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ANTEPRIMA MULTIMEDIALI

Il segmento testuale Del è stato riconosciuto sulle nostre fonti cartacee. Questo tipo di spoglio lessicografico, registrazione dell'uso storicamente determinatosi a prescindere dall'eventuale successivo commento di indirizzo normatore, esegue il riconoscimento di ciò che stimiamo come significativo, sulla sola analisi dei segmenti testuali tra loro, senza obbligatoriamente avvalersi di vocabolarii precedentemente costituiti.
Nell'intera base dati, stimato come nome o segmento proprio è riscontrabile in 108Analitici , di cui in selezione 4 (Corpus autorizzato per utente: Spider generico. Modalità in atto filtro S.M.O.G.: CORPUS OGGETTO). Di seguito saranno mostrati i brani trascritti: da ciascun brano è possibile accedere all'oggetto integrale corrispondente. (provare ricerca full-text - campo «cerca» oppure campo «trascrizione» in ricerca avanzata - per eventuali ulteriori Analitici)


da Giuseppe Branca, Il costo del condono in KBD-Periodici: Belfagor 1984 - 3 - 31 - numero 2

Brano: PRIME NARRATIVE DI POCO FA

I recenti episodi, significativi, di Treno di panna di Andrea De Carlo (1981), Altri libertini di Pier Vittorio Tondelli (1981), Dicerie dell’untore di Gesualdo Bufalino (1981) e, più indietro, di Porci con le ali (1976), hanno mostrato come l’imporsi di scrittori esordienti nella narrativa dipenda da un processo la cui fenomenologia è ormai studio della sociologia della letteratura. Insieme alla provocatorietà e alla potenziale qualità, la miscela di un lancio riuscito assomma alla casualità dell’effettoeco sul pubblico una sempre meno approssimativa capacità dell’industria editoriale di guidare quelle variabili extraletterarie e extratestuali dalle quali discende per l’appunto il successo di un libro. Si è visto quanto proprio la maturità di alcuni autori di fronte al mercato e alla conseguente rinnovata complessità dei rapporti pubblico/opera, scrittore/opera, scrittore/pubblico abbia concorso al successo di opere narrative di qualità (esemplari in tal senso sono l’Eco de II nome della rosa e il Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore).

In questo panorama molto mosso in cui esiti culturali e crisi dell’editoria convivono drammaticamente non è difficile ravvisare un’attenzione spiccata per la narrativa e, all’interno di quest’ultima, un palpabile sforzo di sperimentazione e adattamento che, al di là dei risultati effettivi, testimonia di un dialogo rinnovato e vincente fra la specificità di una forma il racconto, il romanzo

e le trasformazioni sempre più complesse verificatesi sul terreno della comunicazione multimediale.

Ci sembra di poter riconoscere due fronti o, forse meglio, due direzioni, che in molti punti coincidono, l’uno teso a ripercorrere all’indietro, diciamo cosi, verso la fonte, la via del racconto, l’altro a contaminare sempre di più la forma narrativa con i criteri di fungibilità che la multimedialità del prodotto esige. L’esemplarità di una rivista come « Linea d’ombra » che ospita testi di scrittori esordienti e non, e che esorta gli autori all’immediatezza del racconto perché la letteratura « torni a narrare sensibilità, idee, fantasie, avvenimenti, cose e persone dei nostri anni » (n. 1, anno i, p. 5), ben rappresenta la prima tendenza e si fa segnalare per la sua dichiarata consapevolezza dei processi di mercato ai quali si oppone con una diversa volontà etica e aggregativa.

Ci sembra ora interessante volgere lo sguardo ad alcuni dei più recenti esordi narrativi. Un primo sguardo d’insieme offre al lettore l’impressione di228

ALBERTO ROLLO

una qualità media di scrittura, di una produzione sostanzialmente uniforme, malgrado l’amplissimo [...]

[...]cato ai quali si oppone con una diversa volontà etica e aggregativa.

Ci sembra ora interessante volgere lo sguardo ad alcuni dei più recenti esordi narrativi. Un primo sguardo d’insieme offre al lettore l’impressione di228

ALBERTO ROLLO

una qualità media di scrittura, di una produzione sostanzialmente uniforme, malgrado l’amplissimo spettro stilistico, a cui non sembrano ancora una volta estranee le incertezze e le difficoltà, da parte delle case editrici, di convogliare le proprie scelte verso un ipotetico equilibrio, invero arduo da mantenere, fra ricerca della qualità e attese commerciali.

All’interno di questo esito complessivamente « medio » suona tuttavia significativo il ventaglio variegatissimo di temi, topoi, modelli dei quali ciascuna opera diventa una sorta di campione rappresentativo. Si passa dal gotico fantascientifico di Gianfranco Manfredi (Magia rossa, Feltrinelli) al romanzo storico di Santamaura (Magdala, Mondadori), dal pastiche linguistico di Adamo Calabrese (Il libro del re, Einaudi) alla forma frammento di Alberto Episcopi (Festino e destino, Feltrinelli), dall’educazione sentimentale su sfondo bellico di Eugenio Vittarelli (Placida, Mondadori) al flusso di coscienza di Carlo A. Corsi (La storia del mago, Guanda), dalle apnee sintattiche di proustiana memoria di Tommaso Aliprandi (Casa in vendita, Feltrinelli) alla formadiario di Luigi Del Re (Attesa a Guatambu, Mondadori).

La dipendenza dal modello, insieme alla strisciante consapevolezza della resa di fronte al darsi di una esperienza assolutamente originale del narrare, pare tradire il bisogno di un rifugio, di una identità dentro la pulviscolare eredità letteraria degli ultimi due secoli ed ha come risvolto strettamente tematico la scelta di situazioni narrative « estreme », curiosamente coincidenti con luoghi, geografici e non, anch’essi estremi, « di confine ». E sono il paesaggio severo, teso fra mare e picchi rocciosi, di Francesco Biamonti (L'angelo di Avrigue, Einaudi), la natura violenta e quasi senza tempo di Vincenzo Pardini (Il falco d’oro, Mondadori), l’Etiopia tragica del xix secolo di Santamaura, la Milano sospesa fra passato e futuro [...]

[...]colare eredità letteraria degli ultimi due secoli ed ha come risvolto strettamente tematico la scelta di situazioni narrative « estreme », curiosamente coincidenti con luoghi, geografici e non, anch’essi estremi, « di confine ». E sono il paesaggio severo, teso fra mare e picchi rocciosi, di Francesco Biamonti (L'angelo di Avrigue, Einaudi), la natura violenta e quasi senza tempo di Vincenzo Pardini (Il falco d’oro, Mondadori), l’Etiopia tragica del xix secolo di Santamaura, la Milano sospesa fra passato e futuro di Gianfranco Manfredi, il villaggio perduto nel cuore della Pampa di Del Re, il basso medioevo insanguinato di Calabrese, le torsioni barocche verso l’eccesso di Episcopi, l’acquisizione in extremis di un passato che andrà perduto con l’imminente vendita della casa di famiglia nel romanzo di Aliprandi, i confini stessi dello scrivere percorsi dal pensoso obiettivo di Daniele Del Giudice (Lo stadio di Wimbledon, Einaudi).

Fra le opere sinora citate almeno tre (Lo stadio di Wimbledon, Il falco d’oro, L’angelo di Avrigue) meritano un discorso a parte e più articolato.

Il romanzo di Del Giudice ruota intorno alla figura di Bobi Bazlen e ad altri personaggi direttamente o indirettamente compromessi con la letteratura.

Il tentativo di capire perché e se « scrivere è necessario » conduce il protagonista sulle tracce di Bazlen, di chi lo conobbe, di chi convisse col mistero della sua rinuncia davanti all’emergenza dell’opera. « Quello che a me interessa è un punto in cui forse si intersecano il saper essere e il saper scrivere. Chiunque scrive se l’immagina in un certo modo. Con lui invece in quel punto c’è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché ». La que te esistenziale e morale si dà in forma di viaggio. Un viaggio in treno a Trieste, finalmente prosciugata di ogni mefitico alito di finis Austriae, un viaggio in aereo a Londra. Quando una risposta al «perché» arriva, l’interrogativoPRIME NARRATIVE DI POCO FA

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è già lontano. « Scrivere non è importante, però non[...]

