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tipologia: Analitici; Id: 1472276


Area del titolo e responsabilità
Tipologia Periodico
Titolo Franco Cagnetta, Inchiesta su Orgosolo. Parte prima: Vita sfortunata di Ziu Marrosu Gangas vecchio orgolese
Responsabilità
Cagnetta, Franco+++
  autore+++    
Area della rappresentazione (voci citate di personaggi,luoghi,fonti,epoche e fatti storici,correnti di pensiero,extra)
Nome da authority file (CPF e personaggi)
Gangas, Marrosu+++   Titolo:testimone+++   
Area della trascrizione e della traduzione metatestuale
Trascrizioni
Trascrizione Non markup - automatica:
VITA SFORTUNATA DI ZIU MÀRROSU GANGAS VECCHIO ORGOLESE

Sono nato il 18 maggio 1872, ad Orgosolo, da Giovanni Antonio e da Marrosu Giuseppa, e il giorno stesso che nacqui mio padre moriva. Mia madre qualche poco dopo tornava a sposarsi con un suo antico compare, ed è meglio che non racconto quello che ho passato allora sino all’età di 10 anni.

Comincio a dire da quando avevo quasi l’età di 11 anni e fui messo a fare il servo pastore ai porci del mio padrino Luppu Raimondo, che li aveva insieme con quelli del famoso brigante Giovanni Corbeddu di Oliena. Dio può dire come onestamente erano stati fatti! A quella scuola io ho passato la mia prima vita. Non ho ammazzato nessuno, ma sono stato con Corbeddu 17 o 18 anni. Non ho imparato mica il ginnasio, e quello che l’uomo vede, fa. «Narami in chi abitas a ti naro chi ses» dice il proverbio. Non mi davano da mangiare se non me lo sapevo procurare da me. Ma è meglio che comincio a raccontare subito come ho dovuto arrangiarmi.

Una volta, insieme ad un altro ragazzo, di stato mio, abbiamo fame (non mangiavamo da qualche giorno); ci pensiamo un poco; e poi andiamo a trovarci qualche bestia. C’era chiusi in un muro vicino qualche agnello. Io da fuori metto le mani: e così ho preso le pelli.

Sento gridare: — O quello! Porca madonna!

E poi: — Ti possano ammazzare!

— Che c’è? Che c’è? — mi metto a dire spaventato.

Altro che agnello: era il padrone!

— Ti possano ammazzare!

— Pè, pè, pè, pè.

Sortono due uomini dall’ovile vicino, due compagni del padrone. E ci danno un sacco di botte. Che non si dice.

Un'altra volta (questa volta era di notte) vado a cercare qualche pecora : e me l’ero messa sulle spalle. In quel momento arriva il padro96

FRANCO CAGNETTA

ne, e salgo su un albero. «Mi pare che ci deve stare qualcheduno». Ed io zitto.

AH’improwiso il pastore si mette a staccare dei rami per fare il fuoco. Ed io casco. «E tu chi sei? ». Ha capito che stavo lì per qualche bestia. Allora prende quei rami, e mi ha fatto il fuoco in culo.

Un'altra volta con Pietro, un pastore mio amico, andiamo ancora a cercare un gregge. Ed io metto presto sopra le mani. Sentiamo gridare: «Ohi, mamma mia, mamma mia! Qui ci ammazzano». Uno prende il fucile che aveva appresso e se ne scappa. Anche due o tre che stavano lì, a dormire con lui, prendono il fucile che avevano e si mettono a scappare: erano carabinieri!

Con Corbeddu stavamo meglio. Ero più grande e mi aveva messo allora al Sopramonte. C’erano latitanti di Orgosolo, di Oliena, di Nuoro, di Orune. Ci avevo 25 latitanti. Tutto un gruppo.

Andiamo a fare le capanne. Un giorno sento gridi di maiale: era una volpe che si è presa un porcetto. Gli sparo: e così cade. A colpa di quell’accidente ecco un falco. Subito si mette a cadere per prendere

il porcetto. Tiro: e l’ho colpito. Vado per prenderlo dove era caduto, e il fucile l’ho messo da parte, vicino a un «presetu», ossia un buco nella pietra dove ci sta, per la pioggia, l’acqua. Tornavo e portavo quel falcone e quella volpe.

Porca puttana! Spunta un carabiniere.

Meno male che avevo nascosto il fucile. Stava con me il latitante Valuzza Giovanni, condannato a perpetua galera.

— Qui ci sono i cacciatori — dice il carabiniere. E vede il falcone e la volpe. — Me li date?

— Se li prenda.

Mi ha dato 4 o 5 lire che a quel tempo era un bene. E parte. Prende più in là qualche pastore e l’arresta. Ma i latitanti, no.

Un giorno vado a Nuoro — mi pare la prima volta — ed ecco quel brigante di carabiniere:

— Buongiorno Gangas.

Mi prende: — Che stai a fare?

— Lei si deve impicciare dei fatti suoi.

— O porco iddio!

Stavo a parlare con lui e lui fà l’occhio. Ecco <phe mi sentoINCHIESTA SU ORGOSOLO

97

tirare il paio di pelli che avevo addosso. Volto la testa e vedo un ragazzo.

— Porca puttana!

Torno a parlare e mi sento tirare due o tre volte.

— Tu sei matto!

Allora ho visto un signore discosto che sorrideva.

Porca madonna! ho avuto paura. «Chi sarà questo?».

Era il giudice istruttore: — Oh, stai qui? Come stai?

. — Bene.

« Che diavolo vorrà questo » mi ho pensato.

— Senti, tu devi avere pochi anni. Ma non ho mai trovato una pelle così dura.

Non mi fa niente. Mi convita a bere. E andiamo dentro. Allora ho bevuto, e ha pagato tutto lui.

— Senti, so che sei buon cacciatore. Se ci hai un cinghiale di 6-7 chili te lo compro.

— Bene, bene.

Mi imputano la prima volta per una rapina a Benetutti, il 1890, e vado da lui. Era il giudice Coi-Podda.

— Sentite, mi è successo questo.

— Non ti preoccupare. Ti tiro io in due o tre giorni. (E così è stato). Piuttosto, combina qualche bella caccia di cinghiale. Al Sopramonte.

— Sapete — gli dico io — Ci sono latitanti.

— Non importa — dice lui.

La massima contentezza.

— State sicuro — dice — So che sta Corbeddu e sono stato a caccia due o tre volte con lui. Anche con Congiu di Oliena e qualche altro.

Vado a Corbeddu, lo dico, e facciamo allora una caccia. Hanno ammazzato due mufloni e sei sette cinghiali. Dopo ce l’abbiamo cotto uno sotto terra, al fuoco.

Gli ha detto a Corbeddu: — Tu sei un grande capocaccia!

Allora passa un cinghiale, gli ho tirato e quello è morto.

— È un tuo degno alunno! — dice, Coi-Podda.

E si è preso quello ancora. Poi si è andato e a noi tutti versava98

FRANCO CAGNETTA

tabacco, dinari, dicendo che quando veniva la combinazione, di scrivergli, perché amante di trovarsi a caccia.

Anche col Sindaco di Oliena abbiamo avuto di queste cacce. E una volta, rubate le pecore, viene lui e ci dice, tutto tranquillo:

— Vai a Mamoiada, va a tale casa. Gli porti queste pecore.

E ci danno vino, tabacco, munizioni. E quando ci ha visti ci ha detto :

— Prendete una pecora.

E così ce l’abbiamo mangiata subito, insieme.

Adesso vi dico la prima rapina grave che mi hanno imputato. Era la famosa rapina di Tortoli, il 1° ottobre 1899, in casa del fratello del vescovo De Pau di Lanusei, che duecento o trecento latitanti si presero tutto Toro, dieci casse, e sgozzarono un servo. Anche un latitante fu lasciato senza la testa e le mani, tagliate, per non farlo cono-v scere.

Io ero in età di soldato e vado a farlo. In fortezza al 28° artiglieria. Ho avuto fortuna e fatto due anni invece di tre, perché ho tirato un numero alto. Tornavo proprio il giorno prima di quella rapina. Ma ora mi penso che ero a Bologna, il 1° ottobre 1899.

