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tipologia: Analitici; Id: 1472306


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Tibor Mende, L'Asia Sud-Orientale tra due mondi
Responsabilità
Mende, Tibor+++
  autore+++    
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
L'ASIA SUD-ORIENTALE TRA DUE MONDI
Per « Sud-Est asiatico » s'intendono generalmente la penisola indocinese e l'Indonesia; ma io vorrei estendere un poco la portata del termine e includervi anche la penisola indiana, in modo da comprendere sotto di esso : il Pakistan, l'India, Ceylon, la Birmania, il Siam, la Malesia, l'Indocina e l'Indonesia. Mi sembra che giustifichino questa estensione : da una parte la diminuzione delle distanze nel nostro mondo moderno; e dall'altra il ruolo importante che ha l'India in tutta quella zona. Quest'Asia del Sud-Est, dunque, comprende praticamente l'insieme dei paesi asiatici non comunisti, ad eccezione del Giappone, delle Filippine e del Medio-Oriente.
La storia stessa, del resto, giustifica questa definizione. Tutti questi paesi, che si estendono dal passo di Khaibar a Bali, hanno molti tratti in comune. Innanzi tutto, il fatto che la maggior parte di essi sono stati recentemente liberati dalla tutela straniera. La scomparsa degli imperi coloniali inglese, francese e olandese é avvenuta nel corso degli ultimi dieci anni, che hanno visto tornare alla libertà 600 milioni di uomini, cioè un quarto , della specie umana.
Ma questo cambiamento intervenuto recentemente e quasi simultaneamente nello stato politico dei suddetti 600 milioni di esseri umani, non costituisce il solo denominatore comune che possa esser loro applicato. Certe analogie hanno una storia antica di tre millenni : nel corso di queste decine di secoli, i diversi paesi del Sud-Est asiatico hanno avuto delle esperienze analoghe, dalle invasioni arie all'arrivo della civiltà tecnica dell'Occidente, passando per le influenze di Budda, di Lao-tze e di Confucio, per l'insegnamento di Maometto, per le conquiste di Alessandro Magno e l'impero dei Mongoli. Ciascuno di questi avvenimenti ha portato dei mutamenti e lasciato delle tracce più o meno profonde, modellando l'eredità
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intellettuale e morale di tutta questa immensa regione. Le maggiori influenze furono esercitate dall'India e dalla Cina : sono l'ombra monumentale dell'India e la fantastica vitalità della Cina che hanno lasciato le tracce più profonde nell'evoluzione dei popoli del Sud-Est asiatico.
Fu il Buddismo, più di ogni altra cosa, a ravvicinare l'India
e la Cina. Dal tempo dei missionari di Açoka, gli scambi di pellegrini e di eruditi non hanno più cessato tra i due paesi. Durante il viaggio, questi pellegrini accostavano alle rive d'Indocina, di Sumatra e di Giavà : diffondendo da una parte il Buddismo, la cultura dell'India e la sua potenza; e dall'altra la scienza e il commercio della Cina.
Per secoli l'Asia del Sud-Est fu zona d'incrocio di idee e di dottrine religiose. Sorsero civiltà miste indo-cinesi. Nell'interno del continente — come per esempio in Birmania, nel Siam o nel Tonkino — l'influenza predominante fu quella cinese. Lungo le coste
e nelle isole, per contro, la supremazia spetto all'India. Ma le due civiltà impiegarono nella loro lotta amni affatto pacifiche, mettendo in concorrenza i loro sapienti, i loro mercanti, i loro missionari,
e tutta una gamma di " agenti diversi, che servivano a diffondere le loro idee.
Oggi, dopo alcuni secoli di supremazia occidentale, noi vediamo riaffermarsi le tendenze d'un tempo : India e Cina riprendono il loro posto come fonti delle idee e delle ideologie destinate a modellare la vita dei popoli del Sud-Est asiatico.
Ma questa rivalità che fu, per secoli, del tutto pacifica, comincia ora ad assumere delle forme assai differenti : si tratta, ora, d'una lotta politica tra potenze che si propongono lo stesso scopo : riempire il vuoto lasciato dal ritiro dell'autorità e dell'amministrazione occidentali.
Dinnanzi a questo nuovo stato di cose, came si presenta la situazione dei popoli della zona?
Esaminiamo in primo luogo l'aspetto materiale della questione. Quando Marco Polo arrivb in Asia, vi trovò un grado di civiltà e di prosperità che poteva paragonarsi solo con lo splendore
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delle città italiane. Ma poco tempo dopo, con la rivoluzione industriale e lo stimolo costituito dagli scambi transatlantici, l'Occidente si mise a progredire con una rapidità vertiginosa. L'Asia, invece, restò stazionaria : non essa divenne più povera, ma l'Occidente divenne infinitamente più ricco.
Oggi, la situazione materiale di quei popoli è ancora molto al disotto della nostra. Il reddito per abitante, che è di 1500 dollari negli Stati Uniti e di 600-1000 dollari nell'Europa occidentale, è da venti a trenta volte minore nell'Asia del Sud-Est, dove non supera i 50-100 dollari. Ne risultano un'alimentazione deficiente, malattie, mancanza di attrezzatura industriale; per ogni due morti, uno è un bambino minore di dieci anni; nella sua immensa maggioranza, la popolazione resta analfabeta. Di conseguenza, la produttività é scarsa. È un circolo vizioso, fatto d'una povertà e d'uno stato di degradazione la cui tragicità non può esser compresa da chi non li ha visti con i propri occhi, sebbene gli elementi di questa miseria siano stati ben tradotti in cifre, analizzati e presentati in tavole statistiche.
Ma durante quello stesso periodo in cui la situazione dell'Asia, per tanti rispetti, subiva un ristagno forzato, le potenze coloniali riunivano sotto imperi immensi dei popoli e delle razze che non erano mai state sottoposte a un governo unico; e trasformavano la struttura economica dei paesi da esse governati in vista dei propri interessi industriali. In questi paesi esse hanno introdotto certe innovazioni comode, come strade, ferrovie, nuovi metodi d'agricoltura; ed hanno dato ai paesi stessi una struttura e un'amministrazione nuove, una nuova concezione della giustizia, e dei metodi occidentali d'organizzazione. Esse hanno inoltre creato una nuova classe sociale, poco numerosa, fatta di gente educata all'occidentale e che ha cercato, naturalmente, di applicare metodi occidentali alla soluzione dei problemi dei propri paesi
Come stanno le cose al giorno d'oggi?
In modo quasi generale, i complessi amministrativi creati dagli occidentali tendono a frazionarsi. L'India, unita per la prima volta dagli Inglesi, é già scissa in due parti; altre scissioni potran-
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no prodursi nei prossimi anni. In Birmania, le minoranze annesse all'ex-regno birmano sotto l'impero britannico non hanno ancora accettato lo stesso genere d'associazione sotto l'egida d'un governo birmano. Certe isole indonesiane sembrano poco disposte a continuare a dar prova, nei confronti di Giava, di quel lealismo che gli Olandesi avevano loro imposto. Gli stessi sintomi si osservano in Indocina, come pure nel Siam e in Malesia.
