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tipologia: Analitici; Id: 1472355


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Alberto Moravia, La ciociara
Responsabilità
Moravia, Alberto+++
  • ente ; ente
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
LA CIOCIARA (*)
Ah, i bei tempi di quando andai sposa e lasciai Vallecorsa per venire a Roma. La sapete la canzone:
Quando la ciociara si marita
a chi tocca lo spago e a chi la ciocia.
Ma io diedi tutto a mio marito, spago e ciocia, perché era mio marito e anche perché mi portava a Roma ed ero contenta di andarci e non sapevo che proprio a Roma mi aspettava la disgrazia. Avevo la faccia tonda, gli occhi neri, grandi e fissi, i capelli neri che mi crescevano fin quasi sugli occhi, stretti in due trecce1tte fitte simili a corde. Avevo la bocca rossa come il corallo e qua do ridevo mostravo due file di denti bianchi, regolari e stretti. Ero forte allora e sul cercine, in bilico sulla testa, ero capace di portare fino a mezzo quintale. Mio padre e mia madre erano contadini, si sa, però mi avevano fatto un corredo come ad una signora, trenta di tutto : trenta lenzuoli, trenta federe, trenta fazzoletti, trenta camicie, trenta mutande. Tutta roba fine, di lino pesante filato e tessuto a mano, dalla mamma stessa, al suo telaio, e alcune lenzuola ci avevano anche la parte che si vede tutta ricamata con molti ricami tanto belli. Avevo anche i coralli, di quelli che valgono di piú, rosso scuro, la collana di coralli, le buccole d'oro e di coralli, un anello d'oro con un corallo, e persino una bella spilla anch'essa d'oro e di coralli. Oltre i coralli ci avevo alcuni oggetti d'oro, di famiglia e avevo un medaglione da portare sul petto, con un cammeo tanto bello, nel quale si vedeva un pastorello con le sue pecore.
Mio marito aveva un negozietto di alimentari, in Trastevere, al vicolo del Cinque; e affittò un quartierino proprio sopra il negozio, tanto che sporgendomi dalla finestra della camera da letto
(*) Primo capitolo di un romanzo in preparazione.
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potevo toccare con le dita l'insegna color sangue di bue, su cui c'era scritto « pane e pasta ». Il quartierino aveva due finestre sul cortile e due sulla strada, erano quattro stanzette in tutto, piccoline e basse, ma io le ammobiliai bene, un po' di mobili li comprammo a Campo di Fiori e un po' li avevamo, di famiglia. La camera da letto era tutta nuova, col letto matrimoniale di metallo dipinto che imitava il legno e le testiere ornate di mazzolini e ghirlande; nel salotto ci misi un bel sofà col riccioloni di legno e la stoffa a fiorami, due poltroncine con la stessa stoffa e gli stessi riccioloni, un tavolo tondo per mangiare, e una credenza per tenerci i piatti, tutti di porcellana fina quest'ultimi, col bordo d'oro e un disegno di frutta e fiori nel fondo. Mio marito scendeva la mattina presto al negozio e io facevo le pulizie. Strofinavo, spazzolavo, lucidavo, spolveravo, pulivo ogni angolo, ogni oggetto : dopo le pulizie la casa era proprio uno specchio e dalle finestre che ci avevano le tendine bianche veniva una luce tranquilla e dolce e io guardavo le stanze e vedendole così ordinate pulite e lucide, con tutta la roba al suo posto, mi veniva non so che gioia nel cuore. Ah, com'è bello avere la casa propria, che nessuno c'entra e nessuno la conosce, e si passerebbe la vita a pulirla e ordinarla. Finite le pulizie, mi vestivo, mi pettinavo con cura, prendevo la sporta e andavo al mercato per fare la spesa. Il mercato era li a pochi passi da casa, e io giravo tra le bancarelle, per piú di un'ora, non tanto per comprare, perché gran parte della roba ce l'avevamo al negozio, ma per guardare. Giravo tra le bancarelle e guardavo tutto, la frutta, le verdure, la carne, il pesce, le uova : me ne intendevo e mi piaceva calcolare i prezzi e i guadagni, valutare la qualità, scoprire gli imbrogli e i trucchi dei venditori. Mi piaceva pure discutere, soppesare la roba, lasciarla li e poi ritornare e discutere ancora e alla fine non prendere nulla. Qualcuno di quei venditori mi faceva anche la corte, lasciandomi capire che mi avrebbe dato la roba gratis se gli davo retta; ma io gli rispondevo in modo che capiva subito che non aveva a che fare con una di quelle. Sono sempre stata fiera e ci vuol poco a farmi montare il sangue alla testa, allora vedo rosso ed é una fortuna che le donne non portino in saccoccia il coltello come gli uomini perché altrimenti sarei anche
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capace di ammazzare. Ad uno dei venditori che mi dava più fastidio degli altri e s'intignava a farmi delle proposte e voleva regalarmi la roba per forza un giorno gli corsi dietro con uno spillone e per fortuna intervennero le guardie, altrimenti glielo piantavo nella schiena.
Basta, tornavo a casa contenta, e dopo aver messo su l'acqua a bollire per il brodo, con gli odori e qualche osso e qualche pezzetto di carne scendevo subito a bottega. Anche li ero felice. Vendevamo un po' di tutto, pasta, pane, riso, legumi secchi, vino, olio, scatolame e io stavo dietro il banco come una regina, con le braccia nude fino al gomito e il mio medaglione col cammeo appuntato al petto : prendevo, pesavo, facevo il conto svelta svelta con un pezzo di matita e un pezzo di carta gialla, impacchettavo, porgevo. Mio marito, lui, era più lento. Parlando di mio marito, dimenticavo di dire che era già quasi vecchio quando lo sposai e ci fu chi disse che l'avevo sposato per interesse e certo non sono mai stata innamorata di lui ma, quant'è vero Dio, gli sono sempre stata fedele, sebbene lui, invece, non lo fosse con me. Era un uomo che aveva le sue idee, poveretto, e la principale era che lui piaceva alle donne, mentre invece non era vero. Era grasso, ma non di un grasso sano, con gli occhi neri picchiettati di sangue e tutta la faccia gialla e come macchiata di briciole di tabacco. Era bilioso, chiuso, sgabato e guai a contraddirlo. Si assentava continuamente dal negozio e io sapevo che andava a trovare qualche donna, ma ci giurerei che le donne non gli davano retta se non quando lui gli dava dei soldi. Coi soldi si sa, si ottiene tutto, persino che una sposina alzi la gonnella. Io capivo subito quando l'amore gli andava bene, perché allora era quasi allegro e perfino gentile. Quando invece non ci aveva donne, diventava cupo, mi rispondeva male e qualche volta persino mi menava. Ma io glielo dissi una volta : « Tu va con le mignotte quanto ti pare, ma non toccarmi perché altrimenti ti lascio e torno a Vallecorsa ». Io non volevo amanti, invece, sebbene molti, come ho già detto, mi stessero dietro; tutta la mia passione la mettevo nella casa, nel negozio e quando mi nacque la bambina, nella mia figlia. Dell'amore non m'importava e anzi, forse forse, per via che non avevo conosciuto se non mio marito così
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vecchio e brutto, mi faceva quasi schifo. Volevo soltanto star tranquilla e non mancare di nulla. Del resto una donna deve essere fedele al marito qualsiasi cosa avvenga, anche se il marito, come era il caso non è fedele a lei.
Mio marito con gli anni non trovava più donne che gli dessero retta, neppure per denaro, ed era diventato proprio insopportabile. Da un pezzo io non facevo più l'amore con lui e poi ad un tratto, forse perché non aveva donne, lui si incapricciò di nuovo di me e voleva costringermi a fare l'amore di nuovo, ma non come marito e moglie, così, semplicemente, ma come lo fanno le mignotte con i loro amanti, per esempio acchiappandomi per i capelli e tentando di farmelo prendere in bocca, che è una cosa che non mi piacque mai e non avevo mai voluto fare, neppure quando venni a Roma la prima volta, sposina, ed ero così felice che quasi quasi mi illudevo di essere innamorata di lui. Glielo dissi che non volevo far più l'amore con lui né al modo delle spose né a quello delle mignotte; e lui la prima volta mi menò, facendomi persino uscire il sangue dal naso; poi, vedendo che ero proprio risoluta, cessò di starmi dietro, ma prese ad odiarmi ed a perseguitarmi in tutti i modi. Io pazientavo, ma in fondo lo odiavo anch'io e non potevo più vederlo. Lo dissi anche al prete, in confessione: un giorno finisce male; e il prete, da vero prete, mi consigliò di aver pazienza e di dedicare le mie sofferenze alla Madonna. Intanto avevo preso in casa una ragazza per aiutarmi, una certa Bice, che aveva quindici anni e i parenti me l'avevano affidata, perché era quasi una bambina; e lui si mise a farle la corte e quando vedeva che ero impicciata con i clienti, lasciava il negozio, saliva quattro a quattro la scala e andava in cucina e le si gettava addosso come un lupo. Questa volta m'impuntai e gli dissi di lasciar stare la Bice e poi siccome lui insisteva a tormentarla, la licenziai. Lui per questo prese ad odiarmi più che mai e fu allora che cominciò a chiamarmi burina: « È tornata la burina?... dov'•è la burina? ». Insomma era una gran croce e quando si ammalò sul serio, debbo confessarlo, quasi quasi provai sollievo. Però lo curai con amore, come si deve curare il marito quando è ammalato; e tutti lo sanno che non mi occupavo più del negozio e stavo sempre accanto a lui
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e ci avevo perduto persino il sonno. Mori, alla fine; e allora io mi sentii di nuovo quasi felice. Avevo il negozio, avevo l'appartamento, avevo mia figlia che era un angiolo e proprio non desideravo più nulla dalla vita.