[...]è stata un’esclusione, una rinuncia, un silenzio. Io vorrei capire perché ». La que te esistenziale e morale si dà in forma di viaggio. Un viaggio in treno a Trieste, finalmente prosciugata di ogni mefitico alito di finis Austriae, un viaggio in aereo a Londra. Quando una risposta al «perché» arriva, l’interrogativoPRIME NARRATIVE DI POCO FA

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è già lontano. « Scrivere non è importante, però non si può fare altro »; ma ancora più forte della determinazione che razionalmente il protagonista accoglie in sé è la provocante oggettività del mondo, la cosalità senza scampo dell’apparire e il richiamo fortissimo della rappresentazione.

L’aspetto decisivo dello Stadio di Wimbledon risiede nella silenziosa presa della sua scrittura. Come un sintonizzatore nell’intreccio e nella confusione dei messaggi, essi si muove intorno ai vuoti dell’azione e della memoria per pause e indugi, tesa a raccogliere nell’apparente povertà del marginale il fruscio di un responso. Quanto più l’oggetto della ricerca s’allontana, tanto più i primi piani del reale si fanno nitidi: ci si accorge che quanto voleva essere eticamente vero

lo spazio pieno del dilemma ha già creato, via via cancellandosi, dei personaggi e le quinte prospettiche di un’« altra » storia. E la sua verità riposa, non già nello scioglimento del dubbio, ma nei gesti pensosi, declinanti, perduti di quelle dramatis personae e lo scrittore ne è consapevole , nel destarsi di luoghi, di figure, di soggetti. Di Bazlen al protagonista rimarrà e pare quasi manniana ironia un pullover « di lana corta, pettinata, in un grigio chiarissimo e con il collo a v ».

Più che la ripresa di un motivo che invero potrebbe apparire stanco la letteratura e la vita il romanzo di Del Giudice è una meditazione sul destino della scrittura narrativa, sulla sua insostituibilità. Ne consegue perciò, non tanto un conflitto con l’impenetrabilità del reale, ma un fronteggiare vittorioso l’impotenza della parola, un esperire consapevole dei processi di trasformazione che attraversano e modificano la comunicazione nel suo complesso.

Da un’altra angolazione anche Vincenzo Pardini nel Falco d}oro conferma l’energia della parola narrante; ma, al contrario di Del Giudice, egli aggredisce una materia viva e vi lavora intorno con pochi secchi colpi lasciando emergere la creaturalità dei suoi personaggi, vittime e complici di una natura impietosa, violenta, che solo a tratti coincide cosi ci informa l’autore con l’Appennino toscoemiliano. Più verosimilmente si palesa l’atemporalità di quel paesaggio, la miticità del mondo contadino su cui cade a tratti, e inaspettata, la riconoscibilità di talune connotazioni storiche: una stretta di mano a Togliatti, il fascismo, la guerra, la deportazione in Germania.

Più che una raccolta di racconti II falco d’oro pare un romanzo abbozzato e lasciato incompiuto, smembrato in episodi che l’autore non ha saputo o voluto cucire assieme. E benché l’opera cosi com’è presenti già una notevole compattezza, è pur vero che Yepos tragico da cui scaturisce la vis narrativa di Pardini chiedeva forse una più scrupolosa elaborazione strutturale. La conferma a quest’ipotesi ci vi[...]

[...] Germania.

Più che una raccolta di racconti II falco d’oro pare un romanzo abbozzato e lasciato incompiuto, smembrato in episodi che l’autore non ha saputo o voluto cucire assieme. E benché l’opera cosi com’è presenti già una notevole compattezza, è pur vero che Yepos tragico da cui scaturisce la vis narrativa di Pardini chiedeva forse una più scrupolosa elaborazione strutturale. La conferma a quest’ipotesi ci viene dall’ossessiva ripetizione delle chiuse drammatiche, che, se da un lato testimoniano il gusto vivissimo del precipitare del racconto, dall’altro rischiano di intaccare e esaurire la bontà dell’ispirazione, tutta raccolta nell’incombere tremendo dell’artiglio del destino che fa da bruna cornice a ogni personaggio, uomo o bestia che sia. Resta tuttavia la palpitante crudezza della rappresentazione, la sintassi severa, l’assetata aggettivazione, la rincorsa talora230

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ansimante, talora più rilassata, del personaggio a tutto tondo che risponda e si rifletta nella inquietante verginità della natura.

Preferiamo perciò alla diseguale tenuta narrativa del Bilancio (drammatico inseguimento e face to face fra uomo e rapace) Tepica parabola di Don Pistola, sacerdote bestemmiatore, libertario e comunista, uomo sanguigno e generoso amante, che gira armato di pistola e pubblica un romanzo dove « ogni personaggio sapeva sempre dire l’indimenticabile », o il breve ritratto de II nonno che « diceva frasi di semplice e universale bellezza: proprio di chi ha convissuto con la solitudine ed ha finito per amarla », o, ancora, la morte del Gherla: « Io non fui ammesso alla sua stanza. Quindi parlo solo per sentito dire. A momenti, sul suo volto, c’era una g[...]

[...]uimento e face to face fra uomo e rapace) Tepica parabola di Don Pistola, sacerdote bestemmiatore, libertario e comunista, uomo sanguigno e generoso amante, che gira armato di pistola e pubblica un romanzo dove « ogni personaggio sapeva sempre dire l’indimenticabile », o il breve ritratto de II nonno che « diceva frasi di semplice e universale bellezza: proprio di chi ha convissuto con la solitudine ed ha finito per amarla », o, ancora, la morte del Gherla: « Io non fui ammesso alla sua stanza. Quindi parlo solo per sentito dire. A momenti, sul suo volto, c’era una grande calma, in altri un terribile furore. E riprendeva a discorrere a ridere, ma tanto intensamente che pareva stesse per destarsi ». È da quel « sentito dire », dal ricordo del ricordo, che acquista veridicità narrativa non solo il mondo d’ombre e solitudini, di volti e di gesti posseduti da un’ingovernabile fatalità, ma anche quella natura indomata che, in palese debito di credibilità, la trova nella distanza della parola udita o addirittura infraudita, nel trapassato remoto di cui il narrato di Pardini sembra patire il rigurgito irresistibile.

La natura o meglio il profilo nettissimo di un paesaggio (quello ligure fra monti e mare nell’estremo tratto di costa a confine con la Francia) è il vero protagonista del romanzo di Francesco Biamonti, Vangelo di Àvrigue. Gregorio, un marinaio in attesa di imbarco, scopre fra i crepacci di Avrigue il cadavere di un giovane, Jean Pierre, tossicodipendente, probabilmente suicida, col quale egli aveva diviso serate al tavolo d’osteria. La morte entra nel tessuto narrativo come un interrogativo insopportabile, ma anche come un colore, come il risvolto oscuro di un disagio a cui Gregorio vorrebbe dare risposta.

Prende inizio da qui un’indagine, una ricerca che, come nel romanzo di Del Giudice ad altro non conduce che alla visitazione di una realtà interiore su c[...]

[...]inaio in attesa di imbarco, scopre fra i crepacci di Avrigue il cadavere di un giovane, Jean Pierre, tossicodipendente, probabilmente suicida, col quale egli aveva diviso serate al tavolo d’osteria. La morte entra nel tessuto narrativo come un interrogativo insopportabile, ma anche come un colore, come il risvolto oscuro di un disagio a cui Gregorio vorrebbe dare risposta.

Prende inizio da qui un’indagine, una ricerca che, come nel romanzo di Del Giudice ad altro non conduce che alla visitazione di una realtà interiore su cui preme l’immagine del labirinto. La detectivestory che qui e là s’adombra è puro pretesto; ma qui si fa talora appena più invadente e, pur senza compromettere la tenuta stilistica dell’opera, sembra tradire la preoccupazione che l’« occasionalità » dell’indagine possa conferire al romanzo un’identità narrativa più forte.

La qualità finissima della scrittura di Biamonti va del resto cercata nei toni lirici, nella partitura musicale che trama lo spessore degli eventi; nella folgorazione di talune figure umane che dal paesaggio emergono senza staccarsene, nella perifericità emblematica di taluni episodi corali, anch’essi radicati nella scontrosa civiltà dell’entroterra francoligure. Compresi in questo campionario sono dunque certe « panoramiche » colte al di là degli occhi del protagonista (« Toccava quasi il poggio un cielo sereno e denso, solcato da due cirri non più grandi di falchetti, quasi un tetto luminoso »; « Dove la strada si biforcava, alla sua croce, era lassù sopra l’ulivo, il primo abbacchiatore di quell’anno. Era lontano, in cima, con la testa rovesciata. Sbatteva a trappi, col bastone vencheggiante, e cadevano a raffica olive e foglie »; « Gli ulivi erano sempre piùPRIME NARRATIVE DI POCO FA

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scarni, di una bellezza quasi minerale, mano a mano che saliva »), l’apparizione del pastore provenzale (« Quell’uomo quasi vecchio e quasi sacro spi[...]