D'altra parte, lentamente e penosamente, ci si comincia a render conto che la macchina economica installata dalle potenze occidentali, anche nei casi in cui aveva per scopo di servire gli interessi dei paesi colonizzati, non poteva funzionare in modo soddisfacente senza l'esistenza d'un personale qualificato, d'una amministrazione competente, e, soprattutto, dei necessari capitali di gestione.
Nei paesi che per liberarsi hanno dovuto ricorrere alla forza, la produzione non ha ancora raggiunto il livello di prima della guerra; ciò deriva dalle distruzioni, ma anche dalla disorganizzazione risultante dalla penuria di personale e di capitali. In Indonesia, dopo quattro anni di guerra contro l'Olanda, e dopo tre anni di indipendenza, il reddito medio é ancora di poco più del 60% di quello di prima della guerra. In Birmania, dove le distruzioni dovute alla guerra sia intestina che esterna furono assai maggiori, si é al di sotto del 70%. Ma negli stessi paesi che hanno raggiunto l'indipendenza mediante negoziati, la produzione non è affatto superiore a quella del 1939. Là stesso dove si potrebbe constatare un leggero miglioramento — come per esempio in India — questo miglioramento é stato integralmente neutralizzato dall'accre-
scimento della popolazione. _
Nel campo ideologico, ci si scontra con delle difficoltà analoghe. S'è riconosciuto che una pura e semplice imitazione dei metodi occidentali non poteva dare risultati soddisfacenti. L'influenza delle minoranze educate all'occidentale é in relativo ribasso. Le condizioni materiali dell'esistenza nei paesi più ricchi stanno venendo conosciute sempre meglio, e ne risulta uno scontento che tende a favorire le soluzioni radicali per il miglioramento del livello di vita sociale. È qui l'origine del nazionalismo asiatico, che
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non ha niente a che vedere con le nostre forme di nazionalismo occidentali, e che è innanzitutto espressione dell'impazienza provocata in milioni di esseri umani dalla coscienza dell'inferiorità della propria condizione. Il nazionalismo, in questi paesi, diventa dunque il motivo fondamentale delle rivendicazioni d'uguaglianza con il resto del mondo; é una passione dominante, che condiziona tutto il clima politico e ideologico del Sud-Est asiatico d'oggi. In altre parole, possiamo dire che nel Sud-Est asiatico domina oggi una atmosfera di disinganno : conseguenza abituale delle speranze eccessive. Ci si è resi conto che l'indipendenza politica, da sola, non mette fine alla servitù economica, e da questo riconoscimento é derivato appunto ciò che noi, in Occidente, generalmente chiamiamo « il rapido insorgere del nazionalismo asiatico ».
Abbiamo così assistito al formarsi di movimenti politici i cui scopi non differivano molto da quelli delle rivoluzioni europee dei secoli XVIII e XIX: riforme agrarie, migliori possibilità di istruirsi, una giustizia e un'amministrazione migliori, e la liquidazione dei privilegi economici. Ma le forze appoggiate dall'Occidente si sono opposte a queste domande relativamente modeste, ed é per questo che gli asiatici son venuti convincendosi, in numero sempre maggiore, dell'impossibilità di realizzare i propri ideali « progressisti » per vie diverse da quelle del comunismo. Come la borghesia di tanta parte d'Europa s'aspettava che Napoleone, il conquistatore, l'avrebbe liberata dal feudalesimo, così, in Asia, decine di milioni di persone attendono dall'imperialismo sovietico la stessa liberazione : una liberazione da forme sociali e inadeguate.
Abbastanza significativamente, una gran parte di questa volontà di liberazione é diretta verso l'ideale dell'industrializzazione; ed é sotto questo particolare riguardo che i risultati conseguiti nell'URSS — e più recentemente in Cina — hanno esercitato una considerevole influenza.
S'ammette generalmente, in Occidente, che un certo grado di industrializzazione nell'Asia sud-orientale è inevitabile; si comprende che questa zona, nel suo insieme, non ha abbastanza terra coltivabile per sostentare una popolazione in rapido aumento, e che
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la terra stessa occupa già una mano d'opera di gran lunga superiore a quella che sarebbe sufficiente per una produzione massima. Si concede, dunque, che una certa parte della popolazione debba essere assorbita dall'industria. Ma ci si immagina spesso che possa trattarsi d'una operazione limitata : che qualche fabbrica di tessili, qualche industria di beni di consumo, possano risolvere la situazione, e che la società dell'Asia sud-orientale, nel suo insieme, possa conservare la sua fisionomia attuale, senza mutamenti radicali e senza una industrializzazione condotta realmente su larga scala.
Queste idee si fondano su due specie assai differenti di principi. Da una parte, esse sono sostenute da gente cui non piacerebbe affatto che 600 milioni di persone divenissero realmente indipendenti dalla tutela economica dell'Occidente; da gente che ammette la necessità d'un certo progresso industriale per rendere meno esplosivi gli accumulantisi problemi sociali, ma che non vedrebbe affatto di buon occhio un quarto dell'umanità entrare in possesso degli strumenti che potrebbero renderla eguale ai suoi ex-padroni. D'altra parte, le stesse idee sono sostenute da un certo numero di sinceri idealisti, i quali affermano non essere affatto certo che i popoli dell'Asia sud-orientale desiderino imitare il nostro esempio; i quali temono che le fabbriche possano distruggere le tradizioni culturali dei popoli stessi; e che, deplorando gli errori commessi dalla società industrializzata, vorrebbero, per così dire, a risparmiare » agli asiatici del Sud-Est la penosa esperienza di diventare dei semplici ingranaggi d'una società tecnologica.
E tuttavia inevitabile che queste forme idilliache di società rurali asiatiche siano alla lunga condannate a sparire.
I tentacoli della civiltà occidentale sono già penetrati in profondità nei residui dei modi di vita tradizionali.
La maggior parte di quei popoli, costretti a rivolgere contro di noi i nostri stessi metodi per raggiungere la loro indipendenza, hanno in ciò stesso potuto avere un primo assaggio d'un desiderato futuro. Lo sviluppo delle comunicazioni, la progressiva abolizione delle distanze e la propaganda politica sono altrettanti passi coim-
AEI
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piuti su questa strada. Inoltre, l'impresa commerciale dell'Occidente ha creato nuove abitudini di consumo, assai sproporzionate allo sviluppo economico delle odierne società asiatiche sud-orientali.
Conseguenza di tutto questo è che i popoli di quella zona hanno appreso che in altre zone del mondo le popolazioni godono di un tenore di vita differente dal loro; hanno in tal modo sviluppato gusti nuovi e un concetto nuovo del valore della dignità umana; si sono creati nuove abitudini di consumo, assai prima di aver potuto raggiungere un proporzionale aumento del numero delle loro macchine e fabbriche.