Mi mettono dentro mentre ero in Fundales di Sopramonte, a « Osporrai », coi maiali. Vengono sopra i carabinieri, quattro o cinque, ed io scappo. Sono caduto e mi acchiappano. E allora mi portano a Oliena e a Nuoro. Dopo un paio di giorni viene il giudice istruttore:

12 o 13 capi di accusa. Quello che li stuzzicava era il fatto di Tortoli. Mi fanno lavorare:

— Dite la verità. Con chi stavate il 1° ottobre, in rapina di Tortoli ?

Cera accanto un mio parente, Gangas, come scrivanello, che mi

faceva segno di non dire niente.

— Adesso mi ricordo — dico io.

I carabinieri tutti contenti. Non stavano più alla pelle.

Ho conosciuto Neri Giovanni, sergente.

— Sotto un altro!

— Ho conosciuto Bianco Domenico, furiere.

Gliene dico un altro : Bonomo Giovanni. Questo Bonomo Giovanni era tenente.

— Altro! Altro!

iINCHIESTA SU ORGOSOLO

99

Allora arrivo al capitano: — Frangieri scgnor ditto Comandante del 28° Artiglieria di Porterra.

— Come? Come?

— Porca madonna!

— Beh, che Fè? L’è questo.

— Adesso vi do due schiaffi. ,

— A me non mi date schiaffi. Proprio niente.

Pum! pum! pum! : campanello.

— Le guardie! Prendete a quello!

Era arrabbiato.

— Che avete fatto Ganga?

— Così così. Mi ha detto di dire i nomi di con chi stavo il 1° ottobre e ho detto i nomi del battaglione.

Mi portano in cella.

— Guarda bene come parli — dice il carceriere.

— QuelFuomo è pazzo. Ho detto il vero!

— Bene, bene.

Viene il sottogiudice: — Permesso?

— Avanti.

Si parla bene. Gli spiego la cosa. E c’era anche il mio parente scri-vanello.

— Il primo ottobre ero a caserma S. Giustino, Bologna. Se volete tre o quattro lire per fare un telegramma le pago io.

— Basta, basta!

Fanno il telegramma e risulta Gangas Antonio fu Giovanni Antonio partito il giorno tale. Torna a chiamare il giudice di prima. Aveva un volto scuro.

— Vedete! Ho telegrafato. Dicono che siete pardto a settembre.

— Lei sogna. Lei si vede le mosche in sogno. Me lo lasci vedere a me il telegramma.

— Beh! Finitela!

Stava il carceriere vicino a lui con un involto.

— Volete la libertà provvisoria?

Io me lo ho preso per uno scherzo.

— E accidenti! Ma che si crede? Che io sia un Giovanni Tolu, un famoso latitante? E accidenti!100

FRANCO CAGNETTA

Viene il capo-carceriere e mi dà il fagotto in mano: era la roba mia. « Beh, buono ».

Torno a casa e vado di nuovo a fare il ladro.

Questa volta ci avevo più esperienza. Nei tempi antichi, specie quando per le annate cattive, per la morte del bestiame c’era più miseria, più fame, in Orgosolo ci riunivano in 4 o 5, o in 20-30, di tutte le specie, e, incensurati, andavamo a rubare il bestiame. Non ad Orgosolo, dai nostri stessi fratelli: a Mamoiada, a Fonni. Anche in paesi lontani — che ora non ci sono più uomini come allora e i giovanotti sono imminchioniti. Una volta, con un solo compagno, ci abbiamo trasportato a piedi un maiale di 30-40 chili per 60 chilometri, da Villanova Strisaili. Ci mettevamo insieme, non c’era nessun capo, ognuno portava Tarma, la polvere, l’acqua e un po’ di pane. E, a cosa fatta, tornavamo tutti alle nostre case, diviso il bottino uguale, e come fulmini. Non ne hanno preso mai nessuno. Nelle case, allora, c’era poco da arronzare: anni di miseria. Pecore, solo pecore. E questo è il mio mestiere.

Ormai ero esperto e sapevo fare bene. Non credete che era per male. Eravamo galantuomini.

Una volta andiamo a un paese vicino alla marina. Il nome non si dice. Eravamo sei o sette con un fazzoletto bianco in faccia e le pelli di pecora, all’uso antico. Troviamo un ovile con pecore grasse, e lì c’erano tre persone a dormire: due uomini ed una donna. Andiamo in silenzio, tutti scalzi, e a me mi mandano avanti, che mi butto addosso alPuomo più robusto.

— Porca madonna!

— Zitto, zitto, che ti uccido.

Metto la mano, e ho visto che quello era una donna: ci aveva una mammella.

— Ma tu sei una donna!

— State fermo. State fermo.

Ci stava uno che gli era venuta una brutta voglia.

— E i maiali? — dico io.

— I maiali li abbiamo mandati via ieri.

Quello intanto si era avvicinato a quella donna.INCHIESTA SU ORGOSOLO

101

— È mia figlia. Lasciate stare!

Ho capito, e ho detto alPamico: — Siamo venuti per pecore, non per donne.

— Se ti muovi ti tiro col fucile. — È stato fermo.

Ci prendiamo il formaggio, un po’ di argento, che ci avevano, e ce ne andiamo.

Un tempo dopo mi trovo a Lula, alla festa di S. Francesco.

Ed ecco che ero a un vendugliolo di vino, ma ero poco brillo.

Ecco una giovanetta di 16-17 anni con una bottiglia di vino in mano e un fazzoletto sul labbro. Mi guarda e si mette a ridere.

— Che ci avete?

Viene un uomo anche e la ragazza gli dice qualche cosa all’orecchio.

Viene quest’uomo e mi dice: — Salute, salute!

— Salute — faccio io. E mi ero insospettito.

— Dobbiamo bere insieme — dice l’uomo. — E pago io.

— Di dove siete? — dice.

— Della parte di Oliena.

— Ah, questo non è vero. (Mi conosceva dal vestire).

— Di Orgosolo.

— Dite — dice. — Non per male. Ma dove eravate la notte tale, ad ora tale.

— A casa mia. « Porca miseria — penso io. — È un gendarme ».

Gli dico a tale e tale posto.

— Non è vero! Tu ti trovavi fuori dalla tua abitazione, dalla parte di ***.

Io dico : — Sì. Può essere — e stavo per mettere la mano al coltello.

Allora chiama sua figlia e le dice: — Nina, ti ricordi di quest’uomo?

— Sì, perché c’era un raggio di luna e l’ho conosciuto in volto.

Porca madonna, stavo proprio per dare un colpo!

— Ci avete fatto bene — dice l’uomo. — Non temete. Bevete ora e grazie, grazie davvero.

Allora gli ho manifestato e siamo stati amici. Tanto tempo.

Una volta, invece, vado a rubare maiali senza prenderne uno solo per me. La sola volta che è successo. Questa volta mi viene un uomo102

FRANCO CAGNETTA

in casa. E siamo soli. Mi dice che c’è un suo cognato che ci ha perduto tutto il gregge.

— È possibile? — dico io.

— Sì. È stata la mancanza di erba, di acqua. E poi la volpe, il sequestro.

Andiamo a un compagno e ne prendiamo 7 od 8. Così ci andiamo in un posto e abbiamo preso una vaccina. Poi 10 o 15 pecore, che l’erano proprio belle. Le diamo a questo cognato. E quello tutto contento.

Il giorno dopo viene un ragazzo in casa mia e mi porta una crob-buia di grano. Dico:

— Chi sei?

Scoppia a ridere e scappa via.

Il giorno dopo viene una bambina con un bel pezzo di lardo:

— E tu chi sei?

Scappa via e io vado, dietro, sino a casa della madre.

Qui la donna mi vede e sorride: — Ci avete salvato. Quella è roba vostra.

— Come l’è? — dico.

— Questa è roba vostra. Non la mia. Grazie a voi. Benedette le tue mani!

Io mi ho scappato e gli ho dato indietro grano e lardo.

Ci capitavano anche di quelle disavventure. ,

Una volta siamo andati (non l’ho mai confessato a nessuno e lo confesso adesso) a fare un affare: a rubare in qualche posto. E lì, insieme, dove ero mi hanno messo di guardia. C’erano anche altri, ma lontani; ognuno al posto suo.

Viene un uomo verso di me. Lo chiamo e questo torna indietro. Lo chiamo allora. Macché, macché! Lo ho minacciato col fucile.