[...]irri non più grandi di falchetti, quasi un tetto luminoso »; « Dove la strada si biforcava, alla sua croce, era lassù sopra l’ulivo, il primo abbacchiatore di quell’anno. Era lontano, in cima, con la testa rovesciata. Sbatteva a trappi, col bastone vencheggiante, e cadevano a raffica olive e foglie »; « Gli ulivi erano sempre piùPRIME NARRATIVE DI POCO FA

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scarni, di una bellezza quasi minerale, mano a mano che saliva »), l’apparizione del pastore provenzale (« Quell’uomo quasi vecchio e quasi sacro spiegò che aveva camminato tutta la notte per abbassarsi, per fuggire l’aria di neve (l’auro de nèu), nemica a chi aveva tutti i suoi beni in sangue, in sangue di dio »), la processione del Santo ad Avrigue con l’esecuzione della « numero due », la « musica del prigioniero » (« Grave e segreta come la vita sul passo della terra, era la numero due: lichenoso meriggio in cammino verso la sera »).

Entro i confini di un apprezzabile livello di leggibilità sono Magdala di Santamaura, Placida di Vittarelli, Attesa a Guatambu di Luigi Del Re. Del primo ci piace sottolineare il tentativo seducente di sposare ai ritmi del romanzo storico, al piacere di reinventare il personaggio attraverso la parzialità delle fonti, puntuali considerazioni sul « tragico », quasi nella marginalità della figura del tiranno etiope Tewodros l’autore avesse voluto riconoscere da subito lo spazio eletto di un teatro della coscienza. E più che di storia sarebbe allora opportuno parlare di vera e propria « tragedia in forma narrativa », ma con la complicazione che il traguardo drammatico risiede più nelle « note di regia » di uno scrittore « metteur en scene » e nelle sue interpolazioni saggistiche che nell’autonoma veemenza degli eventi narrati.

Anche in Attesa a Guatambu pesa un esito fatalmente tragico, e l’autore dimostra di saper guidare con mano sicura la macchina narrativa. Tuttavia se pur il ‘ personaggio che dice io ’ ha una sua profonda dignità esistenziale che trova specchio nel codice violento d[...]

[...]traguardo drammatico risiede più nelle « note di regia » di uno scrittore « metteur en scene » e nelle sue interpolazioni saggistiche che nell’autonoma veemenza degli eventi narrati.

Anche in Attesa a Guatambu pesa un esito fatalmente tragico, e l’autore dimostra di saper guidare con mano sicura la macchina narrativa. Tuttavia se pur il ‘ personaggio che dice io ’ ha una sua profonda dignità esistenziale che trova specchio nel codice violento della vita del villaggio a seicento chilometri da Buenos Aires, se la formadiario ben s’addice ai tempi stretti su cui incombe il fantasma della morte e l’assetata carnalità dell’amore, restano tuttavia zone d’ombre, cadute in aforismo spicciolo, obsolete considerazioni sulla giustizia del mondo, lungaggini da cui il nocciolo di disperata vitalità del romanzo esce mortificato.

Vicino al romanzo di genere ma complicato da elementi eterogenei quali il riflusso politico degli anni ’80, la rivisitazione in chiave insolita dei testi marxiani è Magia rossa di Gianfranco Manfredi. Un’opera che, riprendendo certi stilemi della grande letteratura fantascientifica americana, fonde coraggiosamente e con simpatica determinazione turgori gotici e dotte considerazioni sulla storia, dimostrando, al di là della paradossalità, per altro gustosissima degli esiti, che anche uno scrittore italiano può misurarsi con la letteratura di genere senza perdere in dignità « letteraria » e anzi indicando una via poco o mal frequentata dai nostri autori. Di tutto rilievo è l’immagine inedita di Milano, finalmente ricondotta alle proprie ombre, agli aspetti meno consueti della sua tadizionale iconografia. E tanto forte è la presenza della città che, se un malessere reale la storia di Magia rossa comunica, esso è proprio qui, fra archeologia industriale, metropoli e memoria urbana, invadente come un’edera dentro le crepe dell’allegorica immagine del progresso.

Anche il romanzo di Adamo Calabrese, Il libro del re, è disegnato all’interno del fantastico. Come Manfredi, Calabrese guarda alla Lombardia, ma a una Lombardia reinventata, sull’orlo di un medioevo non ancora concluso e di una232

ALBERTO ROLLO

rinascenza incerta. La fa da padrone il linguaggio, farcito di arcaismi, latinismi, inflessioni francogermaniche e dialettali, a cui si aggiunge l'esacerbato gusto del catalogo e della similitudine ardita. La triste istoria del principe francese abbandonato dalla bella dama e quella parallela del re lombardo ugualmente divorato da irriducibile passione per una attricetta di Lodi non vanno al di là del « gioco » e richiamano talora i paradossi eroicocomici di certo fumetto, colto e no.

Un’indubbia padronanza dei mezzi linguistici affiora tuttavia in alcune pagine memorabili, quali quelle della « fusione », dove gli elementi lessicali eterogenei, la predilezione per il fantastico popolare, l’immagine ricca, talora straripante, assumono una forza rappresentativa irresistibile. Le palle da cannone vengono tolte dal « pentolone » e le donne battezzano « ogni bomba con i più feroci sberleffi, destinando la prima palla alle corna del Principe, la seconda per azzoppare il suo cavallo, la terza per stendere i capitani, e ogni altra per ciascun fante francese, per fracassargli le ossa, ingarbugliargli i tendini e penetrargli infuocata nel di dietro per uscirgli dalla bocca sdentata, o al contrario ingozzarsi nella ghigna per scappargli fuori come un vento dalla coda ». Più vicino a Fo che a Gadda, Il libro del re è un romanzo che diverte senza, d’altro canto, pervenire a più profonde urticanti provocazioni.

Casa in vendita di Aliprandi è opera decisamente irrisolta quand’anche seducente è il lavorio della memoria intorno alla vecchia casa assediata da ricordi di famiglia e imminenti temporali di fine estate, da storie incrociate di destini diversi che paiono specchiarsi nel tempo e nello spazio attraverso la voce narrante. Anche se in questo ininterrotto fluire di volti e di gesti riconosciamo elementi vivi, non ci convince, sul fronte stilistico, la troppo ostentata dimestichezza con i lunghi periodi, gli incisi, le pause parentetiche, che si rivela alla lunga fragile e inadeguata, comunque dispersiva e senza governo.

Più ancora ci lasciano perplessi gli esiti di opere come Festino e des[...]

[...]o spazio attraverso la voce narrante. Anche se in questo ininterrotto fluire di volti e di gesti riconosciamo elementi vivi, non ci convince, sul fronte stilistico, la troppo ostentata dimestichezza con i lunghi periodi, gli incisi, le pause parentetiche, che si rivela alla lunga fragile e inadeguata, comunque dispersiva e senza governo.

Più ancora ci lasciano perplessi gli esiti di opere come Festino e destino di Alberto Episcopi e La storia del mago di Carlo A. Corsi, il primo teso a costruire un « romanzo di ruminazione, di scoperchiamento », un « romanzo totale, brulicamento di tutte le frasi » attraverso il gioco, consapevole e non privo di suggestioni, di immagini peregrine e crudeli, con torsioni barocche intorno ai temi del sangue e della morte, dell’eros e dell’io; il secondo, volto verso una prosa anch’essa « totale », senza punteggiatura, maiuscole e capoversi, verso una fabula ininterrotta, « to be continued » che, complice l’uso di un tu impersonale, ripercorre memorie autobiografiche e generazionali nel tentativo

purtroppo solo superficialmente disperato di non perdere il filo della storia, di continuare a narrare o meglio come dice l’autore a « scavare in un fazzoletto di terra pestata milioni di volte ».

Sia Episcopi che Corsi sembrano andare verso un io che nel farsi centro di inquietudini e malesseri infine non li riconosce e li soffoca, nel primo caso di cascami culturali ed erratici frammenti narrativi, nel secondo di una iperlalicità troppo intenerita e patetica, ben lontana dalla strangolata, cinica irrefrenabilità della Molly joyciana a cui forse vorrebbe rimandare.

