, accompagnando l’atto con le seguenti parole: « Questo è l’inizio di una nuova vita per te. Acqua, lava via

i dolori e le pene di quest’uomo: tu devi dimenticare il tal dei tali, e devi essere in tal modo felice » (33).

(30) M. Gusinde, Die Fuerland lndiàner, 1 Die Selì^nam, Mòdling bei Wien 1931, p. 550 sg.

(31) Op. cit., pp. 547 sgg. (legamento del cadavere), 550 (dissimulazione del tumu* lo) 566 (tabu del nome), 552 sg. (bruciamento delle appartenenze).

(32) Strehlow, Die Aranda und Loritja Stàmme im Zentral-Australien, Veroffenti ichungen aus dem stadtlichen Museum, Frankfurt a.M., IV, 2, pp. 15 sgg.

(33) J. H. Steward, Ethnography of thè Owens Volley Paiute, in « University of84

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Eppure questi dati etnologici (che potrebbero essere moltiplicati a piacere) non agevolano gran che nel compito di « continuare a pensare» il pensiero racchiuso nel passo del Croce. La nostra lontananza ideale dalle civiltà primitive, la mancanza di una documentazione diretta relativa al loro passato, il carattere equivoco dello stesso termine « primitivo » e infine i limiti inerenti alle monografie etnografiche di cui dobbiamo avvalerci quando manchi la opportunità di una ricerca personale in loco, costituiscono altrettanti ostacoli per chi volesse direttamente appoggiarsi al materiale etnologico al fine di approfondire la formulazione del Croce oltre la cerchia della civiltà cristiana e della sensibilità moderna per entro la quale essa è nata e maturata. D’altra parte approfondimenti di questo genere male cominciano col più arcaico e con l’idealmen-te più remoto da noi, per giungere poi sino a noi in un vano conato di storia universale, ma — al contrario — debbono partire dal certo e dal vero della nostra attuale consapevolezza storiografica per allargarsi nella direzione di quel passato culturale più prossimo dal quale la civiltà alla quale apparteniamo è nata per filiazione diretta (34). L’approfondimento che ci proponiamo di eseguire si orienta così in modo del tutto naturale verso il mondo antico, e cioè verso le antiche civiltà che si affacciarono al Mediterraneo, o

California Publications in America Archeology and Ethnology », XXXIII (1932), n. 3, pp. 296 sgg.

(34) Una delle difficoltà che si oppongono alla storicizzazione della ricerca etnologica è da ricercarsi nel fatto che i popoli illetterati attualmente viventi non rappresentano allatto fasi culturali per le quali l’umanità più progredita sarebbe un tempo passata, ma sviluppi di una storia che si è svolta a lungo indipendentemente dalla nostra, e che solo in lontanissimi punti di selezione e in antichissime scelte si diparte da un processo storico comune. Non vi è quindi fra noi e questi popoli un rapporto culturale di filiazione diretta, ma piuttosto di lontana cuginanza con paternità incerta. Per una completa storicizzazione delle civiltà dei popoli illetterati noi dovremmo quindi poter riportare alla memoria proprio l’antichissima scelta culturale nella quale ci dividemmo imboccando cammini diversi, e dovremmo successivamente risalire il processo indipendente che ne è seguito, sino alla situazione attuale, etnograficamente osservabile: il che è certamente possibile (ed oggi che sta tramontando il rapporto coloniale con quei popoli è anche augurabile che avvenga), ma comporta ad ogni modo una fatica « molesta e grave » — per dirla col Vico — ed il superamento di ostacoli notevoli sia nella formulazione dell’esatto problema storiografico, sia nel reperimento dei documenti necessari per la ricostruzione, Cfr. la nostra monografia Religionsethnologic und Historizismus in « Pai-deuma» Mitteilungen zur Kulturkunde, Bd. II, Héft 4/5, Sept. 1942.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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che comunque gravitarono verso questo piccolo mare così importante per la storia dell’uomo. La civiltà cristiana si riattacca immediatamente a queste civiltà, ed è anzi sorta come loro vibrante negazione polemica: in tale polemica noi siamo ancora in un certo senso impegnati, e ne portiamo il documento interno nelle nostre persuasioni e nei nostri comportamenti, nelle nostre avversioni e nelle nostre preferenze. Si tratta di un passaggio avvenuto una sola volta nella storia, e che vive nella nostra coscienza culturale come conflitto fra cristianesimo e paganesimo, e in particolare — per l’argomento che qui ci interessa — come urto fra ideologia cristiana e ideologia pagana della morte. Per questa polemica creatrice e per questo passaggio avvenuto una sola volta nella storia, le civiltà del mondo antico — per varie che siano — possono essere considerate come una unità storiografica vivente, come l’altro da cui noi siamo nati. Nel quadro di queste considerazioni si spiega perché la nostra scelta è caduta sui rituali funebri del mondo antico, e sulle figurazioni mitiche che vi si ricollegano. Tuttavia al fine di una maggiore individuazione storiografica ci è sembrata necessaria una ulteriore delimitazione dell’argomento. Fra i vari momenti degli antichi rituali funebri spicca come loro nota costante il lamento funebre: dall’Egitto alla Mesopotamia, da Israele ad Atene e a Roma il lamento riveste una importanza culturale di primo piano. In ciascuna di queste civiltà esso fu sottoposto ad elaborazioni diverse, sollevandosi in Egitto al lamento di Iside e Nephtys per Osiride, in Israele trasponendosi nella qulnà profetica, alimentando in Grecia l’epos, la tragedia e la Urica della morte, e da per tutto collegandosi con determinati valori politici e sociali (lamentazioni collettive per il re o per il signore o per l’eroe). Ma c’è di più: il lamento funebre rituale si collega saldamente, nel mondo antico, al mito del nume che muore e che risorge, cioè a uno dei temi più importanti delle antiche civiltà religiose del Mediterraneo: questo rapporto è così organico da impedire di considerare l’antico lamento per i morti al di fuori del grandioso orizzonte mitico del nume morto e risorto, sia esso Osiride o Tamùz o Baal o Adone o Dioniso o Kore, e quindi al di fuori del pianto rituale e86