Allora questo: — Pé pé, pé pé — si è messo a fare.

Era un sordomuto, porca madonna! E non poteva sentire.

Mi fa: — Pé pé, pé pé. — E mi chiedeva da fumare.

Gli ho dato allora un pezzo di sigaro: — Via! via!

E quello, porca miseria, si stava buttando ai piedi : non mi lasciavaINCHIESTA SU ORGOSOLO

103

lavorare. Gli ho fatto segno di star zitto. E ricomincia: — Pé pé, pé pé. Allora gli ho dato un calcio in culo. E se ne è andato.

Mi è servito questo incontro, però, per il mio mestiere.

Trovo una volta, dalle parti delPOgliastra, un lavoro di 20 pecore. Quando vedo di gente pastora che viene incontro a me, in fucile. Mi sono posto là:

— Oh, oh, tu, tu. (Anch’io faccio il sordomuto).

Mi fa uno così: — E tu chi sei?

— Bu, bu, bu, bu. — E sempre zitto.

— Dove sono passati i ladri?

— Da quella parte — faccio sempre a gesti.

— Quanti erano?

— Due — faccio con le dita. Mi metto ancora a fare di quei segni, che volevano dire: Mangiare. Fumare. Mi danno pane e formaggio ed

io mi butto che sembrava che mai avessi visto da un anno almeno quella grazia di Dio. Poi un pezzetto di sigaro: e mi ho fatto una fumatina.

Intanto arrivano i miei compagni e ci siamo buttati addosso.

— Dammi due pecore — dico io — o ti ammazzo col coltello.

Quelli, a sentire la voce, si hanno preso più paura. Così ne abbiamo prese tutte e venti e le abbiamo vendute a certi di Napoli che viaggiano in Orgosolo per quel mestiere.

Mi è capitato pure di fare il fantasma nel paese.

Per un affare da fare contro certi pecorai di Oliena che ci avevano pecore in paese mi trovo solo una notte, vicino al Cimitero. Passa una donna e sento: — Oh! oh! oh!

— Che diavolo c’è?

— C’è il diavolo. C’è il diavolo qui — si mette a gridare.

Scappa via e non ho avuto il tempo di sparare.

Il giorno dopo tutti sapevano che c’era il diavolo in paese. È sortita una voce, in paese, che dura sino ad ora. Ed invece il diavolo, povero diavolo, non ero che io.

Ma anche questo non lo ho tralasciato e mi è servito per il mio mestiere.

Una volta stavamo in tre o quattro giovanotti: — Visto che c’è104

FRANCO CAGNETTA

paura nel paese — dico io — non ce ne stiamo con le mani in mano. Andiamo nelle case facendo spavento a dire che siamo i morti. E poi mangiamo come vivi.

Dicono: — Bene. — E tutti d’accordo siamo andati prima a casa di un mio zio. Ci avevamo la faccia con un po’ di nerofumo e un fazzoletto scuro. Andiamo a mezzanotte e bussiamo.

— Come vi chiamate?

— Mi chiamo Gangas Luigi. Faccio il pastore.

— Adesso vi prendiamo e vi portiamo al cimitero. Siamo anime dannate.

Incomincia a gridare, a chiamare la moglie.

— Beh, che ci avete di bevere?

Tirano un po’ di vino.

— Perché adesso ci avete calmato il fuoco d’inferno che ci brucia partiamo. Torneremo domani.

Si son chiusi in casa e li abbiamo sentiti pregare.

Andiamo allora in casa di un altro vicino e gli chiediamo:

— Diteci il vostro nome. E dite, poi, chi siete.

— Puddighino Antonio Michele. Son porcaio.

— Voi siete avvisato a morire. Siamo le anime d’inferno.

— O Dio mio, Dio mio. Pietà, pietà!

— O morite di volontà vostra o vi facciamo ammazzare.

— Dite un poco. C*è anche un mio parente, tale, là dove siete?

— Altro che! Ma si vede poco.

Allora, per la contentezza, si è dimenticato di paura e ci ha dato due o tre pezze di formaggio, che avevamo chieste.

Poi si è chiuso. E si è messo anche a pregare.

Andiamo a un terzo e gli diciamo:

— Siamo i morti.

— Beh — dice un altro — lo sapete allora il Pater noster? Dite quattro Ave e preparatevi a morire.

— Per la mia anima?

— Sì. Pure per la vostra.

— Io sono analfabeta. Non le so dire. Non le so dire.

— Allora, per penitenza, dateci due salami e una pelle pecorina.

Ce le ha date e tremando tutto tutto.INCHIESTA SU ORGOSOLO 105

Andiamo in casa di una donna:

— Dov’è vostro marito?

— È sortito con le pecore.

— Noi siamo morti e lo veniamo a prendere.

— Bene, bene — dice la donna. — Ora vi faccio il caffè.

Ci dà due sigari ma poi, pensando, si mette tutta a tremare.

Faceva l’alba e allora ce ne abbiamo fuggiti. In tutta Orgosolo il giorno dopo si è parlato di questi morti. Che mangiano pure i morti. E si parla ora.

Questa paura dei pastori ci serviva proprio assai.

Andiamo un giorno in quel di Fonni ed io ho detto a certi amici:

— Andiamo, andiamo! Ora i pastori li impauriamo e vedrete quante pecore.

Troviamo una testa di cavallo morto e ci metto dentro agli occhi due lumini. Li accendo e metto la testa su una pertica.

Allora siamo andati e cantavamo tutti insieme:

In cantu erabamus vivos andammos rio rios Como che semos mortos andamos per sos ortos (*).

I pastori se ne sono scappati a gambe all’aria e noi ci abbiamo preso 5 o 6 pecore, ma di quelle buone!

Una volta invece ho trovato io di questi spiriti, ma erano spiriti di orgolesi. E vi dico che succede.

Questa volta io tornavo in paese dal Cimitero. Le 11 di sera. Quando sono arrivato qui vedo due uomini che portavano una capra in spalla.

Rubata? Eh, sicuro!

Vedono che passa un uomo e si mettono a far vedere che dicevano preghiere:

Patre mea, pea, pea.

Parlavano e non si capiva il resto di niente:

(*) Quando eravamo vivi / andavamo lungo i rivi / Ora che siamo morti / andiamo per gli orti.106

FRANCO CAGNETTA

Patre mea, Ave Maria.

10 subito ho capito. «Certamente ci hanno abile studio. Ma li aggiusto io ».

— Cantate in latino? — gli dico.

E quelli niente:

Patre mea, pea, pea.

— E adesso vi faccio cantare in orgolese — dico.

Ero in ginocchio, vicino al muro, con il fucile puntato. Mi hanno conosciuto e veduto così.

— Non sparate! Non sparate!

— Chi siete?

— Compagni tuoi.

Insomma, vado là e li trovo più morti che vivi. Poveracci!

— Andate, andate. E arrangiatevi.

11 giorno dopo vengo a sapere che la crapa risultava rubata ad un mio amico. Di Orani. Vado alPamico, e dico: — Sapete. C’è la possibilità di riavere la bestia. Bisognerebbe, però, pagare tanto.

— Bene, bene — dice. — Vale di più. Sei proprio un amico.

Vado a trovare quei due gaglioffi e faccio minacce. Il giorno dopo

che Thanno rubata si ritrova la- crapa. Io mi ho preso i soldi. E gli ho dato pure 5 lire a quei ladracci.

Ne ho passate di brutte in quegli anni e, per quanto specialista in pecore, ho visto anche sotto i miei occhi ammazzare una donna. Come capra. Si chiamava Podda Battonia, una bella donna. Deceduta il 1899.

Un giorno che ero ad Orgosolo e camminavo nel paese, trovo il marito di questa donna e mi metto a trattare di certi furtarelli di pecore. Mi occorreva di qualche cosa — non so bene che — e dice che posso andare a casa sua a prenderlo subito. A quelPora vado a trovarlo, lui e la moglie, e in quel frattempo vedo una testa di uomo alzato dietro il muro di cinta, alle spalle. Torno a guardare e la testa mi fa segno di star zitto. Intanto il marito e la moglie si erano messi un po’ a camminare. Ed io pure. Cerco di fare segni e di mettermi almeno tra quei due. Intanto l’uomo nascosto era andato avanti dietro il muro, e tira di nuovo la . testa ed un pugnale pecorino. Io son scappato e faccio appena due passi. Accidenti: un grido di dolore!INCHIESTA SU ORGOSOLO 107

»

— Che c’è? Che c’è?