Alberto Rollo

[...]ia, di continuare a narrare o meglio come dice l’autore a « scavare in un fazzoletto di terra pestata milioni di volte ».

Sia Episcopi che Corsi sembrano andare verso un io che nel farsi centro di inquietudini e malesseri infine non li riconosce e li soffoca, nel primo caso di cascami culturali ed erratici frammenti narrativi, nel secondo di una iperlalicità troppo intenerita e patetica, ben lontana dalla strangolata, cinica irrefrenabilità della Molly joyciana a cui forse vorrebbe rimandare.

Alberto Rollo



da Recensione di Piero Cudini su Patrick Boyde, Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. Calenda, Napoli, Liguori, 1979, pp. 431 in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - maggio - 31 - numero 3

Brano: RECENSIONI 367
incomprensibile per gli uomini ». Spesso la particolare predilezione dell'autore per i toni pungenti offre ai dialoghi efficaci soluzioni di fronte alle quali si rimane divertiti
e sconcertati, a volte elegantemente beffati; certamente l'età dell'autore, secondo quanto egli stesso afferma, lo consente, ma soprattutto lo consente la sua credibilità di scienziato e di scrittore.
Questi dialoghi, ben lungi dal sottrarre dignità alla sua figura « pubblica », la arricchiscono di una nuova, anche se non completamente sconosciuta, veste letteraria. Alcuni fra questi scritti già si conoscevano; su queste stesse pagine, tempo addietro, Musatti faceva esplicito riferimento alla genesi del dialogo con Freud, « composto qualche tempo fa per ischerzo », ma la nuova edizione consente di cogliere appieno il progetto unico al quale tutti rispondono: l'indagine critica sulla realtà umana attraverso l'uso dello strumento psicoanalitico che offre, affidato alle mani di questo scrittore, effettive garanzie di veridicità, di competenza metodologica (è Musatti ad affermare, stizzendosi non del tutto a torto, che « qualsiasi primovenuto oggi si proclama psicoanalista, o può dirsi socialista. E in tal modo è possibile attribuire a socialisti
e psicoanalisti ogni genere di sciocchezze »).
L'altro fondamentale strumento è naturalmente quello linguistico di cui l'autore si serve con estrema scioltezza, rivelando un indubbio gusto per la parola culta e per un discorso letterario quasi prezioso che si giova anche, a riprova della sua raffinatezza, dell'apporto di espressioni popolari e dialettali; le cadenze venete, inoltre, costituiscono un goldoniano sottofondo musicale a tutto il libro. Questo linguaggio, pur rimanendo sostanzialmente fedele a se stesso, non esita ad accogliere parole provenienti da ambiti lessicali eterogenei per essere in grado di piegarsi con disinvoltura alle esigenze della terminologia scientifica, del parlato, dei parlanti, per penetrare le innumerevoli sfaccettature di cui si compone il grande prisma che è ogni essere umano, per adeguarsi alla varietà delle situazioni, per essere rappresentativo di una realtà che variamente si configura. Il risultato, tuttavia, non è qùello di un discorso stilisticamente frammentario: i toni fondamentali, l'umorismo, l'ironia, lo schema formale, dialogico
e dialettico, il linguaggio, comunque elegante e costantemente misurato, riconducono il libro a una sostanziale unità.
L'esito complessivo è quello di un testo dotto ma anche urticante e comico. Non è difficile leggere queste ventisei composizioni come le diverse scene di un'unica commedia di cui Musatti è il mattatore che può tutto, anche risolvere in risa[...]

[...]ità.
L'esito complessivo è quello di un testo dotto ma anche urticante e comico. Non è difficile leggere queste ventisei composizioni come le diverse scene di un'unica commedia di cui Musatti è il mattatore che può tutto, anche risolvere in risata una situazione difficile, anche trasformare in aneddoto pungente l'illustrazione di un caso clinico grave, anche divulgare in modo accattivante un'esperienza di vita e di studio piuttosto complessa. « Del resto », sono parole di un pronipote di Giulio Cesare e di Freud, « certi atteggiamenti, anche se comici, possono raggiungere il loro scopo ». E in un libro come questo è difficile che certe affermazioni sfuggano per caso.
MARIA LUISA VECCHI
PATRICK BOYDE, Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. CALENDA, Napoli, Liguori, 1979, pp. 431.
Che dall'originale Dante's Style in his Lyric Poetry si sia trascorsi nell'edizione italiana (che esce a otto anni di distanza da quella di Cambridge) al piú accattivante — ed attuale — Retorica e stile è, forse, segno del malvezzo tutto nostran[...]

[...]re il loro scopo ». E in un libro come questo è difficile che certe affermazioni sfuggano per caso.
MARIA LUISA VECCHI
PATRICK BOYDE, Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. CALENDA, Napoli, Liguori, 1979, pp. 431.
Che dall'originale Dante's Style in his Lyric Poetry si sia trascorsi nell'edizione italiana (che esce a otto anni di distanza da quella di Cambridge) al piú accattivante — ed attuale — Retorica e stile è, forse, segno del malvezzo tutto nostrano di rincorrere, almeno terminologicamente, mode letterarie e non.
368 RECENSIONI
Scrive il Boyde all'inizio della sua vasta Introduzione che si può considerare questo libro « sia come un contributo allo studio della poesia di Dante, sia come un contributo allo studio dello stile `personale' o `individuale' in ogni opera letteraria. Questi due aspetti o propositi sono uguali e complementari. La teoria generale deve essere verificata nell'analisi di testi particolari; l'analisi di testi particolari dovrebbe rivelare la sua base teorica » (p. 35). Il volume si presenta dunque esplicitamente come un complesso studio di stilistica, di cui la retorica (l'approccio retorico all'opera letteraria) risulta essere modo e strumento opportunamente misurato e duttile. Cosí, il saggio introduttivo, ancor prima che una premessa alle problematiche inerenti allo stile del Dant[...]

[...]deve essere verificata nell'analisi di testi particolari; l'analisi di testi particolari dovrebbe rivelare la sua base teorica » (p. 35). Il volume si presenta dunque esplicitamente come un complesso studio di stilistica, di cui la retorica (l'approccio retorico all'opera letteraria) risulta essere modo e strumento opportunamente misurato e duttile. Cosí, il saggio introduttivo, ancor prima che una premessa alle problematiche inerenti allo stile del Dante lirico, vale come discussione sulle premesse stesse della stilistica e sulle diverse forme in cui essa si è esplicitata in tempi a noi relativamente prossimi. In quest'ambito si situa la « riscoperta », nella prima metà del nostro secolo, della retorica, come sistema di analisi stilistica oltreché nel riconoscimento del concreto, storico valore del suo insegnamento che consente, una volta individuata e recuperata una certa normativa, di valutare attraverso spogli e campionature ben calibrate i rapporti specifici — e dunque gli scarti — tra l'opera letteraria presa in esame e, appunto, la `norma'.
Su questa linea il Boyde ripropone e discute in particolare la stilistica di Spitzer e di Bally per poi accostarsi piuttosto alla metodologia di Michael Riffaterre (di cui si vedano gli Essais de stylistique structurale, Paris 1971), volta a mediare tra le due posizioni precedenti e ad « annettere saldamente la stilistica al territorio della m[...]

[...]ate i rapporti specifici — e dunque gli scarti — tra l'opera letteraria presa in esame e, appunto, la `norma'.
Su questa linea il Boyde ripropone e discute in particolare la stilistica di Spitzer e di Bally per poi accostarsi piuttosto alla metodologia di Michael Riffaterre (di cui si vedano gli Essais de stylistique structurale, Paris 1971), volta a mediare tra le due posizioni precedenti e ad « annettere saldamente la stilistica al territorio della moderna linguistica » (p. 71). Il fattore stilistico può essere individuato e definito solo in rapporto ad un contesto dato, rispetto al quale risulta « di ridotta prevedibilità » (non siamo lontani, come si vede, dal concetto di straniamento del formalismo russo). Poste queste basi, e riconosciuti i debiti verso la stilistica riffaterriana, il Boyde si preoccupa di collocare la sua metodologia e il suo lavoro entro limiti modesti, ma non per ciò privi di validità: la stilistica, afferma, « può essere benissimo paragonata ad una sorta di statocuscinetto tra la linguistica e la critica letteraria: certo piú di una `terra di nessuno', ma in nessun caso una grande potenza » (p. 78). Entro questi limiti; l'applicazione a Dante lirico di un'accurata indagine stilistica porta da un lato all'individuazione — abbastanza solidamente accertata [...]