Dagli intellettuali delle università al più semplice contadino, quei popoli sono così giunti a comprendere che per por fine alla loro servitù economica hanno bisogno di una migliore attrezzatura tecnologica. E questo desiderio di liquidare ogni traccia di tale servitù va rapidamente divenendo il tema centrale del loro risveglio politico e razziale.
Chiusi nei limiti della nostra terminologia, noi diamo a questo risveglio l'etichetta di « nazionalismo », perché é l'unica esperienza nostra che ad esso si possa paragonare. Ma il nazionalismo occidentale storicamente si associa con l'emergere di una classe sociale che ha bisogno di un quadro d'ampiezza nazionale per l'adempimento delle sue ambizioni economiche e culturali. Nei paesi dell'Asia sud-orientale questa classe, la borghesia, o non esiste o è numericamente irrilevante. La funzione di portatrice dell'idea nazionalistica è qui esercitata dalla comunità nel suo insieme; e suo obbiettivo non è la mera espressione economica o culturale di una minoranza d'élite, ma la liberazione dalla servitù economica dopo il conseguimento dell'indipendenza politica. Il richiamo nazionalistico, nell'Asia sud-orientale came in tutta l'Asia, non consiste essenzialmente, come in Occidente, nella preservazione del proprio paese da un controllo esterno. È l'espressione assai più composita del desiderio di ricostruire dalle fondamenta il proprio paese, di forgiare in modo affatto nuovo la propria società in modo da elevarla all'ugualianza con gli altri paesi del mondo.
Il nazionalismo asiatico dei nostri giorni si compone non sol-
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tanto di amore per il proprio paese, ma anche di fiducia nelle sue potenzialità, di fede nella sua possibilità futura di raggiungere l'uguaglianza, e di determinazione a compiere i cambiamenti sociali necessari per raggiungere questi fini.
Radice comune a queste varietà asiatiche di « nazionalismo » contemporaneo, é il risentimento. Risentimento per l'incapacità economica; risentimento per il controllo straniero; risentiimento per la superiorità politica, culturale e razziale dell'Occidente. Queste componenti si combinano in proporzioni diverse a seconda delle circostanze locali. Dove esiste una classe media di una certa importanza — come in India, nel Siam, in Indocina o a Singapore — il risentimento acquista un carattere prevalentemente economico o culturale; ma laddove la classe media è pressoché inesistente, come in Birmania o in Indonesia, il risentimento appare nella sua forma più genuina e potente. In questi casi, non ancora incanalato in una direzione specifica, esso emerge sotto forma di un'ampia passione popolare, e : o sbocca nella rivoluzione, come in Birmania; o come in Indonesia, si dissolve in una inarticolata xenofobia.
Per noi occidentali, é difficile, fors'anche impossibile, analizzare a fondo i motivi di questo risentimento e comprenderne la funzione formativa di quel che chiamiamo nazionalismo asiatico. I nostri libri di storia ed anche i nostri atteggiamenti istintivi tendono a una scelta di fatti atta a dare una visione erronea, ma per noi lusinghiera, del periodo di dominio occidentale in Asia. Noi amiamo rappresentarci i generosi istituti che hanno aiutato le società coloniali; loro, ricordano gli incidenti marginali che umiliarono e esasperarono gli individui. È certo difficile per noi valutare giustamente l'importanza della passione anticolonialistica. Nessuno ci ha mai chiamati « indigeni » ; non è mai arrivato nessuno dai confini estremi dell'Asia a metter cartelli all'ingresso dei nostri parchi con scritto « Vietato l'ingresso ai cani e agli europei »; nessuna razza straniera ha mai calpestato in nostri corpi moribondi di inedia, per raggiungere allegri locali di divertimento, né siamo stati mai costretti a vivere per secoli nell'umiliante consapevolezza che il nostro luogo di nascita ci condannava al ruolo di uomini di seconda classe.
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Ovviamente, anche colla maggiore buona volontà, le nostre esperienze possono darci ben piccolo fondamento per una comprensione dei sentimenti che hanno l'influenza così decisiva sul pensiero e le azioni dei popoli dell'Asia sud-orientale contemporanea.
Eppure, anche se non potremo sperar mai di comprendere appieno il potere dinamico di queste passioni, possiamo comprenderne l'importanza alla luce dei cambiamenti che esse hanno provocato nel mondo durante l'ultimo quarto di secolo. Potremo così convincerci della futilità di parlare di uguaglianza e di amicizia tra Oriente e Occidente, quando il primo si trova in una così vistosa condizione di ineguaglianza e ne risente le conseguenze in ogni aspetto della sua vita quotidiana. Potremo pure cdmpredere come sia per noi impossibile convincere quei popoli della sincerità del nostro aiuto, quando al tempo stesso, in realtà, non facciamo nulla per por termine alla loro arretratezza industriale e alla scarsissima remunerazio-ne della loro forza di lavoro, su cui in passato si sosteneva il dominio coloniale dell'Occidente. E con un poco di logica possiamo infine renderci conto che fino a quando queste lezioni non saranno state apprese, e fino a quando non si sarà agito in conseguenza, il «nazionalismo» asiatico, questo appassionato risentimento per il dominio europeo, non farà che espandersi ed aumentare di intensità e di violenza.
Per quanto sinceri possano essere i nostri realisti, che vogliono risparmiare ai popoli asiatici economicamente retrogradi l'orrore della nostra civiltà tecnologica, la loro sollecitudine rimarrà senz'effetto. Il significato della rivoluzione asiatica contemporanea é che centinaia di milioni di persone che sono state umiliate con la forza fisica, ma ben di rado si sono convinte della superiorità occidentale in altri campi che in quello materiale, ora vogliono essere nostre eguali. Esse vogliono por termine alla loro dipendenza ed è del tutto inverosimile che siano disposte a privarsi delle armi più efficaci di cui dispongono per raggiungere tale scopo. Hanno tempo a sufficienza per capire che il raggiungimento dell'ugualianza con l'Occidente non sarà mai il frutto dei nostri timidi e non sempre altruistici a programmi d'aiuto ».
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Ovviamente, quest'atmosfera di risentimento e di ostilità appena mascherata è una base pericolosa quando si tratta di prendere decisioni importanti. Due ideologie rivali si affrontano nel Sud-Est asiatico con uno zelo ed un'insistenza maggiore che in alcun'altra epoca della storia, e le conseguenze della propaganda fatta dai loro missionari non presentano più, per i popoli degli altri continenti, un'importanza puramente accademica come mille o duemila anni or sono. Fatta eccezione per quei siti cosí ben protetti dalla natura che né il carro amato né la carovana possono penetrarvi, la storia non tollera il vuoto. Quando una autorità centrale forte sparisce, v'è luogo per un nuovo potere. Il ritiro delle potenze occidentali ha posto a circa seicento milioni d'uomini questo problema dell'autorità e dell'esperienza di governo. Vedemmo il medesimo problema porsi quando l'impero spagnolo, l'impero degli Asburgo o l'impero ottomano cedettero il loro posto : il vuoto da essi lasciato fu immediatamente colmato da un nuovo stato indigeno o da un'altra potenza straniera. Del pari, nell'Asia sud-orientale d'oggi, l'autorità scomparsa con gli occidentali sarà sostituita o dagli indigeni stessi, o da qualche potenza straniera.