— Hanno ammazzato zia Battonia.

II marito fa il mio nome ed il maresciallo mi voleva accusare. Gli ho detto tutti i fatti: — Così e così. Non credeva.

— C’era un uomo.

— Quell’uomo sarai te.

10 mi interesso solo di pecore, non di omicidi. E quel colpo dato non era di pecoraio, era di capraio. Come era. E così poi lo hanno arrestato: pastor capraro.

Coi carabinieri, del resto, ci ho avuto sempre dispiaceri. Sono stato abituato, sin da piccolo, a guardarli con sospetto. Quando gli potevo dare una via falsa per cercarvi latitanti, o anche per gusto, lo ho sempre fatto. Non mi sbaglio contro di loro, perché lo ho provato su me stesso.

Una volta tornavo a casa, un poco ubriaco. Trovo due carabinieri. Uno era un certo Crapoledda di Putomajore. Mi sono messo a parte.

— Fermati!

L’altro carabiniere se ne è andato.

— Oh, sei tu, Ganga — dice Crapoledda. — Andiamo. Qui ci vogliono due maiali. Andiamo a rubarli insieme.

— Guarda, Crapoledda, che non mi inganni. Pure io ci ho la mia parte.

Quanto era buono, porca madonna!

Subito l’ho preso. Siamo andati e, con queste braccia, gli colgo due maiali. Li portiamo a casa: li abbiamo ammazzati e li puliamo bene bene.

La mattina viene Crapoledda e mi chiede: — Dammi il maiale.

— E la mia parte?

— No — dice Crapoledda. — Se no ti arresto. Tieniti le zampe!

11 maiale-se lo ha fatto imbarcare a casa sua.

Quel brigadiere, così e così, mi dice un giorno: —1 Vedete. Se mi portate ancora in casa un maiale ve lo pago.

— Sentite — gli dico io. — Non mi ingannate.

— No. No.

— Beh, ce ne ho uno a casa.

Viene la notte a casa, io stavo a dormire, e se lo ruba.108

FRANCO CAGNETTA

Allora mi volevo vendicare.

Vado in caserma la mattina, facendo finta di niente, e dico:

— Crapoledda, il maiale ce l’ho per te.

È rimasto male. Chi sa che pensava!

— Quanto pesa?

— 20 chili.

Quello che aveva rubato lui ne pesava 5 o 10.

— Io in casa, però, non ce Pho.

— Chi lo tiene?

— Quella donna.

Va in casa di una donna che gli avevo detto. Ed era una donna che a lui gli piaceva, ma ad Orgosolo la conosceva sotto un altro nome

— come succedeva allora con i carabinieri. Va alla casa e trova i fratelli che io avevo avvertito. E gli danno botte che ha vomitato tutto il porco mangiato. Ed anche gli intestini suoi.

In quei tempi c’era miseria, e sempre peggio, in Orgosolo: non ce la facevo più. Sarà stato il 1904-1905. «Vado in America». Uno del continente che era passato a Nuoro mi aveva detto questo. Vado in caserma per trovare Crapoledda, e a chiedere quel permesso. Mi ha risposto :

— L’America? Sai tu che cosa è l’America? Io te lo nego.

—* Allora —* io ho detto — io mi faccio latitante.

Ma non era così. Mi ero messo, intanto, a fare di altri mestieri. Rubare pecore non fruttava.

In quei tempi c’era in Sardegna una macchina che faceva i quattrini. Io non sapevo niente. Certi di Napoli questa macchina la avevano portata il 1901-1902 ad Isporrai. Faceva i denari mezzi marenghi, ossia mezzi venti: dieci lire. E io dovevo andare con un mio amico a Pozzomaggiore.

Questo mio amico, Solinas Antonio di tal paese, strada facendo, mi dice di questa macchina e che ci aveva di quei soldi:

— In Orgosolo i soldi quasi non li conoscono. Li puoi spacciare.

Gli ho detto no. E lui dice : — Se vedi la macchina. È lucida.

È bella... Se vuoi potresti fare l’inserviente alla macchina.

Io gli dico: — Sarebbe una bella cosa veramente.INCHIESTA SU ORGOSOLO

109

Ci avviamo a Pozzomaggiore io e lui, con quei soldi.

Lui li va a cambiare a un vinattiere e questo dice: — Sono brutti. Falsi.

Ci hanno arrestato. E Solinas dice che li ha avuti da uno di Napoli, Michele Spina. Mi ho fatto un mese di carcere. Ma il dolore grosso è che non ho potuto vedere quella macchina lucida, bella. E ci avevo già il posto di inserviente!

Rattristato ritorno in Orgosolo: disoccupato. Non sapevo che fare: nessun lavoro si trovava.

In paese ci stava un certo ziu Mattiu Catgiu, majariu, ossia stregone. Un giorno mi dice: Marrosu, io ci ho un libro che fa venire subito i diavoli e tutto spiega. Vuoi entrare con me, come aiutante?

Io gli dico: — Sentite. Questi non son conti miei.

— Ma è cosa da niente. Ti dò a mangiare ogni giorno.

— Piuttosto — dico io — se c’è qualche maiale grasso, non se ne vede da tanto, andiamo a prenderlo.

No. Parlava per quelle cose: — Ci avrai paura?

Si era messo in mezzo a convincermi un mio parente, Piredda Antonio, suo socio.

— Sentite. Arrangiatevi voi, tra diavoli.

— Vieni. Facciamo le cose in famiglia.

— Allora fatemi dormire con vostra figlia.

Gli ha preso davvero un diavolo per capello.

Si trattava di questo: mentre loro due leggevano il libro io dovevo fare il diavolo in persona. Dovevo tingermi di rosso tutta la faccia, gridare come un cane, e stare lì a far capriole in mezzo alla stanza, mentre i pastori chiedevano di furti, di malattie, di amore. Si trattava anche — e qui mi convinceva — di questo : per i furti di pecore qualche ladro veniva a dirci dove le aveva nascoste; quando un pastore rubato veniva nel nostro inferno potevamo dirgli dove le pecore stanno e quanto doveva pagare: la percentuale, in carne o in soldi, veniva a noi.

Non ci siamo messi d’accordo solo per il prezzo, e allora si son presi uno di Oliena, un certo ziu Piraele. Stava in casa e faceva il capodiavolo che parlava : lo ha fatto tanti anni. Ma è una fortuna che non110

FRANCO CAGNETTA

mi son messo a farlo io, perché, per poco, non stava davvero per andar a Satana.

Viene un giorno uno di Oliena, un suo paesano, e, alPimprovviso, mentre quello stava a mugghiare e grugnire, quello lo ha conosciuto Piraele e non demonio.

— Chi sei tu?

— Io sono Satanasso.

— O, tu sei Piraele, mio paesano.

— Stai zitto, stai zitto.

E quello: — Ti sparo — e ha preso il fucile.

— No, no. Per pietà. Non sparare. Io sono Piraele. Ma lasciami vivere, guadagnarmi il pane. Sono un povero diavolo.

Quello lo ha lasciato e si è messo davvero in mezzo Satana. Perché ne hanno mandato così più di uno alla rovina. Un pastore di Fonni si è venduto sino all’ultimo pelo di pecora, e pure la casa.

Le cose non mi andavano più bene. E intanto gli anni passavano. Decido così di andare all’America, e questa volta con certi sardi che pensavano a tutto per le carte e per il resto.

Il 1910 parto e il viaggio — Gesù — dura 15 o 16 giorni.

Arriviamo a un porto e c’era una isoletta con tanti tavoli per bere il vino. Finalmente.

Arrivo in America, del Sud, e sono stato a Buenos Aires, Cordova, Santu Agustinu, Toccumannu.

Sempre lavorando: alle ferrovie a cottimo, alla campagna a prelevare erbe cattive. Che vita, insomma! Tutto era brutto.

Il 1913 me ne sono tornato ad Orgosolo.

Ma intanto vi racconto quello che mi è successo all’America.