[...]e il suo lavoro entro limiti modesti, ma non per ciò privi di validità: la stilistica, afferma, « può essere benissimo paragonata ad una sorta di statocuscinetto tra la linguistica e la critica letteraria: certo piú di una `terra di nessuno', ma in nessun caso una grande potenza » (p. 78). Entro questi limiti; l'applicazione a Dante lirico di un'accurata indagine stilistica porta da un lato all'individuazione — abbastanza solidamente accertata — delle auctoritates, di quelle opere, cioè, che hanno esercitato sicura influenza nel periodo in cui Dante scrive (opere classiche, artes poeticae, artes dictaminis: cfr. pp. 7982); dall'altro, dato quasi per scontato un nucleo di « variabili » da descrivere e analizzare scelte nell'ambito della retorica tradizionale, alla necessità di determinare gruppi sostanzialmente omogenei di liriche entro i quali esercitare l'approccio stilistico sí da consentire anche, mediante gli opportuni raffronti, la possibilità di misurare in qualche modo gli elementi di uno sviluppo (se non di un'evoluzione) dello stile dantesco.
Si pone perciò nella sostanza un problema sia di scelta che di modi della campionatura: fattore decisivo è innanzitutto la cronologia, per cui, ad esempio, le liriche della Vita Nuova occupano i primi otto gruppi (AH) individuati dal Boyde. Piú discutibile, forse, all'interno di questa prima grande scansione, il raggruppamento secondo indizi latamente tematici, per cui si parla di una fase cavalcantiana secondo la quale viene costituito il gruppo B (i « sonetti del lamento »: xxiii secondo l'edizione Barbi) o di una guinizelliana per il gruppo C (xvi, xvii, xxIxxIV). Ma sono, forse, rischi ineliminabili in lavori di questo tipo, in cui pure, in assenza di costanti e sicuri riferimenti cronologici, ci si deve rifare a criteri per forza di cose abbastanza soggettivi di raggruppamento.
Lascia invece, a mio avviso, maggiormente perplessi la questione in sé della campionatura e dunque delle esclusioni, ancorché dichiarate. Se é vero, come già Con
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tini e poi tutta la critica recente avevano individuato — e come l'ampia messe di dati organizzati dal Boyde stesso sostanzialmente riconferma e dimostra — se è vero, dicevo, che il Dante lirico opera costantemente in direzioni plurime di uno sperimentalismo che tende, per cosí dire, alla Commedia, ma vive anche di singole tappe ben caratterizzate e di possibilità aperte di recuperi a distanza, allora, in una ricerca cosí ampia e scrupolosa, non si comprende né si giustifica appieno, ad esempio, l'esclusione dall'inda[...]

[...]zioni plurime di uno sperimentalismo che tende, per cosí dire, alla Commedia, ma vive anche di singole tappe ben caratterizzate e di possibilità aperte di recuperi a distanza, allora, in una ricerca cosí ampia e scrupolosa, non si comprende né si giustifica appieno, ad esempio, l'esclusione dall'indagine dei sonetti di corrispondenza con Dante da Maiano né — tanto meno! — di quelli a Forese Donati. E pur vero, come osserva il Boyde, che lo stile della corrispondenza col Maianese « è precisamente quello che avremmo potuto prevedere in poesie che sembrano, da ogni punto di vista, precedenti a quelle del gruppo A, e devono essere considerate probabilmente le piú antiche tra le poesie dantesche sopravvissute » (p. 89).
Ed è anche vero che i sonetti a Forese « sono gli unici esempi del loro genere in Dante e, almeno dal punto di vista lessicale, sono diversissimi da tutte le altre sue poesie » (ibidem). Ma proprio per questo, e soprattutto a verifica ulteriore e puntuale della riconosciuta « inquieta sperimentazione » che presiede alla composizione delle liriche dantesche, sarebbe stato opportuno condurre schedatura ed analisi anche su questi gruppi (peraltro già di per sé bene individuati). Ché, ad esempio, un'indagine sulla tenzone con Forese (databile, come è noto, agli anni 12931296) avrebbe avvalorato — in un rapporto nuovo e diverso con le altre « variabili » esaminate — uno tra i molti risultati interessanti della schedatura boydiana, e cioè la sostanziale assenza di metafore nella prima produzione lirica dantesca (il decennio 1283 c. 1293 c.; virtualmente, quello delle liriche incluse nella Vita Nuova). Solo in seguito « Dante divenne un poeta metaforico, non lo era affatto sin dall'inizio » (p. 175). In questo senso si può affermare, con la dovuta prudenza, che i sonetti contro Forese fungono in certo modo da spartiacque, se si considera che il gruppo delle petrose (cronologicamente di poco successivo, se lo si può ascrivere a tempi immediatamente prossimi alla fine del 1296, secondo la datazione ricavabile da Io son venuto al punto de la rota) fruisce abbondantemente della metafora (dr. lo stesso Boyde, pp. 188195). Nei tre sonetti a Forese possono invece rilevarsi essenzialmente non piú di tre metafore. L'accostamento, del resto, non sembri casuale: anche al di là del fattore cronologico tra i due gruppi esiste (pur con differente accentuazione) affinità nel lessico tendenzialmente `realistico' che li rende comparabili. Ma scatta nelle petrose un contenuto astratto fortemente contrastante col lessico concreto che, nella riorganizzazione attuata dalla esplicita e forte presenza dell'« io » (praticamente assente nella tenzone con Forese, ove compare solo, non rilevato, in Lxxvii, 2), consente un dilatarsi sinora inconsueto del campo metaforico.
Del resto, se l'assenza — dalle tabelle e dall'analisi — di alcune zone della lirica dantesca può rendere parziali talune considerazioni, c'è da ritenere, sulla base del vastissimo materiale microscopicamente sottoposto ad esame (« 1624 versi su di un totale di 2720 », p. 85: circa il 60% della produzione dantesca), che i dati del Boyde costituiscano a tutt'oggi il risultato piú obiettivamente sicuro di un'indagine « dello stile di Dante, e dell'evoluzione di tale stile, nel complesso della sua attività lirica » (p. 90).
Si può non concordare con qualche particolare impostazione della ricerca: tipico, direi, il caso del capitolo su L'endecasillabo (il v, pp. 263293), in cui, fermo restando il riconosciuto `limite' della soggettività che in buona parte presiede alla scansione, è però opinabile almeno la distinzione — e l'esemplificazione — fra accentazione principale e intermedia sulla base del valore semantico della parola, a maggior ragione quando poi il Boyde stesso deve descrivere, come eccezioni, i casi in cui l'accento intermedio
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viene promosso a principale (e su tali questioni cfr. COSTANZO DI GIROLAMO, Teoria
e prassi della versificazione, Bologna 1976, specificamente a p. 44).
Peraltro, osservazioni sporadiche o dissensi particolari nulla tolgono all'importanza di un'opera quale quella del Boyde, bene articolata nelle premesse teoriche, puntuale nell'organizzazione della ricerca, sapientemente modulata nella ricca dialettica tra obiettiva presentazione di dati e discussione spesso acuta di essi. Il succedersi dei capitoli (Conversiones; Il lessico; Tropi; La struttura della frase; L'endecasillabo; Ripetizione e antitesi; La situazione retorica e le sue figure; Descriptio, simile, sententia) progressivamente illumina, senza impressionismi o schemi di maniera o conclusioni preordinate, gli elementi centrali dello stile lirico dantesco secondo angolature successive che consentono un approccio via via piú complesso e completo ai singoli gruppi di liriche (volta a volta ripresi in esame) e insieme mostrano in concreto, sin nelle minute sfaccettature, i modi — anche contraddittorii — di uno sviluppo. Il capitolo finale, Stile
e struttura in `Doglia mi reca' (che già era comparso, sostanzialmente analogo, come studio a sé in « Italian Studies », xx, 1965), è in senso lato un tentativo d'applicazione concreta su un testo specifico dei materiali accumulati e ordinati nell'indagine generale. Ed è buona pro[...]