Furono quelli gli anni più felici della mia vita : 1940, 1941, 1942, 1943. E vero che c'era la guerra, ma io della guerra non sapevo nulla, siccome non avevo che quella figlia, non me ne importava nulla. S'ammazzassero pure quanto volevano, con gli aeroplani, con i carri armati, con le bombe, a me mi bastava il negozio e l'appartamento per essere felice, come infatti ero. Del resto sa-pevopoco della guerra, perché sebbene sappia fare i conti e magari mettere la firma su una cartolina illustrata, a dire la verità non so leggere bene e i giornali li leggevo soltanto per i delitti della cronaca nera, anzi me li facevo leggere da Rosetta. Tedeschi, inglesi, americani, russi, per me, come dice il proverbio, ammazza ammazza, é tutta una razza. Ai militari che venivano a bottega e dicevano : vinceremo là, andremo qua, diventeremo, faremo, io gli rispondevo : per me tutto va bene finché il negozio va bene, E il negozio andava bene sul serio, benché ci fosse quell'inconveniente delle tessere e Rosa ed io stessimo tutto il giorno con le forbici in mano come se fossimo state sarte e non negozianti. Andava bene il negozio perché io ero brava e sul peso riuscivo sempre a guadagnarci un poco e poi anche perché, siccome c'era il tesseramento, facevamo tutte e due un po' di borsa nera. Rosetta ed io ogni tanto si chiudeva il negozio e si andava al paese, a Vallecorsa oppure in qualche altra località più vicina. Ci andavamo con due grandi valigie di fibra, vuote; e le riportavamo indietro piene di tutto un po': farina, prosciutti, uova, patate. Con la polizia annonaria mi ero messa d'accordo, perché avevano fame anche loro e così era più quello che vendevo sotto banco che quello che vendevo a viso aperto. Uno della polizia, però un giorno si mise in testa di ricattarmi. Venne e disse che se io non facevo all'amore con lui, mi avrebbe denunziato : Io gli dissi, calma calma: « Va bene... passa più tardi a casa mia ». Lui si fece rosso, come se gli fosse venuto un colpo, e se ne andò senza dir parola. All'ora fissata lui venne, lo feci passare in cucina, aprii un cassetto, presi un
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coltello e glielo puntai d'improvviso al collo dicendo: « Tu denunziami, ma io prima ti scanno ». Lui si spaventò e disse in fretta che ero matta e lui aveva fatto per scherzo. Aggiunse: « Ma tu non sei fatta come le altre donne? Non ti piacciono gli uomini? ».
Gli risposi: « Queste sono cose che devi andare a dire alle altre... io sono vedova, ci ho il negozio, e non penso che al negozio... per me l'amore non esiste, ricordatelo per regola tua ». Lui non ci credette subito e per un pezzo continue) a farmi la corte, rispettosamente, peri. E invece io avevo detto proprio la verità. L'amore, dopo la nascita di Rosetta, non mi aveva più interessato e forse neppure prima. Sono fatta così che non ho mai potuto soffrire
che qualcuno mi metta le mani addosso; e se i miei genitori non mi avessero a suo tempo combinato il matrimonio, credo che ancora oggi sarei come mamma mi ha fatto.
Ma all'apparenza inganno, perché piaccio agli uomini e sebbene sia un po' bassina e con gli anni mi sia inquartata, ho la faccia spianata, senza una ruga, con gli occhi neri e i denti bianchi. In quel periodo che come ho detto fu il più felice della mia vita non si contano gli uomini che mi chiesero di sposarmi. Ma io sapevo che tiravano al negozio e all'appartamento, anche quelli che pretendevano di amarmi sul serio. Forse non lo sapevano neppure loro che più di me gli premeva il negozio e l'appartamento e si ingannavano sopra se stessi; ma io giudicavo da me stessa e pensavo : « Io darei qualsiasi uomo per il negozio e l'appartamento... perché mai loro dovrebbero essere diversi da me?... siamo tutti fatti della stessa pasta ». E almeno fossero stati non dico ricchi ma benestanti; ma no, certi disperati che si vedeva lontano un miglio che avevano bisogno di sistemarsi. Ad uno di Napoli, un agente di pubblica sicurezza che più degli altri faceva lo spasimante e cercava di prendermi con l'adulazione, coprendomi di complimenti e chiamandomi perfino, alla maniera napoletana, « donna Cesira », glielo dissi francamente: « Vediamo un po', se non avessi il negozio e l'appartamento, me le verresti a dire queste cose? ». Quello almeno fu sincero. Rispose ridendo : « Ma l'appartamento e il negozio, tu ce l'hai ». È vero, però, che fu sincero perché ormai gli avevo tolto ogni speranza.
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Intanto la guerra continuava, ma io non me ne occupavo e quando alla radio, dopo le canzonette, leggevano il comunicato, dicevo a Rosetta : « Chiudi, chiudi quella radio... li mortacci loro, 'sti figli di mignotte, si scannino tra di loro finché vogliono ma io non voglio sentirli, che ce ne importa a noi delle loro guerre?... loro se le fanno tra di loro senza chiedere il parere della povera gente che deve andarci e allora noialtri che siamo la povera gente, siamo giustificati a non occuparcene ». Però, da un'altra parte, bisogna dire che la guerra mi favoriva : sempre più facevo la borsa nera con prezzi d'affezione, sempre meno vendevo al negozio coi prezzi fissati dal governo. Quando cominciarono i bombardamenti a Napoli e nelle altre città, la gente veniva a dirmi: « Scappiamo che qui ci ammazzano tutti »; e io rispondevo: «A Roma non ci vengono, perché a Roma c'é il Papa... e poi se me ne vado, chi ci pensa al negozio? ». Anche i miei genitori mi scrissero da Valle-corsa invitandomi ad andare da loro, ma rifiutai. Andavamo, Rosetta ed io, sempre più spesso in campagna, con le valigie e riportavamo a Roma tutto quello che trovavamo : le campagne erano piene di roba, ma i contadini non volevano venderla al •governo perché il governo gliela pagava poco e aspettavano noialtri della borsa nera che gliela pagavamo a prezzo di mercato. Molta roba, oltre che nelle valigie ce la mettevamo addosso : ricordo che una volta tornai a Roma con qualche chilo di salsicce legate intorno la vita, sotto la gonnella, che sembravo incinta. E Rosetta si metteva le uova in seno che poi quando le tirava fuori, erano calde calde, come se fossero uscite allora dalla gallina. Questi viaggi però erano lunghi e pericolosi; e una volta, dalle parti di Frosinone, un aeroplano mitragliò il treno, e il treno si fermò in aperta campagna e io dissi a Rosetta di scendere e di nascondersi dentro il fossato, io però non discesi perché ci avevo le valigie piene di roba e nello scompartimento c'erano certe facce poco rassicuranti e una valigia si fa presto a rubarla. Così mi sdraiai in terra, tra i sedili, con i cuscini dei sedili sul corpo e sulla testa, e Rosina discese con gli altri e si nascose nel fossato. L'aeroplano, dopo averci mitragliato quella prima volta, fatto un giro per il cielo tornò alla carica, volando basso sul treno fermo, con un fracasso terribile del motore
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e il ticchettio fitto fitto, come di grandine, delle mitragliatrici. Passò, si allontanò e poi ci fu silenzio e finalmente tutti tornarono nello scompartimento e il treno riparti. Quella volta mi mostrarono anche le pallottole, erano lunghe un dito e chi diceva che erano gli americani e chi diceva che erano i tedeschi. Io però dissi a Rosetta : « Tu devi farti il corredo e la dote. Tornano i soldati dalla guerra, no? Eppure in guerra gli sparano addosso tutto il tempo e si ingegnano in ogni modo di ammazzarli... ebbene torneremo anche noi da queste gite che facciamo ». Rosetta non diceva nulla, oppure diceva che lei andava dove andavo io. Era un carattere dolce, diverso dal mio, e Dio sa se ci fu mai un angiolo in terra era proprio lei.
Io dicevo sempre a Rosetta : « Prega Iddio che la guerra duri ancora un par d'anni... tu allora non soltanto ti fai la dote e il corredo ma diventi ricca ». Ma lei non rispondeva, oppure sospirava e alla fine seppi che aveva l'innamorato in guerra, appunto, e temeva tutto il tempo che gliel'ammazzassero. Si scrivevano, lui stava adesso in Iugoslavia, e io presi le informazioni e venni a sapere che era un bravo giovane di Pontecorvo, e che i suoi parenti avevano un po' di terra, e lui studiava da ragioniere e poi per la guerra aveva interrotto gli studi ma contava di riprenderli a guerra finita. Allora io dissi a Rosetta : « L'importante é che torni dalla guerra... poi per il resto ci penserò io ». Rosetta mi saltò al collo, felice. E io allora potevo veramente dirlo : ci penserò io: avevo l'appartamento, avevo il negozio, avevo del denaro da parte e le guerre si sa, un giorno debbono pure finire e tutto torna a posto. Rosetta mi fece anche leggere l'ultima lettera del suo fidanzato e ricordo soprattutto una frase: «Qui si fa una vita proprio dura. Questi slavi non ci vogliono stare sotto e siamo sempre in stato di allarme ». Io non sapevo niente della Iugoslavia; ma dissi egualmente a Rosetta: « Ma che ci siamo andati a fare in quel paese ? Non potevamo starcene in pace a casa nostra ? Quelli non ci vogliono stare sotto e ci hanno ragione, te lo dico io ».