Siamo andati ad una colonia di pena, ossia lavoro, mandati dal Patronato italiano, che lì c’era un uomo di Benetutti. Quando ci siamo presentati eravamo io, uno di Oliena, uno di Bitti, ed uno di Orune. Mi presento io, che capivo più di tutti, e sorte questo scrivanello che si chiamava Farris.

Allora ho detto: — Scusi, lei di dov’è?

— Di Benetutti.

— E a Farris Giovanni lo conosce? Era il mio capitano. *INCHIESTA SU ORGOSOLO

111

— È mio fratello. Ma è tenente.

Allora ci ha dato la mano. Ci ha favorito. Se uno aspettava come gli altri c’erano mesi. Uno di noi era fabbro e, per questo, ci manda tutti come fabbri a casa di una proprietaria. Una donna? Non era una donna quella. Inutile, cattiva. Stava tutto il giorno con una frusta, E quando non c’era lei ci mandava un maggiordomo.

Finiamo la sera e: — Qui si tratta di pagare.

— Qui e là.

— Porca madonna — dico. — Ci paga subito!

Incomincio a gridare e viene il capotassa, il maggiordomo. — Manda subito a chiamare quella strega di padrona.

— Magnana, magnana, dice.

Dico: — Bene. Qui si mangia.

Voleva invece dire domani.

— O ci paghi o ti spacco la testa — dico io. — Presto presto.

Ci ha dato 80, 90 pesi, qualche cosa di più. Da mangiare. Ma è scappata via.

Il giorno dopo si perde il posto.

Andiamo a un’altra casa. Ci manda ancora il Patronato, lo scriva-nello di Benetutti. E qui restiamo molto.

Arrivo e: Meglio!

C’erano 4 o 5 maiali.

Anche qui la padrona era donna. «Non sarà mai come quella». E aveva due figlie belle. Ci porta in giro a vedere e appena io vedo i maiali mi metto a fare: — Ohi, ohi! — Per paura.

— Non fanno niente. Non fanno niente — dice la padrona. Ed io niente: facevo finta di aver paura, sempre paura.

In una stanza dormiva una serva e le due figlie. Un giorno vedo una nella stanza, nuda, e con un fischio speciale chiamo i maiali. Ecco i maiali ed io mi butto in quella stanza là.

— Andate via! Andate via! — e si mette la mano là.

— Oh, oh. Ci ho paura di quei porci.

Breve: mi cacciano di là. Torno a imballare grano, in camerone.

Quei maiali mi passavano giorno e notte tra le gambe. Era troppa tentazione. Da quando li avevo visti.

Mi accorgo che sto solo, mi sincero bene bene, e: pam! pam!112

FRANCO CAGNETTA

Due maialetti sono morti. Li metto nelle ballette per il grano e li passo ad un mio compagno. La notte li mangiamo.

Quando si sono accorti del furto non potevano pensare a me, credendo la mia paura.

— È stato uno puzone. Lo ho visto che scendeva dall’alto.

Si hanno bevuto. E basta.

Un giorno con tre compagni (quello di Orune era morto: incidente di fabbro) andiamo in un grand hotel. Eravamo tutti sardi. E all’entrata del grand hotel c’erano tante forme di formaggio sardo. Ho detto al cantiniere: — Dammi un litro di sarvenas — così si chiama la birra. Mentre bevevamo, davanti al cantiniere, spostiamo con i piedi i pezzi di formaggio. Così facevo io ed un mio compagno. Abbiamo preso 14 o 15 pezze. E come rotolavano nel grand hotel l’altro compagno le raccoglieva.

Non si hanno accorto del furto. E così hanno accusati certi americani. Un altro giorno, invece di formaggio, mi ho fatto rotolare in tasca i soldi di una majarda. Anche qui, come in Sardegna, trovo una majarda, ossia strega. Beveva e beveva. Sarvenas. Dice che sapeva tutto. E teneva tanti soldi. Vado da lei. Sto a sentirla un poco e poi vedo sul tavolo una carta di 500 pezze. Tiro 5 pezze e dico di cambiarle. Quella si volta per cercare i soldi, io prendo le 500 pezze e glie ne metto 5. Torna, sempre bevendo sarvenas, e io gli metto pure nel bicchiere un pezzo di tabacco. Tutta succa.

— Non c’erano qui 500 pezze?

— No. Non c’era niente. Le avete prese.

Prendo allora le 5 pezze e dico:

— Il resto non è giusto. Ce ne vogliono altre 5.

Allora me le ha date.

Un’altra volta imbroglio un prete di Cordova. E per riuscire a questo bisogna conoscere tutto.

Ero lì in America in una città che si chiama Cordova e soldi non ne avevo: mi avevo bevuto tutto. C’era allora quel prete che sapeva che ero di Orgosolo e sempre mi chiedeva: — Ci sono latitanti? E chi li converte? E quanti missionari?

Vado da lui piangendo. Mi ero messo un paio di dita, ed ancheINCHIESTA SU ORGOSOLO

113

il piede magari, nell’occhio. E gli dico che ho perduto tutto il denaro da mandare in famiglia.

— Poveretto — dice lui. — Ma che avete, Gangas?

Piangevo.

— Quanto hai perduto?

— 200 pezze.

— Ehi, accidenti! Tanto guadagni?

— Come faccio, come faccio?

— Ma sì, ma sì; ma sì.

— Basta. Io mi ho bisogno di ammazzare!

— Eh, Dio ci liberi. Tieni 20 pesi.

— Tante grazie, tante grazie.

— Mi raccomando. Spediscile alla famiglia.

— Non dubitate. Non dubitate.

Esco. E me li vado a spendere in sarvenas e. maiali.

Il giorno dopo lo trovo. E in sospetto:

— Dov’è la tua famiglia?

Gli ho dato un indirizzo falso, di certi parenti che mi avrebbero ucciso : questo sì.

Scrive. Ed ha avuta una lettera piena di parolacce.

— È per la carità che ti ho fatto?

— Che se non me li spendevo io, te li spendevi tu con femmine e sarvenas.

E così era.

Me ne torno allora ad Orgosolo, al mio paese: è meglio che l’America. Riprendo il mio mestiere di raccoglitore di pecore.

In questa seconda mia vita ho avuto dispiaceri, quasi solo dispiaceri. Ma ci ho anche fatti belli.

Ero appena tornato quando una volta, a Sindia, per un piccolo fatto di pecore incontro carabinieri. Ero appena sortito dal paese, col bestiame, quando:

— Fermati!

— Porca miseria.

— Fermati!

Ci spara subito e un colpo di striscio, mi ha colpito il collo. Non114

FRANCO CAGNETTA

ci ho più visto: un paio di salti. Afferro un carabiniere e lo butto a terra. Il mio compagno fa lo stesso con un altro. Gli prendiamo le armi, pistole e moschetti e 60-70 lire che portavano. I signori!

C’era il problema delle armi, ora: farle sparire era un peccato.

Un proprietario del posto nostro amico dice: — Ci penso io. Vado a venderle agli stessi carabinieri.

Va da quelli derubati (si fidavano di lui) e i carabinieri erano tutti contenti: — Evitiamo il peggio con i nostri superiori. Non diciamo niente. Anche un anno di paga vi diamo.

E hanno dato 500 lire: 300 al proprietario, 100 a me, 100 al mio compagno.

Una volta sola ho sparato ai carabinieri. Ed era a Fonni.

Avevo 5 o 6 maiali. Rubati, naturalmente.

— Fermate, fermate!

Cominciano a sparare. Pum! pum! faccio io: e rispondo.

Allora: — Passate, passate! — dicono a mani in alto. — Ci siamo sbagliati. Non c’è niente per voi.

Quando me ne sono andato: pum! pum! pum! Hanno fatto almeno un quarto d’ora di fuoco in aria.

Ho trovato in quei tempi i latitanti più grandi del paese. Una volta, il 1924, incontro Samuele Stochino. La prima volta lo trovo al Sopramonte, ad « Arnpos varios ». Stavo in un covile con certi pastori e trovo un giovanotto solo, triste. I pastori vanno alle capre, e quello mi domanda :

— E tu che fai qua?

—1 Io mi cerco un padrone.

Non lo conoscevo.

Dice: — Vieni, se ti vuoi fare qualche maiale.