[...]presi in esame) e insieme mostrano in concreto, sin nelle minute sfaccettature, i modi — anche contraddittorii — di uno sviluppo. Il capitolo finale, Stile
e struttura in `Doglia mi reca' (che già era comparso, sostanzialmente analogo, come studio a sé in « Italian Studies », xx, 1965), è in senso lato un tentativo d'applicazione concreta su un testo specifico dei materiali accumulati e ordinati nell'indagine generale. Ed è buona prova — su una delle canzoni dantesche meno amate dalla critica moderna,
e comunque meno prossime alla nostra sensibilità e al nostro gusto — della validità critica di un metodo di ricerca individuato con serietà e seguito con rigore.
A buon diritto Vincenzo Pernicone, nella voce dedicata alle Rime nell'autorevole Enciclopedia Dantesca (vol. Iv, Roma 1973, p. 960) ha ritenuto di poter parlare del volume del Boyde come del « piú importante dei contributi recenti... per impegno e per ampiezza, oltre che per i risultati ». È certo su queste linee di ricerca che possono continuare a svelarsi molti modi non ancora del tutto palesi della poesia dantesca.
PIERO CUDINI



da Sergio Antonielli, La parola dell'arcidiavolo. Luigi Russo e i trent'anni di «Belfagor» in KBD-Periodici: Rinascita 1976 - 5 - 7 - numero 19

Brano: p. 32 Rinascita n. 19
Luigi Russo
e i
trent'anni
di
"Belfagor „
La copertina di un numero di Belfagor. In basso: Luigi Rus',so con Emilio Sereni e Giulio Trevisani
di Sergio Antonielli
Un punto fermo nella storia ormai trentennale di Belfagor mi sembra costituito dal fascicolo straordinario del novembre 1961, nel quale amici e allievi di Luigi Russo ricostruivano la figura del maestro, scomparso il 14 agosto di quell'anno, con una serie 'di saggi storicamente disposti e una varia raccolta di « immagini e ricordi ». Quel fascicolo, per i nomi e per l'impegno di coloro che vi scrissero (i primi in elenco, sul fron tespizio, sono Francesco Flora, Eugenio Garin, Walter Binni, Natalino Sapegno), conserva ancora una sua solennità. Ma non è questo aspetto che ora intendo sottolineare. L'importanza del fascicolo mi sembra da vedere nel carattere critico che assunse in esso la commemorazione, ossia nel tacito accordo, in cui tutti gli scriventi si trovarono, di frenare e comporre il loro cordoglio in discorsi rigorosi e scientificamente proficui. L'omaggio all'uomo e allo studioso diventava un omaggio, per dirla con un'espressione tipica ,del Russo stesso, allo « spirito critico ».
Precisamente in questo « soirito » è da vedere, più ancora che la complessiva coerenza della singolare « rassegna di varia umanità », la corrispondenza fra i due quindicenni, prima e dopo il 1961, in cui la sua storia appare distinta. Ricordo che in quell'anno tra i famigliari e gli amici del Russo, postosi il dilemma se continuare o chiudere la pubblicazione di Belfagor, i dubbi che emersero riguardavano più che altro la possilità di restare nel solco tracciato. Già il primo numero era uscito in un momento di particolare fervore: nel gennaio del 1946. Inoltre la vena polemica del Russo, quella sua personale facoltà d'inter vento sull'attualità, culturale e politica, chi avrebbe potuto ricrearla? L'arcidiavolo machiavelliano era per bocca sua che si era rimesso a parlare. E si badi bene: nella figura dell'arcidiavolo a cui rimandava, per via diretta, il titolo, non si era riflessa soltanto una trovata. Si era riflessa una sintesi particolare di vita culturale e di vita civile. Da una par te il Belfagor del titolo rimandava al Machiavelli, ossia allo studio dei classici; da un'altra, al gusto beffardo di porsi in polemica contro ogni sorta di conformismo. In qualche modo, escogitando quel titolo, il Russo aveva detto gloria al Machiavelli, come a suo tempo aveva fatto il De Sanctis.
La formula originale di Belfagor, fin dal primo numero, fu appunto quella della fusione della severità scientifica, diciamo pure accademica, col più scoperto impegno eticopolitico. Tanto nello studio dei classici, quanto nella organizzazione della cultura o nel maneggio dei pubblici affari, si potevano incontrare i dilettanti, i disonesti. Contro costoro, nessuna misericordia. Gli studi per il Russo, e il loro concretarsi in istituti scolastici, erano parte di quella vita nazionale che ci aveva data il Risorgimento e che non si doveva tradire. Da qui la sua vena pedagogica, il suo continuo interesse per i problemi della scuola, nonché la sua continua distribuzione di moniti, esortazioni, rimproveri. Per meglio intenderci, facciamo un esempio. Il numero 'di novembre del 1957 si apre con un saggio di Scevola Mariotti su Ovidio. In nota, il Russo si dichiara lieto di ospitare il ,saggio, ma al tempo stesso se la prende con l'allora vigente governo Zoli e, in genere, con la faziosa politica delle sovvenzioni elargite ad alcuni enti e negate ad altri. Nello stesso numero c'è un saggio di Giovanni Cecchetti sul testo di Vita dei campi e sulle correzioni del Verga. Venti pagine dopo, il Russo in prima persona scrive commosso per la morte di Giuseppe Di Vittorio. Il numero l'ho scelto ad arte, anche perché 'a firma di un altro diavolo, Astarotte (ripreso dal Pulci), vi è pubblicata una noterella « Per la libertà perpetua di San Marino », in cui si condanna un fatto ohe non va dimenticato e che si può considerare paradigmatico di come si possa rovesciare un governo di sinistra mediante intrighi all'interno e illecite pressioni dall'esterno. Tuttavia, qualsiasi numero si consulti, la formula si troverà rispettata. Altre riviste sono potute sembrare [...]