Ma è difficile immaginare che l'occidente possa riprendere il suo antico ruolo in questa zona : l'Asia sud-orientale si trova dunque praticamente di fronte a un dilemma preciso : o i suoi seicento milioni d'abitante giungeranno rapidamente ad assimilarsi le tecniche d'un governo forte, efficace e giusto, o non vi giungeranno, e in questo caso il malcontento e i dissensi che ne risulteranno faciliteranno la presa del potere da parte di nuove forze che, questa volta, non saranno occidentali.
Sta qui, in sostanza, il problema dell'Asia sud-orientale. Per parlare più semplicemente e rientrare nel quadro politico di questa nostra epoca a metà del secolo, diremo che si tratta di sapere se le forze opponentisi a ciò che noi chiamiamo l'occidente riusciranno o non riusciranno ad annettersi un quarto della popolazione del globo. L'importanza di questo problema é abbastanza evidente perché sia necessario alcun commento. Non sono dieci anni che i paesi del Sud-Est asiatico hanno riconquistato la loro
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indipendenza, ed é tuttavia già lunga la storia dei tentativi fatti dalle potenze occidentali per influenzare i paesi stessi nella scelta che ad essi si impone.
Nel clima psicologico che ha seguito l'epoca coloniale, ogni sforzo dell'Occidente per riannettersi indirettamente, sul piano politico o su quello militare, i paesi appena liberati, era destinato in partenza a riuscire improduttivo. Così l'attività dell'Occidente s'è quasi esclusivamente limitata al campo economico. Ma è proprio in questo che i popoli in questione hanno subito, fin dal principio, i disinganni +maggiori : l'Occidente ha dunque cercato, per la sola strada che gli era aperta, di agire su tutti i fattori capaci di rafforzare la resistenza dei nuovi stati della zona, ricorrendo successivamente a diverse misure di assistenza ispirate ora agli interessi particolari delle antiche nazioni colonizzatrici, ora ad una visione d'insieme degli interessi della comunità occidentale. Al principio, c'erano quei legami economici e finanziari normali che legavano i popoli a coloro che li avevano governati. Poi vennero progetti più ambiziosi, interessanti la zona nel suo insieme : il Punto Quarto, il Piano di Colombo, i vari programmi di Assistenza Tecnica. All'origine di questi vari progetti — come in ogni impresa politica — pub ritrovarsi tutta una serie di fattori contraddittorii : motivi puramente egoistici, ma anche considerazioni dettate dall'interesse generale, e persino vedute umanitarie.
Dopo alcuni ann; d'esperienza su questa strada, é già possibile trarre certe conclusioni : 1) dal punto di vista quantitativo i risultati deludono; 2) l'assistenza offerta non ha molto contribuito ad aumentare i sentimenti pro-occidentali dei beneficiari; 3) non e certo che la strada seguita non abbia provocato più irritazione che risultati positivi capaci di sigillare un'amicizia tra Oriente ed Occidente.
Se si paragona l'importanza delle somme consacrate a ,questi programmi di assistenza con i risultati mediocri, se non negativi, che sono stati ottenuti, viene da domandarsi come possa accadere che a tanta buona volontà corrisponda un così magro successo.
Spero che mi si perdonerà se, per porre il problema, non ho
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ricorso che a generalizzazioni. Non ho potuto evitare di schematizzare in modo eccessivo. Ma ora che il problema è posto, bisognerà esaminarlo più in dettaglio, tanto più che — non esito a ripeterlo — si tratta d'un quarto dell'umanità, e di sapere con chi questa enorme massa impegnerà il suo avvenire. Si tratta di comprendere che se, abbordando il problema nel nostro modo occidentale, ci siamo avviati su un binario morto, il rischio che cor-riatno è di ritrovarci isolati.
Troppo spesso, nelle esperienze tentate finora in questo campo, s'é voluto credere che il capitale e le sue capacità di riproduzione siano trasportabili e trapiantabi'li, come un grammofono portatile con i suoi dischi. Con un ottimismo degno del XIX secolo, abbiamo stabilito a priori che un dato capitale investito in un qualsiasi paese aumenterà la capacità di produzione del paese stesso. Questa concezione d'un rapporto automatico di causa a effetto permette di asserire che iniettando, in danaro o in natura, una dose d'assistenza straniera in certi punti nevralgici, dei risultati meravigliosi non si faranno attendere. Ma la realtà è che la fabbrica di prodotti tessili, la strada asfaltata, la scuola ecc., sono imprese reciprocamente solidali, e può benissimo accadere che l'assenza di una di esse riduca il potenziale positivo di ciascuna delle altre. È cosí che l'assistenza straniera, quando si applica a paesi in cui questa rete delicata di fattori interdipendenti non é ancora tessuta, può portare ad amare disillusioni. Inoltre, quand'anche il potenziale di produzione fosse in aumento, non ne risulterebbe necessariamente un parallelo miglioramento del tenore di vita. Lo sviluppo economico esige in partenza certe condizioni sociali e politiche. La creazione di un nuovo gruppo di fabbriche non comporta necessariamente una più giusta ripartizione del reddito nazionale. Sarebbe troppo facile illustrare questa affermazione con degli esempi, perché il medesimo fenomeno s'é verificato nella maggioranza dei paesi economicamente arretrati in cui l'assistenza straniera ha tentato di agire. Portiamo, tuttavia, almeno un esempio. Milioni di dollari sono stati investiti nel Brasile. Grattacieli, fabbriche, città immense sono state edificate. Ma il Brasile resta
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forse il solo paese del mondo in cui il consumo di candele sia in aumento, ciò che prova incontestabilmente lo stato di ristagno economico delle campagne. Dietro i grattacieli scintillanti di Rio o di San Paolo si estendono regioni immense abitate da una popolazione miserabile e arretrata, che non ha il potere d'acquisto necessario per procurarsi i prodotti fabbricati nelle grandi città.
Un altro esempio, per dimostrare la necessità di certe condizioni politiche e sociali alla base dello sviluppo economico : esaminiamo un paese come la Birmania. In cento anni di amministrazione britannica, il reddito nazionale si è moltiplicato per dodici o per quattordici. Ma le statistiche provano che il reddito annuale medio della popolazione non è aumentato che in modo insignificante; ed anzi, nel corso della grande crisi economica successiva al 1930, esso subì perfino un brusco ribasso. Come si spiega questo fenomeno? 'Mi si permetta di ricorrere a una metafora. Nel corso di viaggi compiuti intorno al mondo, ho notato che gli uomini amano circondarsi di ricordi dell'epoca più felice della loro vita. Lo stesso accade per le nazioni. In Inghilterra, per esempio, stupisce constatare quanta gente ami vivere in case, con mobili, in un'atmosfera, che le ricorda l'epoca vittoriana : fu lo zenit della potenza britannica, e costoro amano ricordarne la gloria.