Tornano i pastori e mi dicono: — Questo è Stochino.

— Ah, piacere, piacere!

Allora sono andato subito con lui. Io ed un altro, certo Antonio Sio* ora morto. Andavamo in terra di Villagrande.

E, arrivati a un punto, dice a me: — Aspetta qua.

Va col compagno e dopo un’ora torna con 15 o 16 maiali.

— 5 prendine tu.INCHIESTA SU ORGOSOLO

115

— Ma no, ma no.

— Ma sì, ma sì. Stai contento.

Un’altra volta lo incontro un paio di anni dopo e aveva già la mar lattia al petto, e la mantella. Poveretto! È venuto al Sopramonte. Gli ho sparato un muflone per fargli un brodo. Poi ho saputo che è morto.

Ho visto Congiu ed i fratelli Pintori.

In tutto questo tempo erano tante, e in tanti anni, le pecore che ho rubato che non tengo il conto, ma mi sarei fatto milionario. Ora vi vendo, gratis, questo:

Brevetto per rubare le pecore in tutta la Sardegna

1) Le pecore si prendono con l’afferrarle con le mani, con le funi, con i sacchi; si mandano avanti coi gesti, coi sassi, coi fischi, col fucile, E in ogni maniera. Come si può combinare.

Se il pastore non c’è e c’è una pecora sola si manda avanti o si carica pure sulle spalle. Se è più di una pecora si manda avanti con tutti i modi che uno crede.

Se il pastore, c’è, e addormentato, la cosa è molto facile. Non si deve far rumore d’uomo. Si deve andare vicino ai greggi in silenzio, magari scalzo, e fare un gesto in aria, con le mani: le pecore vi seguono. Se non basta, e si deve far rumore, bisogna fare rumore di animale, non di uomo. Le pecore si possono chiamare col belare delle pecore o sbandare con un fischio dell’uccello. Il pastore non si sveglia o, se si sveglia appena, pensa che è un animale: ci ha l’abitudine.

Se il pastore si sveglia o se è sveglio, è più complicato. Si cerca prima coi metodi come se non ci fosse o se stesse addormentato. Se non si riesce si può tentare in vari modi. Si cerca dapprima con una frasca di ramo, senza farsi vedere, di attirare qualche pecorella, ad una ad una. Si può pigliare anche una pecora col fargli vedere il fucile: che di paura scappa avanti. Si taglia subito la collana o si leva il batacchio del campanello, in fretta. Così si fa poco rumore o nulla. Per questo si possono legare anche le gambe a una pecora o più pecore e portarle sulle spalle.

Se si ha l’accordo con uno o più servi del pastore si può cercare, più apertamente, di attaccare il pastore. È una rapina falsa. Ma tante volte occorre una rapina vera.116

FRANCO CAGNETTA

Allora ci vuole coraggio — che questo non si vende — e fucile, cartucce, funi, coltello, e un po’ di vino. Non si va soli ma con qualcuno. E si circonda la capanna. Si fa silenzio e due sempre meglio davanti alla porta, pronti. Un altro entra, senza bussare — meglio se il pastore dorme — e si butta addosso. È meglio gettarsi prima sulle mani che sul resto: può essere armato e può reagire anche. Bisogna anche cercare con un pugno, un calcio, o che so io, di dare sulla bocca, così non può gridare.

Si lega poi, pensando prima a mani e piedi, e un fazzoletto in bocca, oppure straccio che sia.

Se sono più i pastori si va in più. E la cosa è più difficile.

Un ostacolo sono i cani che se non mordono fanno almeno rumore. Bisogna prima pensare a farsi conoscere buttando il giorno prima uno straccio nostro, che il cane si abitua all’odore. Se non si ha tempo si deve pensare a calmarlo con il buttare un pezzo di carne, o meglio una polpetta avvelenata, o col cacciarli con qualche sasso o col fucile. In antico si faceva la presura : con parole o una pelle di gatto : e non è bene.

Ma un cane in proprio può servire, oltre che per difesa e contro i cani altrui, perché si può abituarlo a pigliare una pecora da un gregge, quella che gli indicate; e a guidare e a difendere tutto il gregge, quando è rubato.

È meglio fare la rapina mai in proprio territorio: si può essere conosciuti, e può essere un amico.

È meglio fidarsi dell’uomo coraggioso, sia compagno di rapina o rapinato, che del vile. Non si sa mai che cosa, per viltà, può fare: o vi uccide o, per sbaglio, potete ucciderlo. E siete nei guai.

All’invenzione di ciascuno è affidata, di volta in volta, la riuscita. E tutti i trucchi sono buoni per catturare le pecore, ma che siano grasse, belle: bisogna saper scegliere. Ci vuol la nascita — occhio e natura — per esser bravi e grandi rubatori. Per i pastori ci vuole di sapere tutto usare: metodi buoni, imbrogli, e inganno, e pur violenza.

2) Questa è soltanto la prima parte di questo mio brevetto. Ma la seconda richiede altrettanto importanza e bravura): si tratta di sapere cambiare i segni delle pecore rubate.INCHIESTA SU ORGOSOLO

117

Ci sono molti che le pecore se le mangiano, e così tutta la seconda parte cade.

Ci sono certi, e specialmente napoletani, che vanno sempre in giro a comprare le pecore rubate: a meno prezzo. Ma anche così non le prendono se non sono stati cambiati i segni.

Ed è indispensabile poi cambiare i segni per difesa dai proprietari e carabinieri.

Come è certo tutte le pecore portano sulle orecchie un segno a fuoco, quadrato, del governo. Molti proprietari, per non pagar la tassa di marchiatura, non lo mettono. Ma tutti i proprietari hanno un segno che si mette ad arte, e non a fuoco ma tagliando un pezzo deirorecchio.

I segni principali sono 10:

Pertunta Trunca Suppada Iscala Iscala faddìa

(Una «iscala » in avanti e una indietro)

Rundinina

Bocada

prana

Giubale

r;

Nares (« Giubale » più piccolo)

Mufias

(Orecchio

piccolo)

Con un coltello (o con un paio di forbici) si può bene cancellare un segno e farlo passare da uno all’altro.

Il segno del governo, che è quadrato, si può cancellare, facilmente, con la Pertunta.

Dalla pertunta, per esempio, si può passare alla trunca (se il segno è in alto; alla iscala\ alla rundinina\ a giubale (con un po’ di abilità). E così via.

Le combinazioni si possono pure intrecciare: un segno può essere118

FRANCO CAGNETTA

insieme, per esempio, pertunta e trunca; trunca e suppada; suppada e giubate; iscala e pertunta. E così via.

Le combinazioni, così, possono essere tante: io, in vita mia, ne ho contate e fatte 523.

Il segno più difficile da cancellare è la pertunta.

Il segno più facile da fare è la mufia. Ma non si fa subito: è sempre il segno di pecore rubate tre o quattro volte.

Ci sono pecore che non hanno quasi più l’orecchio, tante volte son state rubate. Diciamo allora che le orecchie se le è mangiate qualche volpe.

Se il segno è scarso ci è un lavoro per grandi artisti : con un coltello fino si toglie la pelle alle orecchie e poi cresce la nuova. Ma, a non saperlo fare, la pecora si muore. Io lo dicevo: è un lavoro per grandi artisti: molte volte nella mia vita io lo ho fatto per me, e sono pure stato chiamato.

Con i tempi nuovi, e con la scienza, ci sono modi nuovi.

Si è cercato con la calce di cancellare tutto il segno delle orecchie. Ma questa si mangia la carne. È ormai verificato che alla pecora fa male.

C’è anche un altro spirito forte che si dice portato da Napoletani

0 Americani. Io lo ho visto ma non ci credo. Di queste cose moderne non mi fido. Mi fido solo di cose antiche, come le mani.

Questi sono i modi, insomma, ma il mestiere non si impara sopra

1 libri: bisogna fare. E fare molto.

Ci sono specialisti, come ero io, ma ogni pastore si sa arrangiare da se. L’importante è questo: che si arronzino di pecore, e di pecore grasse. Bisogna conoscere, non andare ad occhi chiusi.

Chiudo il brevetto e, con questo, ho la speranza che presto interessi a qualche Cavaliere o Gran Scienziato.