[...]onsiderare paradigmatico di come si possa rovesciare un governo di sinistra mediante intrighi all'interno e illecite pressioni dall'esterno. Tuttavia, qualsiasi numero si consulti, la formula si troverà rispettata. Altre riviste sono potute sembrare più significative o importanti sul piano specifico dei lavori letterari in corso. Belfagor non ha mai accolto la letteratura, come si dice, creativa in prosa o in versi. Ma alle lunghe la sua formula della severità negli studi, congiunta all'impegno morale e politico, doveva rivelarsi più resistente di tante altre. Prima o poi, doveva diventare di attualità anche quel « problema della scuola » per la cui democratica impostazione la rivista si era battuta fin dall'inizio.
Nel senso appunto della fedeltà alla formula originaria va vista la corrispondenza maggiore fra primo e secondo quindicennio. Il vuoto lasciato dal Russo, nessuno lo avrebbe colmato. Nessuno, è ovvio, avrebbe potuto dare stilistico seguito alla sua vena, dotta e sarcastica, di polemista. Ma la «ricetta » era buona e attenersi ad essa si sarebbe dimostrato giusto, tanto sul piano della cultura, quanto su quello dela politica. Prendo un numero del secondo quindicennio, questa volta a caso: maggio 1973. Nella prima sezione, un saggio di Sergio Moravia su « Gli "idéologues" e l'età dei lumi »; fra le « noterelle e schermaglie », íl testo di un discorso di Nenni al Senato (18 maggio 1973) su « Lo squadrismo protetto ».
Chiaro che il merito di avere continuato nell'opera dei fondatore spetta in primo luogo a coloro che si sono assunta, dal 1961 in poi, la cura pratica della rivista, e particolarmente a Carlo Ferdinando Russo, direttore attuale. Ma credo si debba aggiungere una osservazione circa le ragioni per cui la continuazione dell'opera del Russo si è resa obiettivamente possibile. Scriveva Gramsci, modellando sul De Sanctis la figura nuova del critico: « Insomma, il tipo di critica letteraria propria della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis [...]: in essa devono fondersi la lotta per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei sen timenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo » (Quaderni del carcere, ed. curata da Gerratana, (pag. 2188). Luigi Russo, proprio a un modello desanctisiano si era studiato di rifarsi. L'insegnamento del De Sanctis, indipendentemente dai giudizi particolari, legati al tempo, gli si era manifestato proprio in una « fusione » del genere indicato da Gramsci, certo non esclusa la « forma del sarcasmo ». Non è adesso il caso di procedere a un'analisi della formazione culturale del Russo. Dovremmo citare anche íl Carducci, il Croce e il Gentile. Quello che va ripetuto è che se pensiamo a lui, la complessa indicazione del « ritorno al De Sanctis » diviene un concreto punto di riferimento, il titolo di un effettivo momento della cultura italiana novecentesca. Una sera d'estate del 1951, ai familiari raccolti sul retro della sua casa al Fiumetto, a Marina di Pietrasanta, Luigi Russo diede lettura di alcune pagine appena composte. Si trattava della prima puntata di una nuova rubrica belfagoriana, « Nascita di uomini democratici », che sarebbe durata circa due anni. La straordinaria lettura terminò nell'imprevisto di una commozione generale: non tanto per il potere coinvolgente dei casi, o per il risaputo fascino del lettore, quanto per il carattere esemplare che quella storia di una coscienza democratica, sprigionatasi dal fondo religioso e feudale della provincia siciliana, veniva a dimostrare immediatamente e con forza. Consustanziato all'intellettuale e allo scrittore, riprendeva corpo quell'uomo secondo storia che il De Sanctis aveva sempre ricercato sia nelle pagine critiche, sia per l'appunto in quelle di memoria autobiografica: « Del senso religioso della popolazione siciliana io ho tenerissimi ricordi. Avevo sette anni e ho assistito alla predica di un quaresimale, in cui un vecchio prete, parlando delle fiamme dell'inferno, faceva accendere nel buio tetro della chiesa delle vampate di zolfo (un giuoco che noi ragazzetti ripetevamo con estrema facilità a casa: un po' di polvere nella mano, un fiammifero acceso, e poi il lancio in aria della polvere) E...]. Mio padre era costretto a servire alla corte del sindaco del mio paese, e talvolta a prestare i servizi più umili nella casa baronale del comandatore. Quello che io chiamo comandatore era un sempice commendatore, ma nella mia fantasia bambina (e fantasia bambina era quella anche di molte persone adulte del mio paese) commendatore era sinonimo di colui che comanda. Il comandatore del mio paese era un generoso signorotto, che 'aveva seguito Garibaldi nella spedizione del '60, come picciotto; apparteneva a una famiglia nobilesca, che aveva le sue diramazioni in tutta l'isola, perché erano in dieci fratelli, e il più potente risiedeva a Palermo » (Belfagor, settembre 1951). Scopo di simili rievocazioni, nella mente del Russo era quello di mostrare « che uomini democratici, comunisti o socialisti, non si diventa da un giorno all'altro; si tratta di lente formazioni e tradizioni storiche ». La coscienza democratica è dal profondo della realtà nazionale che si genera.
Ora per questo penso sia stato possibile insistere in un lavoro, la continuazione di Belfagor, che sotto altri aspetti poteva sembrare impossibile: perché le vicende italiane posteriori al 1961 hanno continuato a produrre certi anticorpi, ossia hanno seguitato a chiedere per opposizione certi chiari termini di orientamento e di polemica. Contro l'affievolirsi dello spirito critico, contro il tecnicismo fine a se stesso, il professionismo come giustificazione di aridità morale, gli inquinamenti da consumismo, nel campo della letteratura non è mai venuta a cessare la domanda di un atteggiamento di tipo desanctisiano. Difficile, interpretare una simile domanda ed esaudirla nel più aggiornato dei modi. Ma rispettando la formula iniziale, Belfagor non è venuto meno al suo compito.
BE LFAG OR
RASSEGNA DI VARIA UMANITÀ
FONDA, DA
LUIGI RUSSO
CASA EDITRICE LEO S. OLSCHKIFIRENZE
ANNO XXXI N. 2 31 MARZO 1976
7 maggio '76 LJ Testimonianze
I1a parola
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da Recensione di Maria Luisa Vecchi su Cesare Musatti, Il pronipote di Giulio Cesare, Mondadori, 1979, pp. 264 in KBD-Periodici: Belfagor 1980 - maggio - 31 - numero 3

Brano: [...]co, nel presente. In questo, Fachinelli sembra puntare verso approdi simili a quelli di Ernst Bloch, almeno per certi
livelli. Questi, infatti, proprio cogliendo la sfasatura tra tempi storici non congruenti che esistono nello stesso presente cronologico ed elaborando il concetto di Ungleichzeitigkeit (= non contemporaneità), giunge a prospettare « un multiversum temporale, un tempo a piú dimensioni compresenti, un intersecarsi di piani diversi del tempo, un contrappunto di squilibri temporali fra diversi popoli, classi e individui che pur vivono nel medesimo tempo cronologico » (cfr. R. Bodei, Filosofia, in La cultura del '900, Milano, Gulliver, 1979; cfr. anche, e soprattutto, R. Bodei, Multiversum. Tempo e storia in Ernst Bloch, Napoli, Bibliopolis, 1979). Da notare poi che allo stesso Bloch la nozione di noncontemporaneità (centrale nel suo lavoro) permette di elaborare un'analisi del nazismo (tra l'altro, Bloch non è neppure citato in R. De Felice, Le interpretazioni del fascismo, Bari 1971) molto piú profonda e originale che non i vari sociologi o marxisti ortodossi, e molto vicina a quella di Fachinelli. Anzi, ci sembra, le ipotesi di Fachinelli confermano piú a fondo quelle di Bloch, e, spiegano, insieme, il tempo e i modi del manifestarsi del nazifascismo, e, in particolare, perché il fascismo come il nazismo — detto « giacobinismo del mito » da Bloch — riuscirono a « utilizzare i ceti ungleichzeitig » (R. Bodei, Multiversum, p. 35), cioè i ceti contadini e piccoloborghesi.
Il contributo di Bloch, su questo punto, ci sembra prezioso, e utile a portare avanti il discorso a cui con cautela accenna Fachinelli: costruire intorno all'elaborazione temporale (o cronotipia) una nuova organizzazione del sapere, puntando cosí — anche per l'essere questa « una prospettiva di lavoro su piú piani » (p. 154) — a una riformulazione e unificazione dei vari saperi parziali esistenti (p. 155) sull'agire dell'uomo.
FEDERICO LA SALA
CESARE MUSATTI, Il pronipote di Giulio Cesare, Milano, Mondadori, 1979, pp. 264.
La vera età dell'oro, per un uomo, comincia a ottant'anni: è uno scienziato famoso che lo afferma, Cesare Musatti, l'iniziatore della psicoanalisi in Italia, nel suo nuovo libro Il pronipote di Giulio Cesare (Milano, Mondadori, 1979). Chi ha compiuto ottant'anni, osserva Musatti nella prefazione, gode di una libertà tutta particolare, per esempio se compie un reato non può essere portato in prigione ma solo costretto agli arresti domiciliari, ed ecco quindi che, finalmente, l'autore può concedersi di commetterne uno assai grave: scrivere per il proprio piacere, e pubblicare per il nostro, una raccolta di ventisei divertissements che non rischiano piú di compromettere la sua immagine pubblica di studioso e docente universi[...]

[...]eraria per esplorare ancora una volta con animo instancabilmente curioso, entusiasta, una umanità varia e imprevedibile nella quale l'autore riconosce anche se stesso identificandosi via via coi diversi personaggi. >J per bocca di uno di essi che dichiara: « A me piace la gente, le persone. Una diversa dall'altra, no? Non ce ne sono due uguali, caspita. E ognuna è un mondo. Un'anima, cio' ».
La prefazione illustra in modo esauriente il progetto del libro: l'autobiografia innanzitutto, che è insieme autobiografia d'idee, taccuino di esperienze umane certa
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mente accumulate in anni di colloqui con i propri pazienti ma scaturite anche dagli incontri con conoscenti, con colleghi, con personaggi della cultura, con uomini « della strada ». Musatti li guarda e si guarda con l'occhio esperto dello scienziato e del critico, smonta quel complicato congegno che è la psiche umana, ne depone i « pezzi » sulla pagina, ricostruisce « tipologie » nelle quali, senza scampo, tutti siamo portati a riconoscerci. Musatti lo sa e come un padre saggio che conosce assai bene i propri « figli », racconta del presuntuoso che vanta nobili natali, dell'accademico che ha fondato tutta la propria ricerca sopra un'unica idea sfruttando solo quella, dell'aspirante psicologo, della femminista aggressiva, della 'moglie frustrata, del figlio inibito, del fratello geloso, dell'igienista convinto. Musatti sembra non prediligere i toni gravi e sovente si diverte a dileggiare i propri interlocutori, anche quando conversa con se stesso; l'autoanalisi, comunque, si spinge ben oltre i confini dell'autoironia e, nel nome di quell'amore per la chiarezza e per la sincerità che segna di sé tutto il libro, l'autore procede fino all'emersione dei sentimenti piú profondi, anche di quelli che non è facile riconoscere: l'odio inconscio per il proprio padre, per esempio, che si manifesta nell'accanimento furibondo e quasi omicida con cui si impegna per vincerlo nel gioco degli scacchi.
L'analisi coinvolge anche l'opera stessa: « Sono, le mie, pagine di un laico che si rifiuta di credere »; l'autore, infatti, si rivela programmaticamente dubbioso e non esita a mettere continuamente in discussio[...]