ERNESTO DE MARTINO

del giubilo che nel rito attualizzavano la vicenda mitica di questi numi. Nel che troviamo una conferma che il pianto rituale rappresenta nel mondo antico non soltanto un importante momento dei rituali funebri, ma proprio il tema centrale di quel particolare saper piangere davanti alla morte che fu proprio delle civiltà religiose mediterranee. La crisi decisiva di questo istituto culturale fu inaugurata col Cristianesimo: il quale su tutta l’area della sua diffusione si scontrò col lamento funebre e aspramente lo combatte, respingendolo non già nei suoi eccessi parossistici o per ragioni suntuarie — come era già avvenuto nel mondo antico —, ma proprio sul terreno religioso e in quanto costume pagano antitetico alla ideologia cristiana della morte. Si ingaggiò così, anche per tale ambito circoscritto, una lotta fra Cristianesimo e eredità del mondo antico, una lotta storica, avvenuta una sola volta, ed esattamente individuabile in senso storiografico, col risultato che il lamento cessò, per entro la civiltà cristiana, di far parte organica del rapporto fra morti e sopravvissuti, e di partecipare a un vario e importante processo di plasmazione, per scadere — anche se lentamente — a episodi relativamente secondari di circolazione culturale, e infine a relitti folklorici più o meno inerti e disgregati. D’altra parte vi è una seconda più particolare ragione che ci orienta verso il lamento funebre rituale del mondo antico, ed è il fatto che questo istituto si presenta nel quadro delle antiche civiltà mediterranee come il più adatto a consentire l’esplorazione di tutto l’arco che va dallo « strazio ■» alla oggettivazione del dolore, dalla crisi davanti al cadavere sino al riscatto culturale. Con una singolare ampiezza dinamica che ritrova continua eco nella nostra anima di uomini moderni il lamento antico ci permette di sorprendere il modo col quale, in un ambiente storico dal quale direttamente proveniamo o che ci siamo appena lasciati alle spalle, la dispersione e la follia che minacciano l’uomo colpito da lutto furono istituzionalmente moderate nel rito, ridischiuse alle figurazioni del mito, e drammaticamente redente nel vario operare umano, cioè nell’ethos delle memorie e degli effetti, nei significati sociali, politici e giuridici, nell’autonomia della poesia e dei gravi pensieri sulla vita e sulla morte:PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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finché, compiuto il suo ciclo storico, il pagano lamento cedette il luogo ad un nuovo e diverso modello culturale di comportamento davanti alla morte, il modello di Maria.