Antonio Marrosu Gangas fu Giovanni Antonio, Orgolese

Ma adesso devo rattristarvi raccontando pure i fatti dei miei' poveri figli. Io mi sono sposato due volte. La prima volta (1898-99) con Corrias Antonia, prima moglie. Ci ho avuto tre figli: Maria Giuseppa morta a un anno e mezzo; Giovanni Maria, morto a quattro anni; Giovanni Antonio, che ha 50 anni e fa il facchino a Nuoro. La seconda voltaINCHIESTA SU ORGOSOLO

119

con Devaddis Caterina (verso il 1901-1910). Ci ho avuto 8 figli: Diego, morto a tre anni; Sebastiano, morto a un mese; Andrea, morto a 5 anni; Giuseppe, morto ammazzato a 21 anni dai carabinieri; Antonio Maria, morto ammazzato a 20 anni dai carabinieri; Diego, morto ammazzato a 27 anni non so da chi; Pasqua Rosa, nubile, e incarcerata per due volte; Maria Angela, nubile, ed ora fidanzata.

Giuseppe (1910) era al Sopramonte coi maiali. Il 192... un certo ragazzo Matteo Grua è ammazzato. Lo hanno buttato in una cisterna, una nurra, 60 metri di altezza, e un carabiniere che è sceso lo ha trovato già cadavere. Siccome l’ovile nostro era lì vicino i carabinieri volevano imputare me e mio figlio. Io ero in paese. Vanno da mio figlio due carabinieri. E lui si fugge. Uno dei due si butta ai piedi, e lo ha pi-^ gliato. Allora Giuseppe tante pedate, schiaffi. I pastori che stavano con lui gli hanno fatto un varco e poi lo hanno chiuso ai carabinieri. In-somma, via.

Sta latitante due anni con qualche pecora, senza far male a nessuno. E due confidenti, Polis Modda e Pietro Malune, per conto dei carabinieri lo vanno ad ammazzare. Per prendersi il porto d’armi. — Andate via, mascalzoni — gli ha detto anche un capitano. — Il porto d’armi non lo avrete sopra il sangue di un amico.

Antonio Maria (1926), a 18 anni si era fatto renitente alla leva. Quindi lo prendono e lo vogliono confinare. È stato due anni latitante. Voleva vendicare assolutamente suo fratello.

Uno di quelli, Modda, però se lo ha preso il fiume. Voleva bere acqua fresca e l’acqua si è incazzata con lui. L’altro, Malune, se lo ha preso la tramontana. Era imprudente ad uscire contro il vento. E il vento l’ha beccato.

Il mio povero figlio si trovava invece in giro, in territorio di Ma-moiada. Aveva una cavalla rubata che voleva riportare al padrone di Ollolai. Si incontra là due carabinieri che lo hanno visto e gli han sparato.

— Il taglione ti do — dice Antonio Maria.

Ma uno stava nascosto e così il carabiniere lo ha sparato.

Del figlio Diego che è morto, or mi è poco, è meglio che non parlo.120

FRANCO CAGNETTA

Delle mie figlie dicono, pure, che di notte si mettono i calzoni e fanno cose che sono peggio di quelle che fanno gli uomini.

È falso.

10 ho fatto di tutto per educarli sempre su una strada buona. A sa balentia. Gli ho sempre detto che: 1) non devono avere paura; 2) devono usare il cervello; 3) devono sapere usare le armi.

Per esser coraggiosi, sin da piccoli, li tenevo alla campagna. Tante volte li facevo: — Bau, bau — all’improvviso. Poi gli dicevo: — Lo faccio io.

Paura non avevano più di nessuno.

11 coraggio ognuno se lo prende da se: è una natura. Ma bisogna fargli scuola e svilupparlo per il tempo.

La notte li mandavo sempre fuori, in ogni ora. C’era un modo che ho usato con Giuseppe e con Antonio Maria. Per ogni croce che mi portavano dal cimitero a mezzanotte gli davo una lira. E la notte stessa dovevano riportarla : il cimitero si rispetta.

Io dicevo: — Non avete paura per niente. Non esiste niente.

Gli mettevo l’arma in mano e giocavano come ogni bambina con la bambola.

Una volta ho trovato Giuseppe con un fucile che sparava: meglio di me. Ed io, non per vantarmi, con il fucile ci sapevo fare.

Hanno detto che li ho educati ladri, imbroglioni, assassini. Che per avere un pezzo di carne ogni giorno li avrei voluti vedere morire e ridotti ad un pezzo di carne. Che dicevo: — Vergogna, oggi sei meno delinquente di un altro. Fai ancora a tempo. Provvedi.

Non è vero. I miei figli si sono fatti da loro e li ho educati così bene che non si sono mai lasciati comandare da uno più debole e più vecchio di loro, che ero io.

Ma tanta forza, tanta valentia è scomparsa oggi. Che mi è rimasto di loro, di Giuseppe, di Diego, di Antonio Maria?

Ma ora passo ad un altro argomento più allegro che devo dire: i preti.

Io con i preti ci ho avuto sempre poco a che fare. E quelle volte che ci ho avuto a che fare con loro, soldi ne ho fatti. Sempre. Ce ne hanno tanti!INCHIESTA SU ORGOSOLO

121

Cera, all’esempio, un prete Tanno che mi dovevo maritare. Ci vado lì per questa storia. E lui mi dice:

— Beh, la sai la Dottrina?

— La Dottrina? \

— Sì.

— E perché?

— Se non conosci la Dottrina non ti posso confessare. E se non ti confessi non ti sposo.

— Allora — dico io — la so. Mi dia un libro.

Dice: — Sai leggere?

— Sicuro — dico io.

Lo dà.

— Ma, per favore, mi dia anche una lira per il tabacco. A leggere mi stanco, vado al sonno. E un sigaro sveglia.

Mi dà una lira: — Ritorna domani!

Mi ha dato tre giorni di tempo. Mi tengo il libro. E dopo quei giorni mi vede:

— E il libro?

— Ohi, ohi, ohi! Me l’ho perso in campagna. Avevo fatto una baracca di frasche. Si prende il fuoco e il libro si è bruciato.

— O Maria Santissima. Quel libro, quel libro! Valeva 60 7 lire.

— Toh! — dico io — ti ridò la lira che mi hai dato.

— O macché! Il libro, il libro!

— Sentite — dico io. — Se vuole vado a Nuoro e lo ricompro. Ma faccia così: mi paga la mia roba che mi ha bruciato il fuoco.

E dice: — Quanta roba si è bruciata?

Dico: — 200 lire. Ho perso tutto.

— Accidenti! Duecento lire. Lascia stare. Quel libro valeva 60-70

lire.

— Mi dia settanta lire — dico. — Ricompro il libro.

Me le dà. Ed io prometto di andare a comprarlo, a Nuoro.

Un giorno dopo mi vede e:

— Il libro?

— Pù, pù, pù, pù.

Era la festa di ferragosto. Come l’ho visto mi ho messo a fare122

FRANCO CAGNETTA

l’imbriaco. Venivano a mangiare a questa festa tanti preti. Spalleggiato, si avvicina e mi prende il braccio.

— Lasciami stare. Che ho perso la libertà. Ora sono latitante.

Quel prete si è spaventato.

Un uomo che stava vicino gli ha detto : — Quello è come un pazzo.

Basta. Il prete se ne è andato. Ed io mi ho preso una lira, più settanta lire, ed altre trenta che ho venduto il libro, poi, ad un prete di Illorai.

Sono passati un due mesi appena da questo fatto e stando in festa, con un padrino ritrovo questo prete.

Fa finta di niente e pure dite: — Andiamo a bere.

Ci porta a casa sua. E tira il vino.

— Senti — dice. — Tu le sai tutte, più del diavolo. Ti lascio il libro e i soldi. Ma tu raccontami qualche cosa della tua vita, che lo possa poi dire in predica, per dire contro il peccato.

Questo mio padrino dice pure: — Digli qualche cosa.

E noi a bevere. Sarà stato scolato un bottiglione di vino.

— Beh; adesso vi racconto un fatticello.

— L’altro giorno — ho detto — vado in un covile. Verso di me venivano tanti cani e un capo in testa che mi veniva a bocca aperta, contro me. Così gli metto una mano in bocca e sono arrivato dentro sino alla coda, poi l’ho girato, ossia rivoltato, e quello se ne è andato via,

— Ma questo non può essere mai!