In Francia gode dello stesso prestigio, e per ragioni analoghe, l'arredamento Impero o della monarchia al suo apogeo. A Berlino, le più belle case ricordavano l'interno d'una di quelle corazzate che fecero credere al Kaiser di poter conquistare il mondo. In India, i nuovi ricchi costruiscono le loro ville nello stile dei Mogol. Penso che queste osservazioni possano applicarsi a civiltà intere.
Se a noi occidentali è riuscito di tanto progredire rispettó al resto del mondo, ciò è dovuto ad un concorso di circostanze unico in un dato momento della nostra storia. I fattori principali sono stati tre : il nostro entusiasmo di puritani per il risparmio e per l'investimento produttivo di questo risparmio; la dura volontà di guadagno e lo spirito d'iniziativa dei nostri uomini d'affari; la mobilità e l'adattabilità della nostra mano - d'opera. Questo concorso di fattori — ciò che chiamiamo iniziativa privata o economia
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liberale — ci ha dato la possibilità, in un dato momento della nostra storia, di moltiplicare i nostri beni di produzione, di sfruttare continenti nuovi e di estendere la nostra impresa su parti immense d'umanità che non avevano beneficato di questo concorso unico di circostanze. Questo periodo di fioritura dell'economia liberale e della libera impresa è stato il più brillante della nostra civiltà, e noi cerchiamo ancora di ammobiliare con i suoi ricordi il mondo che ci circonda, proprio come facciamo coi candelieri dell'epoca vittoriana o le pendole Luigi XV. Da noi, in Occidente, stiamo progressivamente sostituendo la nostra antica economia liberale con metodi nuovi e assai differenti; ma continuiamo a pretendere che nelle regioni economicamente arretrate la libera impresa, quale la concepivamo in altri tempi, debba produrre risultati altrettanto spettacolosi di quelli prodotti presso di noi in un'epoca ormai tramontata della nostra storia.
In che cosa la situazione attuale del Sud-Est asiatico é così totalmente diversa? Se riusciremo a rispondere a questa domanda, ci avvicineremo forse alla formula che permetterà di trovare metodi meglio adeguati ai bisogni. Una volta trovati questi metodi, avremo migliori probabilità di successo nella lotta per l'amicizia e per la solidarietà con le masse del Sud-Est asiatico. Dobbiamo rispondere a tre interrogativi :principali :
1) La funzione unica svolta in Occidente dalla classe dei capi d'impresa potrebbe essere sostenuta nel Sud-Est asiatico da una classe analoga?
2) Gli immensi capitali necessari a un ampio sviluppo economico sono disponibili?
3) V'è una possibilità di formare rapidamente la manodopera competente e adattabile che si richiede per una rapida espansione del potenziale di produzione?
Cominciamo dalla classe degli imprenditori.
In una zona in cui il reddito individuale va dai 50 ai 100 dol- lari annui, le possibilità di risparmio sono estremamente ridotte. Nella maggior parte dei paesi del Sud-Est asiatico, dal 70 all'85 degli abitanti vivono dell'agricoltura. Essi non dispongono, come
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proprietari o come fittavoli, che d'un pezzo di terreno minuscolo; il credito in generale manca, e la produzione ne risente. La maggior parte é gravemente indebitata. Infatti, in tutte queste regioni, quello che detiene la massa di risparmio esistente è un gruppo assai esiguo. Vi sono, certo, delle eccezioni; certuni hanno fatto prova, con successo, di spirito d'iniziativa; ma, nell'insieme, quell'esiguo gruppo che detiene tutto il risparmio del paese si contenta di trarre dei modesti benefici dalla terra e dal commercio; é ben raro che esso rischi i suoi capitali in campi nuovi. Esaminiamo la zona che va dal Pakistan all'Indonesia; un piccolo gruppo di proprietari investe i suoi capitali nella proprietà fondiaria e immobiliare, il commercio di esportazione e importazione, le sale di spettacolo, o ancor più semplicemente l'oro e i preziosi. L'investimento industriale è un caso del tutto eccezionale. Il tenore di vita in India è tra i più bassi del mondo; purtuttavia l'India importa ancora grandi quantità d'oro per rispondere al tradizionale istinto di tesaurizzazione. Se esistessero statistiche in materia, si potrebbe probabilmente provare che nell'insieme della penisola indiana le somme spese dalla popolazione, ricca o povera, per l'acquisto di gioielli d'oro e d'argento, superano quelle destinate ai beni di produzione. Si tratta di tradizioni profondamente radicate; ma non è perciò meno vero che l'attività dei proprietari, di coloro che detengono il risparmio, non contribuisce che pochissimo all'accrescimento del potenziale di produzione. In Occidente il « capitalista » dell'epoca della rivoluzione industriale rischiava i suoi capitali; egli credeva all'impresa e, quali che fossero i suoi moventi, creava nuovi mezzi di produzione. Nel Sud-Est asiatico moderno, come d'altronde in tutti i paesi economicamente arretrati, il « capitalista. » possiede immobili e terra dati in fitto, dà danaro in prestito o fa collezione di palazzi o di perle. Solo in casi del tutto eccezionali lo vediamo vendere le sue terre, liquidare il suo istituto di prestiti o separarsi dalle sue terre per acquistare macchine, come facevano i capitalisti occidentali. Questa piccola minoranza, detiene spesso capitali considerevoli, ma le manca lo spirito d'iniziativa. Gli averi riuniti delle vecchie famiglie dirigenti indiane, molto probabil-
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mente, potrebbero finanziare un piano quinquennale molto più vasto di quello in corso. Ma queste famiglie non arrischiano i loro capitali. Non esiste attualmente alcuna autorità che possa obbligarli a farlo, e l'instabilità politica (che non sembra destinata a diminuire per il momento, ma al contrario ad aumentare) ha il solo effetto di rafforzare la loro naturale tendenza. Cerchiamo ora di rispondere alla seconda domanda : È o non é disponibile il capitale necessario per una vasta espansione economica?
La popolazione dell'Asia sud-orientale ammonta a circa 600 milioni di unità. Una parte è proficuamente impiegata. Un'altra parte é in qualche modo parassitaria, nel senso che contribuisce all'adempimento d'un compito che sarebbe eseguito altrettanto bene da un minor numero di lavoratori. L'obbiettivo da raggiungere é dunque duplice : da una parte, elevare il rendimento di coloro che sono già impiegati con profitto; d'altra parte, trovare un impiego produttivo per coloro che attualmente lavorano a vuoto. Come abbiamo visto, una produttività insufficiente non lascia praticamente alcun margine per il risparmio e per la formazione del capitale. Quando in via eccezionale si costituisce un capitale, esso non viene utilizzato per fini produttivi. Le conseguenze finanziarie del problema sono state esaminate da un comitato di specialisti delle Nazioni Unite, che ha pubblicato le sue conclusioni col titolo « Misure da adottare per lo sviluppo economico dei paesi insufficientemente sviluppati ». Questi esperti sono giunti alle seguenti conclusioni : per accrescere del 2,5% annuo il loro reddito, i paesi dell'Asia sud-orientale dovrebbero investire nell'industria e nell'agricoltura il 20% circa del loro attuale reddito nazionale. Ponendo che il reddito individuale medio sia di 70 dollari l'anno, giungiamo a un totale di 42 miliardi di dollari. Occorrerebbe dunque destinare 8,5 miliardi annui all'investimento; laddove il risparmio netto di questi paesi non eccede il 4% del reddito nazionale, cioè approssimativamente un miliardo e mezzo di dollari. Anche, dunque, se tutto il risparmio venisse investito in modo produttivo (ciò che non é), mancherebbero ancora oltre 7 miliardi di dollari annui. Inoltre — e arriviamo qui all'aspetto più tragico
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del problema — la popolazione asiatica aumenta annualmente del-l'1,5-2%. Dunque, anche se per miracolo potessero trovarsi le somme necessarie, il miglioramento del tenore di vita non sarebbe del 2,5%, ma supererebbe appena l'1%.