Nel 1943 feci un affare importante: parecchi prosciutti, una decina, da portare da Sermoneta a Roma. Io trovai il modo di mettermi d'accordo con un camionista che portava cemento a
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Roma, e lui mise i prosciutti sotto i sacchi di cemento e così i prosciutti arrivarono sani e salvi e io ci guadagnai parecchio perché tutti li volevano. Forse fu questa faccenda dei prosciutti che mi impedì di rendermi conto di quello che stava succedendo. Al ritorno da Sermoneta mi dissero che Mussolini era scappato e che la guerra stava per finire davvero. Io risposi: « Per me Mussolini
o Badoglio o un altro poco importa, purché si faccia il negozio ». Di Mussolini, del resto, non mi era mai importato nulla, mi era antipatico con quegli occhiacci e quella bocca prepotente che non stava mai zitta e ho sempre pensato che le cose gli incominciarono ad andar male dal giorno che si mise con la Petacci, perché, si sa, l'amore fa perdere la testa agli uomini anziani e Mussolini era ormai nonno quando aveva conosciuto quella ragazza. Il solo vantaggio di quella notte del venticinque luglio, fu che misero sottosopra un magazzino dell'Intendenza, a via Garibaldi e io ci andai con tutti gli altri e mi riportai a casa, in bilico sulla testa, una forma di parmigiano. Ma c'era ogni ben di Dio e si portarono via ogni cosa. Un mio vicino si portó a casa sopra un carrettino la stufa di terracotta che stava nell'ufficio dell'amministratore.
Durante quell'estate si fecero molti affari, la gente aveva paura
e ammucchiava la roba in casa e non gli pareva mai abbastanza. C'era più roba nelle cantine e nelle dispense che nei negozi. Ricordo che un giorno portai un prosciutto da una signora, dalle parti di via Veneto. Abitava in un bel palazzo, mi venne ad aprire un cameriere in livrea e io avevo il prosciutto nella solita valigia di fibra e la signora, tutta bella e profumata con tanti gioielli addosso che pareva la Madonna, mi venne incontro nell'anticamera
e dietro di lei c'era il marito, un piccoletto grasso e la signora quasi mi abbracciava dalla gratitudine dicendomi: « Cara... o cara... venga da questa parte, si accomodi... venga, venga ». Io la seguii in un corridoio e la signora apri la porta della dispensa e allora vidi davvero ogni ben di Dio. C'era più roba là dentro che in una pizzicheria. Era un camerotto senza finestre con tanti scaffali giro giro e sugli scaffali si vedevano disposte qui una fila di scatole grosse di quelle da un chilo, di sardine all'olio, lì altro scatolame fino, americano e inglese e poi tanti pacchi di pasta, e sacchi di
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farina e di fagioli e vasi di confettura e almeno una decina tra prosciutti e salami. Io dissi alla signora: «Signora, lei qui ci ha da mangiare per dieci anni ». Ma lei rispose: « Non si sa mai ». Misi il prosciutto accanto agli altri e il marito li per li mi pagò e mentre toglieva il denaro dal portafogli le mani gli tremavano dalla gioia e non faceva che ripetere: « Appena ci ha qualche cosa di buono, si ricordi di noi... siamo disposti a pagare il venti e anche il trenta per cento più degli altri D.
Insomma tutti volevano roba da mangiare e pagavano senza fiatare qualsiasi prezzo e così fu che io non pensai a fare le provviste, perché mi ero abituata a considerare il denaro come la cosa più preziosa mentre invece il denaro non si può mangiare e quando venne la carestia non ci avevo proprio niente. Nel ñegozio le scansie erano vuote, non era restato che qualche rotolo di pasta e poche scatole di sardine di cattiva qualità. Avevo, si, i soldi e non li tenevo più in banca ma a casa per precauzione perché dicevano che il governo voleva chiudere le banche e prendersi i risparmi della povera gente; ma adesso i soldi non li voleva più nessuno e d'altra parte mi sapeva d'amaro, dopo aver fatto i soldi vendendo in borsa nera, di spenderli in borsa nera coi prezzi che andavano alle stelle. Intanto erano tornati i tedeschi e i fascisti e passando per Piazza Colonna una mattina vidi il bandierone nero dei fascisti che pendeva dal balcone di un palazzo e tutta la piazza era piena di uomini in camicia nera, armati fino ai denti e tutti quelli che avevano fatto quel fracasso la notte del venticinque luglio, adesso scappavano rasente i muri, come tanti topi quando arriva il gatto. Io dissi allora a Rosetta: « Speriamo che ora vincano presto la guerra e che si possa mangiare di nuovo ». Era il mese di settembre e una mattina mi dissero che c'era una distribuzione di uova dalle parti di via della Vite. Ci andai, e c'erano infatti due camion pieni di uova. Ma non distribuivano niente e c'era un tedesco in mutande e in camiciola, con il fucile mitragliatore a tracolla che sorvegliava lo scarico delle uova. La gente intorno si era raggruppata e guardava scaricare le uova senza dir nulla, ma con gli occhi fuori della testa, da veri affamati qual erano. Il tedesco si vedeva che aveva paura che gli saltassero addosso perché non
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faceva che voltarsiintorno, la mano sul fucile mitragliatore, con certi salti di lato come una ranocchia in riva ad un pantano. Era giovane, grasso e bianco, tutto arrossato per il sole, con le scottature sulle cosce e sulle braccia come dopo una giornata passata al mare. La gente vedendo che le uova non le distribuivano, cominciò a mormorare prima piano e poi sempre più forte e il tedesco allora che si vedeva lontano un miglio che aveva paura, prese il fucile e lo puntò contro la folla dicendo : « Via, via, via ». Allora io persi la testa anche perché duella mattina non avevo mangiato niente e ci avevo fame e gli gridai: « Tu dacci le uova e noi ce ne andiamo ». Lui ripeté: « via via », puntandomi contro il fucile e allora io feci un gesto come per dire che avevo fame, portando la mano alla bocca. Ma lui non se ne diede per inteso e tutto ad un tratto mi piantò la canna del fucile proprio sullo stomaco, spingendomela dentro, così che mi fece male e allora mi venne la rabbia e gridai: « Avete fatto male a mandarlo via, Mussolini... si stava meglio con lui... da quando ci siete voialtri, non si mangia piú ». Non so perché, a queste parole la gente si mise a ridere e molti mi gridarono: « burina », proprio come mio marito e uno mi disse: « A Sgurgola, i giornali non li leggete? ». Risposi, invi- perita: «Sono di Vallecorsa e non di Sgurgola... e poi a te non ti conosco e non ti parlo ». Ma quelli continuavano a ridere e anche il tedesco quasi quasi sorrideva. E intanto le uova le tiravano giù nelle cassette aperte, tutte bianche e belle, e le portavano dentro il magazzino. Io allora gridai: « Ah frocio, le uova vogliamo, hai capito... vogliamo le uova ». Dalla folla usci un vigile e mi ingiunse: « su, vattene che sarà meglio ». Io gli risposi: « Hai mangiato tu?... io no ». Lui allora mi diede uno schiaffo e con uno spintone mi ricacciò in mezzo alla folla. Io l'avrei ammazzato, parola, e mi dibattevo dicendogli tutto quello che pensavo; ma intorno mi spingevano affinché mi allontanassi e alla fine dovetti andarmene e nel parapiglia ci persi anche il fazzoletto.
Io andai a casa e dissi a Rosetta : « Qui se non ce ne andiamo in tempo, finiremo per morire di fame ». Allora lei scoppiò a piangere e disse: «Mamma, ho tanta paura ». Io ci rimasi male perché fin allora Rosetta non aveva mai detto nulla, non si era mai
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lamentata e anzi con il suo contegno tranquillo più di una volta mi aveva dato coraggio. Io le dissi: « Sciocca, perché hai paura? ». E lei rispose: « Dicono che verranno con gli aeroplani e ci ammazzeranno tutti... dicono che ci hanno un piano e prima distruggeranno tutte le strade ferrate e i treni e poi quando Roma sarà proprio isolata e non ci sarà più niente da mangiare e nessuno potrà più scappare in campagna, ci ammazzeranno tutti con i bombardamenti... oh mamma, ho tanta paura... e Gino non mi scrive più da un mese e non so più niente di lui D. Io cercai di consolarla dicendogli le solite cose che anch'io ormai sapevo che non erano vere : che a Roma c'era il Papa, che i tedeschi avrebbero vinto presto la guerra, che non c'era da aver paura. Ma lei singhiozzava forte e dovetti alla fine prenderla tra le braccia e cullarla come quando aveva due anni. Mentre l'accarezzavo e lei continuava a singhiozzare e a ripetere: « ho tanta paura, mamma », io pensavo che non rassomigliava davvero a me che non avevo paura di niente né di nessuno. Anche fisicamente, del resto, Rosetta non mi rassomigliava : aveva un viso come di pecorella, con gli occhi grandi, di espressione dolce e quasi struggente, il naso fine che le scendeva un poco sulla bocca e la bocca bella e carnosa che sporgeva però sul mento ripiegato, proprio come quella delle pecore. E i capelli ricordavano il pelo degli agnelli, di un biondo scuro, fitti fitti e ricci, e aveva la pelle bianca, delicata, sparsa di nei biondi, mentre io ci ho i capelli neri e la carnagione scura, come bruciata dal sole. Finalmente per calmarla le dissi: u Tutti dicono che gli inglesi é questione di giorni e poi verranno e non ci sarà più la carestia... intanto sai che facciamo? Ce ne andiamo dai nonni a Vallecorsa e li aspettiamo la fine della guerra. Loro la roba da mangiare ce l'hanno, hanno fagioli, hanno uova, hanno maiali. E poi in campagna qualche cosa si trova sempre ». Lei domandò allora: « E l'appartamento? ». Io risposi: « Figlia mia anche a questo ci ho pensato... lo affittiamo a Giovanni, per modo di dire però... e,quando torniamo, lui ce lo rende tale e quale... il negozio, invece, lo chiudo, tanto non c'é niente dentro e per un pezzo non ci sarà niente da vendere ».