6. Maria come modello del cordoglio cristiano

In perfetta coerenza con la solenne affermazione della vittoria di Cristo sulla morte e con la polemica contro la lamentazione pagana, il Nuovo Testamento non conosce un pianto di Maria. In Giovanni 19. 25-27 Maria appare alla croce come muta spettatrice, e l’evangelista non pone sulla sua bocca nessuna espressione di dolore: Maria madre di Gesù, Maria di Cleopha e Maria Maddalena vi sono rappresentate in atto di stare davanti alla croce, chiuse in un patire interiore e raccolto, che guadagna in singolare efficacia etica proprio per il fatto che non appena scorgiamo nello scenario della Passione il disegnarsi di queste tre ombre silenziose e immobili. Tutta una tradizione si ricollega a questo interiore patire, cui Ambrogio contendeva anche lo sfogo delle lacrime (stan-tem illam lego, flentem non lego) (35), e che nella sequenza dello Stabat Mater si ravviva e umanizza in un contemplare velato di lacrime: Stabat Mater dolorosa / iuxta crucem lacrymosa / dum pen-debat filius: / cuius animam gementem, / contristatam et dolen-tem / pertransivit gladius (36).

Sulla linea di questa tradizione non troverebbe posto, a stretto rigore, la rappresentazione drammatica del dolore di Maria secondo una mimica definita e un discorso contesto di moduli, ma soltanto il lirismo religiosamente impegnato del credente che alla Mater Dolorosa chiede la mediazione per aprirsi alla passione di Cristo e per morire con Cristo al peccato: fac me tecum piangere, fac ut portem Christi mortem, come si legge nella sequenza dello Stabat. Ma questo altissimo modello del dolore cristiano non poteva operare realmente nella storia e svolgervi la sua effettiva pedagogia dell’umano cordoglio se non avesse saputo rag
(35) Ambbr., De obìtu Valent., 39 CSEL 73, p. 348 Faller.

(36) Sullo Stabat resta fondamentale il lavoro di C. Ermini, Lo Stabat Mater e il pianto della Vergine nella lirica del Media Evo, 1916.88

ERNESTO DE MARTINO

giungere sul piano terreno la crisi che nel cordoglio sta come rischio, e se non avesse assorbito e trasfigurato le tecniche pagane di controllo e di reintegrazione. Solo raggiungendo questo piano il modello mariano del dolore poteva trascinare i dolenti verso la nuova meta religiosa e culturale, e non importa se esso doveva affrontare tutti i rischi del compromesso, del sincretismo e del ritorno al passato. Qui sta il germe della profonda necessità storica degli sviluppi drammatici del planctus Mariae. Negli apocrifi Acta Pilati (che risalgono alla prima metà del quinto secolo) il pianto di Maria già tende a riassorbire e a trasfigurare sul pianto cristiano le forme esterne dell’antico lamento funebre rituale, con i suoi momenti dell’assenza, del planctus risolto in una mimica tradizionale e del discorso della lamentazione. Alla vista del figlio coronato di spine e con le mani legate, Maria perde coscienza e giace esamine a terra per lungo tempo, quindi tornata in sé entra nella vicenda della lamentazione, percuotendosi il petto e graffiandosi le guance con le unghie e innalzando un lamento che in più punti ricorda, per il suo contenuto, una comune lamentazione pagana resa da madre a figlio (37). Nella tragedia cristiana Chri-stòs pàschon, attribuita a Gregorio di Nazianzo ma in realtà molto più tarda, Maria alterna lamenti di pagana ribellione con la coscienza di piangere non già il Cristo, ma il peccato di coloro che

lo conducono alla croce. Altrove essa proclama di star salda nella fede della risurrezione, e annunzia che i suoi lamenti avranno termine quando vedrà risorto colui che ora è in preda alla morte. Davanti al sepolcro del figlio, pur continuando il lamento Maria esorta le donne di Galilea a non lamentare la morte di Cristo, poiché nella prospettiva delle risurrezione è ormai compiuta l’epoca degli antichi lamenti funebri:

Come piangerò, come esprimerò il mio dolore per la tua morte? O voi che lasciaste la terra di Galilea, o mie compagne cui, ignare dei misteri, attrasse Gesù che ora giace nella tomba, non intonate i soliti lamenti, ma pian
(37) Si vedano gli Acta Pilati nella edizione del Vannutelli, Roma 1938. Le lamentazioni sono più brevi in Acta Pilati A e B, più lunghe in C. Per alcune lamentazioni tralasciate dal Vannutelli, cfr. la edizione del Tischendorf, p. 306.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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getelo con un sommesso pianto: con lieti canti lo celebrerete quando tornerà, re della vita, affinchè si avveri la mia sicura speranza (38).