Torna opportuno ricordare che di fronte a questi bisogni — sette miliardi di dollari all'anno — gli investimenti privati, i prestiti governativi e i diversi programmi d'assistenza non superano complessivamente i 250 milioni di dollari. Mi sembra evidente che non è possibile prevedere nel mondo d'oggi un cambiamento tale da far salire improvvisamente questi 250 milioni a 7 miliardi mediante l'afflusso di capitali stranieri verso l'Asia sudorientale. Appare dunque che nel ricercare una soluzione del problema non possiamo far conto né sull'iniziativa privata- nel quadro nazionale (all'attuale livello del risparmio nazionale), né sugli investimenti privati stranieri. Tuttavia una soluzione bisognerà trovarla; ed essa potrà derivare soltanto da un'azione energica e radicale sul piano nazionale e internazionale.
Ma passiamo alla nostra terza domanda : quale possibilità ci sia di formare rapidamente la manodopera competente e adattabile necessaria all'espansione rapida del potenziale di produzione, una volta trovati, per qualche imprevedibile miracolo, i capitali.
Basandoci sull'esperienza della nostra rivoluzione industriale, tendiamo a credere che la formazione d'una manodopera sufficiente dipenda da un'adeguata remunerazione materiale, da un adeguato « incentivo ». Ma l'esperienza ha dimostrato che l'attrattiva del salario non ha in certe società asiatiche la parte importante che ha avuto da noi. Delle cifre isolate non proverebbero molto, e statistiche non ne abbiamo; ma chiunque abbia conosciuto di persona l'Asia sud-orientale sa bene come stiano le cose sotto questo riguardo. L'operaio asiatico non ha l'istinto di guadagno del suo confratello occidentale, soprattutto nelle regioni tropicali e semi-tropicali. Ho parlato con decine di dirigenti di fabbrica nei diversi paesi della zona; tutti hanno concordemente affermato che l'attrattiva del salario non agisce cola come in Occidente. Capita spesso che l'operaio birmano, indiano o indonesiano scompaia dopo la'
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paga per non ritornare dal suo villaggio che a danaro speso. La speranza di guadagnare di più non lo stimola necessariamente ad accettare un lavoro più produttivo. È praticamente impossibile imporre una disciplina di lavoro, e l'assenteismo é diffusissimo, anche quandò le condizioni materiali accordate al lavoratore giustificherebbero uno sforzo più sostenuto. Non so se l'abitudine alla disciplina industriale o allo sforzo sostenuto richieda un lungo periodo di preparazione, o se sia addirittura incompatibile con un ambiente sociale, climatico e religioso così diverso da quello occidentale. La questione non è stata ancora studiata a sufficienza. Ma da quanto io stesso ho visto ed inteso e da quanto hanno osservato persone più qualificate di me, sembra chiaro che per compiere la trasformazione economica della regione bisognerà offrire all'operaio del Sud-Est asiatico e alla società che lo circonda un altro incentivo oltre la semplice ricompensa materiale. Saranno necessari ancora lunghi studi per trovare il modo di creare in questi paesi la volontà di uno sforzo sostenuto e di un rendimento maggiore. Questi studi dovranno risalire alle fondamenta stesse del sistema familiare, delle influenze religiose, delle caste e delle tradizioni, e trovare incentivi sentimentali ed emotivi che armonizzino il desiderio di un miglior rendimento con i desideri e con le passioni tradizionali dell'operaio asiatico.
Vediamo dunque che non abbiamo potuto trovare che risposte negative alle nostre tre domande fondamentali.
Non esiste una classe d'uomini d'affari che possa paragonarsi per numero e per spirito d'iniziativa a quella occidentale.
I capitali necessari per realizzare un progresso, per quanto modesto, non potranno essere forniti dal risparmio nazionale quale attualmente esiste, e sembra poco probabile che essi possano affluire dall'estero.
Infine, siamo ancora ben lontani -dal sapere come formare una manodopera numerosa e competente, e quali soddisfazioni materiali o spirituali convenga offrire all'operaio orientale perché egli divenga di suo pieno grado un ingranaggio produttivo dell'appa-
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rato economico, come furono gli operai nostri all'epoca dell'espansione industriale.
Se queste conclusioni sono esatte — ed io credo che migliaia di esempi potrebbero suffragarle — possiamo trarne conseguenze che ci portano assai lontano.
Prima conseguenza davanti all'immensità del compito da assolvere, lo sforzo individuale é impotente.
Seconda conseguenza, derivante dalla prima : occorre trovare formule nuove e dissociare il desiderio di progresso economico dalla sua attrattiva puramente finanziaria. La remunerazione del lavoro ha costituito uno stimolo sufficiente in Occidente; evidentemente non é così nell'Asia sud-orientale. La funzione svolta nell'espansione economica occidentale dai capi d'impresa dev'essere assunta nel Sud-Est asiatico da organismi governativi. In una parola, in mancanza di quel concorso unico di circostanze che assicurò la prosperità materiale dell'Occidente, occorrerà, acciocché un'espansione analoga possa compiersi nel Sud-Est asiatico (come d'altronde, a mio avviso, in qualunque altro paese economicamente arretrato) che essa sia diretta dall'alto: che l'iniziativa venga dai governi, che l'amministrazione sia assicurata dallo Stato. Occorrerà, insomma, una pianificazione di stato.
La storia offre pochi esempi di paesi che abbiano imitato, in un ambiente sociale differente, l'espansione materiale dell'Occidente. Si pensa irresistibilmente al Giappone, alla Russia, e alla più recente esperienza della Cina. I tre esempi sembrano suffragare la nostra tesi.