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Bisogna sapere che questo Giovanni era un commerciante di carbone e legna da ardere il quale era stato amico di mio marito. Era un omaccione grande e grosso, calvo, con la faccia rossa, i baffi ispidi e l'occhio dolce. Quando mio marito viveva ancora, lui gli era compagno la sera all'osteria, con altri negozianti del quartiere. Era sempre vestito con certi abiti larghi e rilasciati, un mezzo sigaro spento e freddo stretto tra i denti sotto i baffi e l'ho sempre veduto con un taccuino e un lapis in mano, non faceva che far conti e prendere note e appunti. Aveva le maniere come l'occhio, dolci, affettuose, familiari e quando mi vedeva, ai tempi che Rosetta era piccola, mi domandava sempre: « Come sta la pupa?... che fa la pupa? ». Dirò una cosa ma non ne sono tanto sicura però, perché certe cose quando accadono poi uno dubita che siano accadute, specie se la persona che le ha fatte, come fu il caso, non ne riparla più e si comporta come se non fossero mai accadute. Giovanni, dunque, quando mio marito era ancora vivo, sali un giorno a casa, che stavo cucinando, con non ricordo piú che pretesto
e sedette in cucina mentre io stavo dietro ai fornelli e cominciò a parlare del più e del meno e alla fine venne a parlare di mio marito. Io credevo che fossero amici e perciò immaginatevi la—raia sorpresa quando, tutto ad un tratto, lo udii dire: «Ma di un po' Cesira, che te ne fai di quella carogna? ». Disse proprio così :
« carogna » e- io quasi non credetti alle mie orecchie e mi voltai a guardarlo: stava seduto, dolce, tranquillo, il sigaro spento all'angolo della bocca. Soggiunse poi: « Intanto non si regge in piedi
e uno di questi giorni muore.., e poi a forza di andare con le mignotte, viene la volta che ti attacca qualche brutta malattia ». E io: «E chi lo vede e chi lo sente, mio marito? quando rincasa la sera, si caccia a letto e io mi volto dall'altra parte e buona notte ». Allora lui disse, o mi pare che disse: «Ma tu sei ancora giovane, che, vuoi fare la monaca? sei giovane e hai bisogno di un uomo che ti voglia bene ». Io gli domandai: « A te che te ne importa? Io non ho bisogno di uomini e anche se ne avessi bisogno, tu che c'entri? ». Lui a questo punto si alzò, così mi pare di ricordarmi, mi venne accosto e mi prese il mento nella mano dicendo: « Con voi donne bisogna sempre parlare papale papale... ci sono io, no?
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A me non ci hai mai pensato? ». A questo punto, tanti sono gli anni passati da quel giorno, i miei ricordi si imbrogliano. Sono quasi sicura, però che lui mi propose di far l'amore con lui; e so-no anche quasi sicura che quando gli risposi: « non ti vergogni? Vincenzo é tuo amico »; lui rispose: « Macché amico. Non sono amico di nessuno, io ». E poi, potrei giurarlo, mi disse che se io lo portavo in camera da letto e gli aprivo le gambe, lui mi avrebbe dato del denaro. E aprì il portafogli e lì, sul tavolo di cucina, cominciò a posare l'uno dopo l'altro tanti biglietti, guardandomi fisso e ripetendo: « metto ancora? oppure basta? ». Finché, mi sembra che senza arrabbiarmi gli dissi che se ne andasse. E lui raccolse i biglietti e se ne andò. Tutto questo certamente avvenne, perché non potrei essermelo inventato, ma il giorno dopo lui non ne fece parola e neppure nei giorni seguenti, mai piú. E il, suo contegno era tornato quello di sempre, semplice, affettuoso, dolce, così che io cominciai a domandarmi se per caso me l'ero sognato che lui chiamava carogna mio marito e mi proponeva di andare a letto con lui e posava il denaro sul tavolo di cucina. Con gli anni questo sentimento che la cosa non fosse accaduta si rinforzò e talvolta pensavo che avevo veramente sognato. Ma tutto il tempo, non so perché, sapevo che Giovanni era il solo uomo che mi volesse veramente bene, per me e non per la mia roba; e che in un frangente, era il solo al quale potessi rivolgermi.
Dunque andai da Giovanni che trovai nel suo seminterrato nero, pieno di fascinotti e di sacchi di carbonella, la sola merce che si trovasse a Roma quell'estate. Gli dissi quello che volevo e lui mi ascoltò in silenzio, strizzando gli occhi sul sigaro semi-spento. Finalmente disse: « Sta bene... ti terrò d'occhio il negozio e l'appartamento per tutto il tempo che starai fuori... sono grattacapi, e specie in tempi come questi... non so davvero perché lo faccio... mettiamo che lo faccio per la buon'anima ». Io a queste parole ci rimasi male perché mi pareva ancora di udire la sua voce che diceva : « che te ne fai di quella carogna? »; e quasi non credevo alle mie orecchie, ancora una volta. Ad un tratto mi scappò detto : « Spero che lo farai anche per me »; e non so perché lo dissi, forse perché ero convinta che lui mi volesse bene e in quel
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momento difficile mi avrebbe fatto piacere che lui avesse detto che lo faceva per me. Lui mi guardò un momento, quindi si tolse il sigaro di bocca e lo posò sull'orlo della tavola. Poi andò alla porta del seminterrato, sali gli scalini, la chiuse e ci mise la sbarra col chiavistello, così che tutto ad un tratto rimanemmo al buio completo. Io avevo capito adesso e non fiatavo e il cuore mi batteva forte e non posso dire che la cosa mi dispiacesse: mi sentivo tutta turbata. Immagino che fossero le circostanze, con tutta Roma sottosopra e la carestia e la paura e la disperazione di lasciare il negozio e l'appartamento e il sentimento di non aver un uomo nella mia vita, come tutte le altre donne, che in una situazione simile, mi aiutasse e mi facesse coraggio. Fatto sta che per la prima volta in vita mia, mentre lui, al buio, mi veniva incontro, mi sentii come slegare e diventare fiacco e arrendevole il corpo; quando lui mi venne accosto, sempre al buio e mi prese tra le braccia, il mio primo impulso fu di stringermi a lui e di cercare la sua bocca con la mia che ansimava forte. Così lui mi spinse sopra certi sacchi di carbon dolce, e io mi diedi a lui e sentii mentre mi davo a lui che era la prima volta che mi davo veramente ad un uomo e con tutto che quei sacchi fossero duri e lui fosse pesante, provai un .sentimento come di leggerezza e di sollievo e dopo che fu finito e lui si era allontanato da me, rimasi un bel pezzo distesa sui sacchi intontita e felice, e mi pareva quasi quasi di essere tornata giovane, al tempo che ero venuta a Roma con mio marito e avevo sognato di provare un sentimento simile e invece non l'avevo provato e mi era venuto lo schifo degli uomini e dell'amore. Basta, alla fine lui domandò al buio se me la sentivo di parlare del nostro affare e io mi rialzai e dissi di si e allora lui accese una lampadina gialla gialla e io lo vidi, seduto al tavolo, come prima, come se niente fosse successo, il sigaro sotto i baffi, l'occhio dolce socchiuso. Io gli dissi avvicinandomi: « Giurami che non dirai mai a nessuno quello che è avvenuto oggi... giuralo ». E lui sorrise e rispose: « Io non so niente... che dici?,Manco ti capisco... sei venuta per questa faccenda della casa e el negozio, no? ». Di nuovo provai quel sentimento che ho già detto, di aver sognato e se non ci avessi avuto ancora le vesti scomposte e i segni del carbone un po' dappertutto,
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per essermi girata e rigirata su quei sacchi, davvero avrei potuto pensare che niente era successo. Balbettai, sconcertata: « Si capisce, hai ragione: sono venuta per la casa e per il negozio ». Lui allora prese un foglio ci scrisse una dichiarazione in cui io dicevo che gli affittavo casa e negozio per la durata di un anno e me la fece firmare. Mise il foglio in un cassetto, andò ad aprire la porta e disse:
« Siamo intesi... oggi vengo per la consegna e domani mattina verrò a prendervi tutte e due e vi accompagnerò alla stazione ». Stava presso la porta e io gli passai davanti per uscire e lui allora nel momento che passavo mi diede con la palma aperta una manata sul sedere, sorridendo, come per dire: « siamo intesi anche per quest'altra faccenda ». Pensai dentro di me che ormai non avevo più il diritto di protestare, che non ero più una donna onesta
e pensai pure che questo era davvero un effetto della guerra e della carestia, che una donna onesta, ad un certo momento si sente dare una manata sul sedere e non può più protestare perché, appunto, ormai non é più onesta.