Come noto il Christòs pàschon è in parte un centone di versi di Eschilo, di Licofrone e di Euripide, ed ha un valore letterario scarsissimo: ma da punto di vista storico-religioso è un documento notevole poiché ci mostra una Maria che pur assumendo i modi della lamentazione pagana appare in un certo senso come l’ultima lamentatrice in atto di patire la morte di colui che vince la morte, e al tempo stesso di annunziare nella prospettiva della Risurrezione la fine «dei soliti lamenti». Qui noi possiamo misurare tutta la distanza storica che separa il pianto di Maria da quello di Iside e di Nephthys per Osiride: mentre il pianto di Iside e di Nephthys diventò il modello della lamentazione per la morte di persone storiche, il pianto di Maria poteva assurgere soltanto a nucleo germinale e successivamente a momento di una rappresentazione drammatica della Passione di colui che aveva liberato il mondo dalla morte (39). La popolarità del planctus Marìae medievali, dapprima in latino e poi in volgare, e la loro germinalità rispetto alle Passioni derivano soprattutto dal fatto che la rappresentazione drammatica del suo cordoglio oggettivava in un cordoglio esemplare, illuminato di pazienza e di speranza, gli infiniti cordogli terreni di un mondo vulnerato dalla morte, esposto al rischio della crisi e ancora incline a ricadere nei modi della lamentazione pagana. In questo quadro noi ora comprendiamo meglio come le Passioni drammatiche medievali sembrino talora accogliere la stessa mimica della disperazione pagana, come nel planctus della Cattedrale di Cividale del Friuli:

(38) Per il Chnstos Paschon è da vedere l’edizione critica di J. G. Brahms 1896 e la traduz. it. di Ottavio Prosciutti in Teatro religioso del Medioevo fuori d'Italia a cura di Gianfranco Contini, 1949, pp. '25-66. Frammenti tradotti del Christos Paschon anche in Canterella, Poeti Bizantini, II, p. 191-201. Per la discussione delle quistioni relative e per la bibliografia sull’argomento cfr. C. Del Grande, Tragoidia, 1952, pp. 225 sgg., p. 322 sg.

(39) Sul rapporto, fra planctus e passione drammatica cfr. E. K. Chambers, The medieval Stage, 1903, II, p. 39 sg. e p. Young, The drama of thè medieval Church, Oxford 1933, I, p. 493.90

ERNESTO DE MARTINO

Magdalena:

(hic vertat se ad homines cum brachi) s extensis)

O fratres!

(hic ad mulieres)

Et sorores!

(hic percutiat sibi pectus)

Ubi consolatio mea?

(hic manus ellevet)

Ubi tota salus?

(hic, inclinato capite, sternat se ad pedes Christi).

Maria Maior:

(hic percutiat manus)

O dolor!

Proh dolor!

Ergo quare,

(hic ostendat Christum apertis manibus) fili chare pendes ita cum sis vita

(hic pectus percutiat suum) manes ante secula?

• .........(40)

Il rapporto è ancora più evidente nei compianti in volgare. In un testo cassinese della passione che risale alla metà del secolo decimosecondo (e che quindi è il più antico fra quelli conosciuti) la vicenda drammatica in latino si chiude con un frammento di planctus in volgare, corredato di note musicali, che sarà stato cantato in coro dai fedeli, specialmente dalle donne del popolo, e che riecheggia un tema del lamento funebre di madre a figlio, il ricordo dei nove mesi di gestazione:

.... te portai nillu meu ventre

.... quando te bejo... (lo) co presente

.... nillu teu regnu agirne ammette (a mmenteP) (41)

(40) Young, op. cit.t n, p. 506 sg.

(41) D. M. Inguanez, Un dramma della passione del secolo XII, Badia di Monte-cassino 1936, p. 38.PERDITA DELLA PRESENZA E CRISI DEL CORDOGLIO

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Analogo rapporto può intravedersi nella più ampia ed elaborata drammatizzazione della passione inclusa nei Carmina Bu-rana, dove alla remissione dei peccati fatta da Gesù segue — con poca coerenza, come nota lo Young — un lamento di Maria che si inizia con le disperate parole: awe, awe, daz ich ie wart ge-born (42). A proposito della famosa lauda di Jacopone «Donna del Paradiso» il Toschi ha osservato come determinate espressioni del corrotto («Figlio, amoroso giglio», «Figlio, occhi giocondi», «Figlio di mamma scura», «Figlio de la sparita, figlio attossicato», «Figlio, a chi m’appiglio? Figlio pur m’hai lassato », « Figlio, perché t’ascondi — dal petto o’ se’ lattato ») non hanno riscontro « nelle trenodie ecclesiastiche, ma nello stile ae-dico e nel costume del répito o corrotto popolare», cioè «ricalcano la fraseologia dei pianti funebri che le donne del popolo cantavano, ai tempi di Jacopone, a Todi ed in tutta l’Umbria» (43).