Il Giappone, che parti con ritardo rispetto a noi, tentò di riprendere il tempo perduto organizzando dall'alto l'espansione delle sue risorse produttive. Non fu una pianificazione di stato, ma le direttive furono date in nome di una classe autoritaria — dirò anzi feudale — che contava sulle sue prerogative ereditarie per assicurarsi l'obbedienza, e si servì, per stimolare il lavoratore, non di un'esca puramente finanziaria, ma della mistica, già accettata, d'un lealismo religioso e nazionale. Tuttavia, fu certamente la Russia che spinse il più lontano la sperimentazione dei nuovi metodi. In
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ritardo sull'Occidente, la Russia dovette affrontare — nel campo economico — quella stessa marcia forzata che i paesi del Sud-Est asiatico si trovano a dover affrontare oggi. Per riuscirvi, essa sostituì, o per lo meno complete), l'esca del guadagno con una ideologia sociale e nazionale. Conosciamo bene i sintomi penosi di questa « rimessa in pari » fisica e morale che sostituì il nostro sistema fondato sulla libera iniziativa. Abbiamo visto come grazie a questa mistica, e con metodi che non avevano nulla a che vedere con quelli dell'Occidente, la Russia poté formare un gruppo d'uomini perfettamente disciplinati e completamente devoti alla causa. Anche se non approviamo questi metodi, non possiamo negare l'importanza di quelle realizzazioni materiali; ed oggi vediamo un fenomeno simile aver luogo in Cina, sotto il controllo diretto di una autorità nazionale.
Io mi rendo conto che molti mi accuseranno di ammettere troppo a priori la necessità di un'espansione economica rapida. Si affermerà, forse, non essere affatto certo che tutti i popoli del Sud-Est asiatico — che tutti i popoli delle regioni economicamente
arretrate desiderino di seguire il nostro esempio; che essi vogliano lasciare le loro campagne verdeggianti per il fumo delle fabbriche; che vogliano dimenticare le loro pittoresche cerimonie religiose per divenire degli stakhanovisti. Si osserverà, insomma, che la civiltà industriale non presenta uno spettacolo così attraente da incitare coloro che fin qui ne sono restati fuori a precipitarvisi per ottenerne i benefici... Sono d'accordo. Ho visto molti contadini, in Asia, trarre dall'esistenza molta più soddisfazione che un operaio di Lione, di Birmingham o di Detroit, il cui reddito annuo é tuttavia immensamente più elevato. Ma non si tratta che di parole, le quali non hanno, purtroppo, alcun rapporto con la realtà d'oggi.
Ho visto contadini, a Borneo, lavarsi i denti nel fiume fangoso con spazzolini da denti in nylon; ho visto in Birmania, presso la frontiera cinese, orologi da polso messi in mostra al mercato accanto alle frutta e alle verdure del paese; ho visto al soffitto di certi templi indù, in villaggi sperduti, lampade al neon che span-
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devano la loro luce bianca o rossa sulla testa di Shiva o di Lakshmi. Appena qualche mese fa, prendendo il tè con gli uomini di una tribù pathan del Passo di Khaibar, li ho visti pulire i fucili mentre ascoltavano un'emissione radio da un piccolo apparecchio americano. Tutta questa gente va al cinema e sfoglia i giornali illustrati; sa che nelle altre regioni del mondo i piaceri della vita sono tutt'altri; ed è assai più facile allargare il campo delle sue abitudini e dei suoi bisogni, che aumentare le sue risorse produttive. Ma questo non é che un aspetto del problema. Ve n'è un altro, e cioè che tutti questi milioni di uomini hanno ormai compreso che per metter fine alla loro servitù economica v'è bisogno di macchine. Il loro nazionalismo, sempre più profondo e appassionato, reclama l'uguaglianza con il resto del mondo; e per ottenere quest'uguaglianza bisogna passare per le fabbriche; la maggior parte di essi lo comprende, anche se l'idea gli dispiace. Dopo secoli di soggezione, non è un esercito di uomini come Albert Schweitzer o di funzionari del Punto Quarto, non è l'artigianato, non sono i portacenere dipinti o i telai a mano che daranno a questi uomini l'uguaglianza che desiderano; essi, o almeno le loro élites, lo sanno. Questa uguaglianza così ardentemente desiderata non potrà venire che da un'industria possente, da fabbriche capaci di produrre acciaio, aerei a reazione e, al bisogno, persino bombe atomiche. Tutto ciò, essi lo sanno. Ciò che tanti asiatici anche non comunisti ammirano nell'Unione Sovietica non sono le fabbriche, non è il monolitismo di una società disciplinata, non sono i campi di lavoro forzato (tutte cose che, al contrario, li spaventano); ciò che essi ammirano è il fatto che un paese arretrato quanto il loro abbia potuto trovare il mezzo di mettersi su un piede d'uguaglianza col mondo privilegiato dell'Occidente, e di imporgli timore e rispetto.
Per rattristante che ciò possa sembrarci, non dobbiamo nascondercelo : sarebbe un errore gravissimo ignorare le passioni ispirate dal desiderio di una liberazione totale, e credere che gli uomini agitati -da queste passioni trascureranno i mezzi più efficaci per conseguire il loro fine.
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Ma torniamo al nostro assunto. Abbiamo visto che oggi, nel Sud-Est asiatico, le circostanze che hanno permesso il successo della libera iniziativa nel mondo occidentale non esistono. Non è l'iniziativa privata che darà impulso all'espansione dei mezzi di produzione; saranno delle direttive 'concertate venute dal ceto dirigente e rafforzate da una campagna d'educazione ideologica capace di fornire gli incentivi necessari.
Abbiamo visto più sopra che un paio di migliaia d'anni fa l'Asia sud-orientale fu il territorio d'incrocio di due scuole rivali, emananti l'una dalla Cina l'altra dall'India; due scuole da cui la zona in questione derivò la sua eredità culturale. Oggi la storia si ripete; India e Cina di nuovo spediscono dottori e missionari a portare le rispettive ideologie nell'insieme del Sud-Est asiatico. Di nuovo, é l'ombra di questi due paesi a pesare sul pensiero di quei -popoli. E che cosa vediamo?
L'India sta realizzando un piano quinquennale sotto la direzione di un governo devoto a un ideale occidentale di libertà politica, malgrado le ineluttabili concessioni implicate da una certa forma di coordinamento. La Cina sta anch'essa realizzando un piano quinquennale, ma sotto la direzione di un governo che, a causa del suo desiderio d'espansione rapida, rifiuta le esigenze della libertà politica ed impiega, per suscitare l'entusiasmo e il lealismo della popolazione, metodi assai vicini a quelli sperimentati in Russia.
Il Sud-Est asiatico vive dunque sotte il segno d'una esperienza storica capitale. Seicento milioni d'uomini ne attendono i risultati. Questi seicento milioni d'uomini vivono tra due mondi : non, come certi credono, tra il comunismo alla russa e il liberalismo all'occidentale, non fra il comunismo e l'occidente, ma tra il sistema di pianificazione indiano e il sistema di pianificazione cinese; fra la pianificazione con la persuasione, e la pianificazione con la forza. Né v'è per essi altra scelta possibile.