Tornai a casa e cominciai subito a fare i preparativi per la partenza. Mi piangeva il cuore di lasciare quella casa in cui avevo passati gli ultimi vent'anni, senza mai allontanarmene, salvo che per i viaggi della borsa nera. Ero convinta, è vero, che gli inglesi sarebbero venuti al più presto, roba di una settimana o due, e mi preparavano infatti per un'assenza di non più di un mese; ma nello stesso tempo avevo non so che presentimento non soltanto di un'assenza più lunga ma anche di qualche cosa di triste che mi aspettasse nell'avvenire. Io non mi ero mai occupata di politica
e non sapevo niente dei fascisti, degli inglesi, dei russi e degli americani: tuttavia a forza di sentirne parlare intorno a me, non dico che avessi capito qualche cosa, perché a dire la verità non avevo capito niente, ma avevo capito che non c'era niente di buono per l'aria per la povera gente come noi. Era come in campagna quando il cielo si fa nero per un temporale e le foglie degli alberi si rivoltano tutte dalla stessa parte e le pecore si mettono l'una contro l'altra e con tutto che sia estate, da non so dove viene un vento freddo che soffia rasente terra: avevo paura ma non sapevo di che;
e mi stringeva il cuore al pensiero di lasciare la mia casa e il mio
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negozio cose se avessi saputo di certo che non l'avrei mai più rivisti. Dissi però a Rosetta: a Guarda di non portare tanta roba che saremo fuori non più di due settimane e fa ancora caldo >>. Eravamo infatti verso il quindici di settembre e faceva molto caldo, più degli altri anni.
Così riempimmo due piccole valigie di fibra, per lo più di panni leggeri e ci mettemmo soltanto un paio di maglie per il caso che facesse freddo. Per consolarmi della partenza adesso non facevo che descrivere a Rosetta le accoglienze che mi avrebbero fatto i miei genitori al paese: « Vedrai che ci faranno mangiare fino a scoppiare... ingrasseremo e ci riposeremo... in campagna tutte queste cose che rendono difficile la vita a Roma, non ci sono.., staremo bene, dormiremo bene e soprattutto mangeremo bene... vedrai: ci hanno il maiale, ci hanno la farina, ci hanno la frutta, ci hanno il vino, staremo da papi ». Ma a Rosetta questa prospettiva non pareva bastare a rallegrarla, lei pensava al fidanzato che stava in Iugoslavia ed era un mese che non dava più sue notizie e io sapevo che lei tutte le mattine si alzava presto e andava in chiesa per pregare per lui, affinché non glielo ammazzassero e tornasse e potessero sposarsi. Per farle capire che la capivo le dissi allora, abbracciandola e baciandola : « Figlia d'oro, sta tranquilla, che la Madonna ti vede e ti sente e non permetterà che ti suda niente di male ». Intanto continuavo i preparativi e adesso, passato il momento dell'apprensione, non vedevo l'ora di andarmene. Anche perché negli ultitni tempi, tra gli allarmi aerei, la mancanza di roba da mangiare, l'idea di partire e tante altre cose, la vita per me non era più una vita, perfino non avevo più voglia di pulire la casa, io che di solito mi buttavo a ginocchioni in terra per lustrare i pavimenti e mi facevo mancare il fiato a forza di lustrarli e di renderli simili a uno specchio. Mi pareva insomma che la vita si fosse sgangherata come una cassa che casca giù da un carretto e si sfascia e tutta la roba si sparge per la strada. E se pensavo a quel fatto di Giovanni e a come lui mi aveva dato quella manata sul sedere, mi sentivo anch'io sgangherata come; la vita, e ormai capace di fare qualsiasi cosa, anche rubare, anche ammazzare, perché avevo perduto il rispetto di me stessa e non ero più quella di prima.
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Mi consolavo pensando a Rosetta che era un fiore e che almeno lei ci aveva sua madre a proteggerla. Lei almeno sarebbe stata quello che ormai io non ero più. Ah davvero la vita è fatta di abitudini e anche l'onestà è un'abitudine; e una volta che si cambiano le abitudini, la vita diventa un inferno e noialtri tanti diavoli scatenati senza più il rispetto di noi stessi e degli altri.
Rosetta, poi, era anche preoccupata per il • suo gatto, un bel soriano che lei aveva trovato per strada, ancora piccolino e se l'era tirato su a mollichelle e la notte dormiva con lei e di giorno la seguiva da una stanza all'altra come un cagnolino. Le dissi di affidarlo alla portiera dello stabile accanto e lei disse che l'avrebbe fatto. Adesso sedeva in camera sua, ai piedi del letto sul quale stava la valigia già chiusa, tenendo il gatto sulle ginocchia e lo accarezzava pian piano e il gatto, poveretto, che non sapeva che h padrona stava per abbandonarlo, faceva le fusa, gli occhioni chiusi. A me venne compassione perché capivo che lei soffriva e le dissi: « Figlia santa... lascia passare questo brutto momento e poi vedrai che tutto andrà bene... finirà la guerra, tornerà l'abbondanza e tu ti sposerai e starai con tuo marito e sarai felice ». Proprio in quel momento, come per darmi una risposta, ecco suonare h sirena d'allarme, quel rumore maledetto che mi pareva che portasse iettatura e mi faceva ogni volta sprofondare il cuore. Allora mi venne non so che rabbia e aprii la finestra che dava sul cortile e alzai il pugno verso il cielo e gridai: « Che tu possa mori ammazzato e chi ti ci manda e chi ti ci ha fatto venire ». Rosetta che non si era mossa, disse: « Mamma perché ti arrabbi tanto? Tu stessa hai detto che tutto tornerà a posto ». Allora, per ambre di quell'angiolo mi calmai, sebbene con sforzo e risposi: « Si, ma intanto noi dobbiamo andarcene da casa nostra e chissà che cosa succederà ancora ».
Quel giorno soffrii le pene dell'inferno. Non mi pareva più di essere me stessa : ora ripensavo a quello che era successo con Giovanni e al pensiero di avergli ceduto proprio come una zoc- cola di strada, tutta vestita, sulle balle di carbone, mi sarei morsa le mani dalla rabbia; ora mi guardavo intorno per la casa che era stata la mia casa per vent'anni e adesso dovevo lasciarla e mi sen-
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tivo disperata. In cucina il fuoco era spento, nella camera da letto dove dormivo nel letto matrimoniale insieme con Rosetta, le lenzuola erano rovesciate in disordine e io non mi sentivo la forza di rimettere a posto il letto, in cui sapevo che presto non avrei più dormito né di accendere il fuoco nei fornelli che da domani non sarebbero più stati i miei fornelli e io non ci avrei più cucinato. Mangiammo senza tovaglia, sul tavolo, pane e sardine; ogni tanto guardavo a Rosetta, così triste, e allora il boccone mi si fermava in gola perché mi faceva pena e avevo paura per lei e pensavo che non era stata fortunata a nascere e vivere in tempi come questi. Verso le due ci buttammo sul letto, sopra le coperte disfatte, e dormimmo un poco; o meglio dormi Rosetta, tutta acciambellata contro di me e io invece stetti ad occhi aperti pensando tutto il tempo a Giovanni, ai sacchi di carbone e alla manata che lui mi aveva dato sul sedere e alla casa e al negozio che stavo per lasciare. Finalmente suonarono alla porta e io mi sottrassi dolcemente al peso di Rosetta addormentata e andai alla porta. Era Giovanni, sorridente, il sigaro in bocca. Io non lo lasciai neppure rifiatare: « Senti », gli dissi con furore, « quello che é successo é successo e io non sono più quella che ero prima, lo ammetto, e tu hai ragione a trattarmi cdme una mignotta... ma tu dammi un'altra manata come stamattina, e io, quanto é vero Dio, t'ammazzo... poi vado in galera ma di questi tempi può anche darsi che in galera ci si stia bene e io ci vado volentieri ». Lui inarcò appena appena le sopracciglia per la sorpresa, ma non disse nulla. Passò nell'anticamera pronunziando a fior di labbra : « Allora, facciamo questa consegna ».
Andai in camera da letto e presi un foglio sul quale avevo fatto scrivere a Rosetta tutta la roba che ci avevo nella casa e nel. negozio. Avevo fatto scrivere anche i più piccoli oggetti non tanto perché non mi fidassi di Giovanni ma perché é bene non fidarsi di nessuno. Così prima di cominciare l'inventario dissi a Giovanni, seria seria: « Guarda che questa è tutta roba sudata che io e
mio marito ci siamo guadagnati in vent'anni di lavoro sta at-
tento, fammela ritrovare tutta, ricordati che un chiodo che é un
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chiodo qua dentro non ci deve mancare al mio ritorno ». Lui sorrise e disse: « Sta tranquilla, ritroverai tutti i tuoi chiodi ».