[...]ioco degli scacchi.
L'analisi coinvolge anche l'opera stessa: « Sono, le mie, pagine di un laico che si rifiuta di credere »; l'autore, infatti, si rivela programmaticamente dubbioso e non esita a mettere continuamente in discussione ogni cosa a partire proprio dalla psicoanalisi. Vittima designata di questa pratica è Freud dal quale Musatti prende ufficialmente le distanze invertendo le parti: l'allievo ha fatto sdraiare il maestro sul lettino del suo studio, l'esito della seduta è una emancipazione definitiva, un congedo. Il dubbio, ed è ciò che all'autore sta particolarmente a cuore, si presta come efficace garanzia contro gli agguati del dogmatismo perché consente di formulare riserve, di dissacrare idoli, di minare mitologie, di smascherare luoghi comuni promuovendo il libero esercizio delle facoltà critiche. In una prospettiva di questo genere si giustifica anche lo schema dialogico di cui l'autore si serve quasi costantemente, derivato, secondo quanto si afferma nella prefazione, non dal modello platonico ma dal Freud del Problema dell'analisi da parte dei non medici anche se, forse, non è completamente lecito escludere che questa scelta sia stata almeno in parte determinata dalla solida matrice culturale classica del letteratissimo Musatti. In ogni caso è questo lo « schema ideale per sviluppare un pensiero che è dialogico e dialettico ».
Si procede fra conversazioni brevi e incisive con interlocutori diversi per estrazione sociale, per cultura, per esperienza linguistica. Non importa nemmeno che l'interlocutore sia sempre realisticamente plausibile e può accadere di vedersi trasformare sotto gli occhi il dialogo in intervista impossibile o in autointervista. Il ruolo dei parlanti, infatti, è in alcuni casi ostentatamente mobile, le parti intercambiabili, come se l'autore si sostituisse continuamente al [...]

[...]rlanti, infatti, è in alcuni casi ostentatamente mobile, le parti intercambiabili, come se l'autore si sostituisse continuamente al proprio personaggio per rientrare in sé un momento dopo, domandando, rispondendosi, obiettando. A tutti i parlanti, sia quando si configurano come alterità dialoganti sia quando funzionano precisamente come veri e propri « personaggi », è affidato il compito di sostenere la conversazione, sollecitando gli interventi dell'interlocutore, poi contrastandoli via via, poi offrendo l'occasione per un'ulteriore considerazione. Si procede, quindi, contrapponendo antitesi a tesi.
Di fronte a ogni conclusione Musatti si pone con spirito critico: l'umorismo, l'ironia, il gusto del paradosso intervengono per rimettere tutto in discussione; del resto l'assenza di dubbi, secondo l'autore, non è un dato umano, se mai divino, tanto che proprio di qui nascono i problemi fra gli uomini e la divinità: « Mica può essere timido, pavido, incerto il Padre Eterno! Ma è proprio questo, vedi, che lo rende tanto
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incomprensibile per gli uomini ». Spesso la particolare predilezione dell'autore per i toni pungenti offre ai dialoghi efficaci soluzioni di fronte alle quali si rimane divertiti
e sconcertati, a volte elegantemente beffati; certamente l'età dell'autore, secondo quanto egli stesso afferma, lo consente, ma soprattutto lo consente la sua credibilità di scienziato e di scrittore.
Questi dialoghi, ben lungi dal sottrarre dignità alla sua figura « pubblica », la arricchiscono di una nuova, anche se non completamente sconosciuta, veste letteraria. Alcuni fra questi scritti già si conoscevano; su queste stesse pagine, tempo addietro, Musatti faceva esplicito riferimento alla genesi del dialogo con Freud, « composto qualche tempo fa per ischerzo », ma la nuova edizione consente di cogliere appieno il progetto unico al quale tutti rispondono: l'indagine critica sulla realtà umana attraverso l'uso dello strumento psicoanalitico che offre, affidato alle mani di questo scrittore, effettive garanzie di veridicità, di competenza metodologica (è Musatti ad affermare, stizzendosi non del tutto a torto, che « qualsiasi primovenuto oggi si proclama psicoanalista, o può dirsi socialista. E in tal modo è possibile attribuire a socialisti
e psicoanalisti ogni genere di sciocchezze »).
L'altro fondamentale strumento è naturalmente quello linguistico di cui l'autore si serve con estrema scioltezza, rivelando un indubbio gusto per la parola culta e per un discorso letterario quasi prezioso che si giova anche, a riprova della sua raffinatezza, dell'apporto di espressioni popolari e dialettali; le cadenze venete, inoltre, costituiscono un goldoniano sottofondo musicale a tutto il libro. Questo linguaggio, pur rimanendo sostanzialmente fedele a se stesso, non esita ad accogliere parole provenienti da ambiti lessicali eterogenei per essere in grado di piegarsi con disinvoltura alle esigenze della terminologia scientifica, del parlato, dei parlanti, per penetrare le innumerevoli sfaccettature di cui si compone il grande prisma che è ogni essere umano, per adeguarsi alla varietà delle situazioni, per essere rappresentativo di una realtà che variamente si configura. Il risultato, tuttavia, non è qùello di un discorso stilisticamente frammentario: i toni fondamentali, l'umorismo, l'ironia, lo schema formale, dialogico
e dialettico, il linguaggio, comunque elegante e costantemente misurato, riconducono il libro a una sostanziale unità.
L'esito complessivo è quello di un testo dotto ma anche urticante e comico. Non è difficile leggere queste ventisei composizioni come le diverse scene di un'unica commedia di cui Musatti è il mattatore che può tutto, anche risolvere in risa[...]

[...]ità.
L'esito complessivo è quello di un testo dotto ma anche urticante e comico. Non è difficile leggere queste ventisei composizioni come le diverse scene di un'unica commedia di cui Musatti è il mattatore che può tutto, anche risolvere in risata una situazione difficile, anche trasformare in aneddoto pungente l'illustrazione di un caso clinico grave, anche divulgare in modo accattivante un'esperienza di vita e di studio piuttosto complessa. « Del resto », sono parole di un pronipote di Giulio Cesare e di Freud, « certi atteggiamenti, anche se comici, possono raggiungere il loro scopo ». E in un libro come questo è difficile che certe affermazioni sfuggano per caso.
MARIA LUISA VECCHI
PATRICK BOYDE, Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. CALENDA, Napoli, Liguori, 1979, pp. 431.
Che dall'originale Dante's Style in his Lyric Poetry si sia trascorsi nell'edizione italiana (che esce a otto anni di distanza da quella di Cambridge) al piú accattivante — ed attuale — Retorica e stile è, forse, segno del malvezzo tutto nostran[...]

[...]re il loro scopo ». E in un libro come questo è difficile che certe affermazioni sfuggano per caso.
MARIA LUISA VECCHI
PATRICK BOYDE, Retorica e stile nella lirica di Dante, a cura di C. CALENDA, Napoli, Liguori, 1979, pp. 431.
Che dall'originale Dante's Style in his Lyric Poetry si sia trascorsi nell'edizione italiana (che esce a otto anni di distanza da quella di Cambridge) al piú accattivante — ed attuale — Retorica e stile è, forse, segno del malvezzo tutto nostrano di rincorrere, almeno terminologicamente, mode letterarie e non.


Grazie ad un complesso algoritmo ideato in anni di riflessione epistemologica, scientifica e tecnica, dal termine Del, nel sottoinsieme prescelto del corpus autorizzato è possible visualizzare il seguente gramma di relazioni strutturali (ma in ciroscrivibili corpora storicamente determinati: non ce ne voglia l'autore dell'edizione critica del CLG di Saussure se azzardiamo per lo strumento un orizzonte ad uso semantico verso uno storicismo μετ´ἐπιστήμης...). I termini sono ordinati secondo somma della distanza con il termine prescelto e secondo peculiarità del termine, diagnosticando una basilare mappa delle associazioni di idee (associazione di ciò che l'algoritmo isola come segmenti - fissi se frequenti - di sintagmi stimabili come nomi) di una data cultura (in questa sede intesa riduttivamente come corpus di testi storicamente determinabili); nei prossimi mesi saranno sviluppati strumenti di comparazione booleana di insiemi di corpora circoscrivibili; applicazioni sul complessivo linguaggio storico naturale saranno altresì possibili.
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