Se tra cinque, dieci, quindici anni, i seicento milioni di abitanti del Sud-Est asiatico si renderanno conto, su prove tangibili, che il sistema cinese ha dato risultati migliori del sistema indiano,
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saranno tentati d'imitare l'esempio della Cina. In questo caso, un altro quarto dell'umanità passerà dal campo occidentale all'altro lato della barricata ideologica, e ciò avverrà, in gran parte, perché l'Occidente non sarà stato capace di rivedere concezioni divenute inapplicabili e di ammettere che liberalismo economico e libera iniziativa, non potevano risolvere i problemi sociali del Sud-Est asiatico.
Se non vogliamo assistere ad una evoluzione in questo senso, una sola strada ci é aperta : fare tutto il possibile perché l'esperienza indiana riesca meglio della pianificazione forzata dei cinesi, e perché i suoi risultati siano più attraenti. Non basterà, per questo, di depositare qualche centinaio di milioni di dollari nelle casse del signor Nehru, poiché ciò non riguarda che un aspetto della questione. Il vero problema é di rigettare utopie pericolose e di trovare metodi nuovi perché quel qualche centinaio di milioni di dollari divenga realmente produttivo; e per questo bisognerà probabilmente rivedere tutta una serie di concetti che ci sono ancora cari in Occidente.
Bisognerà ammettere la necessità di una certa costrizione, e far apparire il capitale nazionale necessario mediante un risparmio forzoso. Bisognerà probabilmente riconoscere che per ottenere risultati, anche modesti, una pianificazione delle più rigide dovrà sostituire l'iniziativa privata. Bisognerà forse accettare la necessità di eliminare gli ostacoli sociali che si oppongono al successo della pianificazione (che si tratti sia di proprietari che difendono un sistema arretrato di ripartizione delle terre, sia di usurai che sfruttano un contadinato già miserabile) e di eliminarli cosí radicalmente come si eliminano gli ostacoli che intralcino un'operazione militare.
Bisognerà parimenti accettare il fatto, abbastanza spiacevole, che queste inevitabili misure non sono forse del tutto compatibili con la nostra nozione di libertà politica e di democrazia parlamentare. Infine, bisognerà qualche volta riconoscere — ed é questa una verità ancor più difficile da ammettere — che per realizzare quest'opera con l'onestà e la determinazione necessarie, i meglio
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qualificati non saranno forse quegli uomini che, attualmente, meglio rispondono ai voti politici dell'Occidente.
Ma perché ciò sia possibile, bisognerà modificare radicalmente certe idee profondamente radicate nel mondo occidentale. Dirò di più. Tutti sanno che il popolo meglio qualificato per aiutare economicamente i popoli arretrati é anche quello che, per lo svolgimento stesso della sua storia, continua a coltivare con maggior attaccamento l'ideale del liberalismo economico. Finché l'americano medio crederà che il liberalismo economico e la libertà d'iniziativa siano all'origine della sua prosperità, difficilmente accetterà che una parte delle imposte che paga serva ad organizzare una struttura economica rigidamente pianificata e regolamentata nell'Asia sud-oriéntale. Ma spiacevoli esperienze trasformeranno, forse, la stessa opinione pubblica americana.
In ogni caso, ci si persuada d'una cosa : l'India e la Cina, i due paesi più popolati del mondo, i due paesi che raggiungeranno probabilmente insieme, alla fine di questo secolo, i 1.300 milioni di abitanti, questi due giganti che per centinaia d'anni hanno pacificamente rivaleggiato, cominciano adesso a lottare con mezzi moderni e con tutta l'intensità del XX secolo.
I problemi che questi due paesi debbono risolvere sono sorprendentemente simili. Paragonando i risultati acquisiti, é chiaro che anche il grado di sviluppo da cui sono partiti, é lo stesso. Le loro realizzazioni potranno essere dunque raffrontate punto per punto.
Alla meta del XX secolo questi due paesi, di civiltà venerabile, hanno adottato per sopravvivere un sistema di pianificazione. Il piano indiano insiste sullo sviluppo dell'agricoltura, quello cinese sull'edificazione dell'industria. L'India ha investito in questo esperimento dal 5 al 6% del suo reddito nazionale; i cinesi sono costretti a destinarvi circa il 20% del loro. L'India fa conto sulla
persuasione e sui discorsi incoraggianti; la Cina impiega lo stimolo di una ideologia intransigente, con tutte le conseguenze compor-
tate da una rieducazione forzata del pensiero. Un economista eminente dichiarava recentemente che arrecando annualmente al piano
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indiano mezzo miliardo di dollari, l'Occidente salverebbe dal comunismo e riunirebbe al mondo occidentale 360 milioni di esseri umani. Egli non faceva cenno delle condizioni pregiudiziali che permetterebbero di usare con profitto questa somma. Ma, per il momento, l'Occidente non ha ancora offerto questo danaro. Ci si propone al contrario di accordare all'avversario principale dell'India, il Pakistan, un aiuto militare che ammonterebbes all'incirca alla stessa somma. Di fronte al loro vicino armato dall'America, gli indiani saranno probabilmente obbligati a limitare il loro piano economico per fare acquisto di aerei da bombardamento. I già modesti progetti di sviluppo saranno ulteriormente ridotti per dare avvio a un programma di armamento. Eppure, questa cifra di mezzo miliardo di dollari menzionata dall'eminente economista non rappresenta che uno 0,5 % di quel che il mondo occidentale ogni anno spende per i propri armamenti. È dunque in questo modo, a quanto sombra, che noi contribuiamo in Occidente agli sforzi compiuti dall'India per rivaleggiare con l'esperienza cinese, sforzi fondati su sistemi che almeno in parte preservano un ideale di valori a cui, giustamente, noi restiamo attaccati.
Intanto, gli abitanti dell'Asia sud-orientale, e con loro, probabilmente, milioni d'uomini di altri continenti, seguono queste decisive esperienze con l'interesse dell'uomo affamato che non può più attendere a lungo. I risultati permetteranno di porre a confronto l'efficacia e anche l'attrattiva dell'uno e dell'altro sistema. Di qui a dieci o quindici anni, quando i risultati comincieranno ad apparire, se l'India non sarà riuscita ad eguagliare le realizzazioni della Cina, le verrà forse rimproverato il fatto stesso d'aver aderito all'ideale occidentale e ai suoi metodi.
Se arriveremo a quel punto, l'Asia sud-orientale non vivrà più tra due mondi, tra la pianificazione per mezzo della persuasione e la pianificazione per mezzo della forza. Irresistibilmente, il desiderio di emancipazione di quei popoli li spingerà sulla via dei risultati più rapidi e più spettacolari.
Seicento milioni d'uomini avranno fatto la loro scelta; e con questa scelta un altro quarto d'umanità avrà reciso i legami politici
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con l'Occidente. In confronto con questo avvenimento — che potrebbe benissimo verificarsi in un futuro molto prossimo — i problemi e le passioni che assorbono il nostro piccolo mondo occidentale non sembreranno più che meschini fatti di cronaca. E nella grande lotta di razze che s'afferma oggi come il tema centrale della seconda metà del secolo, l'Occidente, sempre più isolato, si troverà sotto una grave minaccia.
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Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1954 Mese: 5 Giorno: 1
Numero 8
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 5 - 1 - numero 8


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