Cominciai dalla camera da letto. Avevo fatto due copie della lista, una la teneva lui e una Rosetta e io via via gli indicavo gli oggetti. Gli mostrai il letto, a due piazze, di ferro dipinto uso legno, tanto bello, con tutte le venature e i nodi del legno che uno lo scambiava proprio per noce. Sollevai la coperta e gli feci vedere che c'erano due materassi, uno di crine e uno di lana. Aprii l'armadio e gli contai le coperte, le lenzuola e tutta la biancheria. Gli aprii i comodini e gli mostrai gli orinali di porcellana a fiorami rossi e blu. Poi feci l'elenco dei mobili: un cassettone dal piano di marmo bianco, uno specchio ovale incorniciato d'oro, quattro seggiole, un letto, due comodini, un armadio con lo specchio a due battenti. Contai tutti i gingilli e i sopramobili: una campana di vetro con sotto un mazzo di fiori finti di cera che parevano proprio veri, e li avevo avuti in dono per le mie nozze dalla mia comare, una bomboniera di porcellana per i confetti, due statuette che rappresentavano una pastorella e un pastorello, un puntaspilli di velluto azzurro, una scatola di Sorrento che ad aprirla suonava un'arietta e il coperchio ci aveva un intarsio con il Vesuvio, due bottiglie per l'acqua con i relativi bicchieri, di vetro intagliato e massiccio, un vaso di fiori di porcellana colorata, in forma di tulipano, con tre penne di pavone, tanto belle, infilate in luogo di fiori, due quadri a colori, stampati, uno rappresentante la Madonna con il Bambino e l'altro una scena come di teatro con un moro e una donna bionda, che mi avevano detto che era di un'opera chiamata Otello e il moro appunto era Otello. Dalla camera da letto lo portai nella sala da pranzo che mi serviva anche da salotto e ci tenevo pure la macchina da cucire. Qui gli feci toccare con mano il tavolo rotondo, di noce scuro con il centrino ricamato, e un vaso di fiori compagno a quello della camera da letto e le quattro seggiole nel mezzo con il velluto verde e poi aprii la credenza e gli contai pezzo per pezzo tutto il servizio di porcellana a fiori e ghirlande, tanto bello, completo per sei, che ci avevo mangiato sì e no due volte in tutta la mia vita. L'avvertii a questo punto : « Guarda che questo servizio ce l'ho caro quanto la luce degli occhi... tu
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rompimelo e poi vedrai ». Lui rispose sorridendo: « Sta tranquilla ». Continuando l'elenco gli mostrai tutti gli altri oggetti: le due stampe con i fiori, la macchina da cucire, la radio, il divanetto di reps con le sue due poltroncine, la rosoliera di vetro rosa e azzurro con i sei bicchierini, qualche altra bomboniera e scatola, un bel ventaglio che avevo inchiodato al muro, tutto dipinto a colori, con una vista di Venezia. Poi passammo in cucina e qui gli contai pezzo per pezzo tutto il vasellame e le pentole che ce le avevo di alluminio e di rame, e la posateria, di acciaio inossidabile, e gli feci vedere che non mancava nulla né il forno, né lo schiacciapatate, né l'armadietto per le scope né la pattumiera di zinco. Insomma gli feci vedere ogni cosa e quindi scendemmo abbasso e andammo al negozio. L'inventario del negozio fu più breve perché all'infuori degli scaffali, del banco e di qualche seggiola, non c'era rimasto nulla, tutto era stato venduto pulito e spazzolato in quegli ultimi mesi di carestia. Finalmente tornammo di sopra, in casa e io dissi scoraggiata : « A che serve quest'inventario... tanto lo sento, qui non ci tornerò mai più ». Giovanni che si era seduto e fumava, scosse la testa e rispose: « Tra quindici giorni arrivano gli inglesi, persino i fascisti lo ammettono... tu te ne vai in villeggiatura per due settimane e torni e facciamo una bella festa per il tuo ritorno... che ti salta in mente? ». Giovanni, dopo queste parole, ne aggiunse molte altre per consolarci, me e Rosetta e quasi ci riuscì; così che quando se ne andò eravamo molto sollevate, e lui questa volta, con tutto che fossimo soli, nell'anticamera, non ripeté quel gesto della manata, ma si contentò di farmi una carezza al viso, che lui me la faceva spesso anche quando era ancora vivo mio marito e io gliene fui grata e quasi quasi mi parve davvero che nulla fosse successo tra me e lui e io fossi rimasta quella che ero sempre stata.
Il resto di quel giorno lo passai a finire i preparativi. Feci prima di tutto un bel pacco di roba da mangiare, per il viaggio : ci misi un salame, qualche scatola di sardine, una scatola di tonno e un po' di pane. Per mio padre e mia madre feci un pacco a parte, per mio padre ci misi un vestito di mio marito, quasi nuovo, che lui se l'era fatto poco prima di morire e mi aveva chiesto di met-
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terglielo addosso dopo morto ma io all'ultimo momento avevo pensato che era un peccato, un vestito così bello di lana blu scura, e così l'avevo avvolto in un lenzuolo vecchio e il vestito l'avevo salvato. Mio padre aveva quasi la stessa statura di mio marito e con il vestito ci misi anche le scarpe, vecchie queste ma ancora buone. A mia madre decisi di portarle uno scialle e una gonnella. Aggiunsi al pacco tutto quello che mi rimaneva di pizzicheria e drogheria, cioè qualche chilo di zucchero e di caffè e qualche scatola e un paio di salami. Tutta questa roba la misi in una terza valigia, in modo che adesso avevamo tre valigie, più un sacco in cui avevo messo una coperta e un guanciale per il caso che fossimo state costrette a dormire in treno. Tutti mi dicevano che i treni ci mettevano anche due giorni ad arrivare a Napoli e noi dovevamo appunto andare a mezza strada tra Roma e Napoli, e io pensai che le precauzioni non erano mai troppe.
La sera ci mettemmo a tavola e questa volta avevo fatto un po' di cucina per non rattristarci troppo; ma avevamo appena incominciato che suonò l'allarme e vidi che Rosetta era diventata pallida dalla paura e quasi tremava e capii che lei dopo aver resistito per molto tempo ora non ce la faceva più e aveva i nervi sottosopra e così mi rassegnai a lasciare la cena e a scendere in cantina, una precauzione che in fondo non serviva a niente perché se fosse cascata una bomba quella nostra casa tanto vecchia sarebbe andata in polvere e noi ci saremmo rimaste sotto. Così scendemmo nel rifugio e c'erano tutti quanti gli inquilini della casa e passammo tre quarti d'ora sedute sui banchi, al buio. Tutti parlavano del- l'arrivo degli inglesi come di cosa di pochi giorni: erano sbarcati a Salerno che stava vicino a Napoli e da Napoli a Roma ci avrebbero messo forse una settimana anche ad andar piano, perché ormai tedeschi e fascisti_scappavano come lepri e non si sarebbero fermati che alle Alpi. Ma alcuni dicevano che a Roma i tedeschi avrebbero dato battaglia perché Mussolini ci teneva a Roma e lui non gliene importava niente di ridurla una rovina purché gli inglesi non ci entrassero. Io ascoltavo queste cose e pensavo che facevamo bene ad andarcene; Rosetta si stringeva contro di me e io capivo che lei aveva sempre paura ormai, e che non si sarebbe cal-
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mata se non quando fossimo andate via da Roma. Ad un certo punto qualcuno disse: « Sai che dicono? Che lanceranno i paracadutisti e quelli entreranno nelle case e ne faranno di tutti i colori ». « Come sarebbe a dire? ». « Beh, la roba e poi le donne ». Allora io dissi: « Voglio vedere chi avrà il coraggio di toccarmi ». Dal buio una voce che era quella di un certo Proietti, fornaio, un uomo stupido da non si dire e sempre molto greve nel linguaggio, che io non avevo mai potuto soffrire, disse con una risata: « A te magari non ti toccheranno perché sei troppo vecchia... ma tua figlia, si ». Risposi: « Guarda come parli... io ci ho trentacinque anni perché mi sono sposata a sedici e troppi ce ne sono che vorrebbero sposarmi... se non mi sono risposata, é che non ho voluto ». « Si », rispose lui, « la volpe e l'uva ». Io dissi allora, proprio arrabbiata : « Tu pensa piuttosto a quella mignotta di tua moglie... lei le corna te le mette già adesso che non ci sono i paracadutisti... figuriamoci quando ci saranno ». Credevo che la moglie fosse al paese, erano di Sutri e io l'avevo vista andar via qualche giorno prima; invece, guarda combinazione, stava anche lei nel rifugio e io non l'avevo veduta per via del buio. Ma la sentii subito urlare: « Mignotta sarai tu, brutta zozza, vigliacca, disgraziata » e poi sentii che lei acchiappava per i capelli Rosetta credendo che fossi io e Rosetta urlava e quella la menava. Allora, sempre al buio, mi slanciai su di lei e così rotolammo in terra, dandoci le botte e strappandoci i capelli mentre tutti gridavano e Rosetta piangeva e si raccomandava e mi chiamava. Insomma dovettero dividerci, sempre al buio, e credo che anche ai pacieri toccò qualche botta, perché, tutto ad un tratto, mentre ci dividevano suono la sirena del cessato allarme e allora uno accese la luce e ci trovammo l'una di fronte all'altra, scarmigliate e ansimanti, trattenute per le braccia e quelli che ci tenevano chi aveva la faccia sgraffignata e chi i capelli scomposti. Rosetta, in un angolo, singhiozzava.