Tuttavia quale che siano i compromessi ed i sincretismi a cui dette luogo il culto di Maria nella sua espansione, resta il fatto che dal punto di vista storico-religioso la figura di Maria non appare ricalcata su quella della lamentatrice o della prefica del mondo antico, ancorché ne potè assumere occasionalmente alcuni tratti. Anzi proprio per assolvere la sua funzione pedagogica di Ma-ter Dolorosa e di modello del nuovo ethos cristiano di fronte al
(42) Young, op. cit., II, p. 518 sgg.

(43) P. Toschi, Le origini del Teatro italiano, 1955, p. 685. Per il planctus Mariae è da vedere (oltre il Chambers, l’Ermini e Io Young già citati), E. Wechssler, Die ro-manische Marienklage, Halle. 1893, A. Schònbach, Ueber die Marien\lagen, Graz 1874, pp. 10 sgg., H. Thien, Ueber die englischen Marien\lagen, Kiel 1906, pp. 3 sgg. Si veda anche A. Lingfors, Contribution à la bibliographie des plaintes de la Vierge in « Revue des langues romanes », I-III, 1910, pp. 58-60, e il lavoro mariologico di A. M. Lepicier, Mater dolorosa. Notes d’histoire, de liturgie et d’iconographie sur le culte de Notre Dame des Doleurs, 1948. A parte i planctus Mariae sarebbero da considerare nel quadro della trasposizione cristiana dell’antico lamento funebre rituale i planctus medievali destinati a pubblici personaggi, e talora composti da chierici. Almeno alcuni di essi erano destinati ad essere cantati in pubbliche manifestazioni di lutto, come si desume dalle melodie che li accompagnano e da alcuni luoghi dei testi: p. es. in un planctus per l’arcivescovo Fulco di Reims composto dal canonico Sigloardo (sec. X) segue all’intercessione per i defunti l’invito: Amen, fiat ita, Dicat omnis ecclesia; e un planctus per il duca normanno Guglielmo morto nel 943 si apre con la seguente didascalia di esecuzione: Cuncti flètè prò Wilhelmo Innocente interfecto (cfr. H. Springer, Dos altporvenzalische Kla-gelied mit Beruc^sichtigung der verwandten Uteraturen, Berlin 1895, p. 16 sg.).92

ERNESTO DE MARTINO

la morte, la figura di Maria si adattò persino ad accogliere gli aspetti più arcaici del cordoglio antico, come il cadere inanimata ed il percuotersi il petto e il graffiarsi le guance ed il lamentarsi, secondo che narrano gli Acta Pilati: ma la sua figura di madre in lutto resta sostanzialmente legata ad un’altra immagine pedagogicamente egemonica, al suo stare raccolto, immobile e muto del Vangelo giovanneo, o al contemplare velato di lacrime della sequenza dello Stabat. Ed il centro della cristiana religione non è nel cordoglio di Maria come tale, ma in quel « portare Christi mortem » che la Mater dolorosa aiuta a vivere come esperienza (fac ut portem mortem Christi). Questo mutamento di prospettiva può essere esemplato con la vita di Santa Emiliana de’ Cerchi, che rimasta vedova in giovanissima età si chiuse nella torre del palazzo avito, ricusando ormai di lamentare la morte per lutti terreni, e decisa a versare le sue lacrime soltanto per i suoi peccati e per la passione di Cristo, a lungo resistendo alle tentazioni del diavolo, che le adduceva davanti agli occhi cadaveri di persone a lei care, come per risvegliarla al mondano patire: finché la santa vinse la lotta, e si votò interamente alla lamentazione per Cristo morto, onde notturno silentio, dormiente jamula et illis de domo, fortibus clamoribus et duris lamentationibus deplorabat di-lecti sui ]esu Passionem, crinibus resolutis.

Ernesto De Martino
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32287+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1958 Mese: 1 Giorno: 1
Numero 30
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1958 - 1 - 1 - numero 30


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