— Beh! È così. Proprio così.

— E il cane cosa ha fatto?

— Se ne è andato via, ma non poteva più abbaiare.

— Beh, beh. Seguite a bevere.

— Adesso, dunque, vi racconto un altro fatto.

— Ma uno vero, uno vero. Per la mia predica.

— L’altro giorno — dico —i, vedete, esco e trovo un altro cane. Lo abbiamo preso in tre o quattro e lo abbiamo spellato e pulito proprio bene. È uscito vivo. E andava borbottando.

— O mamma mia, Dio mio, questo è peccato!

E questo era vero: perché quel cane lo ho scorticato vivo. Se ne è andato, il cane, e torna a casa sua : quando è tornato i padroni di casaINCHIESTA SU ORGOSOLO

123

tutti spaventati! Non sapevano come è stato questo fatto. E il cane è stato vivo 4 o 5 giorni ancora. Perché lo ho fatto? Per passatempo.

Un’altra volta, ora, ero ad un paesotto che si chiama Lollove un padre, un Frate. E diceva sempre di sé: io ho un cane come nessuno. Questo cane era un cane di vaglia: abbaiava e mozzicava pure solo!

Dico io: — Vuole scommettere che il cane con me non è buono ad abbaiare?

— Beh — dice. — Dieci lire. Scommetto. Dieci lire.

Il cane era dentro. Io mi metto a pochi passi e gli faccio la presura. Gli ho legato la lingua. Mi avvicino e non abbaia.

Appena visto questo il prete si alza e mi dice spaventato: — Avete qualche segreto. Me lo dovete dire, che sono un santo frate.

— Datemi 100 lire — dico io — e vi dico la presura.

— Anche 200 — dice lui. — Con questa presura posso fare nei paesi il S. Antonio. Ci guadagno altro che 100 lire!

— Allora — dico — se è S. Antonio, che è più importante: 200 lire.

Mi dà 200 lire e gli dò la presura. Me le dà.

Il giorno dopo si avvicina per farla al cane. E il cane lo abbaia; e mozzicato pure.

— Com’è? Com’è quest’imbroglio ?

— Che non ci avete fede. La presura si dice con la fede. Siete un pagano.

La verità è che il giorno prima al cane gli avevo dato una* polpetta avvelenata, insomma di papavero, che avevo avuto prima da una ma-jara, o strega.

Basta.

Mi trovavo al Sopramonte una volta e c’era un posto chiamato «Gorropu». Là c’è un posto come un pozzo — una nurra — che non c’è acqua, ma è profondo. Sarà almeno 3 metri di larghezza per 3 di lunghezza. Ti dico pure più. Io saltavo bene: come un lepre. Vedete, anche ora che sono quasi morto, sulle gambe posso alzarmi e sedermi, senza appoggio di mano. Io ho 83 anni, ma allora per me era niente. Facevo presto a saltare quel pozzo.

Lo sa un padre, un altro frate, e mi dice: — Ti prendo come socio.124

FRANCO CAGNETTA

Farai S. Francesco di Lula che protegge i ladri del bestiame. Tu salti.

Io dico ai pastori (ma non di Orgosolo, di Fonni, di Urzulei) che tu sei S. Francesco di Lula. Che puoi insegnare a loro, con l’aiuto di Dio, la salute, e come si salta davanti ai carabinieri.

— Buono, buono — dico io.

E lui : — Ganga, fai così. Dì che sei morto ad Orgosolo. Io ti porto dalla parte di Urzulei e facciamo un bando intanto.

— Ma...

— Ganga, fai così.

Andiamo ed io giravo con lui. Ci avevo tutta la faccia dipinta di oro, con la porporina, e un mantello azzurro. E dopo questo ce n’erano dietro di noi pastori di Urzulei, di Siniscola, di Arzana, di ogni dove.

Appuntamento in «Gorropu», al Supramonte. Vado lì e salto due

o tre volte. C’erano tanti pastori.

Io dico : — In nome di Dio. Sono S. Francesco di Lula. Fate come me. Raccomandatevi l’anima e saltate. Se ci avrete fede sarete salvi e forti. Che se no qui vi rompete tutti l’osso del collo.

Faccio due o tre salti ancora. E il prete tutto contento. I pastori stavano a guardare.

Quello ha riscosso i soldi e vi è stato qualcuno che voleva provare.

Cerca il primo e cade allora in quel bucone. — Ahi, ahi, ahi. — dice. Da quel fondo. E noi niente.

Prova il secondo e ci è riuscito appena: arriva a trattenersi con le maini all’orlo della buca. E tutte scorticate, insanguinate. Ma casca giù. E noi niente.

Prova il terzo e cade abbasso addosso a quell’altro. E si hanno fatti tutti un poco male. Bestemmiavano.

— Non ci avete fede. Non ci avete fede — grida il frate. — Il prossimo che salta senza fede muore.

Allora tutti quei pastori se ne sono andati : tutti. E chi aveva lasciato 5 lire, chi 10 lire. Stavano i tre rimasti nella buca.

Io mi affaccio e dico: — In nome del Padre. Sono il Santo Francesco di Lula.

— Tiraci fuori tu. Che puoi fare il miracolo.INCHIESTA SU ORGOSOLO

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— Sì — dico io — ma qui dovete prima promettere tutti di darmi due belle crape ciascuno.

— Anche quattro — dice uno. — Tirami fuori che qui sto morendo con le ossa rotte.

Un altro dice no. Erano in fondo a quella buca e li ho sentiti di parlare.

— Ti diamo una crapa ciascuno. Tiraci fuori.

Dice il frate: — Infedeli. Il Santissimo Padre qui vi ha chiesto due crape ciascuno.

Dico io:

— Date allora una crapa grassa ciascuno e vi faccio sortire.

Il frate si è morsa la mano. I tre nel fondo della fossa ho sentito che parlavano: — Bene. È fatto.

Vado a pigliare una fune, per tirare quei cretini.

— E il miracolo non lo fate? Che diavolo di santo siete?

Ci prendiamo le crape e scappiamo.

Così, nel nome di un Santo e del Signore posso chiudere questa storia della mia vita sfortunata.

Il mio stato oggi, a 90 anni, è il più peggio che un mio nemico mi possa augurare. Sono malato: ho un’ernia che tanto mi è cresciuta tra le cosce che non mi lascia camminare, ho un braccio che non si muove quasi più: il destro.

Il mio dolore è che non posso più lavorare, come ho fatto sempre.

La mia vita di lavoro, di sacrificio è tutta sprecata. Con la famiglia poco aiuto: è un fatto che non si tocca. Non ci ho pensione vecchiaia. Che faccio oggi? non ho neppure da mangiare. Adesso sono nelle peggio condizioni di fantasticare.

Mi rivolgo a tutti i Cavalieri di questa Isola di Sardegna, e di Spagna e di Italia, che mi aiutino loro in magnificenza e grandezza. Spero di avere il più piccolo aiuto che si può avere dai signori Cavalieri, che mi lusingo con la storia della mia vita sfortunata di averli accontentati, solleticati, commossi, eccitati e divertiti.
 


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in: Catalogo KBD Periodici; Id: 32268+++
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Area unica
Testata/Serie/Edizione Nuovi Argomenti | Prima serie diretta da Alberto Moravia e Alberto Carocci | Edizione unica
Riferimento ISBD Nuovi argomenti : Rivista bimestrale. - N.1 (1953)-. - Roma [distribuzione Torino] : [s.n., distribuzione Einaudi], 1953-. - v. ; 23 cm (( La periodicità è variata più volte: la prima serie esce con periodicità irregolare, dal 1976 trimestrale. La prima serie si conclude con il n.69/71 (Luglio-Dicembre 1964 ma pubblicato nel marzo 1965), nel 1966 inizia la nuova serie che termina con il n.67 68 (1980), nel 1982 la terza serie che termina con il n.50 (apr. giu. 1994) ed inizia la quarta serie con il n.1 ... {Nuovi argomenti [rivista, 1953-]}+++
Data pubblicazione Anno: 1954 Mese: 9 Giorno: 1
Numero 10
Titolo KBD-Periodici: Nuovi Argomenti 1954 - 9 - 1 - numero 10


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