Quella notte, dopo questa scenata ce ne andammo a letto mol- to presto, senza neanche finire la cena che restò sul tavolo e la mattina dopo c'era ancora. Nel letto, Rosetta si rannicchio contro di me, come faceva quando era piccola e come da molto tempo non faceva più. Le domandai: «Ma che, hai ancora paura? ». Lei ri-
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spose : « No, non ho paura, ma è vero mamma che i paracadutisti fanno quelle cose alle donne? ». E io: «Non dargli retta a quello scemo... non sa quello che dice ». « Ma è vero? » insistette lei. E io : « No, non è vero... e poi noi partiamo domani e andiamo in campagna e li non succederà proprio niente, sta tranquilla ». Lei stette zitta ancora un momento e poi disse: « Ma affinché noi possiamo tornare a casa, chi é che deve vincere: i tedeschi o gli inglesi? ». Io a questa domanda ci rimasi male perché come ho detto i giornali non li leggevo e per giunta non mi ero mai interessata di sapere come andasse la guerra. Dissi: « Io non lo so quello che hanno combinato... so soltanto che sono tutti figli di mignotte, inglesi e tedeschi... e che le guerre loro le fanno senza domandarci niente a noialtri poveretti... ma sai che ti dico : che per noi bisogna che qualcuno vinca sul serio, così la guerra finisce... tedeschi o inglesi non importa, purché qualcuno sia il più forte ».
Ma lei insistette: « Tutti dicono che i tedeschi sono cattivi... ma che hanno fatto, mamma? ». Allora io risposi: « Hanno fatto che invece di stare al paese loro, sono venuti qui, a scocciarci a noi... per questo la gente ce li ha sulle corna P. « Ma dove andiamo noi adesso », lei domandò, «ci sono i tedeschi o gli inglesi? ». Io non sapevo più che rispondere e dissi: «Lì non ci sono né tedeschi né inglesi... ci sono i campi, le vacche, i contadini e si sta bene... e ora dormi ». Lei non disse più nulla e si rannicchiò tutta contro di me e mi sembrò che alla fine si addormentasse.
Che brutta notte. Io mi svegliavo ad ogni momento e penso che Rosetta anche lei non chiudesse occhio tutta la notte, sebbene, per non inquietarmi, forse facesse finta di dormire. Talvolta mi pareva di svegliarmi ed invece dormivo e sognavo di svegliarmi, talaltra credevo di dormire ed invece ero sveglia e la stanchezza e il nervosismo mi illudevano di dormire. Gesù nell'orto, la notte prima che Giuda venisse a pigliarlo, non ha sofferto tanto come io quella notte li. Mi stringeva il cuore al pensiero di lasciare la casa dove avevo vissuto per tant'anni e poi pensavo che durante il viaggio potessero mitragliare il treno, oppure che il treno non ci fosse più, perché dicevano che da un giorno all'altro Roma poteva restare isolata. Pensavo anche a Rosetta e pensavo che era
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una vera disgrazia che mio marito fosse stato l'uomo che era stato e che fosse morto perché due donne sole al mondo senza un uomo che le guidi e che le protegga sono in certo senso come due cieche che camminano senza vederci e senza capire dove si trovano.
Una volta, non so che ora fosse, sentii sparare nella strada, io ci ero ormai abituata, sparavano tutte le notti, pareva di essere al tira segno, ma Rosetta si svegliò e domandò; cc Che c'è mamma? ». Io risposi: « Niente, niente.. sono quei soliti figli di mignotte che si divertono a sparare... e potessero ammazzarsi gli uni con gli altri ». Un'altra volta passò una colonna di camion, proprio sotto casa, e tutta la casa tremava e non finivano mai di passare e quando pareva che fosse finito ecco un altro camion che rotolava con un fracasso da non si dire. Io mi tenevo Rosetta abbracciata, con la testa contro il mio petto, e ad un tratto, forse perché ci avevo la testa contro il petto, mi ricordai di quando era piccola e io l'allattavo, e avevo il petto gonfio di latte, come sempre noialtre ciociare che siamo conosciute come le meglio balie del Lazio e lei poppava tutto quel latte e diventava più bella ogni giorno ed era proprio un fiore di bellezza che la gente per la strada si fermava a guardarla
e mi dissi ad un tratto che sarebbe stato molto meglio che non fosse mai nata, se doveva poi vivere in un mondo come questo, tra gli affanni, i pericoli e la paura. Ma poi mi dissi che queste sono le idee che vengono di notte e che era peccato pensare queste cose e al buio mi feci il segno della Croce e mi raccomandai a Gesù e alta Madonna. Udii un gallo cantare nell'appartamento vicino che era l'appartamento di una famiglia che teneva tutto un pollaio nel cesso
e pensai allora che presto sarebbe stato giorno e credo che mi addormentassi.
Fui svegliata di soprassalto dal campanello della porta che suonava e suonava come se stesse suonando da un pezzo. Mi alzai al buio e andai nell'anticamera e aprii ed era Giovanni che entri dicendo: « salute che sonno... sarà un'ora che suono ». Ero in camicia e io ci ho il petto ancora adesso erto, che sta su senza reggiseni e allora ce l'avevo ancora più bello con le zinne pesanti
e solide e i capezzoli che si rivoltavano in su come se volessero per forza farsi notare sotto la tela della camicia e subito vidi che
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lui mi guardava al petto e che gli occhi gli si accendevano sotto le sopracciglia come due pezzi di carbonella sotto le ceneri. Capii che lui stava per acchiapparmi le zinne e gli dissi subito, tirandomi indietro: « No, Giovanni, no... per me tu non esisti più e devi dimenticare quello che è successo... se tu non fossi già sposato, ti sposerei... ma sei sposato e tra di noi non deve più esserci niente ». Lui non disse né si né no, ma si vedeva che si sforzava di controllarsi. Alla fine ci riuscì e disse con voce normale: «Hai ragione... ma speriamo che quella schifosa di mia moglie muoia durante questa guerra... così quando torni, io sono vedovo e ci sposiamo... muore tanta gente sotto le bombe, perché non dovrebbe morire lei ? ». E io una volta di più ci rimasi male e fui stupita di sentirgli dire queste cose e quasi non credevo alle mie orecchie come quando aveva detto che mio marito era una carogna e fin'allora gli era stato amico e per così dire erano inseparabili. Conoscevo, infatti, la moglie di Giovanni e avevo sempre pensato che lui le volesse bene o per lo meno le fosse affezionato, essendo stati sposati tan'anni
e avendo avuto tre figli e invece, ecco qua, lui ne parlava con odio
e sperava che morisse e il modo con il quale ne parlava lasciava capire che l'odiava da chissà quanto tempo e ormai non provava per lei altro che odio seppure aveva mai provato qualche altro sentimento in passato. Dico la verità, provai quasi uno spavento al pensiero che un uomo potesse essere amico e marito per tanti anni
e poi dire così, con tanta freddezza e tanta cattiveria, carogna e schifosa, dell'amico e della moglie. Ma di tutto questo non dissi nulla a Giovanni che intanto era passato in cucina e sentivo che già scherzava con Rosetta che nel frattempo si era alzata anche lei. t< Vedrai che tornerete tutte e due ingrassate e questa sarà la sola conseguenza della guerra per voi... li in campagna c'è il formaggio, ci sono le uova, ci sono gli agnelli... mangerete e starete bene ».
Ormai tutto era pronto e io portai nell'ingresso le tre valigie
e il sacco con i pacchi e Giovanni prese due delle valigie e il sacco lo presi io e Rosetta prese la valigia più piccola. Loro si avviarono giù per le scale e io finsi di indugiare per chiudere la porta e appena loro due ebbero svoltato l'angolo della scala, rientrai in casa andai nella camera da letto e sollevai una mattonella del pavimento
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e presi il denaro che ci avevo nascosto. Era per quei tempi una grossa somma tutta in biglietti da mille e non avevo voluto prenderla in presenza di Rosetta perché col denaro non si sa mai e un'innocente pub sempre fare un'imprudenza e dire quello che non deve dire e nelle cose di denaro non ci si pub fidare di nessuno. Nell'ingresso sollevai la gonnella e misi il denaro dentro una tasca di tela che avevo cucito apposta. Quindi raggiunsi Giovanni e Rosetta nella strada.
Alla porta c'era una carrozzella, perché Giovanni non aveva voluto servirsi del camion del carbone per paura che potessero requisirlo. Giovanni ci aiutò a salire e poi sail anche lui. La carrozza si mosse e io non potei fare a meno di voltarmi indietro a guardare verso il quadrivio e verso la mia casa e il mio negozio, perché avevo un presentimento brutto che non li avrei mai piú rivisti. Non era ancora giorno, ma non era più notte, l'aria era grigia e in quest'aria grigia vidi la mia casa che faceva angolo nel quadrivio, con tutte le finestre chiuse e a pianterreno il negozio con le serrande abbassate. Di fronte c'era un'altra casa che faceva angolo anche quella e ci aveva al secondo piano una nicchia a medaglione, con la immagine della Madonna sottovetro, circondata di spade d'oro e con un lumino acceso perpetuamente. Pensai che quel lumino che ardeva anche in tempo di guerra, anche in tempo di carestia, era un pò come la mia speranza di tornare e mi sentii un poco sollevata : quella speranza avrebbe continuato a ricaldarmi una volta che fossi stata lontana. In quella luce grigia si vedeva tutto il quadrivio, come una scena di teatro vuota, dopo che gli attori se ne sono andati; e si vedeva che erano case di povera gente, casucce insomma, un po' storte come se si appoggiassero le une alle altre, un po' scalcinate specie ai pianterreni per via dei carretti e delle macchine, e proprio accanto al mio negozio c'era il negozio di carbone di Giovanni, e intorno la porta era tutta nero come la bocca di un forno e a quell'ora quel nero si vedeva e non so perché mi parve tanto triste. E non potei fare a meno di ricordarmi che durante la giornata, ai tempi belli, il quadrivio era pieno di gente, con le donne sedute sulle seggiole di paglia fuori delle porte, e i gatti che gironzolavano sui selci e i
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ragazzini che giocavano alla corda e al salto e i giovanotti che lavoravano nelle officine oppure entravano all'osteria che era sempre piena e pensando questo provai uno strappo al cuore e mi accorsi che quelle casucce e quel quadrivio mi erano cari, forse perché ci avevo passato tutta la vita e quando li avevo veduti per la prima volta ero ancora giovinetta e adesso ero una donna fatta, con una figliola già grande. Dissi a Rosina : « Non la guardi casa nostra, non lo guardi il negozio? » e lei rispose: « Mamma, sta tranquilla, tu stessa hai detto che torniamo tra un paio di settimane ». Io sospirai e non dissi nulla. La carrozza prese verso il Tevere e io mi voltai e non guardai più al quadrivio.
Tutte le strade erano vuote, con l'aria grigia in fondo alle strade che pareva il vapore del bucato quando i panni sono molto sporchi. In terra la guazza faceva luccicare i selci che parevano di ferro. Non passava un cane, anzi passavano soltanto i cani: ne vidi cinque o sei brutti affamati e sporchi che annusavano ai cantoni e poi pisciavano contro i muri dai quali pendevano lacerati i manifesti a colori che incitavano alla guerra. Passammo il Tevere a Ponte Garibaldi, percorremmo via Arenula, passammo l'Argentina e piazza Venezia. Al balcone del palazzo di Mussolini pendeva lo stesso bandierone nero che avevo visto qualche giorno prima a piazza Colonna e due fascisti armati stavano ai due lati della porta. La piazza era deserta, sembrava più grande del solito. Io dapprima non vidi il fascio d'oro nel bandierone nero e mi parve addirittura una bandiera di lutto, tanto più che non c'era vento e pendeva giù, che sembrava davvero uno straccio di quelli che si mettono ai portoni quando c'è un morto nello stabile. Poi vidi il fascio d'oro, tra le pieghe e capii che era la bandiera di Mussolini. Domandai a Giovanni: «Ma che, è tornato Mussolini? ». Lui fumava il mezzo sigaro, e rispose con enfasi: «È tornato e speriamo che ci rimanga per sempre ». Rimasi a bocca aperta perché sapevo che lui ce l'aveva con Mussolini; ma già lui mi sorprendeva sempre, e non potevo mai prevedere quel che gli passasse per la testa. Poi mi sentii dar del gomito nelle costole e vidi che ammiccava in direzione del vetturino, come per dire che lui quelle parole le aveva dette per paura del vetturino. Mi parve esagerato
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perché il vetturino era un buon vecchietto, con una parrucca di capelli bianchi che gli scappavano da ogni parte da sotto il berretto e pareva tutto mio nonno e certo non avrebbe fatto la spia; ma non dissi nulla.
Prendemmo Via Nazionale e già l'aria si faceva meno grigia e in cima alla Torre di Nerone si vedeva uno spicchio rosa di sole. Ma come giungemmo alla stazione e vi entrammo, dentro era come se fosse ancora notte, con tutte le lampade accese e l'aria buia. La stazione era piena di gente, in gran parte povera gente come noi, coi loro fagotti, ma c'erano anche molti soldati tedeschi, carichi di armi e di zaini, in piedi, raggruppati gli uni addosso agli altri negli angoli piú scuri. Giovanni andò a comprare i biglietti e ci lasciò li con le valigie nel mezzo della stazione. Mentre aspettavamo, ecco, tutto ad un tratto, con gran fracasso, proprio sotto la pensilina arrivare una decina di motociclisti, tutti vestiti di nero, come diavoli dell'inferno. Dopo il bandierone nero di Piazza Venezia, questi motociclisti vestiti anche loro di nero, mi ispirarono un sentimento di insofferenza, tanto che pensai: « Ma perché nero, perché tutto questo nero? Disgraziati figli di mignotte, con il loro nero maledetto hanno finito davvero per portarci iettatura ». I motociclisti fermarono le motociclette, le addossarono alle colonne dell'ingresso e si misero accanto alle porte, col viso chiuso nei caschi di cuoio nero e le mani sulle pistole che tenevano al cinturone. Tutto ad un tratto mi mancò il respiro dalla paura e prese a battermi forte il cuore perché pen- sai che quei motociclisti neri fossero venuti alla stazione per bloccare gli ingressi e arrestare tutti quanti, come spesso facevano e poi portavano via la gente nei loro camion e non se ne sapeva piú nulla. Così mi guardai intorno quasi cercando una via di uscita per scappare. Ma poi vidi che all'ingresso, dalla parte dei treni, arrivava un gruppo di persone mentre altri ripetevano: « largo, largo » e capii che quei motociclisti erano li per l'arrivo di qualche personaggio importante. Non lo vidi perché la folla me l'impediva, ma dopo un poco riudii il fracasso di quelle maledette motociclette e capii che se ne erano andati dietro la macchina di quel personaggio.
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Giovanni venne a prenderci, coi biglietti in mano dicendoci che erano biglietti fino a Itri : di qui poi, per le montagne, avremmo potuto raggiungere il paese. Uscimmo dalla stazione, andammo al treno, sotto la pensilina. Li c'era il sole in tanti raggi che si allungavano sopra i marciapiedi e parevano i raggi di sole che si vedono nelle corsie degli ospedali e nei cortili delle prigioni. Non si vedeva un cane e il treno, lungo lungo, sotto la pensilina, pareva vuoto. Ma come salimmo e cominciammo a percorrere i corridoi vidi che era pieno zeppo di soldati tedeschi, tutti armati, cogli zaini sulle spalle, il casco sugli occhi e il fucile tra le gambe. Ce n'erano non so quanti, passavamo da uno scompartimento all'altro e sempre vedevamo otto soldati tedeschi, con tutta quella roba addosso, fermi e zitti che parevano aver avuto l'ordine di non muoversi e di non parlare. Finalmente in uno scompartimento di terza trovammo gli italiani. Stavano ammucchiati nei corridoi
e negli scompartimenti, come bestie che vengono portate al macello e perciò non importa che stiano comode tanto trappoco debbono morire; anche loro come i tedeschi non dicevano nulla, non si muovevano; ma si capiva che la loro immobilità e il loro silenzio erano dovuti alla stanchezza e alla disperazione mentre i tedeschi si vedeva che si tenevano pronti a saltar fuori del treno
e far subito la guerra. Dissi a Rosetta: « Vedrai che questo viaggio lo facciamo in piedi ». Infatti, dopo aver girato non so quanto, con quel sole che entrava attraverso i verti sporchi del treno e giâ arroventava le vetture, mettemmo anche noi le valigie nel corridoio, davanti la latrina, e ci accoccolammo alla meglio. Giovanni che ci aveva seguite nel treno, a questo punto disse: « Beh, vi lascio, vedrete che trappoco il treno parte ». Ma un tizio, vestito di nero, seduto anche lui su una valigia lo rimbeccò, cupo, senza alzare gli occhi: « Trappoco un corno... noi siamo tre ore che aspettiamo ».
Insomma Giovanni ci salutò e baciò Rosetta sulle due guance
e me sull'angolo della bocca, forse avrebbe voluto baciarmi sulla bocca ma io stornai in tempo il viso. Partito Giovanni, noi restammo sedute sulle valigie, io più alta e Rosetta più bassa, la testa appoggiata contro le mie ginocchia. Rosetta dopo mezz'ora che
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stavamo così, senza parlare, accovacciate, domandò: « Mamma, quando si parte ? » e io le risposi: « Figlia mia, io ne so quanto te ». Stetti così ferma, con Rosetta accucciata ai miei piedi non so quanto tempo. La gente nel corridoio sonnecchiava e sospirava, il sole cominciava a scottare forte e fuori, dai marciapiedi non giungeva un solo rumore. Anche i tedeschi tacevano, come se non ci fossero neppure stati. Poi, tutto ad un tratto nello scompartimento più vicino, i tedeschi cominciarono a cantare. Non si può dire chè cantassero male, avevano certe voci basse e rauche però intonate ma io che avevo tante volte sentito cantare i soldati nostri, allegramente, come fanno quando sono in treno e viaggiano insieme, mi venne tristezza perché cantavano nella lingua loro qualche cosa che mi sembrava molto triste. Cantavano lentamente e pareva davvero che non ne avessero tanta voglia di andare a far la guerra perché il loro canto era veramente triste. Dissi a quell'uomo vestito di nero vicino a me : « Anche a loro la guerra non piace... sono uomini anche loro dopo tutto... senti come cantano tristemente ». Ma lui, ingrugnato, mi rispose: «Non te ne intendi... è il loro inno... é come da noi la Marcia Reale ». E poi dopo un momento di silenzio : « La tristezza vera ce l'abbiamo noialtri italiani ».
Finalmente il treno si mosse, senza un fischio, senza uno squillo di tromba, senza un rumore, come per caso. Avrei voluto raccomandarmi una ultima volta alla Madonna che proteggesse me e Rosetta da tutti i pericoli ai quali andavamo incontro. Ma mi era venuto un sonno così forte che non ne ebbi neppure la forza. Pensai soltanto: « Sti figli di mignotte... »; e non sapevo se pensavo ai tedeschi o agli inglesi o ai fascisti o agli italiani. Un pò tutti forse. Quindi mi addormentai.
ALBERTO MORAVIA
 
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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32278+++
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1955 Mese: 11 Giorno: 1
Numero 17
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1955 - 11 - 1 - numero 17


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